Il medico impari a non «scomunicare»

Book Cover: Il medico impari a non «scomunicare»
Parte di Rapporto professionista-malato series:

Sandro Spinsanti

IL MEDICO IMPARI A NON «SCOMUNICARE»

in Tempo medico

anno XXXIII, n. 337, 23 gennaio 1991, pp. 12-13

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Sandro Spinsanti, un fondatore della bioetica in Italia,

delinea il nodo teorico che sta alla base del rapporto medico-paziente:

l’obbligo da parte del medico di entrare in empatia col suo malato

di Sandro Bajini

La bioetica è giovane ma ha già nella società un suo ruolo preciso. Ma facoltà di medicina dell’Università di Firenze è stato istituito quest’anno il primo corso di perfezionamento in bioetica. Lo dirige il professor Sandro Spinsanti, che di questa disciplina è in Italia uno dei maestri riconosciuti. Laureato in psicologia, teologo con licenza e dottorato conseguiti alla Pontificia Università Lateranense, professore di bioetica all’Università di Firenze, direttore del Dipartimento di scienze umane dell’ospedale Fatebenefratelli di Roma, il professor Spinsanti rappresenta attraverso la bioetica quel ponte fra scienza e umanesimo che in medicina, in contrasto con l’estrema tecnicizzazione di questa, appare sempre più necessario.

«La bioetica — dice il professor Spinsanti — nasce per necessità dalla storia recente della medicina, che vede il profondo mutamento di tre elementi: la medicina come sapere e assistenza; i medici come operatori della salute; i malati come fruitori dell’intervento medico. C’è in atto una trasformazione culturale che ha fatto e fa cambiare profondamente il rapporto medico-paziente».

Il rapporto medico-paziente è l’araba fenice della medicina di oggi: tutti ne parlano e tutti sanno che si è modificato; ma come sia cambiato nessuno lo sa con l’esattezza che è delle idee chiare e distinte. E infatti l’analisi di questa complessa realtà non può essere fatta seriamente senza strumenti filosofici, e appunto bioetici.

La fiducia non è una cambiale in bianco

Il rapporto si regge su due principi: il principio di beneficità («e non di beneficenza, come pure è stato chiamato, che sa troppo di dame di San Vincenzo», precisa Spinsanti) e il principio di autonomia. La beneficità è quella del medico, che mette il suo sapere e il suo potere curativo al servizio del paziente. L’autonomia è quella del paziente, che ha il diritto di non accettare tutto ciò che gli viene proposto in sede diagnostica e terapeutica. Dall’armonizzarsi di questi due principi nasce il corretto rapporto, che oggi appare tuttavia in grave squilibrio.

Il professor Spinsanti ne chiarisce le ragioni: «C’è una parte della società, che parla a nome dei pazienti, la quale spinge all’estremo il principio di autonomia (che in America all’inizio del secolo è stato definito come ”il diritto di essere lasciato solo”); e c’è una parte dei medici che mette in opera il principio di beneficità secondo un criterio paternalistico o autoritario, non più adeguato alla società attuale».

«Il malessere è grande — continua Spinsanti — e il rapporto deve cambiare. Ma ci sono pericoli: si rischia di buttare l’acqua sporca assieme al bambino. Nel vecchio rapporto qualcosa di buono c’era e superare il paternalismo non significa rinunciare al tramite della fiducia. Solo che questa fiducia non può più essere una carta firmata in bianco».

Dalla parte opposta ci sono i cosiddetti «diritti del malato». «Che sono una cosa sacrosanta, ma che non possono configurarsi in termini puramente giuridici. Se il rapporto è fatto di articoli di legge, viene meno la fiducia, che non è un oscuro concetto dietro al quale il medico si nasconde né un sentimento di rinuncia o di dimissioni di cui è vittima il paziente, ma qualcosa di reale, di positivo e di imprescindibile».

Oggi invece si assiste alla riduzione della funzione medica a mero incarico professionale; ma il rapporto che un cittadino instaura col medico «non può essere paragonato a quello che egli ha col capomastro che gli costruisce la casa. Si può effettuare un trattamento terapeutico per contratto? E il contratto deve stabilire tempi e modi e data di consegna?». Il professor Spinsanti cita un progetto di legge presentato dal gruppo Verdi Arcobaleno alla Regione Lazio lo scorso maggio. Esso prevede l’obbligo per i medici ospedalieri di redigere la cartella clinica in un particolare modo, con la segnalazione di tutti i rischi che il malato corre; il malato a sua volta ha il diritto di avere un suo medico personale che assiste e controlla gli interventi chirurgici, con possibilità di denuncia, in caso di inadempienza, non solo da parte del paziente ma anche di enti e associazioni, così come accade nelle proposte di legge sulla violenza carnale.

«Questo garantismo — continua Spinsanti — non garantisce assolutamente nulla in senso etico, ma è significativo del disagio attuale. È noto quanto sia elevato negli Stati Uniti il rischio che un medico sia denunciato dai suoi pazienti. Noi non siamo ancora a questo punto e tuttavia... Temo, e lo dico per paradosso, che a somiglianza di quanto accade nei film polizieschi americani, un giorno un malato possa dire al medico che sta per raccogliere l’anamnesi: ”non parlo senza il mio avvocato”. Sono convintissimo che i medici possano, come chiunque, commettere abusi ma bisogna aspettare che li commettano e applicare nei loro confronti gli articoli del codice penale. Come preventivo, la legge è uno strumento grossolano e del tutto sprovvisto di valenze etiche. E tuttavia la risposta non può essere: "siamo nelle vostre mani, fate quello che volete”».

Oggi le possibilità di intervento della medicina sono in determinati casi di tale portata che rendono equivoco il concetto di beneficità e costringono i medici stessi a chiedere la collaborazione dei pazienti. «I medici — dice Spinsanti — hanno sempre operato per il bene del malato; il loro paternalismo e il loro autoritarismo nascevano anche dalla convinzione che non ci fossero dubbi su quale fosse il bene del malato, e pertanto era giustificato il lasciare loro carta bianca. Oggi sappiamo che oggettivamente non è più sempre così e che in molti casi non si può stabilire a priori ciò che è veramente utile al malato; è dunque necessario che il malato debba essere chiamato a decidere».

Naturalmente non si parla qui dei casi comuni, delle malattie infettive e degli attacchi di appendicite, in cui il principio di beneficità è chiaro e non pone problemi di etica clinica. Questi si presentano invece nei casi gravi e particolari, in cui vi sono strategie terapeutiche da stabilire, quando si tratta per esempio di decidere un intervento chirurgico fortemente demolitivo o di abbreviare la vita per eliminare il dolore o di prolungarla a prezzo della sua qualità. «In questi casi, il paziente non può essere escluso, e questo non solo in nome dei diritti dell’individuo ma perché gli stessi medici non sono in grado di decidere ed è il paziente che deve in ultima analisi dire qual è il suo bene. Quando la medicina può fare poco, è chiaro che c’è unanimità di vedute; ma quando può fare molto, la scelta del paziente può essere opposta a quella che farebbe il medico».

Ecco dunque la necessità di un rapporto nuovo, che si configura nel dialogo, nell’ascolto. La medicina nuova è una medicina che sa ascoltare, che stabilisce col malato un rapporto dialettico. Questo vale soprattutto per le grandi decisioni ma (ahimè o per fortuna) una volta stabilito che la volontà del paziente è in certi casi imprescindibile essa diventa augurabile se non doverosa anche in tutti gli altri. Il dialogo, imposto per i grandi problemi, finisce per istituzionalizzarsi. E tuttavia le ragioni della sua necessità sono profondamente etiche e non possono essere imposte per legge. O sono

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un frutto culturale o rimangono sulla carta. Ma che cos’è il saper ascoltare? L’atteggiamento del professor Spinsanti è quanto mai problematico. In lui l’elemento religioso, lo si capisce dopo pochi minuti di colloquio, non va mai a detrimento della razionalità e delle tolleranza. «Il medico — dice — può ascoltare, come tutti noi, in diversi modi. Può innanzitutto fingere di ascoltare. È un rischio inevitabile. Il caso più banale è l’ascoltare per pura cortesia. Il non ascolto del medico educato è soltanto l’alternativa ipocrita del non ascolto dichiarato, che se non altro si denuncia subito per quello che è. Ma c’è un secondo modo, molto più sottile, di ascoltare senza ascoltare ed è quello di fingere di accondiscendere a una domanda di aiuto per evitare di affrontare la realtà che sta dietro a tale domanda, che è quella vera per il malato e quella più imbarazzante per il medico. Che cosa fa il medico in questo caso? Usa la propria competenza per tenere a distanza ciò che è veramente importante e troppo coinvolgente».

È quanto succederebbe a molti medici, vien fatto di pensare, se l’ascolto fosse reso obbligatorio per legge. Ma c’è un terzo modo di evitare un impegno vero ed è il «limitarsi ad adeguare ai propri schemi di conoscenza ciò che il malato riferisce. Ascoltare in questo caso significa soltanto riferirsi mentalmente a una teoria e modellare il caso su di essa, escludendo come non significativo tutto ciò che è in eccedenza. La teoria, sotto forma di protocolli clinici, accontenta il medico, che viene così sollevato dal compito, spesso insopportabile, di colmare la propria ignoranza ascoltando l’altro nella sua concretezza e unicità personale».

Il guaio maggiore è che questi modelli possono riguardare anche la psicoterapia, quindi anche quei medici che credono di andare incontro alle esigenze psicologiche del malato. Invece «la guarigione totale in cui consiste l’autorealizzazione della persona attraverso i percorsi tortuosi della malattia e della salute richiede che si ascolti non soltanto quello che preme per essere ascoltato (spesso i sintomi sono un paravento per occultare la vera causa del malessere) ma anche e soprattutto quello che è stato "scomunicato”, cioè sottratto alla comunicazione».

Un compito improbo? «Certo, e soprattutto non imponibile, e nemmeno attendibile come risultato programmato della volontà e delle metodiche di educazione. L’ascolto è qualcosa che succede, quando la cultura bioetica del medico crea le condizioni perché succeda. Ma in sé, l’ascolto ha piuttosto legami con lo stupore, dal quale ha origine secondo Platone l’attività filosofica, che non con la filantropia tradizionale o la benevola compiacenza. E l’ascolto è benefico anche per chi ascolta, non soltanto per chi è ascoltato. Ascoltando l’altro, il medico si apre alla propria realtà umana in pienezza, compresa la sua inevitabile parte di ombra». Il messaggio bioetico dell’ascolto, in apparenza tanto arduo, è più «ascoltato» che non si pensi. È significativo che il recente convegno dei medici di base, che si è tenuto a Firenze, avesse per titolo: «In una medicina del silenzio, un medico generale che ascolta».

Via dagli ospedali in bancarotta?

Ma si può ascoltare anche in una dimensione sociale. Spinsanti ricorda un’inchiesta effettuata a Roma su un numero elevato di soggetti, ai quali fu chiesto dove avrebbero preferito terminare la loro esistenza. Il 75 per cento rispose: nel mio letto. Ebbene, la realtà statistica attuale dice che solo il 20 per cento dei cittadini muore a casa propria. «Ecco un caso evidente — commenta il professore — di contrasto fra il desiderio della persona e la realtà della medicina. Fra l’altro in questo caso il desiderio soggettivo è anche economicamente utile alla società. E un altro caso di attentato al benessere è quello denunciato lo scorso anno dall’arcivescovo di Milano, il cardinale Martini: nella capitale lombarda ci sono centomila anziani del tutto autosufficienti e che tuttavia non possono vivere nelle loro case e sono costretti a soggiornare, con costi fra l’altro astronomici, nelle istituzioni geriatriche».

Il capitolo delle cure domiciliari è spinosissimo ma coinvolge anch’esso il rapporto medico-paziente e non è circoscrivibile al puro ambito tecnico-assistenziale. Ricorda il professor Spinsanti: «Un’antropologa americana ha studiato il comportamento dei medici che effettuavano cure a domicilio e ha constatato come il loro comportamento fosse radicalmente diverso da quello che essi tenevano all’ospedale. Tutti del resto sappiamo dei rituali che accadono in una famiglia quando entra il medico e quanto sia diverso il suo modo di visitare l’infermo a casa propria o in corsia».

Bisognerà comunque ritornare alle cure domiciliari, dal momento che gli ospedali sono in bancarotta. Ma se vi si torna, come si comporterà il medico? Non è sufficiente una rivisitazione della deontologia ed è assurdo stabilire un controllo poliziesco; non può prevalere né l’atteggiamento di quei pazienti che pensano che il medico sia paragonabile all’idraulico che viene a riparare lo scaldabagno, né l’atteggiamento dei medici che pensano che un malato sia paragonabile a uno scaldabagno. Che fare? Già la domanda, se viene rivolta alla bioetica, è per Spinsanti metodologicamente sbagliata,perché «l’etica è una disciplina filosofica, non ha pretese messianiche, non prescrive norme di comportamento, non pretende di formulare un altro giuramento di Ippocrate, ma intende soltanto stimolare il pensiero sopra la medicina e il modo di esercitarla».

Soprattutto la bioetica non è quella suggerita da una storiella che viene attribuita a Ivan Illich, e che Spinsanti riferisce: Gli uomini costruiscono un razzo interplanetario perfettamente programmato e automatizzato. Questo razzo, che non ha bisogno di alcun intervento umano, è la medicina. Nell’abitacolo, tuttavia, ci sono anche un uomo e un cane. L’uomo ha soltanto il compito di osservare. E se per caso gli viene la tentazione di toccare un bottone, il cane lo morde. Questo cane è la bioetica.

«La storiella è divertente ma questa funzione di cane da guardia che deve permettere soltanto di garantire alla medicina il suo predeterminato destino non è quella che io attribuisco alla bioetica. La medicina non può essere disumanizzata e la bioetica non è un cane velleitario e frustrato che abbaia ma poi le cose vanno avanti per conto loro. E già stanno provvedendo a cambiare le cose i medici stessi, che cominciano a capire che il loro mestiere deve essere reinventato all’insegna della creatività. I medici sono a disagio perché non sono stati preparati a questo: dalle università, come è noto, non esce un prodotto finito ma un semilavorato. Ma essi non demordono, si muovono alla ricerca di un nuovo umanesimo e si mettono insieme per far fronte ai nuovi impegni. Essi non hanno bisogno della bioetica come istanza moralizzatrice; a essa possono rivolgersi per aumentare il proprio bagaglio culturale, poiché è più agevole essere aiutati che fare da soli. Il problema è: creare le condizioni per apprendere. Per questo, e solo per questo, sono felice che si sia aperto a Firenze il corso di formazione in bioetica.

La Regione Toscana merita un ringraziamento per la sensibilità dimostrata ma sono i medici che alla bioetica oggi fanno riferimento in numero sempre maggiore. Dopo quello dei medici di base, voglio fare un altro esempio. Si è tenuto a Montecatini, dal gennaio al maggio dell’anno scorso, un corso di bioetica per il personale del servizio sanitario nazionale, che è stato frequentatissimo. Due medici che vi avevano partecipato hanno organizzato all’ospedale di Careggi una serata dedicata alla bioetica e ben 250 sanitari vi hanno partecipato, rimanendo ad ascoltare e a farsi ascoltare dalle sei del pomeriggio fino alle dieci della sera, con un entusiasmo che mi ha commosso, Questa è la bioetica che mi piace, quella che sensibilizza e forma la gente, che non obbliga nessuno e che non si sente programmata da un demiurgo».

Tacere o parlare?

Il problema della verità nel rapporto fra medico e paziente assume aspetti drammatici quando si tratta di una malattia a prognosi infausta. Parlare o tacere? «Nessuno, neppure chi parla nella Chiesa e in nome della Chiesa — risponde il professor Spinsanti — può pretendere di avere una ricetta per sciogliere il nodo di conflitti di coscienza che si stringe attorno al letto del malato».

Dopo questa premessa, il professor Spinsanti ribadisce i concetti che ha espresso nel suo libro L’alleanza terapeutica (Città Nuova Editrice, 1988). Dice: «Due sono le posizioni fondamentali: quella che ritiene che comunicare diagnosi e prognosi al malato sia una inutile crudeltà, e quella che propende per un rapporto improntato alla franchezza e alla trasparenza.

Cerchiamo di capire le ragioni dell’una e dell’altra posizione. Chi propende per la reticenza o per la menzogna sostiene che non sempre la diagnosi è esatta, e ancora meno la prognosi, e che dire la verità costituisce una mutile crudeltà. La comunicazione può demoralizzare il malato e precipitarlo nella depressione, che può arrivare fino al suicidio. Questo atteggiamento segue la tendenza generale della nostra società a nascondere la morte. L’umanesimo” del nostro tempo ritiene che guardare in faccia la propria morte sia un peso insostenibile per l’uomo di oggi, proteggere perciò il morente da ogni avvisaglia della propria fine è considerato un gesto filantropico, quando non di carità fraterna».

Spinsanti non è d’accordo con questa tendenza e ricorda che anche il tacere ha i suoi inconvenienti: «instaura un clima di ipocrisia, con esiti dolorosi tanto per il paziente quanto per i suoi familiari. Colui che deve affrontare la fase terminale della propria vita e ha il presentimento della morte si sente abbandonato proprio nel momento più difficile della propria esistenza».

Un altro ordine di considerazioni è quello propriamente etico. Il diritto alla verità viene rivendicato come un diritto fondamentale della persona. «Sottraendo la verità al malato grave, gli si impedisce di vivere l’ultima fase della propria vita da protagonista, — dice Spinsanti — E questo vale sia ai fini di un bilancio della propria vita, che è dovere esistenziale di chiunque, sia ai fini di decisioni pratiche a carattere legale e finanziario».

Il professor Spinsanti preferisce la linea di condotta che privilegia la trasparenza. In questa direzione si muove anche la deontologia, che impone (codice del 1978) l’obbligo di comunicare la prognosi almeno ai familiari e in ogni caso il rispetto della volontà del paziente. «E tuttavia l’esigenza etica della franchezza non va intesa come un assoluto. Il medico deve modulare il suo intervento, poiché non tutti i casi sono uguali».

Bisogna poi tener conto che la volontà del malato può cambiare e in ogni caso è una realtà insidiosa. «È difficile individuare quel che il paziente vuol sapere veramente».

E allora, che fare? È come al solito una questione di sensibilità personale e di desiderio «effettivo» di essere accanto al paziente per aiutarlo davvero. Il professor Spinsanti cita un documento dell’Episcopato tedesco (Morte degna dell’uomo e morte cristiana, 1978): «Ciò che è decisivo non è solo l’esattezza di ciò che si dice ma la solidarietà nella situazione difficile». «Aderisco profondamente — conclude il professor Spinsanti — a questo orientamento».