- Interessi plurali, interessi in conflitto nella pratica clinica
- Conflitto di interessi
- L'alleanza terapeutica
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- Curare e prendersi cura
- Il medico e il paziente, una relazione complessa
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- La gestione dei conflitti in ambito sanitario
- Ripensare la cura nel contesto di una società conflittuale
- La necessità di porre limiti alla medicina
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- L'accanimento diagnostico e terapeutico
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- Antropologia medica
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- L'approccio medico della sessualità
- La sessualità giovanile al tempo dell'aids
- Per un rinnovamento dell'etica cristiana della malattia
- Come ti senti?
- La forza di vivere
L'EDUCAZIONE COME TERAPIA
a cura di Sandro Spinsanti
Esseditrice, Roma 2001
pp. 15-22
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INTRODUZIONE
CURARE, PRENDERSI CURA, EDUCARE
I pazienti vanno dal medico per essere guariti, non per essere educati. Ogni programma di educazione terapeutica rivolto al paziente deve tener conto di questa fondamentale asimmetria di attese, dalla quale possono scaturire dolorosi malintesi. Eppure niente è più tradizionale in medicina dell’intento educativo, parallelo a quello terapeutico. Ne possiamo rintracciare le radici nella stessa medicina greca, che contiene in sé il codice genetico di tutta la medicina occidentale. È vero che Platone ne La Repubblica non risparmia frecciate ironiche contro la medicina che insegna ai pazienti a “prolungare la loro morte”. Propone come esemplare il comportamento degli artigiani, che conoscono solo la medicina curativa, non quella che permetterebbe loro di prolungare la vita nello stato di patologia cronica:
Un falegname, quando si ammala, chiede al medico di dargli una pozione che gli permetta di vomitare o di evacuare la malattia, oppure lo prega di guarirlo cauterizzando o incidendo. Se però gli viene prescritta una lunga cura, se deve avvolgersi il capo con berretti di lana o cose del genere, dice subito che non ha tempo di essere malato, e vivere ascoltando la sua malattia e trascurando il lavoro che lo attende non gli serve nemmeno. Poi egli congeda un medico simile,
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ritorna al regime consueto, recupera la salute e vive del suo mestiere; se invece non sarà abbastanza forte per sopravvivere, si libererà dai suoi malanni con la morte (La Repubblica, III, XV ).
La medicina applicata alla cura delle malattie che non guariscono è per Platone una deviazione dall’arte medica originale: «Asclepio aveva celato questo aspetto della medicina non per ignoranza o per inesperienza, ma perché sapeva che in uno Stato con buone leggi ogni cittadino ha il suo compito e deve eseguirlo, e non ha tempo di passare la vita a farsi curare le sue malattie» (ibid.). Dietro la posizione di apparente predilezione per una selezione naturale di tipo darwiniano, possiamo leggere un alto apprezzamento per la natura (physis) e la sua saggezza, congiuntamente a una messa in guardia rispetto alla deformazione antropologica e allo squilibrio sociale che si creano quando la salute da mezzo diventa fine.
Malgrado le riserve formulate da Platone, la medicina antica ha sviluppato un carattere profondamente pedagogico. Lo documentano i testi dietetici e igienici che compaiono fin dagli esordi del pensiero medico e che sono parte cospicua del Corpus hippocraticum. Il motivo va rintracciato nella teorizzazione antropologica che ipotizzava uno stato “neutro”, intermedio tra la salute e la malattia. Coloro che, né sani né malati, si trovano in questo stato intermedio, sono anche essi soggetti alle cure mediche, almeno sotto l’aspetto della diaita (la dietetica greca regolamentava sei ambiti: aria e luce, mangiare e bere, movimento e riposo, sonno e veglia secrezioni e affetti: cfr. Engelhardt, 1996).
Secoli più tardi, all’alba delle trasformazioni culturali che condurranno alla medicina dei nostri giorni, Jules Romains nella commedia Il dott. Knock o il trionfo della medicina mette in bocca al protagonista una dura requisitoria contro la “neutralità”. Perché si possa celebrare “il trionfo della medicina” ― sostiene il dott. Knock, partigiano della teoria che “ogni sano è un malato che si ignora” ― è necessario condurre la popolazione ignara all’“esistenza medica”. Al medico suo predecessore nella condotta rurale spiega la propria strategia di “promozione della salute”:
Voi mi date un cantone popolalo da qualche migliaio di individui neutri, indeterminati. Il mio ruolo è quello di determinarli, di condurli all’esistenza medica. Io li metto a letto e guardo ciò che ne
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potrà venir fuori: un tubercolotico, un neuropatico, un arteriosclerotico, ciò che si vorrà, ma qualcuno, buon Dio!, qualcuno! Niente mi irrita come quell’essere né carne né pesce che voi chiamale essere sano (Romains, 1923).
È sempre più difficile allontanare il sospetto che dietro i programmi di educazione alla salute, come quelli che nell’immaginario paese di St. Maurice lanciai con la collaborazione del maestro, l’intraprendente dott. Knock, ci sia un’abile strategia di “medicalizzazione” della vita. Per quanto l’educazione si presenti come altruisticamente orientata “al bene del paziente”, si sviluppa sotto il segno del potere medico: un potere nei confronti del quale ai nostri giorni sta crescendo la diffidenza.
Poche sono le esperienze storiche di educazione alla salute nate con un esplicito intento di costituire un contropotere medico. Tra di esse andrebbe almeno segnalato il movimento americano noto come “Popular Health Movement”, sviluppatosi negli anni ’30 e ’40 del XIX secolo, in vivace contrasto con la medicina accademica. Il movimento non era che il fronte medico di un’agitazione sociale più vasta, fomentata dai movimenti operaio e femminista. L’attacco all’élite medica era accompagnato da una vigorosa affermazione della tradizionale medicina del popolo. Every man is own doctor: era il motto di un’ala estremista del “Popular Health Movement”.
Per certe sue iniziative il movimento per la salute confluiva negli obiettivi del movimento femminista, come le “Ladies Physiological Societies”, che impartivano semplici istruzioni di anatomia e igiene personale, sotto la spinta a “riappropriarsi del corpo”. Il movimento non rivendicava una maggiore quantità di cure mediche, ma prospettava piuttosto una cura della salute di tipo radicalmente differente. Era una sfida alla medicina ufficiale, sia al modo in cui veniva praticata, sia alle basi concettuali del suo edificio (cfr. Kelt, 1968).
Per quanto intenda differenziarsi dall’approccio medico, anche questo modello di educazione alla salute ne conservava, tuttavia, un tratto caratteristico: l’atteggiamento paternalistico. Una asimmetria radicale nel rapporto tra educatore ed educando contraddistingue la letteratura fondata sull’igiene individuale diffusa nel XIX secolo. Sia la letteratura di matrice religiosa che quella laica sono espressioni di una borghesia che si prende cura del proletariato, con intenti di tutela.
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Si possono individuare due filoni sinergici: quello che parte dall’ordine sociale e religioso costituito per incitare a condurre una vita sana e moralmente integra e quello più sensibile ai movimenti tendenti al progresso sociale e politico (cfr. la voce “Educazione sanitaria” del Dizionario di storia della salute, 1996). L’impegno scientifico-sociale si tramuta con naturalezza in un impegno scientifico-pedagogico; l’educazione rimane tuttavia un’attività che scende dall’alto di un sapere specialistico e di un atteggiamento filantropico.
Il paternalismo che caratterizza l’educazione sanitaria è duro a morire. Tracce di esso sono rintracciabili anche in programmi educativi nati in contesti culturali del tutto diversi, come quelli lanciati nel nostro secolo dall'Organizzazione mondiale della sanità sotto lo slogan “salute per tutti” (Bernardi, 1998). La denuncia è formulata dallo stesso direttore generale dell’Oms, H. Malher, nell’introduzione con cui presenta il manuale Education for health, rivolto all’insegnamento della “Primary health care”: «Dobbiamo smettere di cercare di far entrare le comunità in sistemi e programmi che noi escogitiamo, senza una vera e profonda sensibilità per gli aspetti sociali dei programmi sanitari o perle restrizioni economiche ― per non parlare delle dissonanze culturali, che spesso provocano una reazione di rifiuto di tali programmi» (Education..., 1988, p. IX).
A quanto sembra, la preoccupazione educativa è oggi presente nel mondo sanitario in misura crescente. Questo almeno è il linguaggio dei numeri, se ci lasciamo guidare dalle voci bibliografiche riportate da Medline sotto “Patient education”: se dal 1983 al 1990 si registrano 6.632 pubblicazioni, il numero sale a 9.048 per gli anni 1991-1996. Ancora più convincente è la crescita se confrontiamo i numeri per anni: a fronte di 787 pubblicazioni nel 1983, se ne hanno 1312 per il 1997 e ben 1563 per il periodo gennaio-ottobre 1998. Ma la quantità non è sinonimo di qualità; e soprattutto è necessario verificare se l’educazione del paziente è concepita in modo compatibile con la cultura della modernità, che sta entrando anche in medicina.
Ci sono due trasformazioni che devono aver luogo se vogliamo che l’educazione alla salute abbia un reale impatto sui nostri contemporanei: le cure rivolte ai malati cronici da marginali devono diventare centrali in medicina e il rapporto di potere tra sanitari e malati deve modificarsi nel senso di un maggior empowerment dei secondi. La prima condizione
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richiede una ristrutturazione del rapporto reciproco che hanno in medicina il trattamento delle malattie acute e quello delle malattie croniche. La ricerca internazionale coordinata dallo Hastings Center su Gli scopi della medicina è esplicita nell'indicare, tra le nuove priorità, l’assistenza ai malati per i quali non è prevista la guarigione:
Nelle società sempre più vecchie del nostro tempo, dove le malattie croniche sono la causa più comune di dolore, di sofferenza e di morte ― dove, in altre parole, le infermità sono destinate a continuare indipendentemente da quello che fanno i medici ― l’assistenza alla persona, il prendersi cura di lei, diventa ancora più importante, riacquistando un primato dopo un’epoca in cui è sempre apparsa una seconda scelta. Nei casi di infermità cronica i pazienti devono essere aiutati a dare un senso personale alla propria condizione, ad affrontarla e a conviverci, magari in permanenza. A sessant'anni per lo più hanno una malattia cronica, e a ottanta ne hanno tre o più. Dopo gli ottanta almeno nella metà dei casi hanno bisogno di un aiuto significativo per far fronte alle comuni attività della vita quotidiana. Nei confronti dei malati cronici, che devono imparare ad adattarsi ad un sé nuovo e alterato, il lavoro del personale medico dovrà concentrarsi non già sulla terapia, ma sulla gestione della malattia ― dove per ‘‘gestione” si intende l’assistenza psicologica empatetica e continua a una persona che, in un modo o nell’altro, deve accettare la realtà della malattia e conviverci. Qualcuno ha osservato che la medicina a volle deve aiutare il malato cronico a forgiarsi di una nuova identità (Hastings Center, 1997, p.29).
Anche l’Oms sta puntando decisamente in questa direzione, come comprova il recente documento su Therapeutic patient education (1998). Rispondendo a una richiesta dell’ufficio regionale europeo dell’Oms formulata nel 1996 ― preparare un documento che indichi i contenuti di uno specifico programma educativo per sanitari nell’ambito della prevenzione delle malattie croniche e dell’educazione terapeutica dei pazienti ― un gruppo di studio ha proposto il curriculum necessario per far acquisire agli erogatori delle cure la competenza necessaria per aiutare i pazienti a gestire autonomamente le loio malattie croniche. Il principio ispiratore è quello di permettere ai discenti di diventare gradualmente gli architetti della propria educazione. Per sottolineare almeno uno dei numerosi spunti innovativi contenuti nel documento, riportiamo l’osservazione relativa agli infermieri: «La Regione europea
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dell'Oms ha almeno cinque milioni di infermieri, che costituiscono il più numeroso gruppo di sanitari. Il loro contributo effettivo e potenziale nella gestione delle malattie croniche è sottostimato e non utilizzato come sarebbe possibile» (Oms, Therapeutic..., 1998, p.).
Il secondo cambiamento riguarda il rapporto che si instaura tra i professionisti sanitari e coloro che ad essi fanno ricorso. Non si tratta di una realtà astorica, ma di una relazione che cambia nel tempo. Una documentazione convincente delle rapide trasformazioni in corso è fornita dal confronto tra due ricerche, condotte dal Censis, a distanza di un decennio, sui comportamenti e i valori dei pazienti italiani (Censis, 1989; Censis, 1998). Sul finire degli anni ottanta si poteva distinguere un duplice atteggiamento degli intervistati nei confronti della salute: nei confronti del nucleo “hard”, costituito dalla malattia grave e ad alto rischio di morte e di cronicità, permanevano gli atteggiamenti più tradizionali: il corpo inteso come “pezzi di ricambio”, l’apparato sanitario come struttura a cui affidarsi per la riparazione dell’organismo-macchina, la prevalenza del paradigma malattia/medicina/servizi sanitari. Al di fuori di questo ambito, la domanda di salute acquistava connotati più morbidi, con la richiesta di promozione del benessere psico-fisico, comportamenti di autotutela, di sfida e contrattazione con il medico, di combinazione autonoma dell’offerta, di sperimentazione di nuovi percorsi.
La rivisitazione della domanda di salute che è andata prendendo forma negli anni novanta ha evidenziato la crescita di atteggiamenti di non-compliance e sostanzialmente ambigui: i pazienti sono sempre più informati e tendono a negoziare spazi di autogestione per la propria salute (attraverso il self-care e la ridefinizione della terapia farmacologica); tuttavia in presenza di malattie gravi si affidano in modo pressoché completo alla capacità curativa e riabilitativa dei “tecnici”.
Di fronte al medico prevalgono atteggiamenti più pragmatici e disincantati, con un apprezzamento maggiore rivolto alla funzione riparativa. E istruttiva a questo proposito la tabella che riporta le opinioni degli intervistati sulle qualità che contraddistinguono un buon medico: mentre è molto apprezzata la capacità tecnico-professionale, quella pedagogica, che si esprime nella capacità di spiegare al paziente la sua malattia, è la meno richiesta:
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Tab. 1 Le qualità di un buon medico secondo le opinioni degli intervistati (*) (val.%)
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Capacità professionale/esperienza
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58,4 |
Capacità di rapporto umano con il paziente
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34,9 |
Disponibilità, reperibilità quando si ha bisogno di visite
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15,1 |
Curare la prevenzione, seguire il paziente anche dopo la cura
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14,7 |
Impegno nello studio, nell'aggiornamento
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11,4 |
Amore per la professione, non pensare solo al guadagno
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29,8 |
Capacità di spiegare esattamente al paziente la sua malattia
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12,9 |
(*) I totali sono diversi da 100 perché erano possibili più risposte.
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Fonte: indagine Censis, 1998
Le ambivalenze che si registrano nella popolazione rispetto alla figura del medico come educatore alla salute ci portano a concludere che la crescita culturale, quale condizione previa per un rapporto “adulto” con i professionisti sanitari e per una autogestione responsabile della propria salute, non è un fatto spontaneo. E necessaria a tal fine la messa in opera di politiche pubbliche specifiche.
L’ampio osservatorio offerto dalle medical humanities appare come il più adeguato a cogliere i cambiamenti che intervengono nell’organizzazione delle cure quando si decide di privilegiare “l’educazione come terapia”. Il tema del dossier è affrontato da diverse angolature. Anzitutto le strategie: l’educazione terapeutica del paziente è considerata secondo l’ottica delle agenzie che promuovono la sanità pubblica a livello internazionale (come l’Oms: Philippe Assai), nazionale (il Piano sanitario italiano 1998-2000, illustrato da Fortunato Marino e Augusto Moroni) e aziendale (Francesco Calamo Specchia).
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Una seconda sezione del dossier è dedicata al resoconto di esperienze educative realizzate con pazienti affetti da determinate patologie: diabetici (Aldo Maldonato), asmatici (Dagmar Rinnenburger), pazienti psichiatrici (Raffaele Iavazzo) e oncologici (Enrico Ghislandi). L’elenco delle situazioni patologiche che potrebbero beneficiare di un adeguato programma educativo è tutt’altro che completo. Il documento dell’Oms Therapeutic patient education, sopra ricordato, cita tra le altre malattie a lungo termine e condizioni patologiche: gli stomi (laringectomia, gastroenterostomia), le malattie del sangue (emofilia e talassemia), le malattie del sistema circolatorio (insufficienza cardiaca, ipertensione arteriosa, angina, ictus e malattie cerebrovascolari), le malattie del sistema digestivo (cirrosi, colite, ulcera gastroduodenale), le malattie del sistema muscolare, scheletrico e connettivo (artrite, amputazione di arti, osteoporosi, dolori cervicali e di schiena), le malattie del sistema nervoso (epilessia, sclerosi multipla, paraplegia e lesioni traumatiche cerebrali, Parkinson, cecità e sordità), le malattie renali (dialisi e insufficienza renale). Tuttavia le quattro situazioni patologiche qui considerate sono quelle nelle quali i pionieri dell’educazione terapeutica si sono avventurati e hanno accumulato esperienze degne di essere comunicate.
Infine terza sezione ― “La pedagogia in questione” ― vuol indurre una riflessione sullo stile pedagogico necessario in questo tipo particolare di educazione terapeutica, che richiede la rinuncia ai meccanismi di colpevolizzazione (Adriano Zamperini), l’orientamento all’autodeterminazione della persona (Elena Benaduce), il coinvolgimento personale dei sanitari in quanto educatori (Mario Ancona) e l’utilizzo avveduto dell’informazione fornita dai mass media (Gianna Milano).