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Sandro Spinsanti
PASSEGGIANDO PER I TERRITORI DI CURA: GLI DEI, I RITI
in La parola e la cura
primavera 2013, pp. 5-7
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La cura si presenta come un terreno nel quale si entra ― malvolentieri! ― attraverso la patologia. È un vissuto analogo a quello di attraversare un confine, approdando in un paese straniero.
È invalso l’uso linguistico di designare con il termine bioetica l’ambito delle scelte ― discutibili, e spesso animatamente discusse ― che costellano il fronte più avanzato delle innovazioni in biologia e in medicina: dalla procreazione medicalmente assistita alle decisioni di fine vita, dall’ingegneria genetica ai trapianti di organo. Parallelo agli scontri ideologici su questi temi è il dibattito sull’opportunità di definire i confini del lecito mediante leggi ad hoc. Giovanni Berlinguer ha proposto di chiamare questo orizzonte problematico “bioetica di frontiera”, per differenziarlo dai problemi etici quotidiani che troviamo invece nella pratica della medicina 1.
Anche le questioni relative al cambiamento dei rapporti tra i professionisti sanitari e le persone che ricorrono alle loro cure sono in piena evidenza nella nostra società: basterebbe menzionare il problema dell’informazione e del consenso, che nel giro di un paio di decenni ha richiesto il ribaltamento di comportamenti secolari (la famiglia, che tradizionalmente era l’interlocutore del medico nel caso di prognosi gravi o infauste, è stata relegata in secondo piano, a favore della centralità della persona malata). Sappiamo quanto i dilemmi legati alla condivisione delle informazioni (“Faccio bene o male a coinvolgere il mio familiare malato nelle decisioni cliniche che lo riguardano?”) siano centrali nel vissuto di malattia che sconvolge le famiglie. Eppure anche la rete della deontologia professionale, gettata nel mare tempestoso del cambiamento in corso, riesce a portare a riva solo pochi pesci di grande taglia. Sembra che le perplessità più frequenti e i dilemmi morali quotidiani che costituiscono la trama delle pratiche di cura sfuggano a queste determinazioni maggiori previste dalle leggi e dai codici deontologici. Per coglierle suggeriamo un percorso diverso, che assuma come punto di partenza l’esperienza umana fondamentale che sottostà all’essere curati.
La cura si presenta come un terreno nel quale si entra ― malvolentieri! ― attraverso la patologia. È un vissuto analogo a quello di attraversare un confine, approdando in un paese straniero. Una formulazione molto efficace di questo vissuto l’ha fornita Susan Sontag: “La malattia è il lato oscuro della vita, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese” 2. Non solo per Susan Sontag la malattia in sé è una “metafora”: lo è anche il passaggio dalla salute alla malattia. La metafora è, appunto, quella dell’attraversamento di un confine.
Più di recente, lo scrittore Christopher Hitchens ricorreva alla stessa metafora per descrivere la sua esperienza della malattia che
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l’avrebbe portato alla morte: “Mi trovai deportato dal paese dei sani oltre il desolato confine della terra della malattia” 3. La malattia, dunque, segna il passaggio in un territorio nel quale abbiamo bisogno di cura, ovvero di quelle competenze di altissima professionalità che sappiano predisporre la terapia appropriata.
Ciò che divide i due territori è un limite o una soglia? La domanda non è retorica. Per capire la differenza ci può essere d’aiuto tener presente che gli antichi romani avevano due diverse divinità tutelari che presidiavano i confini: Ianus e Terminus. Giano era considerato il dio dei passaggi (la porta, in latino, è appunto ianua), del divenire e degli inizi (a Giano era consacrato il primo mese dell’anno: ianuarius; cfr. Ovidio, I fasti, il cui primo libro si apre con la celebrazione di Ianus e del mese a lui dedicato); era il dio della continuità e delle transizioni. Terminus, invece, aveva altre competenze. Era la divinità protettrice delle proprietà terriere e dei confini dello Stato. Terminus era il vendicatore delle usurpazioni territoriali. A lui erano consacrate le pietre ― chiamate, per l’appunto, termini ― che segnavano i confini tra le proprietà. E grave crimine era spostare quei confini. Terminus era quindi un dio chiuso, bloccato, il cui compito è di “tenere fuori” il nuovo e l’estraneo e la paura che ne deriva.
Possiamo facilmente immaginare come cambi di significato quell’attraversamento di un confine, che equivale metaforicamente all’esperienza fondante della malattia e del bisogno di cura, se lo si vive nello spirito di Ianus o di Terminus. Come in ogni religione, dobbiamo considerare che i comportamenti dei “credenti” sono determinati da un insieme organico di teologie (ciò che si crede), di liturgie e di scelte etiche correlate.
Come vivono la malattia e la cura i devoti di Terminus? La convinzione di fondo è che salute e malattia siano condizioni contrapposte, che si escludono a vicenda: quando c’è l’uno non c’è l’altra. La salute si può bensì aumentare (health enhancement), e questa è una responsabilità personale. Ma quando sopravvenga la malattia, bisogna affidarsi ai professionisti, che sono i sacerdoti officianti della cura. Il trattamento ideale è quello che mira al ristabilimento dello stato di salute che è andato perso quando si è transitati nel regno della malattia (“restitutio ad integrum”). La medicina è intesa come una guerra senza quartiere contro tutte le forme di patologia. Non è raro che questa lotta a oltranza sfoci in quelle forme che si è soliti qualificare come accanimento terapeutico. I confini territoriali ― segnati dai termini ― vanno ben evidenziati per evitare i conflitti (emblematico il mito della fondazione di Roma: Romolo, secondo il racconto di Plutarco, uccide il fratello Remo per aver spregiato e oltraggiato i “termini” della neocostituita città, saltando oltre il confine stabilito: Vita di Romolo 10, 1-2). Non diversamente, sui confini della cura ha luogo ai nostri giorni un contenzioso senza precedenti tra professionisti e cittadini. Non solo si assiste a uno spingere e un tirare da una parte e dall’altra, ma scoppiano continue contese, sotto forma di accuse di “malasanità”, procedimenti giudiziari, richieste di risarcimenti, pratiche di medicina difensiva.
In questa prospettiva i limiti che la malattia e la stessa decadenza fisica connessa alla corporeità ci costringono a percorrere ci appaiono come soglie che si aprono su nuovi territori. Le limitazioni nella vita ― e il “pathos” che le accompagna ― sono opportunità di maturazione della persona.
Le teologie ― liturgie ― scelte etiche della medicina praticata sotto il segno di Ianus sono di tutt’altro tenore. Salute e malattia sono considerati stati interconnessi, confluenti l’uno nell’altro. Non solo la malattia può essere più o meno grave, ma la stessa guarigione può realizzarsi attraverso diversi modi e gradi; e la salute si estende dal ristabilimento dell’equilibrio precedente alla malattia fino a quella vertiginosa nuova condizione che Nietzsche chiamava “la Grande Salute”. “Eros” (desiderio e potere sulla vita) e “pathos” (ciò che la vita ci costringe a subire) sono parti integranti dell’esistenza umana. Ancor più: la “pazienza” (correlata al “pathos”) ci può far arrivare là dove l’azione non è in grado di portarci. Il giusto rapporto con chi eroga cure prevede che la posizione subalterna di chi è curato rispetto al curante (nelle rispettive posizioni one up/one down) ceda il passo a un coinvolgimento attivo del secondo nel processo di cura (empowerment). In termini liturgici, la persona malata è “officiante” (più esattamente, “co-officiante”)
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della propria cura. Il trattamento eticamente auspicabile mira alla “restitutio ad integrum” quando è possibile, ma non trascura la guarigione sufficiente ― quando si è costretti a convivere con una patologia ineliminabile o cronica ― e promuove sempre quella forma superiore di salute che è l’autorealizzazione personale. Perché attraverso il “pathos” si può crescere: Teilhard de Chardin parlava, a questo proposito, di “passività di crescita”.
La crescita non equivale a un processo lineare-cronologico: si può essere vecchi senza essere mai cresciuti, così come è possibile che dei minori ― e anche dei bambini! ― abbiano già realizzato una grande crescita personale. Per descrivere la maturità, possiamo far ricorso alla metafora dei piani superiori di una casa proposta da Kierkegaard: “Pensiamo a una casa, composta di scantinato, pianterreno e primo piano, abitata o adibita in modo tale che ci sia una differenza di ceto tra gli inquilini di ciascun piano; e confrontiamo l’essere umano con una simile casa: è tanto doloroso e ridicolo il caso della maggior parte degli uomini che, nella loro casa, preferiscono vivere nel sottosuolo... E non solo preferisce vivere nel sottosuolo, no, ma lo ama a tal punto che si adira se qualcuno gli propone di occupare il piano buono che sta lì vuoto a sua disposizione perché è pur sempre a casa sua che vive” 4.
In questa prospettiva i limiti che la malattia e la stessa decadenza fisica connessa alla corporeità ci costringono a percorrere ci appaiono come soglie che si aprono su nuovi territori. Le limitazioni nella vita ― e il “pathos” che le accompagna ― sono opportunità di maturazione della persona. Ovvero l’opportunità, che si può cogliere o no, di diventare l’essere pieno che potenzialmente siamo. In questo territorio non si può essere introdotti a forza (così come non si può far crescere una pianta tirandola su dal terreno...).
Mentre le questioni etiche maggiori che mobilitano gli animi intorno alla “bioetica di frontiera” sono definibili in termini giuridici (che circoscrivono ciò che è legale, demarcandolo dall’illegalità), deontologici (che definiscono le regole alle quali deve attenersi il professionista che aspiri ad avere comportamenti corretti) e naturalmente dalle morali connotate in senso religioso, le scelte etiche che circolano nei territori quotidiani della cura sono per lo più oggetto di negoziazioni silenti. Coloro che erogano le cure e coloro che le ricevono devono interpretare i reciproci paradigmi (utilizzando ancora la metafora: sono fedeli di Ianus o di Terminus?), trovando un accordo sul modello implicito che scandisce il percorso terapeutico. La domanda, a questo punto, è: ci sono persone disposte a fare delle vicende della salute ― malattia, cura, cronicità, decadenza, morte ― un’occasione di maturazione personale? A questa è legata l’altra domanda: ci sono professionisti sanitari disposti ad accompagnare rispettosamente le persone in questa crescita, facendo del lavoro di cura anche una preziosa occasione per la propria crescita personale?
Il lavoro di cura è il cuore caldo di ogni professione sanitaria. E se proprio dovesse andar male, perché non si riesce né a guarire nel senso di Terminus, né a favorire una maturazione nel senso di Ianus, per i professionisti della cura resta pur sempre una consolazione: è assicurata loro una poltrona in prima fila da cui assistere alla (divina) Commedia di ciò che gli esseri umani fanno della propria vita.
Perché i giorni per noi sono nulla.
Un vuoto zero, nulla.
Non puoi appuntarteli al muro e agli occhi
renderli commestibili:
sul bianco sfondo
non possedendo corpo
sono invisibili.
Come te sono i giorni,
e quale peso poi
rimpicciolito dieci volte
può avere un giorno?
Josif Brodskij (dal poema Farfalla)
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI - NOTE
1 Giovanni Berlinguer, Bioetica quotidiana, ed. Giunti, Firenze 2000.
2 Susan Sontag, La malattia come metafora, tr. It. Einaudi 1992.
3 Christopher Hitchens, Mortalità, tr. It. Piemme 2012.
4 Soeren Kirkegaard, La malattia mortale, in Opere, Sansoni 1962.