La malattia come autoguarigione

Dieter Beck

La malattia come autoguarigione

Le malattie somatiche come tentativo di guarigione psichica

presentazione di Sandro Spinsanti

Psicoguide, Cittadella Editrice, Assisi 1985

pp. 5-14

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PRESENTAZIONE

La malattia ha un senso. Come tutti i significati, anche quello della malattia va cercato all’interno di quel sistema integrato di correlazioni che chiamiamo cultura. Gli studi di antropologia applicati alla medicina hanno reso più esplicito il legame esistente tra malattia, medicina e cultura. Nel repertorio culturale di ogni gruppo umano esistono delle teorie della malattia, scientifiche o religiose, che includono l’eziologia, la diagnosi, la prognosi, la terapia. Variano quanto variano le culture; e nessuna teoria può essere pienamente capita al di fuori del contesto culturale a cui appartiene e della struttura sociale dei gruppi che condividono determinate opinioni e strategie di adattamento e sopravvivenza.

Questa prospettiva pluralista, resaci familiare dalla medical anthropology coltivata nell’ambito accademico americano 1, ci rende diffidenti nei confronti di discorsi sul significato della malattia dedotti, con procedimento filosofico, dalla natura umana in generale. Dovrebbe anche risvegliare il nostro spirito critico nei confronti del sistema medico ― comprendente prassi

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e concezioni antropologiche sottese — proprio della nostra civiltà tecnologica. Il senso che la medicina scientifica attribuisce alla malattia è congruente con la concezione dualistica che presuppone. Da quando Cartesio ha proposto di considerare il corpo come una macchina, la malattia è diventata per noi, cultori delle idee «chiare e distinte», un guasto nell’ingranaggio. Il pensiero scientifico considera «spiegata» la malattia quando essa può essere ricondotta alle cause della disfunzione: un microbo o una rottura dell’equilibrio omeostatico, un disordine a livello degli scambi biochimici o della struttura genetica.

Abbiamo diversi motivi di fierezza per questa nostra scienza medica nata dal tronco delle scienze della natura: l’intelligenza vi trova appagato il suo bisogno di spiegare, in quanto i fenomeni sono ricondotti alle loro cause; l'«homo faber» si compiace per la sua efficacia: è così efficace che per questa medicina si è disposti a rimettere in circolazione parole del vocabolario religioso, quali «miracolo», «prodigio» ecc. La nostra è una medicina «vincente». La riduzione sul piano dell’antropologia sembra essenziale al successo della medicina scientifica. Abbiamo ancorato l’uomo — il suo corpo, la sua malattia — alla natura e lo trattiamo né più né meno che come un qualsiasi pezzo di natura, un oggetto tra gli oggetti. Una riduzione sgradevole per il nostro narcisismo, ma ripagata con conquiste di frontiere sempre più vaste.

Accanto a questa medicina soddisfatta di sé, senza inquietudini epistemologiche e nostalgie filosofiche o religiose, c’è una pratica che si discosta dal modello delle scienze naturali. Una

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medicina che non ha mai voluto perdere di vista di essere un’impresa terapeutica rivolta a curare l’uomo in quanto uomo. L’etichetta sotto cui questa medicina si impone oggi all’attenzione è quella di medicina «olistica» 2. In questo movimento si incontrano diverse tendenze e sistemi medici. Ciò che li accomuna è una concezione energetica del corpo umano e una prospettiva in cui la vita dell’individuo è vista come un dispiegamento continuo, mentre la malattia equivale all’interruzione di questo flusso. Tutto può influenzare la nostra salute: fattori grossolani e sottili, fisici, emotivi, mentali, spirituali e ambientali; tutti sono correlati. La prospettiva olistica insegna a guardare al di là del sintomo immediato, a situarlo in un contesto più comprensivo. Una disarmonia nella vita si rifletterà sintomaticamente nel corpo, comunicandoci — se vi prestiamo attenzione — che è necessario un cambiamento. La malattia ha allora la funzione di un messaggio, una specie di feed-back del processo della vita che ci informa che qualcosa turba l’armonia e ci richiama ad agire con coscienza, a prendere parte attiva allo sviluppo del nostro benessere, ad assumerci la responsabilità per la nostra vita. Il presupposto olistico è che il corpo sa come curare se stesso, essendo un sistema naturale di guarigione che tende alla buona salute. Chi vuol favorire la salute non ha che da sgomberare il campo da ciò che ci impedisce di intendere le ragioni del corpo. Rimosso l’ostacolo, la buona salute emerge dall’interno della persona. «È il corpo l’eroe, non la scienza, né gli antibiotici, né le macchine, né le nuove tecnologie. Il compito del medico oggi è quello che è sempre stato: aiutare il corpo a fare quello

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che ha imparato così bene a fare da solo durante la sua interminabile lotta per la sopravvivenza, cioè a curare se stesso. È il corpo, e non la medicina, che è l’eroe» 3.

Attraverso la medicina olistica rientra in Occidente una concezione del corpo e della salute che può essere considerata tipica del pensiero orientale. A differenza della scienza medica allopatica, che tratta la natura come «nemico», i sistemi medici orientali riposano su un’antropologia aperta a priori alla saggezza della natura e si muovono in un orizzonte di unità cosmica. «Le indisposizioni, le malattie — scriveva nel 1923 il Mahatma Gandhi nella sua Guida alla salute ― non sono altro che un ammonimento della natura, la quale ci avverte che le immondizie si sono andate accumulando in questa o quella parte del corpo, e sarebbe certamente cosa saggia lasciar fare alla natura, invece di coprire il sudiciume a forza di medicine» 4.

Il richiamo orientale alla saggezza del corpo non si è tradotto in Occidente in fatalismo e passività. Ha incentivato, piuttosto, modelli di vivere «alternativo», dove le pratiche relazionate alla cura della salute sono intrecciate con preoccupazioni psicologiche e spirituali. È difficile, tuttavia, sottrarsi all’impressione che la spinta sociale verso le pratiche che fioriscono all’insegna del «ritorno alla natura» ― dai nuovi regimi alimentari al jogging, dalla fitoterapia al digiuno come pratica terapeutica e spirituale — venga prevalentemente dalla moda o dalla manipolazione dei bisogni di massa ad opera della pubblicità. Va notato inoltre che le versioni più romantiche della medicina olistica, con la loro accettazione acritica di modi di terapia

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dubbi o anche dannosi, con i loro pregiudizi antitecnologici, hanno danneggiato i modelli più seri e legittimi. Si sente soprattutto la mancanza di un riferimento teorico solido, che possa trovare udienza al di fuori dei circoli esoterici.

Dieter Beck, nella sua concezione innovativa circa il significato della malattia, ha cercato tale modello teorico nell’ambito della psicoanalisi. A ragione: la psicoanalisi si è costruita intorno alla scoperta che i sintomi somatici dell’isteria avessero un senso psichico. Malgrado il credo positivista di Freud, la psicoanalisi non si è adeguata all’evacuazione del significato della malattia che è invece avvenuta nel mondo medico. Tuttavia Freud ha introdotto una restrizione, valida soprattutto per il periodo di fondazione della sua disciplina. Pur essendo consapevole, almeno a livello intuitivo, che anche le malattie somatiche hanno un significato psicodinamico, le ha escluse dall’ambito dell’esplorazione psicoanalitica. Si è espresso esplicitamente a questo proposito con Viktor von Weizsäcker, il neurologo-psicoanalista che, introducendo la psicoanalisi nella medicina interna, voleva fondare una patologia generale che non separi le malattie psichiche e psicosomatiche da quelle organiche, bensì le unisca in una considerazione unica. Von Weizsäcker propose di abbandonare il dualismo cartesiano e di lavorare con l’ipotesi dell’unità corpo-psiche. Era consapevole che la svolta era così decisiva per la medicina, che per realizzarla sarebbe stata necessaria una mente geniale, «un Paracelso per i nostri tempi». Pur non riconoscendosi tale genialità, si dedicò a fare un lavoro preparatorio. Cercò un caso tipico, redasse uno studio e lo sottopose

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a Freud 5. Nel corso del trattamento (il paziente soffriva di disturbi della minzione di natura nevrotica) era sopraggiunta un’angina. A una considerazione più approfondita, questa risultava il frutto di una crisi «biografica», indispensabile per capire il vissuto personale della malattia. Quando nel trattamento del suo caso l’angina non fu considerata come un fatto accidentale, ma come un momento della «dinamica psicofisica», risultò una specie di nuova antropologia, in cui erano presenti i concetti principali della psicoanalisi, ma che oltrepassava la psicologia, perché nel concetto di «uomo» era inclusa essenzialmente la costellazione costituita dall’ambiente e dall’organismo, e si poteva così tentare di dare una risposta alle domande che in genere non ricevono una risposta soddisfacente nella patologia delle malattie corporee: «perché proprio ora?», «perché proprio qui?».

La presentazione del proprio studio a Freud offrì a von Weizsäcker l’occasione di un’interessante corrispondenza con il maestro di Vienna. In una sua lettera 6, Freud sottoscriveva il punto di vista di von Weizsäcker: «La parte del suo lavoro in cui lei cerca di stabilire punti di vista comuni per la malattia psichica e per quella organica ci porta qualcosa che per noi è nuovo e ci fa tendere l’orecchio, appunto perché osservazioni occasionali ci hanno fatto avvicinare ai confini di questo territorio inesplorato. Siamo diventati attenti ai fattori psicogeni delle malattie organiche, abbiamo potuto capire che spesso una malattia subentra a una nevrosi; anche la stupefacente immunità di alcuni nevrotici rispetto a infezioni e raffreddori e la perdita di essa dopo il miglioramento

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psichico non ci è passata inosservata. I punti di vista comuni a ogni malattia ― interruzione, svolta, crisi ecc. — ci preparano grandi novità». Tuttavia, mentre esprimeva all’internista la propria riconoscenza per l’ampliamento della prospettiva psicoanalitica, Freud dichiarava, nella stessa lettera, che la psicanalisi non avrebbe seguito quella strada. Egli aveva tenuto lontani gli analisti da tali ricerche, aggiungeva, per motivi pedagogici: dovevano imparare a limitarsi a pensare in modo psicologico, usando cioè postulati, teorie e metodi specificamente psicologici 7.

La strada intravista, Viktor v. Weizsäcker la percorse. Non si può riconoscere al suo pensiero un successo che lo abbia imposto all’attenzione universale. In Italia, in particolare, non ha esercitato alcun influsso, anche per la mancanza di traduzioni delle sue opere 8. Tuttavia il modello teoretico della sua «medicina antropologica» ha avuto un’attenzione privilegiata presso alcuni dei più coraggiosi pionieri del rinnovamento della medicina. Anche D. Beck lo considera un maestro affidabile, al quale riferirsi per uno stimolo al pensiero, più che per ricevere un sistema concluso entro cui inquadrare tutti i fenomeni 9. Come contributo dell’elaborazione teorica di von Weizsäcker ad approfondire gli interrogativi che Beck si pone sulla malattia somatica, riteniamo opportuno riferirci alle sue riflessioni sulle due dimensioni della nostra esperienza fenomenologica del corpo. Questa oscilla tra due percezioni: quella di «essere» un corpo e quella di «avere» un corpo. Riferita al fatto morboso, tale dialettica si traduce in una tensione tra la malattia che «ho», perché mi sopravviene, e quella che

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«faccio». V. von Weizsäcker propone una distinzione tra la Es-Stellung e la Ich-Stellung. Quando si è in rapporto «Es» con la malattia — la malattia come un «non-Io», qualcosa che capita, che aggredisce l’organismo dall’esterno o lo disgrega nella sua struttura biochimica — viene privilegiato l’aspetto oggettivo-razionale. Ma il malato può anche assumere la malattia nell’ambito dell’io. Qui ci troviamo nel regno non più dell’«essere» e «non-essere», bensì del «poter-essere», «dover-essere» ecc., cioè di quelle categorie che von Weizsäcker chiama «patiche» e che sono il fondamento dell’esistenza etica. La malattia diventa allora un elemento costitutivo di una particolare biografia, nella sua unicità e irripetibilità; il malato assurge a soggetto «strutturante», tanto della propria malattia, quanto della propria guarigione 10. Anche nella malattia si manifesta, dunque, la tensione dell’ambivalenza che è propria della nostra esistenza umana. La mia malattia ― detto in forma sintetica e provocatoria ― non la ricevo e non l’ho solamente, ma la faccio e la strutturo anche; il mio dolore non solo lo sopporto e voglio eliminarlo, ma ne ho anche bisogno e lo desidero. La mia malattia è anche la tua malattia, in una prospettiva di solidarietà a cui ci accomuna la morte.

Per quanto possa essere convincente e affascinante questa dimensione di profondità della malattia, in cui viene messo in valore tutto il significato antropologico, bisogna riconoscere che la presa che esercita su di noi è fortemente contrastata. Le pagine di Beck hanno lo smalto dell’intelligenza e la forza persuasiva delle cose semplici e vere. Eppure saremmo poco onesti con noi stessi se non vedessimo in noi l’inclinazione

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a ripiegare su posizioni più sicure perché meno esposte, quelle appunto su cui riposa abitualmente la prassi medica e che si fregiano del titolo di «scientifiche». Possiamo gettare sui medici la colpa di questa voluta cecità. È frequente l’accusa rivolta loro di preferire il galleggiamento su acque basse, piuttosto che il tuffo in profondità. Ed è vero che per lo più i medici rispondono a discorsi come quello aperto da Beck con un’alzata di spalle, o con scherno: arzigogoli da «strizzacervelli», verbosità gratuite e infondate, entusiasmi che confinano col fanatismo... 11.

La resistenza dei medici è una parte della verità. L’altra metà del fallimento dei progetti di antropologizzazione della malattia va attribuita ai malati stessi. Sono essi che vogliono semplicemente liberarsi di un sintomo e non scendere fino alle radici della malattia, là dove si incontra la propria partecipazione all’essere malato. Notava von Weizsäcker: «I malati si aggrappano all’ "Es" per sfuggire all’ "Io", ed esercitano una seduzione sul medico perché percorra con loro questa via che offre minore resistenza. La seduzione è dunque reciproca» 12. L’opposizione a interpretare psicologicamente la malattia è perciò, semmai, il risultato di una collusione tra il medico e il paziente. Questa opposizione è così forte — osserva ancora V. v. Weizsäcker — che è difficile credere che derivi dalle creazioni più superficiali della psiche: «Si ha l’impressione che il malato non solo sperimenti la naturale estraneità della sua malattia all’io, ma ne abbia bisogno» 13. Questa percezione della resistenza a psicologizzare la malattia ci tiene lontano dai toni trionfalistici, anche quando un’esposizione brillante

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e convincente come quella di Beck ci impedisce di distogliere lo sguardo. Siamo convinti che la malattia va sottratta al destino e ricondotta al soggetto. Ma il significato personale della malattia non può essere «dimostrato» in modo evincente con la forza di un’argomentazione. In esso non si penetra per via di effrazione violenta: la porta che vi dà accesso si apre solo dal di dentro. La riappropriazione psicologico-spirituale della malattia cammina su un doppio binario: quello della scienza e quello della sapienza.

Note

1 Si veda, a titolo esemplare, David Landy (ed.), Culture, disease and healing: studies in medical anthropology, New York-London 1977; G.M. Foster e B. Gallatiti Anderson, Medical Anthropology, New York 1978.

2 Cfr. K.R. Pelletier, Holistic medicine, New York 1980; a livello più divulgativo The holistic health handbook. A tool for attaining wholeness of body, mind, and spirit, Berkeley 1979.

3 R. Glasser, The body is the hero, London 1977, p. 164.

4 Citato da G. Berlinguer, La malattia, Roma 1984, p. 29.

5 Lo studio di V. v. Weizsäcker fu pubblicato, dietro invito di Freud, nella «Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse », nel 1933, col titolo: Körpergeschehen und Neurose. Il sottotitolo («Studio analitico sulla formazione di sintomi somatici») precisa che non si tratta di una tematica specificamente psicoanalitica. Al centro dell’attenzione non sta né la psiche, né il corpo, bensì la prestazione psicofisica.

6 Riportata integralmente da Viktor v. Weizsäcker nel suo libro autobiografico Natur und Geist, Göttingen 1954, p. 125.

7 Già agli inizi del movimento psicoanalitico, in una lettera a Fliess, Freud aveva formulato il principio metodologico del «come se»: «Non tendo affatto a conservare l’elemento psicologico senza la base organica. Tuttavia, oltre alla convinzione, non ho nulla, né di teoretico né di terapeutico, su cui fondarmi, e perciò debbo comportarmi come se fossi di fronte solamente a fattori psicologici»: S. Freud, Le origini della psicoanalisi. Lettere a Wilhelm Fliess 1887-1902, Torino 1968 (lettera 96).

8 È in preparazione, presso l’Ed. Cittadella, Assisi, un’opera dedicata al pensiero di Viktor von Weizsäcker, che comprenderà anche una scelta antologica di suoi scritti. Riguardo alla corrente nota come «medicina antropologica», si veda: D. Roessler, Der «ganze» Mensch, Göttingen 1962; C. Christian, Moderne Strömungen in der Medizin und ihre Bedeutung für eine medizinische Anthropologie, Friedeman, Berlin 1962.

9 Un altro esploratore coraggioso e originale del significato antropologico della malattia somatica è l’argentino L.A. Chiozza. Anch’egli si ispira al pensiero di V. Weizsäcker, al quale ha intitolato il proprio «Centro de investigaciones en psicoanálisis y medicina psicosomática» a Buenos Aires. La dedica del suo ultimo libro, Psicoanálisis: presente y futuro, Buenos Aires 1983, merita di essere letta tenendo in mente il pensiero e l’opera di Viktor von Weizsäcker: «Mio padre, quando ero bambino, mi spiegò un giorno, mentre gustavamo tutt’e tre una scatola di datteri, che piacevano molto a mia madre, che chi semina datteri non arriverà a mangiarli, a meno che sia giovane. Questo deve avermi fatto impressione, perché non l’ho mai dimenticato. Ci sono idee che sono come datteri: tardano molto a crescere; colui che le semina non vedrà i loro frutti. Ma i datteri esistono, e li seminiamo mentre mangiamo quelli che altri hanno seminato». Nella seconda parte del libro, dove considera la conoscenza della malattia somatica che emerge nella pratica clinica della psicoanalisi, Chiozza parte dall’assunto che la malattia non possiede un’esistenza indipendente dalle vicissitudini della vita inconscia.

10 Le elaborazioni più compiute del pensiero di von Weizsäcker si trovano nella sua Pathosophie, Göttingen 1956 (soprattutto il cap. sulla Biographik, pp. 241-263). Sulla distinzione tra Es-Stellung e Ich-Stellung si veda anche Der kranke Mensch, Stuttgart 1951, p. 352.

11 In tedesco queste critiche si condensano nel termine dispregiativo «Schwärmerei», che trovo in una recensione del libro di Beck (a firma di C. Manika, in Familiendynamik 7, 1982, n. 1, p. 71), riferita però alla postfazione di E. Kübler-Ross.

12 V. von WeizsäckerGrundfragen medizinischer Anthropologie, Tübingen 1948, p. 30.

13 Ibi., p. 27.