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- Digiunare oggi: come e perchè
Sandro Spinsanti
ANTROPOLOGIA CRISTIANA
Pubblicazioni I.S.U. - Università Cattolica, Milano 1985
pp. 286
“Per il medico
il concetto è un amore infelice,
ma non un’infelicità”
(Viktor von Weizsäcker)
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L’ANTROPOLOGIA PER UMANIZZARE LA MEDICINA
La salute e la malattia stanno diventando uno dei luoghi cruciali in cui si scontrano aspirazioni diverse, progetti politici contrastanti, ideologie in conflitto. Forse non è lontano il giorno in cui l’ospedale prenderà idealmente il posto della fabbrica come simbolo delle tensioni e delle lotte per una società più giusta. Malgrado le divergenze di ideologia e di prassi, una convergenza indiscussa si delinea sulla richiesta di una medicina più umana. Se è vero che la medicina ha perso il suo oggetto — l’uomo malato —, la crisi che attraversa il settore sanitario, prima di essere economica e strutturale, è spirituale. A una medicina senz’anima bisogna perciò contrapporre una medicina “a misura d’uomo”. Dietro questi slogans suggestivi è talvolta difficile individuare progetti ben definiti, che vadano al di là di rivendicazioni semplicemente velleitarie.
“Umanizzare” la medicina tuttavia è un programma così seducente che si esita ad abbandonare la formula, malgrado il rischio di scivolare nella retorica. Più proficuo è sottoporla a una chiarificazione semantica, esplicitandone i diversi significati.
Un certo numero di apostoli dell’umanizzazione della medicina intende questo programma nel senso di un richiamo all’ideale filantropico a cui tradizionalmente la professione medica si riferisce. Il giuramento ippocratico e Vethos che vi si ispira — vale a dire: il medico dedito al benessere del paziente che chiede le sue prestazioni professionali, legato a lui da un patto che comprende il segreto e l’astensione da atti contrari all’etica della difesa della vita — ne sono i simboli più noti. In questo senso, umanizzare la medicina equivale a trattare “umanamente” i malati. La spiegazione nominale può essere difettosa in logica, ma non manca
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di una sua forza evocatrice. Il tratto “umano” con il malato richiama l’esigenza di una partecipazione emotiva degli operatori sanitari al processo terapeutico, di un “supplemento d’anima”, senza cui la medicina smarrisce la sua finalità. Non si può lavorare nelle professioni sanitarie senza un po’ d’anima — o senza un minimo di “coscienziosità” —. Il coinvolgimento richiesto può essere esiguo o sommo. Il massimo di umanità è quello necessario nelle professioni terapeutiche rivolte alla salute mentale: non è possibile, infatti, capire la malattia mentale senza empatia. Un minimo, ma pur sempre necessario, di cuore, è indispensabile per svolgere anche le mansioni più umili che portano a diretto contatto con colui che soffre. L’umanizzazione della medicina in questa prima accezione — nel senso cioè di esercitare la professione con sentimenti filantropici e con abnegazione, in considerazione del diritto del malato di essere trattato come persona — è il campo specifico dell’etica medica.
Un secondo itinerario di umanizzazione della medicina è quello che passa per la via percorsa dalle scienze umane, o dell’uomo, in quanto specificatamente diverse, per metodo e per contenuti, dalle scienze della natura. Ci riferiamo alla storia, alla linguistica, alla sociologia, alla psicologia e psicoanalisi, all’antropologia culturale. Per queste scienze l’oggetto di studio è l’essere biologico vivente nella sua inalienabile qualità umana. Ciò che è specifico dell’uomo — in quanto essere storico, o inserito in una rete di rapporti sociali, o dotato di facoltà psichiche, emozioni, di conscio e inconscio, o prodotto e produttore di cultura — non viene metodologicamente messo tra parentesi, bensì studiato come espressione specifica del “fenomeno umano”. Gli apporti della sociologia e della psicologia per ridare ai fenomeni morbosi e al processo terapeutico il debito spessore umano sono ormai patrimonio acquisito. Esistono autorevoli pubblicazioni che applicano le conoscenze di queste discipline alla medicina 1. Nell’ordinamento degli studi di medicina di alcuni paesi almeno un corso di sociologia e uno di psicologia sono richiesti obbligatoriamente a tutti gli studenti.
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Nel contesto di queste discipline umane una menzione particolare spetta all’“antropologia medica”. È anch’essa una sub-disciplina, nata dall’incontro di una particolare scienza dell’uomo con la medicina. Si tratta in questo caso dell’“antropologia” nel senso anglosassone del termine. Dopo un periodo relativamente lungo di legittimazione, l’antropologia medica ha finito per essere accettata accademicamente, soprattutto negli Stati Uniti 2. In Europa è invece ancora pressoché ignorata. È il motivo per cui ne facciamo una presentazione essenziale, preferendola alla sociologia e psicologia mediche, che sono anche da noi discipline scientificamente accreditate.
La portata degli interessi dell’antropologia medica e la peculiarità del suo approccio della salute umana emergono già fin dall’opera che rappresenta un tentativo pioneristico e un classico allo stesso tempo: Medicine, Magic, and Religion di W.R. Rivers (1927). Anche se già in precedenza etnologi e antropologi avevano raccolto dati sulle concezioni mediche e sulle risorse sanitarie delle popolazioni studiate, Rivers per primo ha concettualizzato la medicina come un sistema culturale. È diventato proprio dell’antropologia considerare i sistemi medici come strategie integrate di adattamento socioculturale. Un sistema medico abbraccia tutte le credenze, le azioni, le conoscenze scientifiche e le tecniche che promuovono la salute dei membri di un gruppo che sottoscrivono il sistema. La medicina, secondo la definizione dello stesso Rivers, è “un insieme di pratiche sociali con cui l’uomo cerca di dirigere e controllare uno specifico gruppo di fenomeni naturali, cioè quelli che colpiscono specialmente l’uomo stesso e influenzano il suo comportamento in modo da renderlo disadatto per il normale compimento delle sue funzioni fisiche e sociali — fenomenti che abbassano la sua vitalità e tendono alla morte”. L’antropologo valuta le differenze del comportamento umano nella cura della salute come un’espressione tipica di quella divaricazione tra i diversi gruppi umani prodotta dalla cultura. Nel repertorio dei gruppi umani esistono teorie della malattia (scientifiche o religiose), che includono l’eziologia, la diagnosi, la prognosi, il trattamento. Esse differiscono quanto le culture stesse. Le varie teorie della malattia non possono
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essere capite prescindendo da una comprensione della cultura e dalla struttura sociale dei gruppi che le veicolano. Quando supera l’inclinazione spontanea all’etnocentrismo, l’antropologo può scoprire un’interna logica anche nelle credenze mediche dei popoli “primitivi”; anche le pratiche mediche indigene che abitualmente vengono squalificate come magia, appaiono razionali, quando sono viste alla luce delle credenze sulle cause delle malattie. L’antropologia ha dunque, fin dal primo tentativo di concettualizzazione di Rivers, considerato i sistemi medici indigeni come istituzioni sociali, che devono essere studiati allo stesso modo delle istituzioni sociali in generale.
Le radici dell’antropologia medica sono costituite, oltre che dall’etnomedicina, anche dall’antropologia fisica e dalle conoscenze derivate dalle strategie di politica sanitaria internazionale. Ai suoi inizi l’antropologia biologica ha adottato l’atteggiamento rigidamente positivistico proprio della scienza nel secolo scorso. Il suo metodo consisteva nelle misurazioni del corpo, specialmente del cranio (antropometria). Con l’affacciarsi dell’evoluzionismo, l’antropologia fisica si è assunta il compito di studiare i resti forniti dalla paleontologia per ricostruire l’evoluzione dell’animale umano. Il suo obiettivo era quello di tracciare una “storia naturale del genere umano”, secondo la nota definizione di Broca. Come suo ambito di interesse scelse lo studio dei caratteri morfologici, fisiologici e patologici dei vari popoli della terra, nella loro suddivisione in razze. In Europa l’antropologia fisica è stata tenuta distinta dall’antropologia culturale, che si occupa della cultura in quanto sistema integrato con cui i gruppi sociali interagiscono con l’ambiente. Oggi tende sempre più a prevalere l’uso anglosassone del termine “antropologia”, che congloba l’antropologia fisica, quella culturale, la paleoantropologia e la preistoria.
L’altra spinta alla creazione della nuova disciplina può essere individuata nei programmi internazionali di salute pubblica, che hanno assunto grande diffusione dopo la seconda guerra mondiale (fondazione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità). Le persone impegnate nel lavoro sanitario in un contesto transculturale si resero conto, molto prima di coloro che operano esclusivamente entro l’ambito della medicina clinica della propria cultura, che la salute e la malattia sono fenomeni socio-culturali, oltre che biologici. Gli antropologi culturali furono in grado di spiegare agli operatori provenienti dai paesi sviluppati che non potevano limitarsi a trapiantare i servizi sanitari dei loro paesi industrializzati; che
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le credenze e le pratiche tradizionali, in conflitto con le convinzioni mediche occidentali, avevano un senso e una funzione; che la salute e la malattia, in quanto semplici aspetti di modelli totali di cultura, si modificano solo insieme a cambiamenti socioculturali più ampi. L’antropologia contribuì a chiarire perché molti programmi sanitari avevano avuto minore successo del previsto, e a migliorare i programmi stessi.
Al momento attuale l’antropologia medica sembra aver trovato identità definita in quanto disciplina che si occupa degli aspetti tanto biologico che socioculturale del comportamento umano, in particolare dei modi in cui interagiscono per influenzare la malattia e la salute 3. Il suo campo di lavoro comprende, come argomenti specifici: i sistemi medici e le teorie relative alla malattia e alla guarigione; stati emotivi e costrizioni culturali (etnopsichiatria); sciamanesimo, stregoneria, pratiche dei guaritori; ecologia ed epidemiologia della malattia; status e ruolo del paziente e del terapeuta; trasformazione dei sistemi medici nel cambiamento sociale e culturale, specialmente nel processo di modernizzazione. Quando la comprensione dei fatti morbosi propria dell’antropologia — insieme a quella delle altre scienze dell’uomo — avrà scosso il modello naturalistico su cui si è costruita la medicina come scienza, si offrirà un’effettiva possibilità di umanizzare la medicina, diversa dall’umanizzazione dei sentimenti che abbiamo considerato in primo luogo.
Proponiamo una terza prospettiva di umanizzazione della medicina. Lo strumento ci è offerto dal significato che il termine “antropologia” assume nella tradizione culturale europea, fin dall’epoca umanistica. In questa accezione l’antropologia è la riflessione filosofica sulla peculiarità della natura umana. Il tema dell’antropologia in questo senso specifico è costituito dalla posizione particolare dell’essere umano nel mondo dei viventi. Nella linea dell’antropologia filosofica dell’epoca moderna (Fr. Nietzsche, M. Scheler, H. Bergson), il problema dell’uomo come vivente ha ritenuto l’attenzione di numerosi filosofi di indirizzo fenomenologico-esistenziale. Citiamo: F.J.J. Buytendijk, H. Plessner, A. Gehlen, M.
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Merleau-Ponty, J.P. Sartre 4. La loro antropologia si propone di comprendere l’uomo come l’essere che, nell’unità della sua corporeità animata, esiste nel mondo storicamente. La medicina ha ampliato questo tema estendendolo all’uomo malato. All’antropologia medica, intesa in questo senso, interessa la questione dell’uomo nella sua condizione di malato. Si distanzia così dalla medicina scientifica, la quale conosce la struttura e le funzioni del corpo, le loro modificazioni ad opera delle malattie, la catena di cause ed effetti, l’azione dei farmaci, ma non conosce propriamente “l’uomo malato”. In questo tipo di antropologia medica si incontrano e si fecondano reciprocamente due generi di esperienza scientifica: da una parte l’esperienza discorsiva e induttiva, nel senso del suddividere, descrivere, spiegare e dominare, tipica della scienza della natura; dall’altra l’esperienza fenomenologica, nel senso del vivere-sperimentare-agire insieme, proprio degli atti umani.
A esemplificazione di questo approccio dell’uomo — e in particolare dell’uomo malato —, rimandiamo alla “medicina antropologica” della scuola di Heidelberg, nella persona del suo principale esponente: Viktor von Weizsäcker. L’assunto di base di questa medicina è che per guarire “tutto” l’uomo bisogna rifondare la scienza medica. Se non si attua un’apertura antropologica, reintroducendo il soggetto-uomo come essere bio-psichico-spirituale-storico, e considerando di conseguenza la malattia e la guarigione come eventi di cui il “paziente” è il soggetto e il protagonista strutturante, non si può parlare di umanizzazione della medicina. L’umanizzazione della medicina in questo terzo significato coincide quindi con la rivendicazione di una base antropologica che si distanzi dai riduzionismi propri della medicina concepita come scienza della natura.
L’antropologia cristiana che proponiamo si colloca su questa lunghezza d’onda. È un invito rivolto agli studenti di medicina a immaginare una rivoluzione copernicana che metta al centro del loro pensare e del loro operare non l’organo disfunzionale, ma il malato; e a considerare il malato non solo come un soggetto di diritti-doveri, o come un essere corporeo che vive un’esistenza storica-psichica-sociale-culturale, ma anche come una persona la cui esistenza singolare si apre sul mistero di una chiamata soprannaturale. Questa prospettiva le conferisce un carattere
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più teologico che filosofico, anche se non si identifica formalmente con un trattato di “antropologia” — ossia una presentazione sistematica dell’essere umano alla luce della rivelazione soprannaturale — come sono soliti elaborarne i teologi. È un’antropologia cristiana, in quanto si situa nel contesto di interrogazione sull’uomo che è proprio del pensiero teologico e dell’etica cristiana; in senso ancor più forte e specifico, è un’antropologia cristiana perché riconosce in Gesù, il Cristo, il modello realizzato dell’uomo che tende alla pienezza dell’essere. Se nel nostro disegno antropologico emergono annotazioni critiche nei confronti del pensiero e della prassi medica abituali, non è per amore di polemica gratuita. Quando l’antropologia si propone di contribuire all’umanizzazione, non può non denunciare le situazioni in cui, in modo clamoroso o sottile, l’uomo viene oppresso: anche dalla medicina, nonostante il suo proposito di lottare contro le potenze che minacciano la vita umana. Se la medicina non impara a pensare l’uomo in grande, sarà un’impresa terapeutica fallimentare, malgrado tutti i progressi tecnologici.
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Capitolo Primo
ANTROPOLOGIA CRISTIANA E MEDICINA
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LA RIFLESSIONE ANTROPOLOGICA IN MEDICINA
In ambito medico l’invito alla riflessione non è visto in genere di buon occhio. Specialmente quando questo venga da chi rappresenta un’“antropologia”, cioè un sapere sistematico e riflesso sull’uomo (si tratta in questo caso dell’antropologia filosofica; l’antropologia biologica, che studia i caratteri morfologici, fisiologici e patologici dei popoli della terra, estinti e attuali, nonché i rapporti con le altre specie animali, è parente stretto della medicina scientifica e deriva dallo stesso ceppo positivistico: non suscita perciò diffidenza).
C’è un sospetto pregiudiziale verso una concezione dell’uomo che venga imposta alla scienza da un’istanza esterna, filosofica o religiosa che sia. La medicina sembra essersi acquistata questo diritto di autonomia da quando, nella cultura greca, si è emancipata dalla tutela della religione. Nel secolo scorso, reagendo alle speculazioni sulla natura di tipo romantico e scegliendo la metodologia delle scienze della natura, la medicina ha fatto un passo ulteriore verso l’empirismo.
1. La medicina come scienza naturale
La medicina come insieme di interventi terapeutici per ristabilire la salute è antica quanto l’uomo; anche in quanto scienza — vale a dire come complesso di conoscenze sistematiche sul corpo, le sue funzioni fisiologiche, la sua patologia — non è nata ieri: per quanto riguarda l’Occidente, va fatta risalire almeno alla medicina greca. Quel che invece è
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relativamente recente è la medicina concepita come scienza della natura. In quanto tale si è formata in Germania nella prima metà del XIX sec., opponendosi alla medicina speculativo-romantica.
Uno dei suoi padri fondatori, Rudolf Virchow, nel primo articolo del “Archiv für pathologische Anatomie” (1847) ne stabiliva il programma in questi termini: “Il punto di vista che noi intendiamo mantenere è semplicemente quello delle scienze della natura. L’ideale al quale tendiamo, per quanto le nostre forze ce lo permettono, è la medicina pratica come fisiologia teoretica applicata, e la medicina teoretica come fisiologia patologica”.
Assumendo lo statuto epistemologico delle scienze naturali, la medicina ha cercato di adeguarsi a quella forma particolare di conoscenza che è fondata sulla razionalità e acquisita con l’osservazione o l’esperimento, secondo una particolare metodologia “critica”. In quanto scienza naturale, la medicina procede dunque empiricamente. La sua base è costituita da fisiologia e patologia. Disfunzione e malattia sono considerati come conseguenze di disturbi di processi materiali-organici.
Il metodo analitico e il microscopio hanno mostrato che la cellula è la sede reale del male. Nella sua opera più importante, “La patologia cellulare” (1858), Virchow paragonava il corpo umano ad uno stato di cui ogni cellula sarebbe il cittadino; la malattia è rappresentata come una guerra civile in seno allo stato.
La malattia non è più qualcosa che capita all’uomo nel suo insieme, ma qualcosa che succede ai suoi organi. Lo studio delle cause della malattia si restringe alla ricerca di mutamenti locali nei tessuti. Il fatto morboso si ritiene capito quando si può spiegare stabilendo il rapporto causa-effetto, sulla base delle leggi che regolano i fatti fisico-chimici.
Tra l’uomo che cura e quello che è curato si insinua un terzo elemento completamente senz’anima: lo strumento. Il medico, in quanto essere umano con la sua capacità di interpretare i sintomi e stabilire in una sintesi creatrice la diagnosi, tende a diventare superfluo: il microscopio scopre per lui il germe batterico, lo strumento misura il ritmo cardiaco e la velocità del sangue, la radiografia sostituisce il suo sguardo. Lo strapotere della tecnica trionferà in medicina solo più tardi, con l’ingresso nell’era tecnologica che viviamo, ma tutti i presupposti sono già presenti nella svolta che ha portato la scienza del guarire ad allinearsi alle altre scienze della natura. La razionalizzazione di tipo naturalistico porta a spogliare la malattia di ogni carattere storico e personale. Essa è significativa per il medico solo in quanto caso “tipico”.
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La stessa organizzazione della clinica riposa sul modello organicistico: le malattie vengono suddivise per reparti come le merci di un supermercato; e i medici, passando di letto in letto come tecnici ad una catena di montaggio, si dedicano a scoprire le cause del guasto per riparare l’organo malato.
Quando la medicina si organizzò come scienza della natura, adottò il metodo già usato con successo dalle discipline scientifiche più progredite, cioè il metodo analitico già messo a punto per la chimica e la fisica. Ad esso la medicina deve i successi stupefacenti che ha ottenuto in un secolo e mezzo. Non si può non riconoscere nel periodo del laboratorio una delle fasi più brillanti della storia della medicina. I progressi della chirurgia, della battereologia, della farmacologia non sarebbero stati ottenuti se la medicina non si fosse allineata tra le scienze della natura. Tuttavia la strada imboccata non era senza pericoli. Senza misconoscere i momenti positivi della concezione natural-scientifica (in particolare il principio della ricerca empirica esatta e il significato fondamentale del lavoro di indagine di tipo fisiologico e biochimico), si deve però acquistare coscienza che, quando l’uomo è considerato semplicemente come un pezzo di natura tra gli altri, si opera una violenta mutilazione antropologica.
La riflessione su questo presupposto della medicina come scienza della natura costituisce il nucleo della moderna “crisi della medicina”. Storicamente i primi sintomi della crisi vanno collocati nel periodo di fermentazione culturale che è seguito alla prima guerra mondiale, dopo il crollo degli ideali dello scientismo positivista e della cultura liberal-borghese. Li ha colti molto bene un profano di medicina, un umanista, lo scrittore Stephan Zweig, in un libro singolare pubblicato nel 1931 e dedicato alla “guarigione attraverso lo spirito”.
Si tratta di tre biografie di personaggi che apparentemente non hanno nulla in comune: Mesmer, Mary Baker-Eddy e Freud. In tutti e tre lo scrittore ha visto realizzato un fenomeno significativo, addirittura un “segno dei tempi”: al di fuori della medicina scientifica, spesso anzi contro di essa, hanno fatto ricorso alle forze psichiche e spirituali per guarire. Mesmer si serviva del rafforzamento della volontà di salute mediante la suggestione; la fondatrice della Christian Science attingeva alla fede estatica; Freud alla conoscenza di sé, che permette la soluzione dei conflitti psichici che gravano inconsciamente. Attraverso strade diverse hanno reagito alla frammentazione dell’uomo malato in organi malati, operata dalla medicina scientifica, esprimendo l’identico bisogno di conoscere non le singole malattie che colpiscono l’uomo, ma la sua stessa
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personalità. Lo sguardo rivolto alla “totalità” dell’essere umano era per Zweig la vera inversione di tendenza della medicina come scienza della natura, tendente all’analisi e al dettaglio (“to know more and more about less and less”).
In una pagina dell’introduzione, che merita di essere riletta dopo cinquant’anni, così descriveva il bisogno di una nuova medicina che si percepiva nella cultura del tempo: “Il trionfo di cure e sistemi psichici non dimostra affatto il torto della medicina scientifica, bensì solo di quel dogmatismo che si irrigidisce sul metodo terapeutico appena scoperto, considerandolo come universale e unico possibile, e deride gli altri come non moderni, non giusti e non possibili. Solo questa boria autoritaria ha sofferto un duro colpo. Attraverso i successi, ormai innegabili, dei metodi di cura psichici, è subentrato un salutare ripensamento proprio presso i leaders culturali della medicina.
Tra le loro fila è iniziato un leggero sospetto, ma già percepibile anche da parte di noi profani, che cioè la pura concezione batteriologica delle malattie abbia condotto la medicina in un vicolo cieco; che attraverso lo specialismo da una parte e il predominio del calcolo quantitativo al posto della diagnosi della personalità dall’altra, la terapia da servizio all’uomo abbia cominciato lentamente a mutarsi in qualcosa di fine a se stesso e estraneo all’uomo; che già — per ripetere una formula eccellente — ‘il medico è diventato troppo scienziato medico’.
Quello che oggi si chiama ‘crisi di coscienza della medicina’ non è una questione che riguarda solo un ristretto settore specialistico; è inclusa nel fenomeno globale dell’insicurezza europea, nel relativismo generale che, dopo decenni di pretese dittatoriali e rifiuti incondizionati in tutti i settori della scienza, insegna agli specialisti a voltarsi finalmente indietro e a interrogarsi” 5).
2. La prospettiva della “totalità”
Oggi abbiamo sempre più difficoltà ad accettare come esclusivo in medicina il punto di vista delle scienze della natura. Il ripensamento, che
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trascende l’ambito della medicina, è legato al superamento del positivismo. Inteso come rispetto dei fatti osservati, il positivismo costituisce una delle acquisizioni della storia moderna a cui non si può rinunciare. Ma l’uomo di scienza, legandosi ad esso, aveva creato situazioni parziali e tendenziose, illudendosi sulla professata obiettività impersonale dei fatti. Ciò si verificava soprattutto quando oggetto della scienza era l’uomo. Dapprima nelle scienze umane, e poi anche in quelle naturali, lo scienziato contemporaneo ha imparato che quelli che il positivismo considerava come “fatti” erano il prodotto delle nostre operazioni. Il metodo condiziona i risultati della ricerca. Una soggettività misconosciuta si insinuava perciò anche nelle osservazioni considerate più obiettive.
Per la medicina come scienza della natura superare il positivismo implicava la scoperta della illusoria obiettività dei “fatti” biologici, quali li isola la prospettiva dell’osservatore. Dal punto di vista del metodo, veniva rimessa in discussione l’autosufficienza dell’analisi. Per tornare dalla chimica all’uomo, era necessario recuperare la capacità di sintesi, la percezione della “totalità”, che è più della somma delle parti: la “totalità” è la persona umana nei suoi rapporti con il mondo. La nosologia frazionante è inevitabilmente un tradimento del vissuto.
La classificazione delle malattie sulla base degli organi colpiti, inventata dalla medicina come scienza della natura, è una grossolana approssimazione che ci prende nella trappola della sua semplicità. Nella prospettiva della “totalità” la malattia non solo è un fatto biologico-organico; essa traduce lo squilibrio della persona nel suo rapporto col mondo, includendo elementi psicologici, sociali ed ecologici.
Aprendosi alla preoccupazione della “totalità”, la medicina ritrova una continuità profonda con lo spirito originario della medicina scientifica occidentale. È il ceppo dell’ippocratismo che torna a germogliare. Il maestro, sotto il platano nell’isola di Cos, insegnava ai suoi discepoli a mettere in relazione diretta i fatti del microcosmo con quelli del macrocosmo. L’organismo era concepito come un’unità, in rapporto con l’ambiente naturale. Il medico non poteva studiare il singolo paziente senza considerare l’ambiente geografico, il clima e le stagioni. I dati ambientali condizionano l’igiene, l’alimentazione, le abitudini di vita.
Ambiente è anche la vita sociale, con i suoi riflessi sulle condizioni di lavoro, sulla vita familiare, sulla psicologia del singolo individuo. Sarà certamente diverso — scrive Ippocrate, raggiungendo una consapevolezza che per molti secoli la medicina non potrà più recuperare — un
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paziente schiavo da uno libero, un paziente che vive in una società democratica che uno che vive in una società monarchica, e così via. Nella medicina ippocratica a questa integrazione nell’ambiente andava connessa l’integrazione nella storia, sia sociale che individuale.
È la nozione di “anamnesi”, che restò poi fondamentale nella medicina. Bisognava ricostruire la storia del malato per comprendere — e per fargli comprendere, secondo una istanza costante dell’ippocratismo ― la serie di processi che stanno a monte della malattia attuale. L’anamnesi completa aveva anche una dimensione sociale: per fare la diagnosi del presente bisognava anche tracciare le linee essenziali dello svolgimento della civiltà 6.
Al recupero del punto di vista sintetico e globale nella medicina non si è giunti in un momento. Alcuni stimoli sono venuti dalla stessa medicina scientifica. Basterebbe pensare allo sviluppo dell’endocrinologia. La scoperta delle ghiandole a secrezione interna portò un contributo decisivo all’orientamento sintetico. Permise di capire le interrelazioni tra le differenti funzioni vegetative dell’organismo. Le ricerche attuali vanno indicando che la maggior parte delle funzioni delle ghiandole a secrezione interna è probabilmente soggetta, in ultima analisi, alla funzione dei centri più elevati dell’encefalo, vale a dire alla vita psichica. È un passo avanti decisivo verso l’integrazione.
Il merito principale della reazione alla concezione meccanicistica della malattia va attribuito a Freud ed al movimento psicoanalitico. Grazie alla sua opera, lo sviluppo analitico unilaterale della medicina nella seconda metà del XIX sec. ha subito una inversione di tendenza. L’organismo come unità è stato riportato al centro dell’interesse medico. La psicoanalisi, pur basandosi sullo studio preciso e particolareggiato (“analisi”, appunto), è un’attività scientifica rivolta alla sintesi, cioè allo sviluppo e alla funzione della personalità. Essa ci ha insegnato che per comprendere quella unità sintetica che noi chiamiamo corpo dobbiamo tener presenti i bisogni, consci ed inconsci, che l’individuo con la sua attività, normale o patologica, cerca di soddisfare.
Non si può perciò rendere conto della patologia limitandosi alle alterazioni cellulari rilevate dalla ricerca di laboratorio. Ai suoi inizi la
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psicoanalisi si dedicò a un problema di diagnosi pratica: l’espressione somatica delle nevrosi, e a un problema teorico: la psicogenesi di certe affezioni organiche. Freud stesso aveva escluso dalle sue preoccupazioni lo studio delle malattie psicosomatiche nel senso ampio del termine.
Ma la psicoanalisi ha aperto gli occhi, a chi voleva vedere, sul ruolo giocato dallo psichismo sulla genesi delle malattie organiche. La “conversione isterica” fu sempre più considerata più un caso particolare di un meccanismo più generale, piuttosto che il caso anomalo. Il medico non poteva più esimersi dall'attribuire ai conflitti emotivi un valore altrettanto reale e concreto di quello che spetta ai germi patogeni. Non si trattava solo di aggiungere un microscopio psicologico a quello ottico — né tanto meno di sostituire l’uno all’altro — ma di affrontare in modo nuovo la vita e la malattia del paziente, per arrivare ad una sintesi fra i processi fisiologici interni e le relazioni dell’individuo con il suo ambiente sociale. La malattia non è in se stessa né fisica né psichica: l’elemento fisico e quello psichico sono solo un prodotto del metodo col quale ci avviciniamo al malato, che è un’unità completa nella sua unità. È intuitivo quali conseguenze questa prospettiva possa avere nel pensiero teoretico e nella pratica della medicina. Si potrebbe addirittura ipotizzare qualcosa come una rifondazione della medicina a partire dal punto di vista antropologico della “totalità”. Di fatto però non è avvenuto così. È successo piuttosto che una nuova specializzazione è sorta accanto alle altre: la “psicosomatica”. Agli “specialisti” di questo settore — psichiatri, psicoanalisti o psicologi in genere — viene indirizzato il malato di fronte al quale il medico clinico si sente impotente. Quando non si riesce ad individuare un organo malato, o non si riscontra la base fisiopatologica della malattia, ci si ritiene autorizzati a credere che si tratti di una malattia “di testa”.
Malattie “funzionali”, per distinguerle da quelle “organiche”, le sole vere e proprie malattie. L’itinerario tipico per il paziente “psicosomatico” è quello che lo porta dal medico generico allo specialista, da uno specialista all’altro, e infine sul divano dello psicoanalista. Lo iato che separa la medicina organica — che possiamo chiamare “medicina della mano”, in quanto si riferisce alla materia che impressiona i sensi ― dalla medicina psichica — o “medicina della parola”, che si rapporta alle idee e al mondo dei significati — tende ad approfondirsi.
I due approcci della malattia, ambedue legittimi e parzialmente validi, non rispondono però al nostro bisogno di ritrovare una medicina
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capace di avvicinarsi al malato in una maniera globale, che non lo mutili nella sua esperienza concreta, che sia capace di far fronte terapeuticamente a quelle forme patologiche sempre più diffuse, in cui i confini tra somatico e psichico sono confusi e nella cui eziologia troviamo in modo prevalente il malessere della nostra civiltà.
3. Verso una medicina della persona
Abbiamo tracciato il profilo di un cammino che dalla concezione meccanicistica della malattia, passando per quella psicosomatica, conduce verso una prospettiva di “totalità”. L’interesse si sposta progressivamente dalle malattie all’uomo malato. La medicina come scienza di cause-effetti-terapia conosce solo quadri clinici che chiama “malattie”. Essa ha limiti evidenti. Ci pianta in asso quando il sintomo morboso non può essere ricondotto eziologicamente al sostrato corporeo; non spiega neppure il decorso delle malattie, anche organiche, diverso secondo le varie persone. Tutto il settore della soggettività rimane tagliato fuori dalla medicina orientata alle scienze della natura: perché l’uomo in una situazione per lui significativa reagisca con la malattia, e come la elabori personalmente.
Paradossalmente, è stato proprio il pensiero scientifico delle scienze della dimostrazione (o della natura) che ha ostacolato lo sviluppo di una scienza dell’uomo nell’ambito della medicina. Per rendere conto del modo specificatamente umano di essere malati è necessario fare riferimento a un’antropologia diversa da quella implicita nella medicina scientifica. Ciò implica una rottura con il naturalismo, che considera l’uomo come un essere vivente in tutto e per tutto simile agli altri e si attiene ad una neutralità metodologica nei confronti degli aspetti psichici, spirituali, storico-biografici e sociali dell’esistenza umana.
La medicina oggi ha bisogno di recuperare il suo oggetto, cioè l’uomo in quanto essere umano; ha bisogno dell’antropologia come scienza dello specifico umano. Non una “doctrina geminae naturae humanae” ― la doppia natura, corpo e anima —, come la proponeva la filosofia dell’Umanesimo. La definizione di “animai rationale”, che emerge dall’antichità, è opposta a quell’antropologia che tende al recupero dell’uomo “totale”. L’umanesimo razionalista, che servirà da modello
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culturale all’antropologia filosofica dell’Occidente finché non sarà sostituito dal razionalismo cristiano, si fonda sul “conosci te stesso” di Socrate. È la qualità razionale dell’uomo la “misura di tutte le cose”. Il concetto di antropologia che si è formato nei tempi moderni, a partire da Kant, è concreto, non filosofico-deduttivo. Kant, che riduceva tutta la metafisica al problema dell’uomo, distingueva due aspetti dell’antropologia: quella “fisiologica” — che considerava quello che la natura fa dell’uomo — e quella “pragmatica” — che riguarda ciò che l’uomo come essere libero fa, oppure può e deve fare di se stesso —. La classificazione in un certo senso è rimasta. Anche oggi il termine “antropologia” è usato in una duplice accezione. In quanto “antropologia fisica”, studia i caratteri biologici dell’uomo (l’uomo nella sua struttura somatica, nei suoi rapporti con l’ambiente, nelle sue classificazioni razziali, nel suo passato paleontologico). In quanto “antropologia culturale”, invece, considera l’uomo nelle caratteristiche che gli derivano dai suoi rapporti sociali.
L’uso anglosassone del termine “antropologia” è quello che offre un orizzonte meno limitante. Kluckhohn, in un libro classico, ne parla come della “comprehensive Science of man”. In questa accezione potrebbe diventare mediatrice tra le diverse scienze e ricoprire un ruolo di primo piano nell’integrazione delle scienze umane.
Per capire l’uomo non è sufficiente l’informazione che può venire dalla singola disciplina specializzata. Le scienze della natura e quelle storiche devono mettere in comune le loro conoscenze, perché l’individuo è anche il punto di arrivo dell’umanità collettiva, il frutto di un lungo passato. Secondo Kluckhohn, “una vera scienza dell’uomo deve comprendere le più varie capacità, interessi e conoscenze. Alcuni aspetti della psicologia, della medicina, della biologia, dell’economia, della sociologia e della geografia dovrebbero fondersi con l’antropologia allo scopo di dar vita a una scienza generale, che potrebbe ricorrere agli strumenti propri del metodo storico e statistico per ricavare dati sia dalla storia, sia dalle altre discipline umanistiche” 7.
Questa è l’antropologia di cui ha bisogno la medicina attuale, se vuol finalmente integrare quei fermenti che, fin dalle prime decadi del secolo, la sollecitano ad occuparsi dell'“uomo totale” (ecologia, olismo,
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medicina sociale, medicina antropologica). Riprenderà allora a vedere non solo la causa meccanica delle malattie, ma l’uomo che le porta (e che in qualche modo le “forma”), nel contesto concreto costituito dal suo mondo fisico, culturale e storico. L’orientamento ecologico e la prospettiva storica non tendono a minare le acquisizioni della medicina scientifica, ma ad integrare le gravi deprivazioni di cui la medicina stessa ha sofferto 8.
Il punto di vista della “totalità” nel linguaggio della tradizione cristiana è il primato della “persona”. Il concetto di persona rimase in generale precluso all’antichità. La filosofia greca per determinare la natura e la posizione dell’uomo ha fatto ricorso a due assi: uno forma lo spirito (cioè l’universale, l’assoluto, il trascendente), l’altro è rappresentato dall’ente materiale (che individualizza l’universale dello spirito racchiudendolo nella realtà corporea, dalla quale lo spirito si libera di nuovo nella morte). È il fondamento del dualismo, così caratteristico del pensiero classico.
Il concetto cristiano di “persona” si è sviluppato sullo sfondo della esperienza religiosa dell’alleanza tra Dio e l’uomo. La storia della salvezza è stata vissuta dalla comunità credente non come una serie di eventi che l’umanità abbia subito in modo inerte, bensì come un impegno sviluppantesi nel tempo, con cui l’uomo risponde all’appello di Dio; essa implicava perciò l’accettazione o il rifiuto di un ruolo, l’aprirsi o il chiudersi alla comunione. In quanto persona, l’uomo è un essere conscio di sé, che dispone di se stesso e si costruisce progressivamente, prendendo posizione con opzioni libere. La categoria di “persona” evidenza dell’uomo la storicità, la libertà, la particolare posizione nel cosmo, la socialità.
L’antropologia cristiana, proponendo una medicina della persona, non pretende di sostituire semplicemente una prassi medica con un’altra. La medicina della persona non è neppure, in ultima analisi, una medicina, bensì uno spirito in cui la medicina deve essere praticata. Include la tecnica, pur non limitandosi ad essa; presuppone l’apertura alla conoscenza antropologica moderna, ma non vi si identifica. Essa porta nella prospettiva della “totalità” un punto di vista più ampio, che colloca l’uomo nell’ascolto di una chiamata. L’avventura della salute, acquistando il carattere di un’opzione totale, viene così a trovarsi sulla linea della conversione religiosa.
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ANTROPOLOGIA CRISTIANA PER UN’ETICA DELLA SALUTE
Diogene il “Cinico” andava in giro con la lanterna in pieno giorno dicendo di cercar l’uomo. Non era un filosofo in senso classico, ma piuttosto un contestatore dei filosofi di professione. “Socrate impazzito”, lo chiamava Platone. I bravi filosofi di cittadinanza greca erano convinti di aver già trovato l’uomo; su di lui, “misura di tutte le cose”, costruivano il loro sapere. Appunto con parola greca l’esposizione sistematica delle conoscenze che si hanno attorno all’uomo continua a chiamarsi “antropologia”.
I cristiani hanno una concezione dell’uomo coerente con la loro fede e la loro speranza. L’antropologia cristiana ha tuttavia uno statuto particolare, che non la rende omologa alle altre antropologie filosofiche, passate o contemporanee. Essa non ha infatti il carattere di un sapere ottenuto con la riflessione: è una rivelazione connessa con l’“universale concreto” costituito dall’esistenza storica di Gesù di Nazareth. È di carattere simbolico, se per simbolo intendiamo una mediazione tra la parola (logos) e la prassi.
L’antropologia cristiana non è un sapere occulto, da iniziati, né la struttura dottrinale di un sistema ideologico. Cristo è il “poema”, detto ― o piuttosto “fatto”: la poesia affonda le sue radici etimologiche nel poiein greco, che è il “fare” — una volta per tutte. L’antropologia cristiana è l’esegesi di quel poema. Il poema stesso resta però più ricco di qualsiasi commento, mai totalmente riducibile alla saggezza di qualsivoglia chiosatore. Ogni sistematizzazione di antropologia cristiana ha perciò una funzione contingente rispetto a Cristo, “uomo nuovo”, e su di lui dovrà misurarsi.
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La comunità che segue le orme del Cristo continua ad annunciare, con parole e gesti di salvezza, il progetto di Dio sull’uomo. Oggi il suo “logos” sull’uomo ha maturato accentuazioni diverse che nel passato. Riferita ai problemi della salute la visione cristiana dell’uomo si rivela portatrice di fermenti e intuizioni ricche di promesse.
1. Rinnovamento dell’antropologia cristiana
La fede cristiana predica un Dio il cui segreto è costituito da un “progetto-uomo”. Dalla sua rivelazione deriva un’“antropologia” e una “sociologia”, vale a dire un’idea di uomo e di società conformi al progetto. Dimmi chi è il tuo Dio — si potrebbe dire ai credenti — e ti dirò qual è la società che costruisci, e per quale uomo.
Fino a un passato molto recente la chiesa cattolica ha elaborato il suo sapere sull’uomo in dipendenza dal Vangelo, ma in antitesi alle moderne antropologie 9. Sciolto l’abbraccio stretto in epoca di cristianità, la chiesa e il mondo moderno hanno cominciato ad esistere estranei l’uno all’altra. Hanno brandito come un’arma la reciproca autonomia, tanto sul piano pratico che su quello dottrinale, utilizzandola a scopi polemici. Nei trattati tradizionali di teologia il pensiero dei fondatori delle moderne concezioni antropologiche — da Marx a Sartre, da Feuerbach a Freud — viene citato sotto la voce “Adversarii”; lo si riporta solo per confutarlo e sottolineare la distanza incolmabile che lo separa dall’antropologia cristiana.
Il distanziamento dalle antropologie della nostra epoca era funzionale alla prassi dei rapporti chiesa-mondo. Finché la chiesa continuò a vagheggiare come ideale di questo rapporto la situazione di cristianità e a nutrire nostalgie restaurative, era impossibile qualsiasi incontro con concezioni dell’uomo diverse da quelle che avevano preso forma nella teologia scolastica. E le differenze ideologiche, a loro volta, servivano a giustificare e rafforzare la prassi della reciproca estraneità.
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Il grande rinnovamento del Concilio Vaticano II ha il suo baricentro non in un aggiornamento dottrinale, bensì nel diverso modo scelto dalla chiesa di rapportarsi al mondo 10. I cristiani hanno riscoperto che la vita e l’insegnamento di Gesù li sfida a uscire dal salotto buono che si erano scelti a dimora, per muovere in direzione del mondo, accettato come “altro” rispetto alla chiesa. Si sentono chiamati a rinunziare alle sicurezze del sistema ideologico-dottrinale in cui si erano chiusi, per riacquistare così un tratto dello spirito d’infanzia: la temerarietà del bambino che non è mai così sicuro come nel pericolo.
La trasformazione dei rapporti della chiesa col mondo contemporaneo — tematizzata dalla costituzione pastorale Gaudium et spes — ha un’incidenza decisiva sul rinnovamento dell’antropologia cristiana. Questa non appare più come un sistema chiuso da contrapporre ad altri. Se il suo punto di riferimento costitutivo resta Cristo, primo uomo della nuova creazione, quale lo testimonia la sacra Scrittura e lo trasmette la tradizione vivente della comunità cristiana, l’antropologia cristiana non ignora tuttavia la crisi spirituale dell’uomo, diventato enigma a se stesso. I credenti non vivono nell’isola dei beati, al riparo dalle tempeste; sono anch’essi investiti della crisi di un ordine metafisico assoluto, che è caratteristica dell’autocomprensione dell’uomo moderno.
Il concilio non ha indotto la chiesa, in nome di un malinteso dialogo, a indossare il manto del filosofo e a parlare come maestra di una saggezza umana. La chiesa conciliare si è presentata nel mondo come chiesa, nella consapevolezza che ciò che la costituisce tale non è né un’ideologia unica, né una prassi omogenea di tutti i suoi membri, bensì la fede comune in Gesù Cristo. Da questa fede la chiesa attinge ciò che può illuminare il mistero dell’uomo (“Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione”: G.S., 22).
Avendo scelto come suo terreno di competenza quello della salvezza escatologica, la Chiesa può condividere sinceramente la fatica di autocomprensione dell’uomo contemporaneo, senza rinunciare alle proprie
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certezze di fede e al gioioso annuncio di esse. Questa svolta nell’atteggiamento di fondo nei confronti del mondo moderno e dei suoi tentativi di capire l’uomo è chiaramente leggibile nel paragrafo della Gaudium et Spes che introduce la parte del documento che può essere considerata un sunto di antropologia cristiana:
Credenti e non credenti sono pressoché concordi nel ritenere che tutto quanto esiste sulla terra debba essere riferito all’uomo come a suo centro e vertice. Ma che cos’è l’uomo? molte opinioni egli ha espresso ed esprime sul suo conto, opinioni varie ed anche contrarie, perché spesso o si esalta così da fare di sé una regola assoluta, o si abbassa fino alla disperazione, finendo in tal modo nel dubbio e nell’angoscia. Queste difficoltà la Chiesa le sente profondamente e ad esse può dare una risposta che le viene dall’insegnamento della divina rivelazione, risposta che descrive la vera condizione dell’uomo, dà una ragione delle sue miserie, e insieme aiuta a riconoscere giustamente la sua dignità e vocazione” (G.S., 12).
L’antropologia cristiana non è dunque un letto di contenzione, in cui debba essere legato quel pazzo furente dell’uomo moderno. Certo, essa è critica nei confronti di ogni progetto antropologico e sociale riduttivo. Tutte le sue ideologie, infatti, usano in qualche maniera i famigerati metodi di Procuste. Il mitico antropologo aveva una sua ideale misura d’uomo e pretendeva che tutti quelli in cui s’imbatteva vi corrispondessero; perciò segava i più lunghi e stirava i più corti! Un’ideologia taglia via all’uomo la dimensione spirituale e un’altra assolutizza la sua storicità. La fede cristiana, indirizzando verso il Cristo, protesta contro tutte le mutilazioni e deformazioni antropologiche.
Tuttavia l’atteggiamento fondamentale del credente in Cristo nei confronti dei vari tentativi di comprendere e di modificare la situazione dell’uomo nel mondo non è la diffidenza o la polemica. L’antropologia cristiana può, senza tradire se stessa, assimilare gli elementi essenziali che strutturano la moderna autocomprensione dell’uomo. Li ritroviamo infatti nell’insegnamento antropologico del Vaticano II, in particolare nel già citato documento sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Ci limitiamo qui a evocare in maniera schematica, quasi per tratti stenografici, le coordinate essenziali di tale disegno antropologico. La chiave di
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volta della concezione cristiana dell’uomo è la categoria di persona. In quanto persona, l’uomo è un essere conscio di sé, che dispone di sé stesso e si costruisce progressivamente, prendendo posizione con opzioni libere.
Secondo l’antropologia cristiana l’uomo si costituisce persona quando si apre all’altro essere umano; ma soprattutto grazie al dialogo con Dio. La nozione di persona libera e dialogante nasce nel cristianesimo in dipendenza dall'esperienza della storia della salvezza. Questa non è una serie di eventi che l’umanità subisca come un soggetto inerte, bensì lo sviluppo dell’impegno con cui l’uomo risponde all’appello di Dio; essa implica perciò l’accettazione o il rifiuto di un ruolo, l’aprirsi o il chiudersi alla comunione.
In secondo luogo, l’uomo nella visione cristiana si realizza come tale sviluppando la dimensione sociale-comunitaria. La storia della salvezza tende verso una meta di unità di tutti gli uomini. Il compito fondamentale delle comunità cristiane nel mondo si qualifica come creazione di luoghi di incontro e di reciprocità, così da essere per tutti gli uomini un’indicazione di esistenza.
Infine, come terza dimensione dell’antropologia cristiana, accenniamo alla storicità. Anche la teologia partecipa all’orientamento attuale di tutte le antropologie di riflettere sull’uomo sotto il profilo del divenire. A ciò che le altre conoscenze antropologiche sanno sul divenire umano la fede cristiana aggiunge il senso ultimo di questo divenire; la salvezza. Più che qualsiasi altra antropologia, quella cristiana può puntare sul futuro, dal momento che la storia ha preso un’accelerazione escatologica. La nostra identità sta davanti a noi, nel nostro futuro, non alle nostre spalle, perché Gesù Cristo è l’uomo del futuro assoluto: “Fin d’ora siamo figli di Dio; e ciò che noi saremo non è stato ancora manifestato. Ma sappiamo che quando ciò sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è” (Giov. 3,2).
2. Il cristiano e la vita corporale
L’antropologia cristiana proposta dal Concilio non si pone in rottura con la comprensione dell’uomo tradizionalmente propria del cristianesimo. Essa è piuttosto un tentativo di ricomporre il messaggio di Gesù in
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dialogo con le concezioni antropologiche moderne, in un interscambio che comporta una reciproca fecondazione. La visione cristiana dell’uomo ha una sua incidenza ovunque sia in gioco l’umanità dell’uomo. Limitiamo qui il nostro interesse all’impatto dell’antropologia cristiana sui problemi della salute.
Un primo nodo è costituito dal significato e valore del corpo per il cristiano. La sensibilità generale attribuisce oggi una singolare importanza alla vita corporale. Questa concezione implica il rifiuto di quel dualismo tradizionale che contrappone la vita del corpo a quella dell’anima. Nell’opinione comune tale rappresentazione dell’uomo è considerata tipica del cristianesimo, tanto che anche i più informati saranno sorpresi scorrendo gli studi degli esegeti dai quali risulta che questo dualismo è in realtà estraneo alla Bibbia 11.
La mentalità ebraica fa ricorso alla coppia di concetti dialettici “carne” e “spirito”, senza tuttavia contrapporli come due principi autonomi. Come il termine “carne” può indicare l’uomo intero, così anche “spirito” può significare il vivente concreto. “Carne” mette in risalto l’aspetto della caducità e della precarietà dell’uomo, mentre lo “spirito” ne sottolinea l’elemento vitale. Ovvero, in termini morali: la situazione dell’uomo abbandonato al proprio egoismo e al peccato, e quella dell’uomo sotto la mozione dello Spirito di Dio.
Il dualismo che vede nel corpo la pura materialità e nell’anima il principio spirituale eterno è in realtà di origine platonica. Grazie agli asceti — più che ai teologi, ispirati dall’ilemorfismo aristotelico-tomista —, è passato in tutta una tradizione cristiana, tanto da essere volgarmente identificato col cristianesimo stesso. In polemica con lo spiritualismo dualista il pensiero moderno ha voluto ritrovare l’unità dell’uomo reale. Di qui l’importanza attribuita oggi alla fenomenologia del corpo. I! soggetto umano — la persona — si apre al mondo per il tramite del corpo. La corporeità, come momento essenziale del soggetto, è la mediazione che rende il soggetto spirituale presente al mondo oggettivo e alla soggettività delle altre persone umane 12.
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La svolta antropologica che ha attribuito al corpo il posto centrale nella concezione dell’uomo ha avuto degli esiti negativi, se considerati con sensibilità cristiana. Il più sovente essa ha condotto a un crasso materialismo, che si è espresso nella priorità data alla vita vegetativa e sensitiva, nel consumismo, nell’idolatria del corpo. Un seguito ancor più fatale è stato l’imprigionamento dell’uomo in un orizzonte immanentistico. L’incapacità di considerare altre forme di esistenza oltre quella corporea porta ad aggrapparsi in modo ansioso alla vita.
Possiamo ancora sorridere di fronte alle misure cautelative dei ricchi americani che fanno congelare il proprio corpo in attesa di essere riportati in vita da futuri miracoli della medicina; dobbiamo invece seriamente preoccuparci quando consideriamo i danni psicologici causati dalla rimozione delle immagini della morte. Secondo alcuni psicologi questa rimozione sarebbe all’origine di diffusi comportamenti nevrotici 13.
La rivalutazione del corpo da parte delle antropologie moderne non ha mancato di suscitare una certa ostilità da parte cristiana, specialmente in considerazione delle riduzioni antropologiche cui ha dato luogo. È possibile tuttavia considerare questo dato antropologico come un elemento legittimo della visione cristiana dell’uomo, consono all’antropologia biblica. La sua prima funzione può essere quella di correggere deformazioni occasionalmente infiltratesi nella dottrina e nella prassi cristiane.
Il cristianesimo ha amato sottolineare la relatività nel tempo dell’esistenza umana in quanto esistenza terrena, caduca e precaria come il corpo dell’uomo. Di conseguenza la vita del corpo ha subito una certa svalutazione. Un certo pessimismo di tipo ascetico si è risolto anch’esso in un sospetto pregiudiziale nei confronti del corpo. In alcune correnti spirituali questa svalutazione è degenerata in un vero e proprio disprezzo del corpo e delle sue attività, in particolare della sessualità. La dottrina ufficiale ha sempre condannato gli estremismi (come l’automutilazione
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di Origene); in pratica però la diffidenza nei confronti del corpo è stato l’atteggiamento prevalente nel cristianesimo.
Oggi lo sbilanciamento spiritualista può essere riequilibrato grazie alle categorie personaliste. La considerazione di cui ha sempre goduto lo spirito umano si riflette sul corpo, che non è la prigione dell’anima, bensi la persona nella sua condizione mondana. Il corpo partecipa quindi della sacralità riconosciuta alla persona umana, che per il cristiano è “immagine di Dio”.
Il frutto più vistoso di questa rivalutazione dell’uomo nella sua condizione corporea è la crescita del rispetto per la vita 14. Troppo spesso in passato, anche in regime di cristianità e in culture informate da principi cristiani, la vita fisica è stata vilipesa. Basti pensare alla tortura giudiziaria, alle mutilazioni inflitte come castigo, alla stessa pena di morte.
Nel campo dell’ascetica cristiana è stata favorita una spiritualità della malattia di tipo dolorista. Si è parlato della malattia come di uno stato particolare che favorisce la purificazione dell’anima, l’espiazione delle colpe, l’acquisizione dei meriti. In alcuni casi estremi si è giunti a parlare di una “vocazione alla malattia”, o addirittura del “privilegio” di essere malati.
Un’antropologia più equilibrata insegna oggi al cristiano a navigare tra i due scogli del disprezzo della vita corporea e della sua assolutizzazione materialista. La vita terrena non è solo una tappa contingente nel cammino verso l’aldilà; essa è un dono di Dio di cui l’uomo ha la gestione.
È tradizionale nel comune linguaggio religioso parlare della vita come dono di Dio. L’espressione è impiegata per lo più in modo restrittivo. Qualificando la vita come dono si intende affermare che Dio ne è padrone e solo lui può riprendersela: l’uomo non può disporre arbitrariamente della propria vita. All’espressione può essere attribuito un senso molto più ampio.
Il dono della vita acquista tutto il suo valore quando lo consideriamo nel contesto di quella che K. Barth chiama “l’etica dell’obbedienza” 15. Nell’esistenza umana come tale è implicito il comandamento di vivere. Dio creatore ordina all’uomo di onorare la vita — la propria come
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quella degli altri uomini — come un bene che viene da lui. Approvando la vita, volendola, l’uomo obbedisce a Dio.
Volere la vita equivale alla volontà di essere in salute. La salute di cui qui è questione non si riduce a quell’equilibrio organico e al connesso senso di pienezza e benessere che sono talvolta oggetto di un culto quasi idolatrico. L’igienismo è una caricatura della salute in senso antropologico. Se la salute coincide con la forza di essere uomo, il malato, anche gravemente colpito, può voler essere in salute, senza per questo farsi illusione sul proprio stato. Voler la salute significa voler essere uomo sino alla fine (appare qui la possibilità di fondare su questo diritto della persona la limitazione delle terapie di rianimazione, quando queste si risolvessero in un accanimento terapeutico che espropria l’uomo della dignità nel morire).
Su questa concezione della salute si fonda quella che K. Barth chiama “la regola fondamentale dell’etica della malattia”: “esigere che il paziente si riferisca continuamente, come tutti quelli che l’accostano, non alla sua malattia, ma alla sua salute e alla sua volontà di ritrovarla”.
In una società che ha perduto il senso del sacro, questo principio etico ci sembra difendere la densità religiosa del fatto stesso di vivere meglio di quanto possa fare un richiamo formale al “carattere sacro” della vita.
L’opzione cristiana per la vita, intesa come volontà e forza di essere uomo, ha anche una dimensione sociale. Al vecchio principio: “Mens sana in corpore sano” bisogna aggiungere: “in societate sana”. Abbiamo preso coscienza infatti che bisogna promuovere non solo tutto l’uomo, ma anche tutti gli uomini, se non vogliamo cadere in una raffinata barbarie. Tutta la medicina sociale e preventiva trova perciò la più ampia approvazione da parte dell’antropologia cristiana. I cristiani possono con tranquilla coscienza far proprio il partito preso per la salute e la vita. Esso non è una filiazione dello spirito pagano, bensì la comprensione più adeguata, con il contributo della moderna antropologia, di che cosa comporta la sequela di Colui che “passò facendo del bene e guarendo” (cfr. Atti 10,38).
3. Comunità cristiana e socializzazione del malato
Le attività assistenziali sono di casa nella chiesa, sembrano addirittura nate con la comunità cristiana stessa.
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Nella comprensione teologica che la chiesa ha di sé stessa i gesti di amore e di servizio verso infermi, poveri ed emarginati (“diakonia”) hanno un significato che trascende quello della filantropia in senso umanistico: fanno parte essi stessi della “leiturgia”, vale a dire del servizio divino, ed hanno quindi un significato sacramentale. Un teologo ha potuto stabilire un felice parallelo tra la “comunione” mediante il bicchiere d’acqua fresca offerto all’assetato e la comunione eucaristica mediante la coppa di benedizione: “Si tratta di due sacramenti intimamente connessi e in ultima analisi inseparabili, perché derivano dallo stesso Signore incarnato. La comunione con Dio nella mano che tocca il lebbroso costituisce una sola cosa con la comunione con Dio nella mano che spezza il pane nel cenacolo” 16.
Soltanto i credenti, evidentemente, possono riconoscere nell’attività caritativa una dimensione salvifico-sacramentale. Tuttavia la chiesa nel suo aspetto sociale ha una rilevanza per tutti coloro che, prescindendo da una fede religiosa, considerano i legami comunitari come parte integrante di un trattamento terapeutico globale.
Dal punto di vista sociologico, le comunità a carattere religioso offrono tutti i vantaggi dei piccoli gruppi. Le relazioni interpersonali diventano desiderabili e possibili; il singolo si sente conosciuto, accettato e valorizzato; il sostegno reciproco porta ad assumere i pesi gli uni degli altri, senza che nessuno se ne senta umiliato. Questo tipo di rapporto umano costituisce l’auspicabile premessa per soluzioni creative ai problemi crescenti originati dal progresso della medicina e da una politica sanitaria più efficace.
Le tante vite fragili che la medicina riesce a strappare alla morte, senza tuttavia poter garantire loro quanto è necessario per una completa autonomia; l’aumento della durata media della vita, con una popolazione anziana sempre più longeva; la specializzazione dei servizi sanitari, sempre più efficaci ma sempre più impersonali: altrettanti problemi gravi ai quali ci troviamo improvvisamente affrontati. Le capacità umane non valorizzate e i bisogni non soddisfatti costituiscono una fonte di squilibrio e degradano la qualità umana della vita. La società intera è sfidata a trovare soluzioni che non sappiano di mattatoio.
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Anche agli occhi dell’agnostico la chiesa può giocare qui un ruolo prezioso. Essa si propone come scopo intramondano la creazione della “comunità locale” 17. In essa la profondità dei rapporti interpersonali fa aumentare il livello di responsabilità comunitaria nei confronti dei malati, invalidi, disadattati. Non è necessario condividere la fede religiosa che fonda la comunità cristiana per avvertire gli effetti benefici dei legami comunitari. Con la sua capacità di integrazione la comunità credente è dotata di una singolare forza terapeutica.
La situazione contemporanea è matura per una ristrutturazione del rapporto tra la medicina e la chiesa. Fino a un passato molto recente l’atteggiamento dominante negli ambienti medici era quello dell’agnosticismo e della diffidenza. Non bisogna dimenticare infatti che il diritto-dovere dello stato moderno di provvedere alla salute dei cittadini è stato conquistato contro l’opposizione spesso esplicita della chiesa.
Per un seguito di vicende storiche, alla chiesa era stata affidata la supplenza nei compiti assistenziali. La laicizzazione degli ospedali ha costituito il momento saliente del processo che ha portato gli stati moderni a prendere direttamente a carico la salute dei cittadini. Gli ospedali da istituzioni di assistenza sono diventati gli strumenti essenziali di una politica della salute a beneficio della popolazione nel suo insieme. Questo movimento di laicizzazione non è avvenuto senza traumi.
Per altro verso, assistiamo oggi a una maggiore attenzione da parte della medicina all’uomo come entità psico-fisico-sociale. Questo approccio olistico porta a valorizzare dal punto di vista terapeutico anche gli aspetti non propriamente medici, ma dai quali la medicina non può prescindere se vuol veramente promuovere lo “stato di completo benessere fisico e morale” dei cittadini, secondo la definizione di “salute” adottata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. La vita spirituale dell’uomo, specialmente se inserita in un contesto comunitario, è un elemento importantissimo di questa terapia globale.
Una mentalità meno settaria considera oggi con più benevolenza l’azione che può svolgere la chiesa. Ciò non significa che si auspichi il ritorno ad atteggiamenti e situazioni del passato. In particolare, è acquisito
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sito in maniera ormai definitiva che l’attività assistenziale è fondata sul diritto dell’individuo in quanto persona umana, più che sulla benevolenza di alcuni, magari ispirati da motivi di carità cristiana.
Al tempo della rivoluzione francese questa nuova concezione dell’assistenza era stata tradotta in testi legislativi. La costituzione del 1793 diceva in merito: “I soccorsi pubblici sono un debito sacro. La società deve la sussistenza ai cittadini infelici sia procurando loro il lavoro, sia assicurando i mezzi di esistenza a coloro che non sono in grado di lavorare”. La legislazione rivoluzionaria ha incontrato l’opposizione dichiarata degli ambienti religiosi. Essi temevano che in tal modo venisse proscritta la carità, secondo lo spirito di Voltaire che bollava questa parola come “infame”.
Le istituzioni di previdenza sociale del nostro tempo sono il prodotto più del liberalismo e della rivoluzione industriale che dello spirito dei filosofi illuminati. La rivendicazione dell’assistenza pubblica da parte dello stato non si fonda più su un’ideologia anticristiana. Ciò permette alla chiesa di accettare la secolarizzazione dell’assistenza senza vedervi un attentato alla propria esistenza. Si tratta, in fondo, della coerente applicazione del principio della legittima autonomia delle realtà terrene stabilito dalla Gaudium et Spes (n. 36).
Quando la chiesa accetta cordialmente e illuminatamente di ridefinire il rapporto delle sue iniziative caritative con l’attività sanitaria dello stato, scopre che le si offrono altri compiti. Essa non è chiamata a creare istituzioni parallele e competitive con quelle dello stato, bensì a incrementare la dimensione comunitaria che costituisce la sua specificità.
L’ideologia soggiacente al diritto all’assistenza di stampo illuminista era quella del Contratto sociale di Rosseau: la società, a vantaggio della quale l’individuo ha alienato una parte della sua libertà, deve in cambio farlo beneficiare di un’organizzazione senza difetti.
La comunità cristiana attinge invece dalla sua antropologia l’ispirazione per un’attività il cui perno sia costituito dalla promozione della persona umana, in quanto voluta da Dio nella sua irripetibile unicità e scelta dal Cristo a rappresentarlo (“Qualunque cosa avrete fatto al più piccolo...”). Perché questa persona possa realizzarsi ha bisogno del sostegno della comunità: della grande comunità sociale che le assicuri quanto è necessario per sopperire ai bisogni, e della piccola comunità fraterna in cui l’individuo viva la propria unicità nella reciprocità, sentendosi conosciuto e riconosciuto. Soprattutto in questo settore l’azione della comunità cristiana ha possibilità d’intervento peculiari.
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La socializzazione delle risorse e dei bisogni è promossa oggi con vigore dalle correnti politiche di ispirazioni socialista. I cristiani riconoscono nella socializzazione un valore che specifica la loro concezione antropologica. Il gruppo dei credenti della prima ora, secondo la testimonianza degli Atti degli Apostoli, viveva la koinonia, un rapporto cioè che includeva la comunione dei beni, senza ridursi ad essa: “La moltitudine dei credenti non aveva che un cuore solo e un’anima sola. Nessuno diceva suo ciò che gli apparteneva, ma tra loro tutto era in comune” (Atti 4,32). Avere tutte le cose in comune, compresa la malattia, l’handicap, le carenze psico-fisiche: ecco il principio costitutivo della comunità cristiana.
Il riferimento allo spirito che l’animò alle origini deve indurre la comunità cristiana a esercitare un’autocritica e a ristrutturare ciò che, allo stato attuale della coscienza sociale, si rivela inadeguato. In questo senso devono essere sottoposte ad un serio ripensamento le opere sorte al fine di accogliere coloro che la società rifiutava come inutili. Evidentemente non si tratta di screditare opere coraggiose, come il Cottolengo o gli istituti di Don Guanella; né tanto meno di mettere in dubbio l’incredibile abnegazione delle persone che le hanno create e le mantengono in vita.
Tuttavia non si può negare che per lo più tali istituzioni si rivelano carenti quando le si consideri dal punto di vista della socializzazione di coloro che ospitano. Questo tipo di istituzioni ha costituito un’attività che può essere brutalmente qualificata come “raccolta dei rifiuti”. Mediante ospizi e asili gestiti da personale religioso la società si toglieva da davanti agli occhi la presenza fastidiosa dei superflui e dagli abnormi. Questi ospizi obbedivano alla stessa logica che ha creato i manicomi e gli istituti-lager.
Le opere della chiesa hanno raccolto con amore i rifiuti umani della società, la quale distoglie lo sguardo da ciò che butta via. Il motivo religioso che spingeva a questo gesto era la volontà di valorizzare ogni forma di sofferenza, considerata come continuazione mistica della passione redentrice del Cristo. È questa spiritualità che ha suggerito di mettere in ogni sala del Cottolengo un altare, su cui è idealmente offerto come vittima innocente l’handicappato.
Questa spiritualità della malattia lascia perplessi. Ma soprattutto ci fa problema l’isolamento sociale dell’ospite di tali asili. Questi tendono a diventare ghetti, ermeticamente chiusi all’esterno. La situazione è rispecchiata dal film “Matti da slegare”, un documentario che vuol illustrare
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le alternative che l’amministrazione provinciale di Parma si sforza di creare all’emarginazione sociale 18. Gli intervistatori bussano alla porta di vari ospizi e istituti della città gestiti da religiose, ma si trovano ripetutamente di fronte ad un muro impenetrabile di diffidenza: non vengono neppure lasciati entrare. Con scoperta intenzione polemica vengono contrapposti due atteggiamenti che sottendono concezioni diverse dell’assistenza: da una parte, quello dell’amministrazione civica, che cerca di reinserire i reclusi nel tessuto sociale, rendendo tutta la popolazione cosciente e responsabile 19; dall’altra, quello delle istituzioni religiose, che concepiscono il servizio ai più sfortunati come un momento privilegiato della carità cristiana, ma fatto in un aristocratico isolamento spirituale e in soluzioni assistenziali di isolamento dal resto della comunità civile.
Bisogna avere il coraggio di aprire gli occhi su queste disfunzioni. Riconoscere l’inadeguatezza di certe impostazioni dell’assistenza rispetto alle esigenze di socializzazione non significa autodenigrarsi. Vuol dire piuttosto accettare la possibilità di una crescita qualitativa nel servizio che la comunità cristiana rende a coloro la cui pienezza vitale è minacciata. Il rifiuto dell’emarginazione non è solo un’esigenza mutuata dalla cultura contemporanea. Esso corrisponde alla più profonda ispirazione dell’antropologia cristiana, che vede l’uomo realizzato solo in seno a una comunità che garantisca a ognuno la propria dignità umana.
Alle emarginazioni di ogni tipo — da quelle cui sono costretti gli handicappati fisici o mentali a quelle che colpiscono gli anziani — la comunità cristiana è sfidata a trovare una risposta originale, che non rafforzi le esclusioni già esistenti. Mentre il rigetto sociale dei “diversi” e degli “inutili” rimane ancora patente nel comportamento collettivo e privato, la comunità cristiana può costituire un’istanza di integrazione effettiva delle esistenze umane più precarie.
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A tal fine dovrà evitare però quella forma più raffinata di emarginazione che consiste nel mettere qualcuno sull’altare. Sull’altare della croce ci si è messo Gesù Cristo, per tutti e una volta per sempre, affinché i suoi discepoli diventassero una comunità capace di accogliere ognuno sulla base dell’uguaglianza fraterna. Quando la socializzazione sarà effettiva le affermazioni di principio, spesso ripetute e sempre meno ascoltate, che “la vita è sacra”, saranno accompagnate dalla dimostrazione che la vita può essere “santificata”.
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VICTOR VON WEIZSÄCKER:
UN MODELLO DI MEDICINA ANTROPOLOGICA
Possiamo rivivere, attraverso il ricordo di uno dei due protagonisti, un incontro avvenuto nel 1926. Luogo: Vienna, Berggasse 19, un mezzanino non ancora trasformato in museo, abitazione privata e studio di un medico già famoso. Dramatis personae: Sigmund Freud, fondatore della psicoanalisi e leader indiscusso — qualcuno dice anche autoritario — del movimento psicoanalitico; Viktor von Weizsäcker, di trent’anni più giovane, docente di neurologia ad Heidelberg. Racconta v. W. nelle sue memorie: “Ho preso io l’iniziativa della visita. Desideravo ringraziare quest’uomo perché attraverso il suo aiuto mi si è spalancata una nuova dimensione nella professione medica, e la mia attività professionale, che minacciava di essere rigida e arida, ha ricevuto un’infusione di vita. Mi riferisco all’apertura alla dimensione psichica del fenomeno vivente. Un passo nient’affatto ovvio, che ha significato anche l’intervento in un ambito privato, personale e vulnerabile, il quale avrebbe fatto tutta la resistenza possibile, anzi si sarebbe vendicato per l’intrusione non desiderata. La medicina di scuola non forniva criteri per stabilire i modi e i limiti di un tale modo di procedere. Si giungeva invece a posizioni di conflitto con autorità come la chiesa, la filosofia o la società. Questo contesto rende comprensibile quel che mi è rimasto nel ricordo di quel colloquio. Ho spiegato a Freud che non mi sono mai sottoposto personalmente a un’analisi. Non l’ha presa in modo tragico. Gli ho detto che quel po’ di nevrosi che certamente avevo anch’io, potevo anche tenermela. Rispose che non è assolutamente necessario analizzare ogni caso; a molte persone fa bene frequentare un uomo significativo; si sa anche che alcune nevrosi si guariscono attraverso una grande felicità o infelicità. Il medico
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però non le ha a disposizione, per cui deve scegliere un’altra strada.
Si passò poi a parlare di quanto siano ampi i campi di applicazione. Freud riteneva che per la psicoanalisi ci sarebbe stato materiale ancora per una cinquantina d’anni. Ricordò, per esempio, la psicologia delle tribù matriarcali in Africa, presso le quali il complesso di Edipo si rivolge, invece che contro il padre, contro il fratello della madre, perché è questo che rappresenta l’autorità della famiglia. Alla mia domanda sul conflitto con le autorità vincolanti, in particolare con la religione cattolica, mi sembra che Freud abbia dato una risposta evasiva. Disse infatti: “Noi (cioè gli psicoanalisti) crediamo sempre di aver trovato la strada per rispettare e risparmiare questi ambiti nel malato”. Il futuro di un’illusione di Freud è apparso solo alcuni anni più tardi, e io non posso credere che le sue idee sul carattere nevrotico e illusorio della religione non si fossero ancora formate. Anche alcuni tentativi epistolari da parte mia di indurlo a parlare di questo argomento non ebbero alcun successo. Invece per un’altra strada ho potuto portarlo là dove si trovava di fronte a problemi che altrimenti teneva nascosti, e forse a dubbi insuperabili. Gli ho domandato, cioè, se la psicoanalisi sia un processo terminabile o interminabile. Dopo una pausa, disse con esitazione e a bassa voce: “Interminabile, credo”. Con ciò si diceva certamente di più, che con quell’affermazione discutibile secondo cui si poteva sempre aver riguardo della religione degli analizzandi. Mi sembra che nella risposta sia contenuto che la psicoanalisi va oltre la vita temporale della psiche. Ma questo lo fa anche la religione, e allora non si può più sfuggire alla questione se la psicoanalisi non abbia preso il posto della religione. Freud però non fece fatica a lasciare anche questa volta il terreno scottante, dicendomi che voleva comunicarmi in confidenza che alcuni dei suoi discepoli, quando sono per così dire nevrotizzati dall’eccessivo materiale analitico ricevuto nel lavoro terapeutico, si sottopongono essi stessi di nuovo all’analisi; ciò avviene ogni certo numero di anni. C’era più benevolenza che rispetto nel modo in cui Freud parlava dei suoi adepti. Nel complesso mi sembrò che Freud fosse tediato dalla sua scuola e non ne avesse più bisogno.
Al momento del commiato divenne chiaro che l’incontro non era del tutto scivolato liscio al di sopra dei sotterranei tempestosi della lotta spirituale. Eravamo già in piedi; e siccome non sempre si trova la parola per concludere, interruppi la pausa che si era creata con un’osservazione forse più onestamente sentita che appropriata. Dissi cioè improvvisamente che mi sembrava una coincidenza singolare che la mia visita
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cadesse proprio nel giorno dei morti (Allerseelentag: letteralmente, in tedesco: “il giorno di tutte le anime”). Era appunto quel giorno. L’esito inatteso fu che Freud stupito domandò: “come?”. Io caddi piuttosto in confusione e cercai di chiarire che “come professione secondaria ero anche un po’ mistico”. A queste parole si rivolse bruscamente verso di me e mi disse con uno sguardo quasi inorridito: “Ma è terribile!”. In modo conciliante dissi: “Voglio dire con ciò che c’è anche qualcosa che noi non sappiamo”. Al che egli disse: “Oh — in ciò io sono più ignorante di lei!”. Il suo tono afflitto e la rapida deviazione dal tema hanno dimostrato, credo, che questa volta lo diceva proprio sul serio e forse hanno anche mostrato che un po’ mi voleva bene. Deve aver detto ancora qualcosa sull’intoccabilità della ragione, ma io non l’ho ascoltato o ho dimenticato. Per salutarmi mi ha dato la mano con un ampio movimento di tutto il braccio. Si era creata una simpatia, rimasta immutata anche in seguito” 20.
Viktor von Weizsäcker: chi era costui? Un carneade qualunque nell’area culturale italiana. Non è tradotto; non è letto e citato neppure dai nostri germanisti. Ignorato anche nell’ambiente francofono, che resta per molti italiani il ponte di mediazione linguistica rispetto alle asperità teutoniche. Tuttavia la recente e autorevole “Encyclopaedia universalis” ha mostrato di accorgersi di lui. Nel “Thesaurus” gli dedica una voce, dando rilievo al suo apporto alla elaborazione di una filosofia dell’essere vivente (Teoria del Gestaltkreis) e riconoscendolo come uno dei fondatori della psicologia fenomenologica 21. Più notato nell’area linguistica spagnola. Tradotto, citato, ascoltato, ha un posto di rilievo nelle opere di medicina spagnola contemporanea (Laín-Entralgo gli riserva ampie citazioni nel volume La Historia clínica). Nel 1950 è stato invitato a tenere delle lezioni all’Università di Madrid, dove si è conquistato ulteriori discepoli. Ramón Sarró ha introdotto con un saggio su “Weizsäcker en España” la traduzione di Der kranke Mensch, mettendo in risalto la consonanza dell’antropologia medica di v.W. con il pensiero antropologico di M. De Unamuno e J. Ortega y Gasset 22. Di recente un gruppo di medici e psicoanalisti italiani, organizzando un seminario su
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“L’interpretazione psicoanalitica della malattia somatica nella teoria e nella pratica clinica”, affidato a un gruppo di psicoanalisti argentini, ha avuto la sorpresa di venir a sapere che a Buenos Aires esiste un “Centro de Consulta Médica Weizsäcker”, che ispira la sua originale strategia terapeutica al pensiero del medico tedesco 23.
Poco notato nel resto del mondo, v. Weizsäcker non ha avuto riconoscimento di profeta neppure nella sua patria. I suoi ammiratori sostengono che la sua opera è destinata ad essere notata solo in futuro, quando ci si deciderà ad affrontare le problematiche epistemologiche di fondo 24. Bisognerà aspettare — ha affermato A. Auersperg — che si rimetta in discussione quel modo di ricercare e di pensare fatto proprio dalle scienze naturali quando, dopo la famosa disputa tra Goethe e Newton, hanno dato la preferenza al secondo, adottando per la conoscenza della natura il modello fisico-matematico. Auersperg ha dedicato un saggio all’opera di v.W. paragonandola con quella di Teilhard de Chardin, come esemplificazioni della ricerca e della filosofia della natura propria di Goethe 25.
La posizione scientifica scelta da v.W. spiega in parte l’insuccesso, dal punto di vista della risonanza, della sua opera. Non essendo pienamente riconducibile né alle scienze della natura, né alle scienze dello spirito, è rimasto un outsider presso entrambe. Così ha interpretato il destino di v.W. nell’ambito accademico tedesco M. von Rad introducendo un seminario interdisciplinare tenuto nel 1972/73 all’Università di Heidelberg sull’“Antropologia come tema della medicina psicosomatica e della teologia”, sulla base appunto del pensiero di v.W. È tutta la struttura della scienza e i suoi presupposti metodologici che crollano, quando ci si interroga sul perché essa abbia “mancato l’umano”. V.W. ha condotto questo tentativo di reinterrogazione fino alle ultime conseguenze,
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almeno per la medicina. “Il rifiuto che ha incontrato — nei circoli medici fu considerato volentieri, ma perfidamente, come importante filosofo, da teologi e filosofi invece come grande medico — questo rifiuto riflette con precisione il problema: determinate scienze permettono solo determinate domande selezionate; la risposta ad esse, qualora non siano risolvibili con le proprie premesse, la rimandano, nei casi migliori, a una disciplina vicina, se non la sopprimono del tutto” 26.
Quali sono le questioni scomode che v.W. ha posto alla medicina scientifica? Possiamo darne un’approssimazione attendibile ricorrendo a delle formule. Ne consideriamo tre: “introdurre il soggetto in biologia”; “svolta dalla malattia al malato”; “portare la psicologia nella medicina”. In parte queste forme si equivalgono; tutte e tre convergono nell’interesse sommo di v.W. per la questione antropologica. Le presentiamo distintamente perché permettono di mettere a fuoco tre diversi ambiti in cui si è estesa l’attività scientifica di v.W.: la ricerca psicofisica sul vivente, la clinica e la psicoanalisi.
Citiamo per prima la formula più spesso ripetuta per riassumere il suo pensiero: “introdurre il soggetto nella biologia”. Nell’espressione è implicita una protesta contro l’approccio tipico delle scienze della natura, che all’inizio del secolo dominava la ricerca in campo biologico e medico. Il metodo analitico-sperimentale aveva prodotto una concezione meccanicistica anche dell’essere vivente. Von Weizsäcker, che si era formato come internista, aveva seguito negli anni della sua preparazione accademica il cammino segnato della patologia fisiologica, ritenuta il fondamento della medicina interna. Aveva studiato fisiologia con von Kries a Friburgo, producendo una ricerca sul muscolo cardiaco della rana. Si era specializzato con Hill a Cambridge, dedicandosi alla teoria del cuore come macchina muscolare. Frutto di questi studi fu una monografia fisio-patologica pubblicata nel 1920 sull’origine dell’ipertrofia cardiaca. Nel frattempo era avvenuta però la grande frattura costituita dalla prima guerra mondiale. Costretto a uscire dal laboratorio, v.W. non vi sarebbe più rientrato (in un passo dell’autobiografia lascia cadere casualmente l’osservazione che dopo quella guerra non ha più fatto un esperimento sugli animali). Da studente i suoi dubbi contro il meccanicismo e
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il materialismo erano stati di natura filosofica 27; l’esperienza brutale della guerra, ma soprattutto la crisi di valori che segui, lo aiutò a rendersi conto dei limiti intrinseci dell’ideale dell’oggettività scientifica in campo medico 28. La medicina come scienza della natura, con tutto il suo apparato tecnico e concettuale è messa in discussione, quando risulta che i suoi presupposti generali sulla natura dell’uomo malato, sono, se non falsi, decisamente insufficienti 29. Rivendicare l’introduzione del soggetto nel campo delle scienze biologiche voleva dire sciogliere l’incantesimo dell’oggettività, ritrovare quelle componenti della malattia come fatto dell’essere vivente che sfuggono al microscopio. Il programma dell’introduzione del soggetto ha influenzato anche le originali ricerche di v.W. in biologia e nella fisiologia della percezione, culminate nella teoria del Gestaltkreis 30. Il suo approccio della soggettività spezza il tradizionale rapporto soggetto-oggetto e instaura una concezione della totalità nella quale il soggetto stesso è incluso a titolo di modulatore espressivo.
Si può presentare in modo globale il progetto perseguito da v.W. anche parlando di una svolta dalla malattia al malato, che culmina nella “medicina antropologica”. Questo movimento riconosce la propria paternità nell’opera clinica e teorica di v.W.; tuttavia agli apporti concettuali che sono confluiti nella “medicina antropologica” provengono da diverse fonti. Nell’insieme presuppongono quella ”crisi della medicina” che divide in due versanti la storia della medicina contemporanea. Essa è caratterizzata soprattutto dalla ricerca di un nuovo contatto con la vita dell’uomo, dal rivolgersi all’uomo malato, invece che alla solo ricerca della causa della malattia.
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Anche questo era qualcosa di nuovo, che aveva fatto irruzione dopo la catastrofe della guerra mondiale. Si trattava di una nuova medicina clinica, che trovava in Ludolf von Krehl la figura di maggior prestigio e nella sua Pathologische Physiologie un rispettabile tentativo della medicina nel primo terzo del secolo di armonizzare i risultati della patologia sperimentale con la considerazione della personalità del malato. “Le malattie come tali non esistono; noi conosciamo solo uomini malati. Quel che prendiamo in considerazione non è l’uomo in quanto tale (anche questo non esiste), bensì il singolo uomo malato, la singola personalità” 31. Questo programma di v. Krehl costituiva un rivoluzionamento di quella clinica che derivava dalla medicina come scienza naturale. V. Krehl aveva assunto nel 1907 la cattedra di clinica medica ad Heidelberg. Quando nel 1920 v. Weizsäcker, abbandonati i lavori di patologia sperimentale, passò all’insegnamento di neurologia nella stessa università ed entrò direttamente nell’orbita del grande clinico. Lo stimò e ne fu molto influenzato. Si considerò suo discepolo e si propose come compito della sua vita di coniugare la fedeltà a von Krehl con la fedeltà a Freud. Ha dedicato al maestro un lucido discorso commemorativo, in cui ha messo in evidenza che cosa comportasse per la medicina incamminarsi per la strada antropologica. Voleva dire, tra l’altro, che non è solo la scienza che struttura la malattia: “è il malato che la struttura, perché egli è una libertà, anzi un mondo a sé, dotato di volontà, consegnato alla fede; è una personalità, nel bene e nel male. E il medico struttura la malattia con lui, perché è della stessa materia. E perciò è necessario anche strutturare il medico” 32. Nello stesso bilancio dell’opera di Krehl, v.W. riconosceva due ali nella sua scuola: la prima più incline alla vecchia scienza della natura, la seconda più sensibile alle dimensioni psichico-politiche della malattia. V.W. va situato in quest’ultima. Contribui validamente a spostare il centro di gravitazione della medicina verso problemi come: psiche e corpo, lavoro e malattia, nevrosi e politica sociale. A tutti questi problemi ha dedicato numerose pubblicazioni. Il principio che ha ispirato a v.W. queste aperture della medicina antropologica ad ambiti che la medicina come scienza della natura si era preclusi era la convinzione che “la malattia dell’uomo non è, come sembrava,
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il guasto di una macchina, bensì la sua malattia non è altro che lui stesso” 33.
L’opera a cui v.W. ha dedicato la sua vita può essere anche descritta con una terza formula: l’introduzione della psicologia in medicina. La psicologia a cui andava il suo interesse non era certo la psicologia di Fechner o lo “strutturalismo” di Wundt, quella psicologia cioè che nasceva con il programma di usare il metodo delle scienze sperimentali per capire la mente. Contro di essa v.W. aveva le stesse riserve che lo avevano portato ad allontanarsi dalla medicina come scienza della natura. La psicologia che destava l’interesse del neurologo di Heidelberg era quella dinamica. Solo questa gli permetteva di rendere giustizia al soggetto e di introdurre la variabile “personalità” nella medicina clinica. In uno scritto autobiografico dal titolo: “Che cosa ho cercato fondamentalmente nella mia vita”, v.W. ha fatto le dichiarazioni più esplicite sul posto che intendeva riservare alla psicologia in medicina: “L’impresa di introdurre la psicologia in medicina non consiste solo nello studiare il piccolo gruppo delle malattie psichiche — come l’isteria, la nevrosi ossessiva o le psicosi — dal punto di vista psichico. Questo è stato sempre fatto. Si tratta piuttosto della questione se ogni malattia — quella della pelle, dei polmoni, del cuore, del fegato o dei reni — non sia anche di natura psichica. Posto che sia così, allora la considerazione esclusivamente natural-scientifica, che è invalsa finora, ha contenuto un errore, che doveva avere anche determinate conseguenze. Se cioè la formazione e il decorso delle malattie sono anche di natura psichica, allora può seguire la supposizione che il processo psichico non è presente solo incidentalmente, bensì si tratta di un processo reale, preminente e decisivo, mentre quello corporeo è solo un prodotto secondario del processo psichico. Ma se è così, ne consegue una vera e propria rivoluzione della nostra immagine della natura umana e della sua malattia; perché allora regnano qui le leggi della psicologia — sempre che in essa esistano leggi” 34.
Questa e analoghe affermazioni hanno guadagnato a v.W. la fama di rappresentante della medicina psicosomatica. Il mondo accademico ha voluto vedere il suo contributo alla medicina interna nell’aver messo in
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evidenza l’influsso della psiche sulla malattia. V.W. non era d’accordo con questa formulazione 35. La medicina psicosomatica non era ancora il superamento della dicotomia cartesiana in medicina: v.W. la chiamava “medicina prima della crisi”. La sua medicina antropologica perseguiva un programma molto più radicale. Con un’altra formula suggestiva, v.W. parla di “introduzione della morale nella conoscenza”. Ecco la citazione nel suo contesto, così come la troviamo nello stesso scritto autobiografico: “Se ogni malattia contiene sia un valore che un disvalore autobiografico; se io la mia malattia la ricevo tanto quanto la formo; se la malattia è la soluzione di un conflitto — anche se una cattiva soluzione; se, per usare degli esempi, un’angina pectoris, un danno al muscolo cardiaco sono solo una traduzione e una rappresentazione materiale di un fallimento nell’amore di un’angoscia per senso di colpa: se tutto questo è vero, non abbiamo solo introdotto la psicologia nella patologia, ma con la psicologia anche l’oggetto dell’emozione e della libertà, la colpa stessa, l’amore stesso, l’odio stesso e così via: la curiosità, la vergogna, l’astuzia, la ragione, la fioritura e il tramonto delle passioni. La cultura riflessa che si è allontanata dall’ingenuità ha introdotto una specie di scienza anche per la conoscenza delle passioni; il suo nome è: la morale. Con altre parole, il senso della moderna psicologia è l’introduzione della morale nella conoscenza” 36. Da quando è stata fondata la medicina scientifica ad opera dei greci — da quando cioè si è scoperto che nelle cose della malattia vige la stessa oggettività che regola la natura — la medicina ha voltato le spalle alla religione; con la svolta positivistica, ha rinunciato anche all’uomo. “Finché scienza e religione — afferma v.W. — sono separate l’una dall’altra, noi ci serviamo della psicologia”.
Alla psicologia, che introduceva nella scienza medica una densa problematica antropologica, v.W. ha avuto accesso ad opera di Freud. Anch’egli, come Lou Andreas Salomé, si sentiva in dovere di esprimere il suo “Dank an Freud” (grazie a Freud). È andato a dirglielo di persona, come riferisce nella pagina di autobiografia riportata; lo ha ripetuto a più riprese nei suoi scritti. È universalmente riconosciuto a v.W. il merito di essere stato tra i primi rappresentanti della medicina accademica a prendere sul serio la psicoanalisi. Ciò gli è valso la simpatia degli psicoterapeuti,
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ma lo ha isolato tra gli internisti. D’altra parte, v.W. non è diventato egli stesso psicoanalista: ha inteso rinnovare la medicina clinica a partire da una base antropologica in cui confluivano anche le conoscenze della psicanalisi, ma rimanendo egli stesso internista. Introducendo la psicologia nella medicina interna, voleva fondare una patologia generale che non separi le malattie psicosomatiche e organiche, ma le unisca 37.
Era questa la vera novità proposta da v.W.: abbandonare il dualismo cartesiano e lavorare con l’ipotesi dell’unità corpo-psiche. Era possibile una medicina psicofisica sulla base di tale unità? V.W. si è detto convinto che l’indagine psicofisica delle malattie organiche fosse un compito così arduo che aveva bisogno di un genio: “Mancava il Paracelso del nostro tempo; io in ogni caso non avrei potuto diventarlo, sia per mancanza di disposizione, sia per debolezza di convinzione” 38. Si poteva fare un lavoro preparatorio. V.W. si dedicò con ogni impegno a creare un caso tipico. Lo chiamò “caso A” (con la speranza che sarebbe seguito un “caso B” ecc.). Lo sottopose a Freud, nel 1932. In quella occasione si svolse tra i due un’importante corrispondenza scientifica. Dal padre della psicoanalisi v.W. riceveva l’incoraggiamento a proseguire il cammino che aveva iniziato; tuttavia risultava chiaro che era solo a percorrerlo: la psicoanalisi restava ferma al principio metodologico del “come se”, che Freud aveva già stabilito al tempo della corrispondenza con Fliess, quando aveva rinunciato a spiegare scoperte psicologiche in termini neurologici 39. La psicoanalisi non era disponibile per una medicina psicofisica sulla base dell’unità corpo-psiche, pur non negandola per principio. Freud aveva tenuto lontano gli analisti da tali ricerche — spiegava nella lettera a v.W. — per motivi pedagogici: perché dovevano imparare a limitarsi a pensare in modo psicologico, usando cioè postulati, metodi e teorie specificamente psicologici.
Lo studio di v.W. fu pubblicato, dietro invito di Freud, nella “Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse” nel 1933 col titolo: Körpergeschehen und Neurose. Il sottotitolo (“Studio analitico sulla formazione
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di sintomi somatici”) specifica che non si tratta di una semplice tematica psicoanalitica. Al centro dell’attenzione non sta né la psiche né il soma, bensì la prestazione psicofisica. L’innovazione tecnica rispetto al procedimento psicoanalitico era che anche l’autopercezione del malato rispetto alle proprie mutazioni organiche veniva inclusa nel rapporto tra medico e paziente. Nel corso del trattamento del “caso A” (che soffriva di disturbi della minzione di natura nevrotica) era sopravvenuta un’angina. Nell’analisi questa risultava il frutto di una crisi “biografica”, indispensabile per capire il vissuto personale della malattia. V.W. si auspicava che il suo metodo di indagine globale potesse rispondere alle due domande che in genere non ricevono una risposta soddisfacente nella patologia delle malattie corporee: “perché proprio ora?”; “perché proprio qui?”. Quando nel trattamento del suo caso l’angina non fu considerata come un fatto accidentale, ma come un momento della “dinamica psicofisica”, risultò una specie di nuova antropologia, in cui erano contenuti i concetti principali della psicoanalisi, ma che oltrepassava la psicologia, perché nel concetto di “uomo” era inclusa essenzialmente la costellazione costituita dall’ambiente e dall’organismo. Nell’abbozzo di questa patologia psicofisica troviamo così, tanto il concetto di “Gestaltkreis”, quando la dimensione biografica di “crisi”, caratteristica della medicina antropologica.
Se ritorniamo, concludendo questa sommaria presentazione della figura di v.W., alla pagina autobigrafica con cui l’abbiamo iniziata, non possiamo mancar di notare l’“incidente” con cui si è concluso l’incontro con Freud. L’accenno al soprannaturale non era programmato: gli è sfuggito quasi come un “lapsus”... La religione era una realtà molto presente nella vita di v.W. Aveva respirato il cristianesimo evangelico in famiglia: suo nonno Carl Weizsäcker era stato un noto professore di esegesi neotestamentaria a Tubinga. Egli stesso nella sua gioventù aveva tenuto discorsi nella Peterskirche di Heidelberg, pronunciandosi per una unione tra fede e scienza: così come altri intellettuali tedeschi nel periodo tra le due guerre, vedeva nella caduta del mito dell’oggettività scientifica, che non lasciava alcuno spazio per l’esigenza religiosa, l’emergere di una nuova problematica, in cui la religione fosse non contro l’uomo, ma a suo servizio 40. È
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l’ambiente culturale che vide la folgorante affermazione di K. Barth e della teologia dialettica.
Negli anni 1926/30 v.W. diede vita, insieme a M. Buber e a J. Wittig — un ebreo, un cattolico e un protestante — a una singolare rivista: “Die Kreatur”. Non voleva essere una rivista teologica; si proponeva di “applicare” il fatto della creaturalità, come un orizzonte ermeneutico dell’esistenza umana. V.W. vi collaborò con tre articoli, nei quali la creaturalità era applicata al rapporto tra medico e paziente, al dolore e alla malattia come storia personale del malato 41. Tuttavia v.W. era alieno da qualsiasi facile concordismo o strumentalizzazione apologetica. La religione costituiva, come si è espresso una volta, “la metà nascosta della sua esistenza”. Interrogato, in occasione dell’accademia evangelica tenutasi a Bad Boll, sulla sua posizione di fede, v.W. — insignito di un dottorato in teologia “honoris causa” — rispose seccamente: “Io? Io sono ateo!” 42. Schivo e ombroso nelle manifestazioni pubbliche della sua religiosità, v.W. attingeva segretamente nell’antropologia cristiana gli stimoli al rinnovamento della medicina. Aveva fatto suo con entusiasmo ciò che Andreas Lou Salomè gli aveva detto in una lettera: che malgrado tutti gli stupefacenti successi della psicoanalisi, le restava l’impressione che il mistero della corporeità fosse ancora maggiore di quello dello spirito 43. Nessuno sarebbe forse riuscito a far ammettere a v.W. che ciò equivaleva per lui alla fede dell’incarnazione. Probabilmente perché la sua religiosità era incarnata nella scienza, e rifiutava di parlare un altro linguaggio.
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Capitolo Secondo
NEL COSMO E NELLA STORIA
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RIFLESSIONE CRISTIANA SULL’ECOLOGIA
1. Il cristianesimo sotto accusa
L’ecologia connessa alla specie umana è singolare quanto questa specie stessa. L'homo sapiens è la causa e la vittima dei perturbamenti del pianeta terra. La sua specie ha avuto troppo successo; con la super-tecnologia l’umanità ha aggredito irresponsabilmente la struttura cosmica, biologica, chimica e fisica del sistema naturale che l’ha prodotta. Ora la razza umana avverte di trovarsi sull’orlo della catastrofe. Se sbaglierà l’ultimo test di intelligenza, consegnerà alle generazioni future un pianeta non più abitabile.
La minaccia è incombente; perciò le discussioni sull’ecologia avvengono sotto il segno dell’urgenza. Gli ecologisti amano ricorrere alle immagini del bivio fatidico 44. Sono discussioni in cui la passione contende il primato alla ragione. Non solo perché la posta in gioco è il futuro stesso della specie, ma anche perché nel dibattito sono impliciti interessi di parte, presupposti ideologici diversi, modelli antropologici inconciliabili.
La gravità dell’ora è tale che, per quanto divergenti possano essere le opzioni, nessun apporto può essere rifiutato. È il tempo della mobilitazione
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generale. Governi, istituzioni internazionali, raggruppamenti religiosi stanno prendendo coscienza del compito che spetta a ciascuno. In questi ultimi anni gli interventi, a ogni livello di autorevolezza, si sono succeduti senza sosta 45. Non stupisce che anche il cristianesimo sia chiamato direttamente in causa.
L’appello al cristianesimo non è però del tutto irenico. Alla religione giudeo-cristiana è attribuita infatti da alcuni la responsabilità morale della dissacrazione della natura nel mondo occidentale. La teoria ha un’ascendenza culturale di tutto rispetto. Max Weber ha parlato per primo della liberazione della natura dai suoi accenti sacrali ad opera della religione biblica come di un “disincanto”. Tale disincanto, inteso non come disillusione ma come approccio della natura con intento operativo, avrebbe fornito la condizione preliminare assoluta per lo sviluppo della mentalità scientifica e della tecnica.
Il disincanto della natura prodotto dalla fede nella creazione è stato indicato come una delle componenti essenziali della secolarizzazione 46. Non mancano teologi che, rileggendo la Bibbia da tale angolatura, ravvisano nel modo di raccontare la creazione del libro della Genesi una specie di “propaganda ateistica”, in quanto intesa a sfatare la visione magica in cui la natura è vista come una forza semidivina.
La teoria secondo cui l’origine del malessere ecologico vada ricercata nell’atteggiamento nei confronti della natura promosso dalla religione giudeo-cristiana è venuta di moda durante gli anni Sessanta nella formulazione datagli dallo storico americano Lynn White. La sua conferenza sulle radici storiche della crisi ecologica 47 è stata riprodotta non solo sulle riviste scientifiche, ma anche sui giornali della cultura hippie.
Di qui la grande popolarità della tesi. La quale, in sostanza, viene ad affermare che la tecnologia moderna è in gran parte espressione del credo giudeo-cristiano che attribuisce all’uomo il dominio sulla natura. Gli insegnamenti della Bibbia giustificherebbero il fatto che l’uomo occidentale non ha avuto scrupoli nell'usare le risorse della terra per i suoi
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interessi egoistici, anche se questo ha comportato una violenza nei confronti della terra.
Particolarmente rilevante per la spiritualità cristiana è la conclusione che White traeva dalla sua indagine storica. Poiché le radici della crisi ambientale sono in gran parte di tipo religioso, ne deduceva che anche il rimedio deve essere essenzialmente religioso. Non basta far ricorso alla scienza o alla tecnologia per riparare gli errori ecologici; bisogna deporre l’uomo dal trono da cui domina la creazione e abbandonare il nostro atteggiamento oppressivo nei confronti della natura. L’unica soluzione adeguata può essere solo il ritorno all’atteggiamento umile dei primi francescani. “Propongo che Francesco diventi il santo patrono degli ecologi”, terminava il saggio di White.
Formulata in termini così estremistici, la teoria che la religione giudeo-cristiana sia responsabile dello sviluppo della tecnologia e della crisi ecologica si lascia difficilmente dimostrare. I simpatizzanti del cristianesimo secolare, i quali accettano di buon grado l’attribuzione al cristianesimo del volto assunto dal mondo moderno, distinguono le potenzialità positive della fede nella creazione dalle aberrazioni contingenti. In tal senso afferma Cox: “È vero, come alcuni scrittori moderni hanno fatto notare, che l’atteggiamento dell’uomo moderno verso la natura disincantata ha mostrato talvolta elementi di spirito di vendetta: come un fanciullo improvvisamente liberato dalla soggezione ai genitori, egli si gloria in modo brutale di schiacciare e di violare la natura. Si tratta forse della specie di vendetta a cui può sentirsi spinto un antico prigioniero contro il suo carceriere, ma è un modo essenzialmente infantile, senza dubbio una fase transitoria: l’uomo secolare maturo non venera né devasta la natura; il suo compito è di custodirla e di usarla, di assumere la responsabilità assegnata all’Uomo, Adamo” 48.
In termini teologici: è vero che dei cristiani si riferiscono alla parola biblica: “Assogettate la terra” (Gen. 1,28) e credono di potervi fondare la pretesa a un dominio assoluto sulla natura; ma questa è una presentazione mutila della dottrina biblica, la quale, accanto all’assoggettare, parla anche di “coltivare e custodire” la terra (Gen. 2,15). Senza questa dialettica, il messaggio biblico è falsato.
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Portato su un piano storico, il duplice atteggiamento si traduce nella dialettica tra “conservazione francescana” e “organizzazione benedettina”, per esprimersi con i termini del biologo René Dubos. A una considerazione più equilibrata l’attribuire la responsabilità della brutalità nei confronti della natura alla religione giudeo-cristiana si rivela una mezza verità storica. In realtà, in ogni epoca e in tutto il mondo gli sconsiderati interventi umani nei confronti della natura hanno portato tutta una serie di conseguenze disastrose. Il processo ebbe inizio molto prima che la Bibbia fosse scritta.
Dubos documenta inoppugnabilmente che sempre e ovunque gli uomini hanno rapinato la natura disturbando l’equilibrio ecologico, spesso per ignoranza, ma anche perché si sono sempre preoccupati più dei vantaggi immediati che dei risultati lontani. Essi non potevano prevedere, inoltre, che si stavano preparando al disastro ecologico, né potevano scegliere tra un’ampia rosa di alternative.
Se l’azione degli uomini è più distruttiva oggi di quanto non sia stata in passato, i motivi sono da ricercare nel fatto che il loro numero è aumentato e che i mezzi di distruzione di cui dispongono sono molto più potenti di un tempo, e non nell’influenza esercitata dalla Bibbia. I popoli giudeo-cristiani, infatti, furono forse i primi a preoccuparsi diffusamente di intervenire correttamente nell’ambiente naturale e di elaborare un’etica della natura 49.
È giustificato il riferimento emblematico a Francesco d’Assisi per l’atteggiamento di rispetto e di conservazione della natura nella sua integrità. Abbiamo bisogno, oggi più che mai, di aspetti di natura incontaminata, e non solo per ragioni ecologiche, ma anche estetiche e spirituali. Ma non bisogna dimenticare Benedetto da Norcia. Il monachesimo medievale sembra aver preso per regola il secondo capitolo della Genesi. Col loro lavoro i monaci strutturavano in modo creativo il rapporto tra l’uomo e la natura. Disboscavano, prosciugavano paludi, arginavano fiumi, creavano fonti di energia: grazie al loro lavoro la terra diventava più abitabile per l’uomo.
La natura veniva umanizzata; l’uomo, trasformando la natura, realizzava la propria umanità. La concezione fatale dell’uomo e della natura come due universi antagonisti era del tutto estranea a questa cultura.
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Il lavoro per i monaci non era solo un espediente per vincere le tentazioni dell’accidia, ma una vera e propria “liturgia”. Collaborando con Dio al miglioramento della creazione, lodavano il Signore e servivano i fratelli. Anche questa tradizione di una gestione creativa della terra fa parte del patrimonio spirituale cristiano; gli insegnamenti di S. Benedetto sono importanti quanto quelli di S. Francesco per la vita umana nel mondo moderno.
Citando ancora Dubos: “L’appassionato rispetto contemplativo di Francesco d’Assisi nei confronti della natura vive ancora oggi nella consapevolezza dell’affinità tra l’uomo e tutte le cose viventi e nel movimento per la conservazione dell’ambiente naturale. Ma il rispetto non basta, perché l’uomo non è mai stato un testimone passivo. Egli muta l’ambiente con la sua stessa presenza e le uniche due alternative possibili del suo rapporto con la terra sono la distruzione e la costruzione. Per essere creativo l’uomo deve avvicinarsi alla natura con i sensi oltre che con il buon senso, con il cuore oltre che con l’esperienza. Egli deve saper leggere il libro della natura senza tener conto di sé e della sua essenza, per scoprirvi gli schemi e le armonie comuni” 50.
Le questioni poste al cristianesimo sono serie. Se si resiste alla tentazione di rispondere alla polemica con l’apologetica, si può instaurare un serio dialogo con quanti sono convinti che dall’attuale crisi ecologica non si esce mediante un semplice rattoppo tecnologico dei sintomi più fastidiosi. È necessaria una mobilitazione di tutte le forze spirituali dell'umanità.
Anche eminenti uomini di scienza fanno udire oggi gli appelli alla saggezza, vale a dire a quell’ambito che per secoli è stato riservato agli umanisti. “Chi sopravviverà?”, si domanda Jonas Salk, lo scienziato americano noto per le sue ricerche sulla poliomielite. La sua risposta è: i più saggi. “Perché la qualità della vita sia migliorata, e per la sopravvivenza, l’umanità dovrà rispettare i saggi e sperare che l’individuo si comporti come se lo fosse” 51. La saggezza, intesa come un nuovo tipo di forza, è una necessità suprema per l’uomo; essa è, in definitiva, un nuovo genere di adattamento.
La sopravvivenza dei più saggi non significa solo che sopravviverà chi è dotato di maggior discernimento, ma anche che la sopravvivenza
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dell’uomo, con una vita di alta qualità, dipende dal prevalere del rispetto per la saggezza. “Dobbiamo guardare — propone Salk — a quelli di noi che sono in più stretto contatto con l’impenetrabile sorgente della creatività nella specie umana per una comprensione delle opere della natura e una penetrazione nel gioco della natura, giacché noi entriamo in un’epoca in cui occorrono nuovi valori per compiere sia le scelte di necessità immediata come quelle con implicazioni lontane” 52.
La lotta per la sopravvivenza sembra essersi spostata dal rapporto tra l’uomo e la natura (sopravvivenza dei più forti in senso darwiniano) all’interno della stessa specie umana. Ciò che chiamiamo umanità si rivela un coacervo di numerose “specie”, ognuna delle quali guarda l’altra con sospetto e la combatte. Il conflitto tra le diverse culture è, in fondo, il conflitto tra modi diversi d’impostare il rapporto tra l’uomo e la natura. È il momento della lotta aperta dei valori. Dal prevalere della saggezza, intesa come forza a favore della salute, della vita e dell’evoluzione, dipende la sopravvivenza dell’umanità.
In questo concerto polifonico di ricerca della saggezza il cristianesimo può portare un suo contributo specifico. Da esso non ci si attende soluzioni politiche — le quali, benché necessarie, sono in sé insufficienti —; e neppure un appoggio all’una o all’altra delle ideologie che si scontrano nel dibattito. Il compito specifico della comunità cristiana è etico e spirituale. Il suo apporto consiste nella revisione dei miti che rafforzano il rapporto patologico degli uomini con la natura e nella proposta di uno stile globale di vita in cui sia riconosciuto all’autolimitazione ascetica il giusto posto. Ciò non significa evadere i problemi posti dalla sopravvivenza dell’uomo sulla terra, bensì intervenire positivamente alla radice dei mali.
2. La revisione dei miti
Il termine “etica” è unito, nell’uso coerente, al comportamento morale che ha origine da una motivazione di coscienza. Questo è il suo significato moderno. M. Heidegger ha fatto notare che nella radice greca
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la parola aveva invece una risonanza cosmica. “Ethos” diceva relazione con il luogo in cui l’uomo vive, abita e si intrattiene 53. L’etica sarebbe perciò la riflessione, ispirata a saggezza, sul soggiorno dell’uomo e sul comportamento adeguato a un tale abitare. Non si tratta di pure sottigliezze filologiche. Il richiamo all’originaria valenza cosmica dell’etica ci obbliga a prendere coscienza, per contrasto, che la riflessione morale dell’uomo occidentale moderno ha completamente trascurato la rilevanza etica di tutto ciò che non riguarda l’uomo in prima persona. Intorno all’uomo troviamo solo altri uomini; poi, il vuoto. La tecnologia sembra aver causato una regressione dell’orizzonte etico, e quindi dei sentimenti umani. È come se la nostra dimensione ottica si limitasse a quanto si trova di fronte al nostro sguardo, ma solo ad altezza d’uomo. Molte cose ci sfuggono, sia verso l’alto, che verso il basso.
In particolare l’uomo occidentale non sente un’obbligazione etica nei confronti degli animali e delle piante, né si rappresenta la natura come un’entità da cui possa venire un’interpellazione. Il dialogo con la natura non fa parte dell’ethos dell’uomo secolare. Egli lo lascia volentieri a quelle religioni astoriche che non si sono ancora sottratte al “fascinosum” e “tremendum” del sacro percepito negli avvenimenti naturali; e a quegli artisti romantici per i quali il vissuto più inebriante è il corteggiamento della natura; oppure ai mistici, con tutta la dovuta diffidenza (ne fa fede la travagliata vicenda umana e intellettuale di Teilhard de Chardin).
Il restringimento dell’etica ai rapporti tra esseri umani non ha portato a una crescita qualitativa della sensibilità morale: tutt’altro. La coscienza dei più è stata così anestetizzata da non avvertire neppure i casi più stridenti di immoralità. Si pensi a tutto il tragico capitolo del rapporto dell’uomo con gli animali. A. Schweitzer, nella sua appassionata denuncia della disumanità di un’etica che si occupi dei soli esseri umani 54, resta ancora una voce che grida nel deserto.
Intanto pratiche assurde e brutali come le torture inflitte ad animali sotto pretesto di ricerca scientifica continuano ad essere accettate senza batter ciglio. È stato calcolato che la pratica della vivisezione procura in
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tutto il mondo una morte tra sofferenze atroci a un numero di animali che si aggira intorno al mezzo milione al giorno 55.
L’ethos dell’uomo occidentale si è ritenuto ancor meno obbligato verso gli altri abitanti della sua casa, vale a dire le piante e la natura inanimata. L’uomo si è inebriato dell’orgoglio di sentirsi soggetto, dotato solamente di poteri arbitrari sull’oggetto-natura (la formula cartesiana suona letteralmente: “maîtres et possesseurs de la nature”). Quando il suo potere è stato moltiplicato dalla tecnica, si è arrivati precipitosamente alla bancarotta attuale.
La crisi ecologica continuerà ad aggravarsi se non diventeranno parte costitutiva dell’etica valori positivi che integrino tra loro gli uomini e la natura. Prerequisito essenziale è che venga abbattuto il mito antropocentrico che rende l'homo faber prigioniero della stessa torre d’avorio che si è costruito. Nei confronti della terra l’uomo ha ancora un atteggiamento che, per analogia, potremmo chiamare tolemaico. È necessario che alla “rivoluzione copernicana” venga aggiunto un nuovo capitolo: l’uomo cessi di pensarsi immobile al centro, con la natura sotto i piedi. L’uomo e ia natura devono rapportarsi insieme al sole costituito dalla grande avventura della vita.
La natura può essere partner dell’uomo 56. Questa affermazione ha perso la sua evidenza per l’uomo tecnologico. Anzi, egli non ne vede neppure il senso. Il contrario avviene invece per molti popoli sottosviluppati, che hanno conservato un rapporto bilaterale con il cosmo, e
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quindi una saggezza ecologica. Non potrebbe essere il compito storico dei popoli sottosviluppati quello di civilizzare, da questo punto di vista, i popoli evoluti?
Perché si instauri un rapporto nuovo con la natura è necessario il rivoluzionamento dei moduli espressivi che ci sono familiari. Basti pensare all'euforia per la “conquista” della luna e al contributo della retorica d’occasione al mito prometeico. L’accesso alla nuova etica avviene per la porta bassa dell’umiltà. È duro per l’uomo, che si è staccato dalla natura e si è contrapposto ad essa, ammettere di essere uno dei numerosi tentativi sperimentali della natura stessa; come esperimento è il più recente e appartiene certamente ai progetti più rischiosi della natura. Deve temere che, come già numerose specie prima di lui, possa essere espulso dall’evoluzione come tentativo abortito.
Il riaggiustamento del rapporto con la natura a livello etico non è solo una medicina amara che l’umanità deve trangugiare se vuol guarire dai suoi mali. Trattando la natura come partner l’uomo beneficerà di una comprensione più profonda della natura stessa. Perché si può capire solo ciò che si prende sul serio. Il guadagno personale sarà quella particolare saggezza dell’uomo che vive in simbiosi con la natura, di cui esiste una diffusa nostalgia 57.
La saggezza che si può apprendere dalla natura non è solo quella istintiva, rappresentata dall’uomo che vive in contatto con la natura facendo uso di tutti i suoi cinque sensi non atrofizzati. Oggi è soprattutto
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attraverso la scienza che l’uomo può apprendere la saggezza della natura. Effetto dello sviluppo della scienza non è solo la tecnologia, ma anche una migliore conoscenza dell’uomo e dell’universo intorno a lui. Il corso degli eventi futuri può essere influenzato in maniera determinante dalla conoscenza della “saggezza” della natura, che ci aiuterà a scegliere tra le varie alternative. Per la via sapienziale si stanno mettendo appunto eminenti uomini di scienza 58.
La religione giudaico-cristiana si armonizza senza violenza con questa nuova etica ecologica. Oltre che alla categoria biblica dell’uomo custode della natura, si può ispirare alla nozione di “alleanza”. Nell’universo religioso della Bibbia non esiste solo l’alleanza particolare con Abramo e la sua discendenza, in vista della storia della salvezza che conduce al Cristo. C’è anche un’alleanza universale di Dio con tutti gli uomini, che si riflette nella stabilità e nell’ordine del creato. La sua espressione è l’alleanza con Noè (cfr. Gen. 9,8-13).
Di questa alleanza l’immaginazione evidenzia il segno simbolico, l’arcobaleno. Ma essa, come tutte le alleanze bibliche, contiene anche la promessa di altri segni reali. Sono le “benedizioni”. Queste hanno un carattere concreto e una portata cosmica; consistono in sicurezza, felicità, salute, fertilità del suolo, armonia col mondo animale. A tutta l’umanità l’alleanza promette che il vivere sulla terra nell’ordine universale costituirà la benedizione del Signore. Nell’annuncio di questa alleanza il cristianesimo trova la base per proporre un nuovo rapporto con la natura, al posto di quell’antropocentrismo che porta alla schizofrenia.
Un secondo aspetto dell’etica contemporanea bisognoso di un’urgente revisione di rotta è quello del mito del progresso. L’utopia progressista che da due secoli inebria il pensiero occidentale si è sempre più identificata con mete di ordine quantitativo. Dalle conquiste nell’ordine della libertà civile e di coscienza si è passati al dominio sempre più ferreo della natura; l’ultimo passo è costituito dall’ideale dell’abbondanza dei beni, dalla moltiplicazione dei bisogni e dalla conseguente escalation dei consumi.
Il “vangelo” di questa religione consumista conosce una sola beatitudine: beato colui che possiede! Un messaggio tacito è alla base di tutti gli annunci pubblicitari: “Ti manca una sola cosa per essere felice; va, comprala, e sarai appagato”.
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La promessa della felicità legata ai prodotti della società dei consumi attira l’uomo in un abisso senza fondo. Infatti è impossibile soddisfare i bisogni propriamente umani (bisogni spirituali, bisogni di vivere la festa, esigenza di gratuità e d’amore) se i bisogni primari, a fondamento biologico, non sono stati prima soddisfatti. Orbene, nella società del benessere (ormai nota come la “affluent society”) i bisogni primari sono ipertrofizzati, così che non si giunge mai al loro completo appagamento. Il miglioramento delle condizioni di vita soddisfa solo temporaneamente. Sentendosi squilibrato, l’uomo torna ai bisogni primari e domanda sempre di più: più beni di consumo, salari più alti per comprarli, e perciò più lavoro...
Da alcuni anni un movimento di protesta attraversa questa società fondata sul mito del progresso inteso come crescita quantitativa. Ancor prima che il club di Roma denunciasse che ci sono limiti alla crescita intrinseci alle possibilità naturali 59, migliaia di giovani in tutto il mondo hanno preso le distanze dal tipo di vita instaurata dalla civiltà occidentale. Sono nate le controculture 60.
Il loro denominatore comune: la contestazione di una felicità basata sull’avere, invece che sull’essere. E non solo sull’essere domani (come espressione di una fiducia nella perfettibilità della natura umana e nella possibilità di ricreare il paradiso in terra, comunemente identificato come ideale di vita “americano”), ma nell’essere oggi, nel “qui e ora”. Sotto la bandiera della “qualità della vita” le controculture conducono battaglie coraggiose per spezzare il meccanismo frustrante della civiltà dei consumi e per liberarsi da quei desideri indotti artificialmente dalla persuasione occulta, ma non rispondenti a reali bisogni. Si battono sentieri nuovi per soddisfare i bisogni più propri dell’uomo: il bisogno di amare, senza ipocrisia; il bisogno di essere libero, abbattendo i muri invisibili della prigione fatta di dipendenza dai beni di consumo; il bisogno di creare, per piacere e non per obbedire al mito dell’efficienza; il bisogno di contemplare e di adorare.
In questa moltiforme ricerca il cristianesimo può inserirsi in due modi. Negativamente, smascherando il culto della crescita quantitativa
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come la religione sottaciuta e inconfessata del nostro tempo; positivamente, col lievito dello spirito delle beatitudini. Gli uomini toccati dall’annuncio di Cristo trovano una dimensione di crescita totalmente diversa da quella che si nutre del mito del progresso.
Incamminandosi dietro a lui scoprono che quelle “cose ancora più grandi” promesse a Natanaele (cfr. Giov. 1,50) sono disponibili anche per tutti coloro che, liberandosi dal fascino dei “di più” materiali, si aprono al “di più” di amore e di creatività nei rapporti interpersonali. Una crescita in questo senso, oltre ad essere perfettamente “ecologica”, soddisfa i bisogni più autentici della persona umana.
3. Ascetica volontaria
L’uomo che potrà abitare sulla terra di domani sarà quello che obbedirà a una nuova etica. Il suo ethos sarà ecologico: cesserà di sentirsi l’unico protagonista della vicenda della vita e identificherà la realizzazione di se stesso nella piena espansione di tutte le proprie capacità, non nel possesso di una maggiore quantità di beni. La nuova etica ispirerà un nuovo stile di vita: vale a dire, una nuova spiritualità.
Bisogna prendere atto che la parola “spiritualità” si presta a un ampliamento semantico. In passato essa ha indicato per lo più lo sforzo riflessivo ed etico che gli individui dedicavano a se stessi, allo scopo di un perfezionamento personale. Qui intendiamo invece l’atteggiamento generato dalla preoccupazione ecologica e dall’interesse per la qualità della vita. La novità è determinata soprattutto dal fatto che la spiritualità non riguarda più solamente il rapporto dell’uomo con se stesso, ma include anche quello con la natura. Intendiamo comunque la spiritualità non nel senso generico di saggezza — nell’accezione di Salk, per esempio —, bensì nel senso specifico di un comportamento ispirato a un messaggio religioso.
Qualsiasi forma di spiritualità cristiana è sempre, nella sua essenza, una sequela del Cristo. Questo è l’elemento comune che unifica esperienze così diverse come il monachesimo egiziano, i movimenti pauperisti medievali, le congregazioni dedite all’assistenza o gli istituti secolari. Ciò che le differenzia sono i diversi contesti storici e soprattutto la priorità data all’uno o all’altro aspetto della risposta alla chiamata di Dio.
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Nel contesto storico contemporaneo sembra imporsi spontaneamente una spiritualità in cui sia dato un posto privilegiato all’autolimitazione. Si tratta di un “discorso duro”, per i discepoli di Cristo non meno che per il “mondo”. Sull’ascetica e sulla rinuncia pesano gravi ipoteche. Non può considerarli come valori una società industrializzata che sembra mantenersi in movimento solo se non si allenta mai la cinghia di trasmissione che unisce produzione e consumo. Là dove lo status sociale viene identificato mediante la quantità di beni che si sperperano e lo standard di vita sempre più elevato, non si può capire che la rinuncia non è una perversione masochista, ma un mezzo per garantire l’identità personale e la liberazione interiore.
Anche in ambito cristiano esiste una certa diffidenza nei confronti dell’ascetismo. La riforma protestante lo ha rifiutato polemicamente, perché vi ha individuato un tentativo di autoredenzione mediante le buone opere che oscurava il principio evangelico del “sola gratia”. La chiesa cattolica per lungo tempo ha attribuito una grande importanza ai tempi di digiuno, alla astinenza dalla carne al venerdì, alla quaresima, alle diverse forme di penitenza e ai consigli evangelici.
Una importanza talvolta francamente esagerata, in quanto serviva più a identificare socialmente i fedeli praticanti che a esprimere valori evangelici. Sta di fatto che queste pratiche sono cadute dal costume tradizionale cattolico nel giro di pochissimi anni. Né alcuno mostra di sentirne nostalgia.
Proprio ora, paradossalmente, emerge nella nostra cultura la necessità di rivalutare l’ascetica. E non più solo come scelta individuale, bensì come decisione libera che coinvolge tutto l’organismo sociale. Una libera quaresima, dunque, di tutti, per tutto l’anno. Un’autolimitazione comune sotto il segno della libertà.
Quest’ultimo elemento è della massima importanza, perché distingue l’ascetica proposta dalla spiritualità cristiana da eventuali soluzioni di emergenza che potrebbero imporsi per il precipitare degli eventi. I tecnici biologi ed economisti fanno già date ravvicinate circa il raggiungimento dei limiti di rottura degli equilibri ecologici. Ma una data che ha più potere evocatore di quella prevista dagli scienziati è quel fatidico “1984”, in cui George Orwell ha localizzato il mondo totalitario che la sua fantasia ha previsto. Non potrebbe la rinuncia essere imposta a tutti da un “Grande Fratello” a cui gli uomini, disperando delle possibilità offerte dal gioco delle libere volontà, demanderebbero la gestione sociale
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in cambio della sopravvivenza? Sarebbe la fine della tradizione umanistica dell’occidente; il cristianesimo, poi, dovrebbe ravvisare in questo potere totalitario la più blasfema caricatura del Dio dell’alleanza.
La menzione del mondo orwelliano ci costringe a prendere coscienza dell’alternativa che si potrebbe porre all’umanità a breve scadenza: o libera ascetica o forzata rinuncia sotto un totalitarismo tecnologico. Volenti o nolenti, dobbiamo entrare nell’era della limitazione. Il carisma del cristianesimo in questa ora storica può essere quello di richiamare ai valori positivi della rinuncia. Ci sono stati, è vero, epoche e movimenti per i quali l’ascesi autopunitiva sembra fosse diventata fine a se stessa. Questa concezione deve essere considerata un’aberrazione se rapportata allo spirito evangelico che fa equivalere l’ascetica alla sequela di Cristo.
Il Cristo, infatti, chiama alla vita (cfr. Giov. 20,31). L’ascetica perciò per il cristiano è orientata alla realizzazione piena dell’esistenza umana.
È un elemento importante che ci permette di denunciare i limiti di quei programmi ecologici preoccupati solo di evitare i pericoli dell’inquinamento o di mantenere la vita umana in condizioni di tollerabilità. È rinuncia costruttiva solo quella che mira allo sviluppo delle potenzialità ambientali e umane, allo stabilirsi di altri parametri di riferimento e gerarchie di valori.
In concreto, la spiritualità cristiana favorirà la riappropriazione dell’esistenza individuale e degli spazi per la crescita. La strada che vi conduce è quella che passa per la preghiera e la contemplazione. Ciò presuppone che si prenda la distanza dall’affanno quotidiano e dall’ossessione del massimo rendimento, che si abbandoni il ritmo convulso per sintonizzarsi con il pacato respiro della natura. È da considerarsi un segno dei tempi il bisogno di meditazione che si manifesta nei paesi in cui più grande è lo stress della civiltà industriale.
Si fa ampio ricorso anche alla saggezza e alle tecniche meditative , che sono da secoli patrimonio dell’oriente 61. I cristiani, pur aperti a ogni integrazione, non dovrebbero dimenticare di attingere alle forme di meditazione elaborate dalla propria ricca tradizione spirituale.
Oltre alla via che conduce verso le profondità dell'individuo, la spiritualità cristiana favorirà anche un coinvolgimento di tutti nelle preoccupazioni di ordine ecologico, proporzionalmente alle responsabilità.
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Dietro le grida di allarme si lascia spesso indovinare l’interesse dei paesi più ricchi, che non vogliono perdere le posizioni di privilegio, a mantenere lo status quo. I discepoli di Cristo hanno per orizzonte la prospettiva profetica della “terra di tutti”. Anche umili iniziative — come l’organizzazione di collette, digiuni ed espressioni di solidarietà per coloro che nel mondo soffrono per la miseria e lo sfruttamento — contribuiscono a dare alla spiritualità cristiana la dimensione del mondo intero. La comunità cristiana locale, aperta ai problemi di tutta la terra, svolge così un ruolo pedagogico; in essa si forma il cittadino del mondo.
In conclusione: la terapia dei mali ecologici dell’ora storica presente passa in modo privilegiato per i sentieri dello spirito. È urgente instaurare un’etica dei limiti, della misura, della rinuncia a perseguire tutte le mete tecnicamente possibili. Più che gli allarmi lanciati dagli ecologisti catastrofici — che pur non sono da sottovalutare — contribuirà a dar forma alla nuova spiritualità l’apporto positivo di quei cristiani che sapranno riscoprire il valore creativo, per gli individui e per la società, dell’ascetica volontaria.
Gli umanisti illuminati rifiutano, anche oggi, di piegarsi alla rassegnazione fatalistica. Così Dubos: “Nonostante le sofferenze, il pessimismo e le brutture portate dai conflitti razziali, dalle rivalità nazionali, dalle carestie e dall'inquinamento, le campane dì Pasqua suscitano in me ondate di speranza. L’esperienza di un giorno di primavera basta a rassicurarmi che, alla fine, la vita trionferà sulla morte... Anche se la nostra forma di civiltà è gravemente malata, attraverso il clima desolato e arido dei nostri tempi sta cominciando a sorgere un senso di speranza e di attesa” 62.
La fede nella vita che hanno gli umanisti è creativa. Non lo è di meno quella fede nel Dio dell'alleanza che riprende vigore alla vista dell’arcobaleno.
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UTOPIA DA VIVERE
1. Utopia e immaginazione simbolica
Pensiero utopico e antiutopico, utopie positive e negative, ruotano attorno alla questione: in rapporto a quale futuro si costruisce la nostra società? La preoccupazione dominante in questo ordine di problemi è quella di un regimen condendum universale. Una riflessione critica attenta rivela facilmente le implicazioni ideologiche sottese alle appassionate discussioni di filosofia politica che hanno per oggetto l’orizzonte utopico dell’umanità. Quest’approccio dell’utopia non ne esaurisce tutta la portata. Se ripercorriamo infatti la parabola di vari modelli utopici che si sono succeduti da quando il tema è emerso nella letteratura (dal modello umanistico di Tommaso Moro a tutti i suoi vari epigoni: illuministi, romantici, positivisti ecc.), costatiamo un progressivo restringimento della valenza semantica e della portata contenutistica dell’utopia. Parallelamente l’utopia si estrania dalla problematica religiosa. Se ancora nel XVI sec. i progetti utopici si ispiravano a una religione naturale, di tipo deistico, progressivamente il razionalismo ha prevalso, estraniando l’utopia dall’universo religioso. È proprio contro questo significato più tecnico, ma più ristretto, che va fatta valere una concezione più ampia dell’utopia.
L’utopia ha una storia più lunga di quella del tema letterario corrispondente 63. L’utopia in senso specifico è solo un aspetto parziale di
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un atteggiamento costante dello spirito umano, che tende a proiettare in cielo la città terrestre, sullo sfondo di una immutabile Città di Dio. Tutta la tradizione occidentale, in particolare, è attraversata in profondità dal tema, periodicamente riemergente, del luogo e tempo venturo spiritualmente perfetti 64. Si può dire che, paradossalmente, quando l’utopia ha avuto un nome e ha cominciato ad avere una sua tradizione letteraria, ha perduto alcune delle sue valenze originarie 65.
Per ritrovare le implicazioni religiose nell’utopia bisogna risalire alla sua matrice, che è il pensiero simbolico. L’utopia è figlia dell’immaginazione simbolica, così come i simboli, i miti, la religione, la poesia, il pensiero creativo. La finctio utopica è dovuta all’immaginazione creatrice che opera mediante i simboli. La progressiva razionalizzazione dell’utopia è conseguenza dell’estrema svalutazione che ha subito l’immaginazione, la “phantasia”, nel pensiero dell’Occidente. Come ha dimostrato G. Durand 66, la conoscenza simbolica appare agli antipodi della pedagogia del sapere come è andata istituzionalizzandosi da dieci secoli in Occidente. Ne è risultata una vera e propria “iconoclastia” occidentale nei confronti della conoscenza simbolica.
Il nostro tempo comincia però a riprendere coscienza dell’importanza delle immagini simboliche nella vita mentale. Durand fa risalire l’inversione di tendenza all’apporto della patologia psicologica (rivalutazione del simbolo dovuta alla psicanalisi) e dell’etnologia (considerazione positiva dell’inflazione mitologica, poetica, simbolica che regna nella società dette “primitive”). Il recupero del simbolo è andato oltre i primi tentativi della psicoanalisi e dell’antropologia culturale, ancora in gran parte riduzionistici rispetto alla portata antropologica del simbolo. Sempre più ci si rende conto oggi che la scienza non è l’unico mezzo per salvare il mondo: la “poesia” è altrettanto necessaria ed efficace. “L’utopia o la morte”, ha intitolato con efficacia René Dumont un suo libro recente. Dopo le disillusioni scientiste, si guarda con maggiore attesa all’immaginazione per domandarle quel “supplemento d’anima” che ci
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difenda contro i rischi di una civiltà faustiana che tende a planetarizzarsi. Le immagini non escludono i concetti: insieme costituiscono la barriera vitale che l’umanità erige contro le pulsioni distruttive e contro il nulla del tempo. L’utopia veicola, insieme alla scienza, la speranza della specie umana.
Recuperati il valore e la funzione dell’immaginazione simbolica, esiste ora il presupposto per una considerazione più ampia dell’utopia, che ne colga anche gli aspetti che sono stati trascurati dal dibattito filosofico che l’ha considerata esclusivamente dal punto di vista ideologico. Arriviamo in tal modo a mettere a fuoco la parentela tra religione e utopia. Esse si rapportano una all’altra a diversi titoli. Ambedue, in primo luogo, si riferiscono a un orizzonte ultrastorico. Lo status perfetto, fatto di armonia, pace ed equilibrio, che caratterizza i prodotti dell’immaginazione utopica, trova il suo corrispettivo nei simboli mitici con cui il pensiero religioso rappresenta l’inizio o il limite finale assoluti della storia.
L’affinità risulta più evidente se consideriamo l’atteggiamento di fondo che sottende l’approccio utopico e quello religioso del mondo empirico presente. In ambedue i casi si può parlare, con la terminologia di R. Ruyer, di un “renversement d’optique” 67. Questo rovesciamento è uno sguardo nuovo sulla realtà analogo a quello implicito nella nozione biblica di “metanoia”. Tanto l’uomo religioso quanto il figlio dell’utopia rifiutano il mondo presente con la sua falsa evidenza di realtà ultima e immutabile. Quando religione e utopia sono autentiche, da questo sguardo si sviluppa una forza denegativa del carattere assoluto di “questo mondo”. La clausola dell’autenticità è importante. Sia l’una che l’altra forma di pensiero simbolico ha dato luogo, infatti, nel corso della storia, a situazioni che le hanno fatte cadere in sospetto. La religione e l’utopia sono state talvolta utilizzate in modo ideologico da coloro che detenevano il potere; vale a dire, sono servite a rafforzare le forme di oppressione sociale e politica. Hanno alimentato la speranza, ma senza esiti liberatori: in pratica, dunque, hanno svolto una funzione alienante, in quanto hanno permesso di evadere dal reale senza affrontarlo.
L’eventualità di un esito alienante, purtroppo incontestabile, appartiene però alle forme patologiche della religione e dell’utopia, non alla loro natura essenziale. È un fatto ugualmente incontestabile che, accanto
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a una storia di strumentalizzazioni ideologiche, esiste una storia alternativa in cui religione e utopia, intrecciate insieme, hanno costituito una riserva costante di forza per la contestazione dell’oppressione presente in nome di un orizzonte di perfezione.
In condizioni, dunque, di autenticità, tanto l’utopia che la fede religiosa costituiscono un approccio della realtà fondato su un ribaltamento ideale della situazione empirica. Questo atteggiamento dello spirito consiste nel delineare una figura assoluta, quale possibilità di condizioni di vita e di scale di valori opposte a quelle vigenti. Prospetta uno stato di perfezione, alternativo alla situazione attuale, segnata dal limite e dal deficit.
Se la capacità di rendere visibile e operante l’invisibile è una caratteristica essenziale della fede religiosa (“garanzia dei beni che si spera, prova delle realtà che non si vedono”, definisce la fede la lettera agli Ebrei: 11,1), essa costituisce altresì l’anima dell’utopia. Di ambedue l’uomo moderno ha bisogno per uscire dal “malpasso” 68 in cui si sta dibattendo la civiltà tecnologica. Alla religione e all’utopia, figlie ambedue dell’immaginazione simbolica, sembra promessa una nuova giovinezza.
2. Temi utopici del messaggio cristiano
Il pensiero utopico, liberato dalle restrizioni operate dall’utopia di stampo politico-razionalistico e ricondotto alla sua matrice originaria, che è quella dell’immaginazione simbolica, è riconoscibile presente nel mondo biblico. Esso costituisce l’ambiente spirituale in cui sono immerse le formulazioni originarie del messaggio cristiano. Tutto il grande filone del Regno di Dio e della Gerusalemme celeste, che attraversa da un capo all’altro la Bibbia, è un esempio eminente di orizzonte utopico. La città ideale a cui si riferisce il credente non è, come nella tradizione che ha le sue radici nella Grecia classica, il risultato di una creazione umana, opera della saggezza dell’uomo che dispone le migliori condizioni per una felice convivenza sociale. Il modello biblico di umanità non è quello
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che l’uomo conosce come prodotto di un proprio sapere e volere, bensì una realtà “altra”, critica e trascendente rispetto a tutto ciò che è dato. Il Regno di Dio non si costruisce; come la salvezza, di cui è simbolo, si riceve come un dono che trascende le capacità naturali dell’uomo.
Già fin dal tempo dell’esilio babilonese, quando operava il profeta noto come Deutero-Isaia, Gerusalemme era diventata sinonimo del Regno escatologico di Dio (cfr. Is. 52,1 ss.; 62,1 ss.; 65,17 ss.; 66,10 ss.). Nella letteratura rabbinica ed apocalittica Gerusalemme aveva sempre più perduto i suoi connotati realistici a favore della valenza simbolica: essa indicava la città ideale, la sposa del Signore. Dopo la Pentecoste, i cristiani trasferirono la ricchezza teologica di Gerusalemme a Gesù Cristo e alla sua chiesa. Questa realtà perfetta è tenuta nascosta per apparire alla fine del mondo (cfr. Apoc. 21,1-27). Essa è la città futura (cfr. Ebr. 13,14). Tuttavia la nuova Gerusalemme viene già ora, dall’alto, da presso Dio (cfr. Apoc. 3,12). In quanto luogo della presenza onnipotente di Dio e della salvezza, è già compiuta e ancora da compiere (nel linguaggio di O. Cullmann, si tratta della dialettica tra il “già” e il “non ancora”).
Il tema utopico della città perfetta, futura e già presente, trascrive il contenuto essenziale del kerygma cristiano: Dio ha creato in Gesù Cristo il passato a cui il popolo credente può riferirsi e l’avvenire che gli è permesso di attendere. Il luogo utopico della salvezza diventa quindi, nel messaggio cristiano, la persona di Cristo e la sua opera. La “economia” di Dio — piano divino nascosto fin dall’eternità, rivelato progressivamente nel tempo per mezzo dei profeti e realizzato nel mistero dell’incarnazione — trova il suo compimento epifanico nel Cristo e nella comunità dei suoi discepoli. Per esprimere la dimensione del mistero di Cristo e della chiesa che supera la storia e svolge il ruolo di utopia concreta, Paolo non ha esitato a far sua la terminologia delle speculazioni dell’ambiente giudaico ellenizzato sul pleroma, cristianizzando il termine e dandogli un senso in armonia col resto del messaggio cristiano 69. Dio ha fatto dunque abitare in Cristo tutta la “pienezza” (cfr. Col. 1,19); alla “pienezza” del Cristo risorto si trovano associati i credenti (cfr. Col. 2,9) e indirettamente tutto il cosmo. Questa “pienezza” è il polo di
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attrazione della storia intera. È noto quale audace ampliamento e quale afflato mistico questa prospettiva abbia trovato nell’opera di P. Teilhard de Chardin (esempio insigne di un pensiero scientifico concresciuto a un’alata immaginazione simbolica).
Il rapporto di fede-amore-speranza che lega i credenti al Cristo si riflette nell’atteggiamento che essi hanno verso la città celeste. Il popolo di Dio attende la città ideale ed è in cammino verso di essa: “Per noi, la nostra città si trova nei cieli, da cui noi attendiamo ardentemente, come salvatore, il Signore Gesù Cristo” (Fil. 3,20). Come il legame esistenziale con il Cristo, così anche l’appartenenza al mondo futuro struttura l’esistenza concreta dei credenti. La loro vita ha quell’aspetto paradossale che per l’evangelista Giovanni è l’essere nel mondo, ma non “del mondo” (cfr. Gv. 17,14-16). Le lettere cattoliche hanno dettagliato le implicazioni del vivere nel mondo come “stranieri e pellegrini” nel “tempo dell’esilio”, (cfr. 1 Pt. 1,17; 2,11). La chiesa, pur prendendo sul serio il mondo e le sue strutture socio-politiche, rinuncia a installarsi in esso. L’attrazione della città futura dà vita a un’etica personale e comunitaria della provvisorietà, del dinamismo, di confronto profetico-critico con le istituzioni, di innovazione piuttosto che di tradizione ripetitiva. Della radicalità della morale evangelica, che rende così ostiche al buon senso quotidiano anche certe pagine del discorso della montagna, sono state offerte molte spiegazioni da parte di esegeti e teologi 70. Essa tuttavia non acquista senso se non quando la consideriamo nell’orizzonte dell’utopia. Allora il distacco assoluto dei beni terreni, il celibato, l’amore dei nemici diventano simboli concreti della meta finale, emergenza nel tempo della realtà escatologica.
L’utopia non è espressa solo dal linguaggio formale del kerygma e da quello esistenziale dell’etica radicale. Anche il culto, sorgente inesauribile di simboli, annuncia la realtà perfetta dell'escaton e la anticipa in figura. La lettera agli Ebrei, facendo il confronto delle due alleanze, attribuisce alla liturgia cristiana il potere di mettere a contatto con la realtà finale: “Voi vi siete accostati alla montagna di Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste, e a miriadi di angeli, all’assemblea festiva, alla chiesa dei primogeniti che sono iscritti nei cieli, a un Dio giudice universale, agli spiriti dei giusti che sono stati resi perfetti, a
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Gesù mediatore di un’alleanza nuova, e a un sangue purificatore più eloquente di quello di Abele” (Eb. 12,22-24). La comunità di culto, soprattutto quando è riunita per celebrare l’eucaristia, parla il linguaggio dell’utopia: essa annuncia la realtà finale, fino a che essa venga (cfr. 1 Cor. 11,26). I fratelli riuniti attorno all’unica mensa sono l’immagine più trasparente del mondo nuovo che accende l’immaginazione degli uomini della speranza.
L’orizzonte utopico è dunque saldamente impiantato in seno alla comunità cristiana. Nelle immagini bibliche dell’annuncio cristiano, nell’etica radicale e nel culto i credenti abitano già la perfetta città futura.
3. Funzione dell’utopia nella vita spirituale
Abbiamo evidenziato la presenza di elementi utopici all’interno del cristianesimo, intendendo l’utopia come orientamento verso uno status di perfezione, evocato non dal pensiero raziocinante, bensì dall’immaginazione simbolica. Indichiamo ora qualche aspetto della molteplice incidenza di questa dimensione utopica nella vita spirituale. Essa garantisce, in primo luogo, una prospettiva dinamica alla persona e rende possibile un processo di sviluppo verso la piena maturità. Il ruolo dell’utopia religiosa non è quello di proporre modelli ideali all’imitazione letterale. L’utopia, qualunque sia la modalità concreta con cui agisce sull’individuo — mediante immagini, imperativi morali o vissuti culturali — assicura piuttosto un orizzonte, reso concreto dal simbolo, che amplia le dimensioni del possibile.
La funzione del simbolo diventa più perspicua se consideriamo l’atteggiamento utopico dal punto di vista della psicologia genetica. Questa ci mostra come l’orizzonte che influisce sul comportamento vada progressivamente allargandosi con lo sviluppo psicologico. Osserva Kurt Levin: “Durante lo sviluppo la sfera della dimensione del tempo psicologico dello spazio di vita aumenta da ore a giorni, mesi e anni. Il bambino vive in un immediato presente; con il crescere dell’età un passato e un futuro sempre più lontani influiscono sul comportamento presente” 71.
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Possiamo estendere l’osservazione dell’autorevole psicologo considerando il mondo dell’utopia come il supremo orizzonte temporale — più precisamente, atemporale che agisce sullo spazio di vita presente. In contrasto con i pregiudizi del positivismo scientista, che considera il pensiero immaginativo-simbolico come più primitivo e inadeguato, questo ci appare invece come caratteristica della persona pienamente sviluppata. Accediamo alla maturità spirituale quando il nostro comportamento è influenzato non solo dalla estrapolazione dei dati offerti dalla realtà presente, ma anche dai quadri composti dalle speranze e dai timori della specie umana. L’utopia è figlia della saggezza della maturità.
Anche a livello comunitario l’utopia agisce come un fenomeno dinamico. Ogni religione, se vuol sopravvivere, deve lasciare spazio alla novità carismatica per assicurarsi un periodico risveglio e controbilanciare la tendenza alla sclerosi. Di fatto, un filone di utopia comunitaria percorre tutta la storia del cristianesimo 72. Talvolta questi movimenti si sono riferiti ad attese millenaristiche e hanno tentato di instaurare già nel presente la città teocratica e la comunità dei perfetti. In qualche caso si sono avute degenerazioni; più spesso l’ispirazione utopica ha assunto cadenze mistiche. La funzione dei movimenti utopistici all’interno della chiesa è stata, in ogni caso, quella di mantenere vivo lo spirito, al di là della fedeltà alla lettera. Negli organismi religiosi, storicamente condizionati dai limiti della cultura in cui si incarnano e minacciati dall’irrigidimento istituzionale, la prospettiva utopico-carismatica assicura rinnovamento, impatto culturale, creatività.
In termini teologici, il promotore dell’utopia in seno alla comunità cristiana è lo Spirito Santo. Secondo la promessa del Cristo, lo Spirito inviato da lui stesso e dal Padre guida i discepoli verso la pienezza della verità (cfr. Gv. 16,13). Nessuno nella chiesa ha questa pienezza come un possesso statico. Essa si riflette poliedricamente nei carismi, così come il raggio di luce solare si infrange nel prisma in un arcobaleno di colori. I vari doni sono talvolta polarmente contrapposti, mai riducibili l’uno all’altro. La storia della spiritualità cristiana è scandita da dibattiti sul rapporto tra vita contemplativa e vita attiva, amore di Dio e servizio del prossimo, fedeltà e dinamica del provvisorio, celibato e amore coniugale, distacco dal mondo e impegno per il mondo. Ogni sintesi dottrinale
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tende a privilegiare una prospettiva a detrimento delle altre. Ma lo Spirito non si lascia rinchiudere in nessuno schema. I carismi che egli suscita sono solo riflessi parziali della pienezza dell’Uomo nuovo, chiamato a vivere nella Comunità nuova.
Tener aperto un orizzonte utopico vuol dire, tra l’altro, non lasciarsi indurre a sintesi precoci. Come l’eternità si articola col tempo senza annullarlo, così gli ideali utopici si articolano con le soluzioni politiche parziali. La polarizzazione verso l’utopia non esclude il pluralismo. I progetti del razionalismo utopistico hanno talvolta caratteri fissisti (uniformità, dirigismo, istituzionalismo). L’utopia che nasce sul terreno dell’ispirazione religiosa non può, invece, far a meno della libertà. Ai discepoli del Cristo è promesso un avvenire così ricco che nessuna immagine concreta del presente lo può esaurire. Perciò possono rifiutare l’integralismo. In questo lo spirito di chiesa si distingue dallo spirito di setta.
Forse il senso e la funzione dell’utopia nella vita spirituale del cristiano possono essere compendiati nelle parole che Gesù, con un enigmatico sorriso saturo di cose future, rivolse a Natanaele: “Per averti detto che ti ho visto sotto il fico, tu credi? Vedrai cose più grandi di queste ... In verità, in verità vi dico: vedrete il cielo aperto” (Gv. 1,50 ss.). Lo sguardo fisso sulle cose più grandi e migliori, sui simboli del definitivo, è il segreto dell’utopia. Questo segreto è promesso ai discepoli di Cristo.
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VIVERE E MODELLARSI
LA FUNZIONE ANTROPOLOGICA E SPIRITUALE DEI MODELLI
1. L’uso dei modelli nella cultura contemporanea
È convinzione generale che la nostra sia un’epoca di transizione culturale. Ad ogni latitudine del globo avvengono trasformazioni epocali. Le culture tradizionali e sacrali dell’Asia e dell’Africa assimilano velocemente la tecnologia occidentale; morso il frutto, si trovano fuori del paradiso terrestre del mito e del tempo ciclico, inserite nel corso imprevedibile e angoscioso della storia. La nostra stessa cultura occidentale ha perso la fiducia in se stessa, si dilania nell’autocritica, è angustiata da rimorsi di coscienza. Non è più il tempo delle costruzioni ideologiche chiuse e onnicomprensive. Si va a tentoni. Su questo sfondo si comprende l’attenzione rinnovata ai modelli che emerge nei campi più diversi della cultura. La costruzione di modelli nel sapere, nell’etica e nella vita spirituale si impone come una delle esigenze emergenti della cultura contemporanea.
a. Epistemologia e modelli
Le varie discipline del sapere, nonostante le loro necessarie differenze, hanno un tratto comune: fanno uso di modelli. Tutte: le scienze dell’uomo come le scienze della natura. Anche la teologia — quel sapere particolare che si fonda sulla rivelazione — fa uso di modelli. È il motivo per cui consideriamo con particolare interesse un discorso epistemologico centrato sull’uso dei modelli. Questo tipo di approccio è stato tematizzato
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soprattutto da I.T. Ramsey, 73 il noto filosofo e teologo del linguaggio. La sua teoria epistemologica dei modelli ci invita a superare l’idea ingenua secondo cui i modelli a cui si fa ricorso in sede scientifica sarebbero delle descrizioni pittografiche dirette, una specie di rappresentazioni in miniatura o ingrandimenti fotografici della realtà considerata. Ciò non è vero — se vogliamo considerare i campi estremi di applicazione — né in fisica, né in teologia: né quando la luce è descritta, così come è stato fatto, come ondulazioni in un etere invisibile, né quando le realtà del mistero cristiano sono presentate in termini antropologici, quasi fossero rappresentazioni su scala umana e visibile di ciò che è divino e invisibile. Il funzionamento del modello nel discorso scientifico, qualunque sia l’oggetto di questo discorso, è più articolato. I modelli, come le metafore, nascono dal “mistero”. È il mistero stesso che si dischiude in un’intuizione; il modello si riferisce ad esso, senza avere però la pretesa di riprodurlo o descriverlo. Noi passiamo la vita nel cercar di gettar luce sempre più fedelmente sul mistero da cui il modello prende origine. Di qui la pluralità di modelli, la loro relativa breve durata nell’uso scientifico, la reciproca complementarietà. Il modello non traduce in maniera esaustiva il significato cosmico del “mistero”; tra il modello e ciò che lo sguardo dell'intelletto coglie in esso esiste un salto logico irriducibile.
In una teoria epistemologica di questa ampia portata anche la teologia può legittimamente pretendere un posto. Similmente alle altre discipline, il discorso teologico fa uso di modelli. Non si trova in una posizione logica superiore rispetto alle scienze naturali, alla sociologia o alla psicologia; non può dettare le sue conclusioni alle altre scienze. Tutte le varie forme di sapere, infatti, si riferiscono al “mistero” e la coscienza di fare un discorso mediato da modelli preserva anche la teologia dalla pretesa di imporre i suoi assiemi in modo dittatoriale. L’unica funzione specifica che la teologia può e deve reclamare è quella di essere il guardiano e il portavoce dell’intuizione e del mistero; il suo compito primario è quello di tener desta l’attenzione delle altre discipline alle esigenze del mistero che le fonda, di sensibilizzarle a quel mistero che ogni disciplina
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cerca a modo suo di comprendere. “Le altre discipline saranno giudicate primariamente dalla qualità della loro articolazione; la teologia sarà giudicata primariamente dalla sua capacità di indicare il mistero. Ma ogni disciplina mescola comprensione e mistero; ciò significa che ci aspetteremo di trovare in ogni disciplina parole e frasi che testimoniano intuizione, così come modelli che assicurano la possibilità di esprimere il mistero” 74.
Una riflessione epistemologica, per quanto sia necessariamente obbligata a muoversi in un piano astratto e formale, non equivale a un gioco di concetti rarefatti. Essa è stimolata dal maggior problema che conosca l’umanesimo nella nostra società del benessere: quello di scoprire nuove occasioni in cui possa dischiudersi il “mistero”. Il ruolo che la riflessione religiosa si propone non contraddice quello della vera scienza; essa vuol stimolare la visione, ricordarci il mistero. Ma il mistero rimane inaccessibile. Il pensiero non può fotografarlo, il linguaggio non può riprodurlo. Ad esso ci si avvicina solo mediante l’uso di modelli. Questa prospettiva mette fine all’altezzosa squalifica del discorso teologico da parte di una scienza positivista, che pretende di essere l’unica forma di sapere sicuro. La teoria epistemologica dei modelli sblocca questa situazione di stallo. Essa ci rende avvertiti che ogni forma di sapere umano, quello scientifico come quello umanistico, è un uso articolato di modelli. Ciò lo relativizza e al tempo stesso lo aggancia alle profondità del mistero. Nel nostro sforzo per vivere nel modo migliore che possiamo, i modelli ci destinano ad essere costantemente circondati da incertezze, sia teologiche che scientifiche. Alle incertezze si può far fronte solo mediante il ricorso alla verifica costante.
Nel modo di verificare i modelli la teologia e le scienze divergono. Nella teologia, al contrario che nella scienza, il modello non è usato per generare deduzioni che possono essere e non essere sperimentalmente verificate. Il modello teologico non può confermare o falsificare la teoria che è sulle nostre labbra. Esso funziona in un modo che vorremmo paragonare al modo in cui si provano le scarpe. Abbiamo una particolare dottrina o, ancor più, un modello concreto di esistenza cristiana; come una scarpa di nostro gusto, esso ci sembra rispondere ai nostri bisogni empirici. Solo una prova più accurata mostrerà se la scarpa stringe, se è
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permeabile all’acqua, oppure se permette una comoda deambulazione. Il misurar le scarpe più che una prova tecnica è un’attività che esige una certa finezza di spirito; richiede la capacità di commisurare i propri bisogni e le prestazioni dell’oggetto, gli svantaggi che conviene tollerare e le funzionalità a cui non si può rinunciare. Un’arte ben più raffinata è quella che la teologia è chiamata ad esercitare quando si mette alla ricerca dei modelli linguistici ed etici per avvicinarsi al mistero che annuncia. Ma anche qui l’ultima parola non può essere detta finché il modello non è stato “provato”. La teoria epistemologica dei modelli e del loro riferimento al “mistero” ci incoraggia in tal senso. Il metodo di prova empirica non squalifica la teologia dal punto di vista epistemologico. Perciò l’audacia dei credenti nell’uso dei modelli, sia in campo dottrinale che in campo morale, non può risultare che accresciuta.
b. Etica e modelli
L’uso di modelli investe in pieno il campo etico. Con queste considerazioni entriamo già nella problematica teoretica che deriva dalla scelta di alcuni modelli spirituali. Prendiamo come paradigma il progetto filosofico che, a primo avviso, appare il più alieno alla tematizzazione dei modelli etici, vale a dire la critica del linguaggio metafisico ed etico fatta da Wittgenstein. La sua posizione è stata interpretata come un’irruzione di neo-positivismo sulla scena filosofica della nostra cultura, impantanata in una insolubile crisi del linguaggio. Si è spesso ripetuto che il suo Tractatus logico-philosophicus è una delle opere più importanti del pensiero contemporaneo, ma solo per ridurre il suo progetto a un banale rifiuto di ogni affermazione che non possa essere verificata empiricamente (“Ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”) 75.
La critica del linguaggio impostata da Wittgenstein può avere ben altri esiti che la riduzione all’assurdo di ogni proposizione di tenore metafisico, religioso, etico o poetico 76. È vero che la sua avventura filosofica prende avvio da una rimessa in discussione della validità dell’uso
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del linguaggio per descrivere il mondo. Il linguaggio sembrava essersi scollato dai fatti descritti. In particolare Wittgenstein ha messo in discussione la validità del procedimento che porta a usare lo stesso linguaggio per connettere fatti e proposizioni, e allo stesso tempo per convalidare criticamente le relazioni intercorrenti tra linguaggio e mondo: ciò assomiglia al tentativo di arrampicarsi su una scala senza sostegni, sorreggendola al contempo. La possibilità di connettere fatti e proposizioni può mostrarsi, e quindi essere vista; ma non c’è maniera né di dirla, né di provarla.
Wittgenstein intendeva costruire una critica generale del linguaggio che mostrasse sia che la logica e la scienza hanno un ruolo fondamentale nel comune linguaggio descrittivo (linguaggio con cui produciamo una rappresentazione del mondo analoga ai modelli matematici dei fenomeni fisici), sia che i problemi circa l’“etica”, il valore e il significato della vita, i quali vanno oltre i limiti del linguaggio descrittivo, possono tutt’al più diventare oggetto di una visione mistica esprimibile solo con comunicazioni “indirette”. I neopositivisti hanno sfruttato la distinzione per contestare ogni validità ai secondo tipo di discorso. Non era però questa l’intenzione di Wittgenstein. Secondo l’interpretazione fornita dal suo amico Paul Engelmann, che ha corrisposto col filosofo al tempo dell’elaborazione del Tractatus, egli intendeva esattamente il contrario di ciò che hanno compreso poi i neopositivisti. li positivismo sostiene che ciò che conta nella vita è ciò di cui possiamo parlare in modo scientifico; Wittgenstein invece credeva appassionatamente che ciò che conta davvero nella vita è proprio quello di cui, dal suo punto di vista, si deve tacere.
Il progetto del filosofo viennese era quello di separare ciò che è etico dalla sfera del discorso razionale. Il significato del mondo sta fuori del fattuale: nella sua sfera, fatta di valori e di significati, vi sono solo paradossi e poesia. Naturalmente non vuol affermare che la moralità è opposta alla ragione, ma soltanto che la sua fondazione è altrove. L’etica non è una scienza. La sua verità non può essere dimostrata, ma solo mostrata. In pratica questo mostrare prende la forma di testimonianza. Per esprimere il significato della vita umana, la verità morale, le cose più importanti della vita, bisogna ricorrere ad altro che al linguaggio della vita quotidiana e della scienza. Per l’uomo buono l’etica è un modo di vivere, non un sistema di proposizioni. Una simile concezione dell’etica ci induce ad attribuire una rilevanza singolare al fatto che Wittgenstein stesso, finita la redazione del Tractatus, abbia abbandonato
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la vita accademica e il mondo borghese di Vienna in cui era cresciuto per andare a fare il maestro elementare in paesini sperduti delle Alpi austriache. Questa decisione di vita diventa un momento ermeneutico fondamentale che dischiude il significato della sua opera filosofica 77.
P. Engelmann ha sintetizzato la posizione di Wittgenstein nell’affermazione che il suo linguaggio è quello della “fede non espressa in parole”. La prospettiva è ricca di sviluppi: “Tale atteggiamento, allorché sarà adottato da altri uomini della giusta statura, sarà la fonte da cui scaturiranno nuove forme di società, forme che non necessiteranno di comunicazione verbale, perché saranno vissute e in tal modo rese manifeste. Nel futuro gli ideali non saranno comunicati per mezzo di tentativi atti a descriverli (il che non può che operare un’azione di distorsione) ma da esempi di un’appropriata condotta di vita. E queste vite esemplari saranno di enorme valore educativo; non ci saranno dottrine espresse in parole che potranno sostituirle” 78.
La vita vissuta, più che le parole, può esprimere l’inesprimibile, vale a dire la qualità umana della vita. Ciò resta vero anche quando consideriamo esistenze che possono essere comprese solo nello spirito di Cristo.
Una dottrina etica è un appello alla comprensione; una vita esemplare all’imitazione. L’imitazione, rettamente intesa, ha un suo posto e una sua funzione nella vita morale. Spesso è stata diffamata come decisione etica inferiore, indegna di un uomo moralmente adulto. Grazie ad alcuni filosofi moderni la sua qualità etica può essere rivalutata. Particolare importanza rivestono a questo riguardo le analisi fenomenologiche che Max Schler ha dedicato al processo etico dell’imitazione. Egli ha distinto il capo dal modello. Il capo agisce per via d’autorità e di comando; la sua influenza si esercita mediante l’obbedienza. Il concetto di modello, invece, dice tutt’altra cosa. Il “modello”, nel senso profondo della parola, implica sempre un’idea di valore. Agisce per via d’esempio o mediante la forza che promana dalla sua personalità. Non impone il valore; questo piuttosto diventa vivo e attraente attraverso il modello. Quelli che lo seguono reagiscono alla sua influenza mediante un atteggiamento proprio che è l’imitazione (Nachfolge). Quest’ultima non va intesa nel senso di copia, di riproduzione materiale (Nachahmung). I capi
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non muovono che la nostra volontà; i modelli strutturano il nostro stesso essere. Scheler definisce il modello come “il valore incarnato in una persona, una figura ideale che è continuamente presente all’anima dell’individuo o del gruppo, così che questa prende poco a poco i suoi tratti e si trasforma in essa: il suo essere, la sua vita, i suoi atti, coscientemente o incoscientemente, si regolano su di essa, sia che il soggetto abbia a felicitarsi di seguire il suo modello, sia che abbia a rimproverarsi di non imitarlo” 79.
Anche se Scheler conosce la fedeltà riflessa e cosciente verso un modello, la sua analisi si sposta soprattutto su quella specie di fedeltà “vitale”, che si imprime misteriosamente nell'anima, pur sfuggendo alla percezione distinta, e magari alla coscienza, di colui che essa anima. “La persona (o il gruppo) che segue un modello non ha bisogno di conoscerlo in maniera cosciente e di sapere che essa lo ha per modello e che, giorno dopo giorno, forma il proprio essere sul suo, modella la propria personalità sulla sua. Arriverò anche fino ad affermare che molto raramente essa lo conosce come un ideale di cui sarebbe capace di definire il contenuto positivo, e che essa lo conosce tanto meno quanto più la sua azione formatrice è più potente su di sé” 80.
Il “discepolo”, in ogni caso, non obbedisce a una forza di suggestione che emanerebbe da un modello. E neppure lo copia. La sua condotta cambia in quanto il modello esercita su di lui un’“attrazione” (Zug), la quale, sviluppandosi e precisandosi, diventa amore 81. Questo amore non concerne questo o quell’aspetto o atto del modello, ma il centro stesso di tutto il suo essere, la sua essenza spirituale alla quale arriviamo così a partecipare. Sotto questa forma la relazione di fedeltà è atta a suscitare nel discepolo una trasformazione morale, una conversione del suo spirito, un rinnovamento del suo essere che né l’obbedienza, né il rispetto di norme astratte potrebbero produrre. L’origine e lo stimolo efficace al progresso morale bisogna cercarlo nell’influenza di persone concrete, dal destino esemplare, e non in regole puramente formali di portata universale.
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Alla stessa conclusione giungeva anche Bergson quando opponeva la morale chiusa, fondata sulla generalità imperativa di formule impersonali, e la morale aperta, la quale si incarna in una personalità privilegiata che diventa un esempio: “Perché i santi hanno imitatori; e perché i grandi uomini di bene hanno trascinato dietro a sé delle folle? Non domandano niente, e purtuttavia ottengono. Non hanno bisogno di esortare; non hanno che da esistere; la loro esistenza è un appello” 82.
Da questi filosofi che hanno propugnato un’etica personalista accettiamo la perorazione a favore del modello nella vita morale. Allo stesso tempo impariamo a distanziarci da un’imitazione pedissequa e letterale, che porterebbe a spegnere l’esistenza morale autentica in una serie di tipi fissi. I modelli presentano una certa composizione di valori in una prospettiva storica che, per quanto recente, non si identifica mai con la nostra. Possono servirci da ispirazione, da segni indicatori del cammino; ma non devono sostituire lo sforzo morale creativo richiesto ad ognuno.
c. Psicosociologia del modello eroico
Un’ulteriore articolazione del discorso ci permetterà di precisare in che senso la cultura attuale autorizza il riferimento a modelli spirituali. Essa ci invita a definire il nostro progetto differenziando il modello spirituale dal modello eroico. Non si tratta di rivisitare la terra degli eroi e degli ideali eroici. Noi viviamo in un’epoca che, a differenza dalle precedenti, vuol essere anti-eroica 83. Quando un insieme di valori diventa così carico di vitalità che la gente vuol vivere di esso e morire per esso, nascono figure eroiche. Gli eroi accompagnano necessariamente un sistema di valori e di pensiero che è stato abbracciato da una comunità. Le motivazioni eroiche cambiano col tempo. Possono derivare dal senso della persona, o dall’idea nazionale, o dallo zelo religioso; così Achille cede il posto a Enea, per venir soppiantato da Parsifal. Sempre comunque l’eroe e il sistema di pensiero nel quale è incastonato stanno in una
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relazione di complementarietà: li primo è l'aspetto attivo del secondo. Valori ed idee che non danno origine ad eroi rimangono astratti esercizi mentali; eroi non integrati in un sistema di valori e di idee assomigliano ai vacui abitanti dei fumetti.
Nell’infanzia della cultura umana gli eroi rispondevano al bisogno psicologico di sicurezza, a quello di guida politica e sociale, al bisogno morale di tendere alla perfezione in pensieri ed azioni. La nostra cultura sembra essersi estraniata dal mondo eroico. Abbiamo demitizzato la letteratura sacra con la nostra nuova capacità di leggere e comprendere i testi antichi; abbiamo deromanticizzato le grandi personalità del passato con la nostra comprensione dei motivi oscuri che soggiacciono al comportamento umano. L’approccio psicoanalitico negli studi storici ha portato a un sofisticato smascheramento dei proclamati ideali e motivazioni dei grandi uomini del passato. È diventato di moda disprezzare le “buone ragioni” offerte come spiegazione del comportamento umano e ci si è scaltriti nella ricerca delle “vere ragioni” nascoste dietro ad esse. Nel vocabolario di queste scienze riduttive non c’è più posto per termini come “grande” o “piccolo” in riferimento alle personalità individuali, tutte esposte a un sospetto metodico. Uno degli aspetti più vistosi di questo umore antieroico è il crescente disincanto nei confronti dei leaders della vita politica nazionale.
Una critica a fondo dell’idea tradizionale di eroe è apparsa nella concezione dell’anti-eroe di tipo esistenzialista. Essa è distinta dai prototipi di eroi negativi come Lucifero o Prometeo per il fatto che deriva da un’esperienza di confusione e di insuccesso, che è un elemento costitutivo della condizione umana dei tempi moderni. Una giustificazione filosofica estesa dell’anti-eroismo si trova negli scritti di J.P. Sartre. Il suo intellettuale è condannato all’insuccesso dalla sua stessa lucidità. Perché un tale eroe è necessariamente conscio di sé, è incapace di perdere se stesso buttandosi a corpo morto nell’impegno di un’azione. Tanto più intensamente dà se stesso agli altri, tanto più completamente è solo, prigioniero del suo ego privato. È la sua tragedia, sostiene Sartre 84.
Più che ogni altra forma d’arte il romanzo è servito a riflettere la frattura dell’antico ordine delle cose. Testimoniando il sorgere dell’epoca
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moderna, ha disegnato per noi un nuovo modello di realtà. Il risultato è un quadro della realtà così lontano dal mondo dei nostri padri che la loro tradizionale idea di eroe non è più concepibile come possibilità artistica. All’Odissea di Omero fa riscontro l’Ulisse di Yoyce. Leopold Bloom, la cui giornata è scandita dalle funzioni fisiologiche più umili, fa da contraltare all’eroe omerico. Bloom è l’ultimo eroe di oggi; l’aureola di nobiltà che lo circonda è quella della vita ordinaria. È la vita ordinaria, in tutta la sua mondana consistenza, il re e l’eroe di oggi. Tutto dà a credere che per lungo tempo a venire nessun eroe sarà nostro compagno di viaggio.
Ci piaccia o no, dobbiamo tener conto di questa situazione quando ci proponiamo di presentare delle avventure spirituali personali come modelli. Sulla nostra cultura soffia un vento antieroico che minaccia naufragi. Sempre più numerosi sono coloro che sottopongono al vaglio di un’analisi accurata le figure emergenti del nostro tempo prima di accettarle come straordinarie. Troppe tra di esse si rivelano il prodotto dei fabbricanti d’immagini. In passato molto facilmente sono stati adottati eroi; spesso siamo stati disillusi. Ora siamo più cauti. Una cosa è certa: una figura spirituale che oggi pretenda udienza deve evitare di presentarsi con il cliché dell’eroe. Neppure la versione ecclesiastica dell’eroe, cioè il santo, puro nelle motivazioni e sovrumano nell’esercizio della virtù, gode accesso presso gli scettici figli della nostra epoca. Ma un modello spirituale, così come la critica del sapere e le esigenze dell’etica lo richiedono, non vuol essere una versione aggiornata dell’eroe. La teologia può dirci, in positivo, quali sono le caratteristiche di validità di un modello spirituale che si situi nella sequela di Cristo.
2. Verso una teologia della vita
a. L’attenzione al vissuto storico
Tra le numerose richieste di un rinnovamento teologico che faccia fronte alla crisi attuale un’istanza originale è quella che auspica il ritorno a una dimensione narrativa del far teologia 85. La proposta può
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apparire ovvia, qualora si consideri che i testi su cui si fonda il cristianesimo sono delle narrazioni. Gesù di Nazareth ci si presenta prevalentemente come una persona narrata; i discepoli compaiono in veste di persone che ascoltano e trasmettono questi racconti; il cristianesimo è strutturato come comunità narrante.
Ben presto, tuttavia, il cristianesimo perse la sua innocenza narrativa. Nel mondo ellenistico in cui esso si inserì già da tempo il narrare (il mythos) era subordinato al ragionare (il logos). La teologia ha svolto la funzione di tramutare, nel modo più celere e completo possibile, le storie tramandate in non-storie, in sistema speculativo di nozioni. Nell’epoca moderna il divorzio tra sistema teologico ed esperienza religiosa, tra dogmatica e mistica, è andato radicalizzandosi. La biografia religiosa, cioè l’articolarsi della storia personale vissuta dinanzi a Dio, si è allontanata sempre più da ciò che la teologia scientifica ha riconosciuto come suo compito. Quest'ultima, erigendo a sistema il suo disdegno di un contatto con la vita, si è mutata in una dottrina che scambia l'atrofizzazione per oggettività scientifica.
Una perorazione a favore del narrare rischia di cadere oggi nell’indifferenza. Non solo le scienze argomentative, ma anche quelle storiche disdegnano sempre più il narrare. Nella società contemporanea sembra che, al di là della sbrigativa trasmissione di notizie, non ci sia più posto per il racconto. Critici della cultura di profonda intuizione, come Walter Benjamin e Th.W. Adorno, hanno diagnosticato la fine del narrare. Eppure la teologia, se vuol essere un vero servizio al messaggio cristiano, non può ripudiare pusillanimamente il narrare. Il teologo J.B. Metz ha proposto una rivoluzione teologica del racconto ricorrendo alla categoria del “ricordo pericoloso”. È una deformazione riservare il potenziale narrativo cristiano ai bambini ingenui; esso ha in realtà effetti critici e liberatori: “Narrano i piccoli e gli oppressi, ma questi non raccontano soltanto storie che li inducono continuamente a celebrare la propria oppressione e stato di minorità, ma anche storie pericolose, miranti alla libertà... La forza critico-liberante di queste storie non si può provare a priori o ricostruire; bisogna che ci si imbatta in esse, le si ascolti e possibilmente le si ripeta. Ma non esistono forse anche nella nostra epoca cosiddetta post-narrativa “narratori” delle più diverse specie, che fanno capire ciò che le storie possono essere: e appunto, non soltanto creazioni artistiche, produzioni qualsiasi, private, bensì racconti con effetti stimolanti
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sulla società, in certa misura critico-sociali, quindi ‘storie pericolose’?” 86.
Una teologia che, privilegiando il narrare, riuscisse a riconciliare dogmatica e storia vissuta, diventerebbe estremamente significativa per il cristiano medio. Perché è proprio il vissuto storico del popolo, l’esperienza religiosa quotidiana dei credenti che si troverebbe rispecchiata nel racconto di vite singolari. Una teologia siffatta sarebbe tanto più rilevante in quanto viviamo in una società in cui i possibili modelli di vita appaiono come prefabbricati, dotati di un marchio di stereotipo, che corrode le anime con la stanchezza della loro identità o con la noia della ripetizione in serie.
Sarebbe impreciso affermare che questa dimensione narrativa, centrata sul vissuto individuale, sia stata completamente bandita dalla prassi ecclesiale. La teologia cattolica, in polemica più o meno diretta con quella protestante, ha sempre sottolineato che l’eredità cristiana è portata dalla tradizione vivente, la quale si esprime nella vita stessa dei cristiani, in particolare dei santi. La venerazione dei santi ha prodotto sia le numerosissime biografie di tipo devozionale, sia il lavoro scientifico dei Bollandisti. Ma questa attività si è svolta in un terreno autonomo, senza integrarsi nella teologia vera e propria. Il lavoro teologico è stato dedicato a continuare la neoscolastica di origine tomista, ovvero a investigare quei problemi teologici speciali creati dall’epoca moderna. I teologi di professione non si sono occupati dei santi in modo tematico.
Tra i teologi di rilievo spiccano solo due eccezioni. La prima è costituita da Romano Guardini. In tutta la sua opera — come dichiara nell’introduzione a Libertà, grazia, destino — egli ha tentato di raggiungere “uno sguardo d’insieme che abbracciasse l’esistenza cristiana nella sua complessità”, così come lo possedeva il pensiero cristiano primitivo. Il suo modello ideale era Agostino, il quale “non distingue metodicamente fra filosofia e teologia, e poi tra metafisica e psicologia nella filosofia, e di nuovo tra teologia dogmatica e dottrina pratica della vita nell’ambito della teologia, ma, partendo dall’esistenza cristiana nel suo complesso, ferma la sua meditazione su questo complesso e sulla molteplicità dei suoi contenuti” 87. Per un tale progetto teologico il concreto
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del vissuto storico dei cristiani eminenti è un terreno di elezione. Guardini ha affrontato esplicitamente la portata teologica della vita dei cristiani in un volume, Il santo nel nostro mondo, progettato come introduzione ad una serie di vite di santi. Nei santi egli vede di modelli per nuovi stili di esistenze cristiane; essi aprono sentieri che altri possono seguire. Guardini auspica “un nuovo genere di santi”, che possa incarnare la santità di questa generazione. La via non è oggi quella del distacco e dell’ascetismo; si deve compiere mediante un abbandono obbediente alle direttive di Dio così come queste sono mediate dalla situazione secolare nella quale uno si trova. La via del santo non sarà perciò straordinaria, e nessuno potrà identificare facilmente un santo moderno.
Il vissuto storico ha un posto ancora più organico nella visione teologica di Hans Urs von Balthasar. Nella sua opera di maggior impegno, Herrlichkeit 88, egli si è proposto di dar corpo a un’“estetica teologica”, vale a dire una contemplazione del Dio della rivelazione cristiana, non in quanto comunica la verità o in quanto si mostra benevolo verso l’uomo, bensì in quanto si avvicina all’uomo per manifestare se stesso “nell'eterno splendore del suo amore trinitario”. In altri termini, una contemplazione di Dio alla luce non delle tradizionali categorie del “vero” e del “buono”, bensì di quella del “bello”. Tutto ciò che è bello e splendido al mondo è l’epifania, lo splendore dei principi d’essere potenti e nascosti che mediante la rivelazione di Dio in Cristo emergono in una figura espressiva.
L’estetica teologica ha il compito di dare alle proposizioni astratte il colore e la pienezza proprie della storia. Perciò il teologo svizzero, dopo aver considerato nel primo tomo della sua opera il sole divino in se stesso, nel secondo si svolge ai raggi che esso proietta sull’umanità. Fa sfilare perciò sotto i nostri occhi tutta una serie di teologi cristiani e di personalità spirituali eccezionali, scelte in ragione della loro importanza storica. La pluralità delle loro visioni cristiane del mondo mostra la gloria della rivelazione divina nella diversità delle sue manifestazioni. È come lo scindersi della luce bianca nella molteplicità dei colori al passare attraverso il diamante. Le testimonianze di vita e di dottrina di teologi, di laici e di “spirituali” vengono semplicemente giustapposte, nella coscienza
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dell’impossibilità di ridurre a sistema la molteplicità delle contemplazioni storiche di Dio nella sua bellezza. Agostino viene presentato accanto a Dante, Giovanni della Croce accanto a Péguy. Nel complesso von Balthasar rivolge un’attenzione più accurata ai laici che ai teologi di scuola. E a ragione: dai laici è sorta spesso un’opposizione contro le angustie della teologia cristiana ridotta a formazione pastorale, a specializzazione, a routine accademica. Con gli occhi fissi sulla storia, del mondo e sul presente, cristiani di eccezione sono stati sorgente di creatività per la vita cristiana più che qualsiasi sistema teologico. A questo apporto originale nella comprensione della bellezza del volto umano di Dio l’opera di von Balthasar vuol rendere omaggio.
La menzione esplicita dell’opera dei due teologi valga a suggerire di quale profitto può essere per la teologia l’assumere come punto di partenza il vissuto concreto dei cristiani. Il fatto che questi tentativi teologici valgano come eccezioni sottolinea quanto sia urgente adottare un modo di far teologia in cui sia fatto il debito posto alla visione spirituale di alcuni cristiani esemplari.
b. Biografia come teologia
Abbiamo prestato orecchio alle voci che da più parti reclamano un rinnovamento per la teologia a partire da una accresciuta attenzione al vissuto storico. È stato considerato anche qualche abbozzo di realizzazione in questo senso. Ciò ci porta a concludere che esistono alcune vite in cui il principio direttivo della fede cristiana ha saputo creare, mediante una singolare coerenza di azione e di dottrina, una forma nuova di esistenza evangelica 89.
Le credenze cristiane non sono infatti “proposizioni” da catalogare e giudicare con criteri imposti da un riferimento esterno ed oggettivo, bensì convinzioni vive che dànno forma a vite attuali e a comunità
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attuali. L’esame critico consono con le credenze cristiane è dunque quello che comincia con l’attenzione alle vite vissute. Facciamo qui profitto delle istanze di ordine epistemologico ed etico che abbiamo accolto dalla cultura contemporanea.
Abbiamo notato che la scienza dipende da modelli, l’arte da forme astratte, la religione da immagini. Non intendiamo rigettare questi campi della conoscenza umana, bensì aprire la via alla piena manifestazione della visione che essi evocano. Il modello si apre sul mistero, cioè sulla vera cosa di cui è questione nella scienza, nell’arte e nella fede. Pur essendo il modello inadeguato ad esprimere la totalità del mistero, resta purtuttavia una via legittima — anzi, l’unica valida — verso di esso. Parlare veramente e fedelmente di Dio è parlare mediante modelli, immagini, analogie: non abbiamo altra scelta. La convalida della visione che il discorso teologico evoca dipende in parte dalla qualità della vita che traduce e incarna questa stessa visione. Le vite che portano un’immagine recano testimonianza alla visione che esse rappresentano. Per questo la teologia non può prescindere dal materiale biografico. La teologia è sostanziata di biografia. Volgendosi a queste vite di credenti, la teologia trova la via per riformare se stessa, per rendere credibile il suo discorso — “mostrando” ciò che non può “dimostrare” —, per accrescere la fedeltà alla visione originaria e l’adeguamento alla nostra epoca.
Questo procedimento si differenzia da quello con cui la chiesa, nel suo magistero ufficiale, propone autorevolmente dei santi canonizzati come concreto esempio di vita cristiana per una determinata epoca o per alcune categorie di persone. La nostra ricerca di modelli si porta verso quelle personalità singolari che, nel nostro tempo, hanno vissuto l’essenziale del cristianesimo in modo creativo diventando così spontaneamente punti di riferimento per numerosi altri credenti in ricerca. Nella comunità cristiana appaiono infatti di tanto in tanto delle vite singolari o impressionanti, vite di persone che dànno corpo alle convinzioni della comunità in un modo originale; che condividono la visione della comunità, ma con un nuovo orizzonte e una nuova forza; che mostrano lo stile della vita cristiana della comunità, ma con differenze significative.
L’impatto di queste vite dischiude, amplia e forse corregge la visione spirituale della comunità, operando come stimolo contagioso o come attrazione nel senso di Max Weber. Soprattutto risveglia altre convinzioni della comunità circa il suo modo di intendere Dio, la sua concezione dell’uomo, il suo apprezzamento della terra e dell’attività umana.
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La vita di queste personalità significative, con la sua attrazione e bellezza, può fornire elementi ai pensatori cristiani, realizzando così l’auspicata fecondazione della teologia ad opera del vissuto concreto. Anzi, si può vedere uno dei compiti specifici della teologia precisamente nell’impegno ad abbordare questo tipo di riflessione. Sia il magistero che la teologia, dunque, possono e devono occuparsi della vita dei cristiani esemplari: il primo per canonizzare i santi ufficiali, la seconda per elaborare una riflessione sul vissuto concreto della fede. Ma dal punto di vista che è il nostro la presentazione di modelli spirituali svolge una funzione che si differenzia sia da quella autoritativa del magistero che da quella dottrinale della teologia. Essa si propone di rendere sensibile allo sguardo interiore la sintesi vitale del messaggio cristiano realizzata da alcuni credenti del nostro tempo. Nell’esperienza cristiana la parte fatta alla rappresentazione visuale è particolarmente importante. Basti pensare al posto che occupa la visione interiore negli Esercizi Spirituali di S. Ignazio e l’immagine nella pittura sacra, in quanto supporto della meditazione e rappresentazione d’uno sguardo interiore 90. Il postulato teologico che fonda il primato dello sguardo è l’incarnazione: Dio si è fatto uomo, quindi visibile. Anche la biografia degli uomini che si situano nella sequela dell’unica immagine adeguata, Gesù di Nazareth, può essere colta dallo sguardo dei credenti come una sua trasparenza. Più precisamente, siamo autorizzati a considerare la vita di questi santi come una parte della vita del Cristo, il risorto che effonde il suo Spirito ed anima la comunità dei discepoli attraverso i secoli. Essi sono in Cristo; il Cristo è in loro (cfr. Gal. 1,22; Rom. 8,10). Perché la vita del Cristo non può essere detta senza l’intero NT, senza l’intera storia del “movimento” che ha preso origine dal vangelo, senza la vita dei suoi seguaci nel corso dei secoli.
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GLI STATI DI VITA:
UN APPROCCIO ANTROPOLOGICO-SPIRITUALE
1. Una spiritualità per ogni “stato di vita”
La prospettiva teologica tradizionale portava a moltiplicare le forme di spiritualità secondo i diversi “stati di vita”, intendendo con tale nozione delle condizioni concrete — alcune stabili, altre contingenti — che caratterizzano un’esistenza e sono il fondamento di particolari doveri. Come esemplificazione della tendenza a elaborare spiritualità modellate su un determinato stato di vita, possiamo riferirci ai tentativi di fondare teologicamente una “spiritualità dello stato di malattia”. È certamente un caso limite, ma proprio per questo ricco di insegnamenti sui rischi di ancorare la spiritualità a un determinato stato di vita. La spiritualità a cui ci riferiamo si radica in una corrente teologico-spirituale che considera l’amputazione dei valori umani come mezzo privilegiato per accedere a una situazione spirituale superiore. Per costoro lo stato di malattia, considerato in quanto spogliazione dei beni della salute e dell’attività umana, è uno stato particolarmente santificante, a cui è appropriata una specifica spiritualità, centrata sull’accettazione. Un’illustrazione tipica di tale posizione si può trovare nell’opera di J. Leclercq: Valeurs chrétiennes. A suo avviso, dopo l’“humiliavit semetipsum” di Gesù Cristo, non c’è stato di santificazione al di fuori dell’umiliazione: “Essere capo, essere ricco, non sono in sé mezzi di santificazione; essere obbediente, essere povero, lo sono. Essere sano e vigoroso non è in sé un mezzo di santificazione; essere ammalato e misero, lo è” 91. Sviluppando il
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parallelo ricco-povero, viene a sostenere che lo stato di malattia realizza una posizione di privilegio rispetto alla salvezza: “Come il ricco cristiano deve conservare sempre una punta di inquietudine pensando alle parole del Maestro, mentre il povero gode della pace profonda di sapersi in conformità pura e semplice col Vangelo, allo stesso modo il sano deve conservare una punta di inquietudine — deve sempre domandarsi se fa abbastanza — mentre il malato non ha che da lasciarsi fare e accettare”. Allo stato di malattia andrebbero attribuiti vistosi vantaggi nei confronti della santificazione. Ecco come li formula Leclercq: “La malattia è uno stato di santificazione, perché la perfezione vi diventa semplice e, in certo modo, più facilmente accessibile che nello stato di salute. L’uomo sano ha anch’egli, è vero, il dovere di tendere alla perfezione, ma ciò è più complicato per lui. La malattia semplifica la vita; il dovere per il malato è facilmente tracciato: accettare” 92. La malattia viene così isolata dal complesso della vita umana, per farne uno stato di vita retto da una dinamica di santificazione particolare, caratterizzato da una propria spiritualità — la “spiritualità del malato”, appunto — la cui nota dominante è l’accettazione.
Questa prospettiva di spiritualità ha trovato riscontro in una discussione teologica sulla malattia come “status vitae” dell’uomo. La trattazione più approfondita è quella di F. Lepargneur 93. Il teologo domenicano si chiede a quale nozione teologica si riallacci più adeguatamente la malattia, e la individua nella nozione di “stato di vita”, come è stata elaborata dalla teologia soprattutto in rapporto allo stato dei religiosi. Perché la nozione di stato di vita possa essere applicata alla malattia, Lepargneur trova necessario che la si liberi anzitutto da alcune connotazioni che derivano dal fatto di venire impiegata per definire la condizione dei religiosi, ma che non le appartengono essenzialmente. Bisogna in un primo luogo scindere la nozione di stato da quella di grande stabilità: “Lo stato comporta una certa attitudine al prolungamento, non di più”. In un secondo luogo, lo stato non è necessariamente un impegno liberamente contratto. Benché dunque la malattia non sia una condizione stabile e non vi si entri liberamente, il teologo si sente autorizzato a considerarla uno stato di vita. Qual’è dunque il criterio decisivo che contrassegna gli stati di vita? Lepargneur, seguendo S. Tommaso (S. Th. II-II, q. 183, a. 1), lo trova nella persona, in quanto è padrona
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di se stessa o dipendente: “La nozione di stato è correlativa a quella di libertà e schiavitù in qualsiasi ordine”. La malattia può essere definita come una realtà che limita la libertà umana sottraendo, in misura maggiore o minore, l’equilibrio del corpo e la sua attività alla piena reggenza dello spirito libero. La servitù del malato, dunque, si estende a tutto il suo essere in ragione del suo corpo. La malattia presenterebbe tratti caratteristici della nozione teologica di stato di vita in ragione dei rapporti dell’anima e del corpo, che nella concezione aristotelico-tomista sono di “unità formale”. Siccome ogni stato implica l’impiego dell’essere nella sua totalità, l’uomo malato viene a trovarsi in uno stato di vita peculiare. Dal punto di vista spirituale, il soggetto è inserito in un certo condizionamento, che crea facilità e difficoltà proprie in merito all’acquisizione della santità. Ciò sembra giustificare, secondo Lepargneur, l’attribuzione alla malattia della qualifica di stato di vita.
L’estensione di questo concetto è molto discutibile. Diversi teologi hanno avversato l’impiego dell’espressione “stato di vita” a proposito della malattia: anche se, con alcune acrobazie semantiche, può in qualche modo essere legittimata, sembra pericoloso farla passare nel linguaggio corrente. Può far pensare, infatti, a una situazione stabile, all’interno della quale ci si installa in vista di una certa perfezione 94. Percorrendo questa via si può arrivare facilmente a pervertire il senso cristiano della vita e a impantanarsi nei meandri del dolorismo. In questa sede non ci interessa approfondire la questione specifica dello stato di vita del malato 95. Ci riferiamo ad essa solo per illustrare il pericolo, dal punto di vista della spiritualità, di un uso inflazionistico del concetto stesso di stato di vita.
Simili distorsioni oggi non sono più correnti. La prospettiva conciliare ha portato a privilegiare l’unica spiritualità, quella pasquale, compito comune di ogni cristiano. Ciò ha portato un utile correttivo alla tendenza a moltiplicare le “spiritualità” specifiche, riferendole non solo ai tre stati previsti dal diritto canonico — laici, religiosi e sacerdoti —, ma anche alle condizioni di vita contingenti.
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2. Il cambiamento di stato: un approccio socio-psicologico
La nozione teologica degli stati di vita deve la sua diffusione soprattutto alle applicazioni spirituali che ne sono state fatte. Attraverso la mediazione della morale, che amava semplificare l’impegno etico richiesto al cristiano riducendolo ai “doveri del proprio stato”, si privilegiava una prospettiva di stabilità. In rapporto alle situazioni critiche che si possono presentare nel corso dell’esistenza, nelle quali un impegno preso a vita rischia di essere rimesso in discussione, la fedeltà al proprio stato diventa così un valore strutturante della vita cristiana. In tal modo situazioni fenomenologicamente diverse — come l’abbandono del ministero sacerdotale, la rinuncia alla vita religiosa e la rottura del matrimonio — vengono ricondotte al comune denominatore dell’infedeltà alle esigenze del proprio stato di vita, che si suppone scelto sulla base di una vocazione. L’invito a rimanere fedeli equivale, in questi casi, a un appello a non operare rotture, a continuare a vivere conformemente alle scelte operate in passato. Prevale così un atteggiamento che non sentiamo conforme alle esigenze della realtà, ma piuttosto frutto di una semplificazione moralistica. È nocivo al cristianesimo in quanto tale, perché ne dà un’immagine deformante: porta a identificare il cristianesimo con la difesa incondizionata del passato, con la chiusura alla novità e alla creatività, con l’insensibilità alla storia. Nocivo soprattutto alle persone concrete, i cui drammi di coscienza individuali, che si innestano spesso su conflitti dolorosi, vengono risolti in uno schema che premia il fariseismo. La lettura moralizzante dei cambiamenti di vita può essere corretta solo adottando una prospettiva socio-psicologica. Non per risolvere i problemi della fedeltà in sociologismi e psicologismi, ma piuttosto per dar loro una base antropologica attendibile, inserendoli nel contesto concreto della nostra società. Stabilità e cambiamento non dipendono solo dall’impegno morale e dalla qualità spirituale delle persone, ma anche dai valori che hanno più credito socialmente; e questi, a loro volta, sono intrecciati con le trasformazioni strutturali e simboliche che avvengono nella società. Senza questa collocazione socio-culturale la fedeltà diventa un valore astratto, incapace di rendere conto del pieno significato umano, e quindi anche spirituale, che hanno la scelta e il cambiamento di stato.
Lo spessore sociale che ha la trasformazione in atto circa la fedeltà agli impegni è stata ben analizzato dal sociologo Jean Rémy 96. A suo
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avviso l’impegno interpersonale — nel matrimonio o in altre forme che comportino un analogo impegno a vita, come l’abbracciare la vita religiosa o sacerdotale — deve essere inserito nella logica degli scambi che sottende tutto l’insieme dei rapporti sociali. Le società basate sul regime di aiuto scambievole assicurano un dono senza ritorno e una fedeltà incrollabile. Ai gesti vissuti sotto il registro del dono, cioè come atti disinteressati, corrisponde la serie dei contro-doni. La solidarietà di gruppo che ne risulta ha una funzione sociale di primaria importanza. I legami coesivi in questo tipo di società passano soprattutto attraverso il matrimonio e il sistema di parentela. L’indissolubilità del matrimonio acquista il suo senso forte quando la si situa nel quadro di uno scambio tra due gruppi che vogliono instaurare una solidarietà tra di loro che li sottragga dall’imprevisto. La solidarietà è espressa da una fedeltà che resiste all’insuccesso della relazione interpersonale, perché la perennità dell’alleanza non può essere rimessa in discussione. Tale simbolica dell’alleanza matrimoniale trova la sua piena valorizzazione nella sacramentalità che simbolizza l’alleanza di Jahve con il suo popolo, di Cristo con la Chiesa. Completamente differente è invece la logica sociale che si esprime in una società come la nostra, in cui è possibile stabilire un’equivalenza sul piano degli scambi interindividuali. La logica del calcolo si sostituisce a quella del dono. Qui il criterio decisivo diventa la reciprocità dello scambio interpersonale nella coppia, e l’individuo assurge a centro e unità di misura del significato dello scambio. Mentre nel quadro della logica precedente il divorzio per mutuo consenso era un’aberrazione, in questo contesto, invece, il divorzio può essere un omaggio reso alla coniugalità: la coppia, infatti, non ha più senso se non è capace di creare una reciprocità interpersonale.
Il sociologo mette in guardia dall’interpretare questa trasformazione, semplicemente a partire dagli effetti della coscienza, come un progresso dovuto a una morale personalista. Essa è piuttosto il risultato di fattori globali che modificano fondamentalmente il significato e le modalità del regime di scambi. La nostra cultura, inoltre, incrementa le diverse forme di mobilità che sono sfavorevoli agli impegni in cui prevale la solidarietà inglobante e valorizza il progetto individuale come condizione dell’efficacia collettiva. L’impegno irreversibile a vita, il debito inestinguibile che cementa la coesione del gruppo, sono messi in questione da un sistema di scambi la cui efficacia suppone una relativa grande mobilità delle persone e delle cose. Come effetto di queste trasformazioni,
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chi abbandona un impegno a vita — nella vita matrimoniale come in quella religiosa — non incorre più in quel tipo di condanna che equivale alla morte sociale, come invece vigeva nelle società rette dalla logica del dono-controdono. Per il sociologo, tuttavia, la fedeltà nella coppia e la fedeltà a un impegno di vita religiosa non sono equivalenti per quanto riguarda il loro significato sociale. Famiglia e chiesa, infatti, non sono inserite alla stessa maniera nel tessuto sociale. “L’evoluzione che conosce la coppia si inscrive in quella dei micro-gruppi; il campo di possibilità lasciato agli sposi permette loro di costruirsi insieme, di crearsi come coppia e di cambiare insieme. C’è là una possibilità di storia che dipende dai due e non esplicitamente controllata dalla società, a seguito della netta riduzione del ruolo giocato dalla famiglia nel quadro produttivo dell’economia. Il problema si pone in modo differente per ciò che concerne la chiesa: si ha qui a che fare con un’organizzazione che evolve secondo tempi differenti e più lenti di quelli che reggono gli individui, specialmente quelli che, per il loro inserimento istituzionale, subiscono pressioni istituzionali divergenti. Così la fedeltà nella coppia e quella all’impegno sacerdotale o religioso si iscrivono in una dimensione strutturale differente” 97. Non possono, quindi, essere valutate alla stessa maniera, come fa appunto il moralismo incline a ricondurre tutti i fattori che spingono al cambiamento di stato a flessioni della virtù della fedeltà.
Un altro ordine di considerazioni va aggiunto a quello del sociologo. L’osservatore sociale che volesse rendere conto della spiccata tendenza della nostra cultura al cambiamento dovrebbe menzionare, dopo le condizioni socio-economiche che lo rendono possibile, gli stereotipi che svolgono psicologicamente la funzione di facilitatori del cambiamento stesso. Prendiamo in considerazione lo stereotipo dell’“autorealizzazione”. Cambiare professione, o abitazione, o partner, o stati di vita, sono considerati come “passaggi” verso la ricerca del vero Sé 98. Anzi, il passaggio a un’altra modalità di vita, attraverso lacerazioni spesso dolorose, è la condizione per uscire dall'impasse in cui ci si viene a trovare quando si vive in modo adattato, a partire da un “falso Sé”. La necessità di cambiare è sentita più acutamente proprio dagli individui ben inseriti ed equilibrati, da coloro che si sono piegati agli imperativi sociali,
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si sono sottomessi al desiderio altrui. Le donne, man mano che si emancipano dalla soggezione loro imposta culturalmente, sono le protagoniste dei cambiamenti più clamorosi.
Le trasformazioni deliberate del proprio quadro di vita sono guardate con indulgente benevolenza, spesso incoraggiate. Una diffusa suggestione si incarica di convincere le persone che il loro destino riposa nelle proprie mani: possono essere i protagonisti dei cambiamenti significativi di cui hanno bisogno.
Non è, di per sé, una cosa nuova che le persone desiderino cambiare i loro sentimenti, il loro modo di vivere e di pensare. Nuova è solo la fisionomia secolarizzata del fenomeno. Nelle culture tradizionali, tanto dell’oriente che dell’occidente, i cambiamenti con risonanza esistenziale erano ottenuti all'interno di un’esperienza religiosa. Il cambiamento fondamentale, da cui derivavano eventualmente gli altri, era quello del rapporto con Dio; i competenti umani del cambiamento erano i sacerdoti. Oggi è mutato il quadro di riferimento: la principale agenzia di cambiamento non è considerata la religione, bensì la psicoterapia; e gli psicoterapeuti hanno preso il posto dei confessori, dei predicatori, dei padri spirituali come guide verso la nuova nascita. La relazione di aiuto è stata professionalizzata. Nei momenti cruciali di crisi dell’esistenza, quando le traversie della vita rompono un equilibrio precedente e fanno riemergere i conflitti non risolti, è a questi specialisti del cambiamento che si fa ricorso.
Per rispondere alla domanda la psicoterapia ha esteso l’ambito del suo intervento oltre il campo della psicopatologia, proponendo un aiuto tecnico per facilitare i processi di crescita delle persone considerate “normali” o “sane”. Promotore dell’allargamento dell’indicazione terapeutica è stato soprattutto il movimento del potenziale umano (human-potential movement), che ha raccolto le istanze emerse nell’area nota come “psicologia umanistico-esistenziale” 99. Il motivo per cui la psicoterapia è chiamata in causa non è più soltanto l’intervento autoritario con cui la società, anche contro la volontà dell’individuo, invia i soggetti dal comportamento deviante (“sociopatici” in genere) nelle istituzioni adibite
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al loro contenimento, mediante punizione e riabilitazione; né la decisione personale dell’individuo che cerca presso lo specialista un sollievo dai sintomi della sofferenza psichica. Allo psicoterapeuta ricorre chiunque avverta una situazione di deficienza nella propria vita. Se il metro di paragone è la completa autorealizzazione, più nessuno può dichiarare superflua per sé la psicoterapia: chi potrebbe dire, infatti, di aver realizzato in pieno le proprie potenzialità, e di non poter diventare ancora più spontaneo e naturale?
Le terapie autorealizzative sono numerose e varie, tanto negli scopi quanto nelle tecniche. Solo a titolo esemplificativo, possiamo nominare i “T groups”, gli “encounter groups” (originariamente progettati da C. Rogers e successivamente adattati a Esalen, in California) 100. Si diversificano dalla psicoterapia in senso clinico proprio perché sono rivolti in primo luogo a persone che non hanno problemi e deficienze identificabili: sono terapie per “sani”! Coloro che vi ricorrono in genere sono integrati nella società e non hanno comportamenti etichettabili come patologici: hanno solo bisogno di esperienze intense, attraverso le quali accedere a uno stato confusamente sentito come di pienezza, di autonomia, di completo significato. L’“autorealizzazione” evoca, negativamente, un Sé imprigionato, che ha bisogno di aiuto per raggiungere la sua piena libertà. L’interazione all’interno del gruppo produce di solito forti reazioni emotive, eccitazione e sentimenti positivi, da cui le persone si sentono incoraggiate a evadere dalla gabbia del quotidiano e a esplorare nuove possibilità di vita. In questo clima è ovvio che venga privilegiato il cambiamento rispetto alla fedeltà. Il potenziamento personale e l’autoespressione individuale portano a nuove decisioni, che si rivelano per lo più inconciliabili con quelle che hanno strutturato finora l’esistenza: si sfaldano legami matrimoniali, si esplora al di là degli stereotipi del comportamento legato all’identità sessuale, si rivedono impegni presi per la vita. Dalla nuova esperienza di sé il cambiamento si propaga a tutta l’esistenza, fino a trasformarne completamente la fisionomia.
Alle psicoterapie autorealizzative va riconosciuto il merito di proporre una visione antropologica agli antipodi del meccanicismo e del determinismo altrimenti dominanti in psicologia. Il punto di partenza
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è costituito dall’uomo come soggetto agente, dotato di un potenziale di cambiamento che non è mai totalmente paralizzato, neppure nelle circostanze più sfavorevoli. Contro ogni rassegnazione, l’individuo è condotto fino alla liberante costatazione: “Io posso cambiare!”. Le ridecisioni prese in questo contesto possono avere effetti decisivi sulla ristrutturazione di tutta l’esistenza personale.
3. La cultura del cambiamento al vaglio della teologia.
Chi orienta la propria vita secondo la Parola di Dio, che trascende il tempo, non può rassegnarsi a sottomettersi agli stereotipi e ai dettami culturali del presente. Soprattutto quando la loro naturale contingenza è gravata dai condizionamenti della moda. Valorizzando la forza critica della fede, alcuni teologi si sono levati di recente contro l’imperativo dell’autorealizzazione, denunciandolo come idolo. La cultura dell’autorealizzazione avanza una pretesa di spiritualità, in quanto il suo obiettivo è la rigenerazione della persona; in realtà i suoi risultati si riducono, secondo questi critici, a una celebrazione dei fasti dell’individualismo. Le terapie di auto-realizzazione sono passate in rassegna e criticate da R.K. Hudnut: The bootstraps fallacy 101. Il sottotitolo specifica polemicamente: “ciò che i libri di ‘self-help’ non vi dicono”. Tiene presenti in particolare tre opere che gli sembrano emblematiche di tutta la corrente: Verso una psicologia dell’essere, di A. Maslow: Le vostre zone erronee, di W. Dyer: Io sono OK — Tu sei OK di Th. Harris. Al progetto di autorealizzazione proposto da questi autori Hudnut contrappone la propria tesi: “Non si può essere una persona che si ‘autorealizza’, che è libera da ‘zone erronee’, e ‘pensa positivamente’, con le proprie forze. Le nostre vite cambiano non solo in quanto noi cambiamo noi stessi — ciò che è possibile solo fino a un certo punto —; ma piuttosto permettendo a Dio di cambiarci — ciò che è di fatto del tutto possibile —. Questo processo lo chiamiamo ‘grazia’”.
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L’argomentazione di Hudnut ha il vantaggio, nella sua linearità, di mettere in piena evidenza ciò che sta a cuore ai teologi: salvaguardare la trascendenza di Dio e della sua opera. Perché non si instauri nessuna confusione tra ciò che è in potere dell’uomo e il risultato dell’azione di Dio, sposta l’obiettivo dell’autorealizzazione a un livello superiore (dal realizzarsi al “superrealizzarsi” — superachieving —) e afferma che, anche se giungessimo con le nostre forze alla meta che ci propongono i moderni terapeuti, non possiamo passar oltre se non dopo aver fatto l’esperienza della nostra impotenza. La religione è situata per Hudnut in questa zona di esperienze critiche, in cui il credente tocca con mano che non può muovere se stesso, ma deve essere mosso. Probabilmente più di un lettore rileverà l’impressionante somiglianza dell’immagine di Dio che viene in tal modo evocata col Dio “tappabuchi” che inquietava Bonhoeffer nei suoi ultimi giorni di carcere.
Hudnut, a sua volta, è turbato piuttosto dall’esaltazione delle potenzialità umane, in quanto vi individua la riproposta di una vecchia problematica teologica: “È il classico confronto religioso tra le fede e le opere che viene interpretato sotto la veste della psicologia. Gli psicologi moderni non sono altro che teologi delle opere dei nostri giorni. Hanno preso le realizzazioni, le opere, su cui è costruita la nostra cultura americana, e hanno applicato la stessa etica delle opere alla vita interiore. Ciò può essere fatto, fino a un certo punto. Il guaio è che il punto, che è parziale, si presenta mascherato da cerchio completo, che è l’intero. Ma non posso realizzare l’interezza. Non posso conseguire con le mie sole forze “la pace della mente”, il mio “pensiero positivo”; non mi possono liberare da solo dalle miriadi di “zone erronee”. Finché non rinuncio a pensare che posso farlo. Devo perdere la mia vita per trovarla (Me. 8,35). E potrò farlo solo in una crisi, quando sono posto di fronte al fatto che, malgrado i libri di ‘self-help’ che ho letto, non mi sono realizzato. Non sono salvato, reso ‘intero’, dalle mie opere” 102.
Se vogliamo attribuire un senso antropologico positivo a questa presa di posizione a favore della grazia, possiamo individuarlo nella difesa delle potenzialità di crescita insite nelle modalità passive di sperimentare l’esistenza. Ciò che “subiamo” può portarci più lontano di ciò che facciamo; anzi, la modalità “patica” è indispensabile perché l’essere umano raggiunga la sua realizzazione ultima 103.
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Dedicato esclusivamente ai problemi che suscita l’Analisi Transazionale è il saggio di A. Reuter 104. Con riferimento alla nota divulgazione dell’A.T. fatta da Harris, in cui questa terapia è presentata come un programma per rendere tutti “OK”, l’autore vuol tracciare una chiara distinzione tra questo progetto e quello che è specifico della fede cristiana. La riserva fondamentale verso i risultati della terapia transazionale è quella che abbiamo già riscontrato in Hudnut: il timore che l’uomo possa rendersi degno da solo, facendo a meno del giudizio di grazia di Dio. Quando prende questa direzione, l’A.T. — afferma Reuter — diventa un “mito”.
Passando a esaminare il rapporto interpersonale così come si struttura nella prassi terapeutica, Reuter avanza il sospetto che, in pratica, sia il terapeuta che viene a sostituirsi al Dio accettante. Ricorda l’affermazione di P. Tillich, secondo cui l’accettazione totale da parte di un counselor-terapeuta è l’espressione secolare contemporanea della grazia; ma mette in dubbio che un terapeuta possa mettere in atto un’accettazione così incondizionata. “L’OK che offre l’A.T. è solo una parte di quello di cui ha bisogno l’essere umano” 105. Il cristiano dovrebbe perciò richiamare l’A.T. ai propri limiti, proclamando che l’esperienza psicoterapeutica, anche la più riuscita, è solo un’astrazione parziale di un tutto, costituito dalla situazione umana davanti a Dio. Reuter evoca a questo punto una figura singolare, che chiama “il terapeuta cristiano”. Questi si troverebbe in una situazione privilegiata per offrire l’alternativa della fede nell’attività di Dio in Gesù, al posto della fiducia nell’essere affermato da se stesso o dal terapeuta: “Il cristiano si trova nella posizione che lo mette in grado di prendere coscienza che né lui stesso, né il suo terapeuta sono Dio, e che l’OK offerto dal terapeuta o dall’A.T. è solo un “tipo”, limitato al rapporto interpersonale, ovvero una rappresentazione dell’OK transpersonale, finale, che ci viene offerto quando mettiamo la nostra fiducia in Gesù”. Una tale impostazione del rapporto tra autorealizzazione psicologica ed esperienza religiosa può difficilmente trovar udienza al di fuori di un orizzonte pietista.
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L’ultimo saggio che intendiamo esaminare tra la produzione teologica dedicata all’autorealizzazione è quello che l’episcopaliano P.C. Vitz dedica alla “psicologia come religione” 106. Nel corso del libro l’autore fornisce alcune notizie autobiografiche che sono di aiuto nell'interpretare il suo scritto. Cultore entusiasta della psicologia umanistica, si è progressivamente raffreddato, fino a diventarne un critico accanito. Contemporaneamente avveniva la sua crisi religiosa, che lo portava dall’ostilità al cristianesimo, considerato come un ostacolo sul cammino dell’autorealizzazione personale, alla conversione. I dati biografici spiegano sia la migliore conoscenza della psicologia umanistica, rispetto alle opere analoghe scritte da teologi, sia lo zelo da apologeta che caratterizza le sue affermazioni a favore della superiorità della religione sulla psicologia.
Benché il titolo parli di psicologia in generale, è un settore circoscritto della psicologia quello che interessa Vitz. Non considera la prassi degli psicologi (riconosce che esistono psicologi che rispettano i problemi religiosi dei loro pazienti, a prescindere dall’orientamento religioso o laico che hanno personalmente nella vita), bensì le teorie psicologiche. Tra queste esclude la psicologia sperimentale, il behaviorismo con le teorie comportamentali derivate, la psicoanalisi e la recente psicologia transpersonale; tiene presenti solo i rappresentanti più autorevoli della psicologia umanistica, che individua nei quattro maggiori teorici: Fromm, Rogers, Maslow e May. Li ha scelti, afferma, in ragione della loro influenza, soprattutto grazie alla divulgazione popolare che ha avuto il loro pensiero. Senza renderli responsabili degli estremismi di alcuni interpreti, individua tuttavia nella psicologia umanistica da loro propugnata la matrice del movimento che propone l’autorealizzazione per tutti.
La tesi centrale del libro è che questa psicologia ha oltrepassato l’ambito della scienza per invadere un campo che non è il suo: “questa psicologia è diventata una religione, in particolare una forma di umanesimo secolare basato sul culto del Sé (Self)”. Sinteticamente, Vitz la chiama ‘selfism’. Un primo aspetto da criticare è, a suo avviso, la destabilizzazione esistenziale promossa da questo tipo di psicologia: “La psicologia del Sé enfatizzata la capacità umana di cambiamento, al punto da ignorare quasi del tutto che la vita ha dei limiti; e che la conoscenza di essi è la base della saggezza. Per i cultori del Sé sembra che non esistono doveri, abnegazioni, inibizioni o freni accettabili. Al loro posto,
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esistono solo diritti e opportunità di cambiamento. Un numero schiacciante di cultori del Sé presume che non ci sia una morale o una relazione interpersonale invariabili, né aspetti permanenti di ciò che è individuale. Tutto è scritto sulla sabbia di un Sé in continuo cambiamento. La tendenza a dare semaforo libero a ogni meta di propria scelta è indubbiamente una delle maggiori attrazioni del ‘selfism’, particolarmente in una cultura in cui da molto tempo il cambiamento è considerato come intrinsecamente buono” 107.
I concetti e i valori del ‘selfism’ non contribuiscono a formare e a mantenere relazioni personali permanenti, né rafforzano quei valori ― quali il dovere, la pazienza e il sacrificio — grazie ai quali si possono conservare gli impegni. Vitz sostiene che il diffondersi di questa psicologia nella società abbia contribuito in maniera determinante alla distruzione delle famiglie: “Con monotona regolarità la letteratura del culto del Sé parteggia per quei valori che incoraggiano il divorzio, le rotture, la dissoluzione dei legami coniugali e familiari. Tutto ciò è fatto in nome della crescita, dell’autonomia, e del ‘continuo fluire’” 108. Attribuisce perciò alle psicoterapie di autorealizzazione una pesante distruttività sociale, oltre che la responsabilità per la decadenza del senso di responsabilità morale.
Passando dai risultati delle teorie del Sé alle condizioni che hanno reso possibile il loro successo, l’autore analizza il processo per cui le teorie di Fromm, Rogers, Maslow e May sono diventate ideologie popolari e commercializzate. Vitz ritiene che le radici socio-economiche della psicologia dell’autorealizzazione vadano cercate nella società dei consumi. “Il ‘selfism’ è la filosofia ideale del consumatore, perfettamente appropriata a coloro che hanno soldi e tempo libero. Va bene soprattutto per coloro che consumano servizi, come viaggi e moda”. L’autorealizzazione appare quindi come un elemento di uno stile di vita, funzionale all’economia industriale urbana. Appena le economie dell’occidente hanno cominciato ad avere bisogno di consumatori, hanno sviluppato un’ideologia ostile alla disciplina, all’obbedienza e al dilazionamento della gratificazione. Patrocinando l’esperienza ‘here and now’, la psicologia del Sé offriva un aiuto insperato all’industria della propaganda commerciale.
Da ultimo — last but not least — la critica di Vitz appunta i suoi strali sulla dimensione anticristiana delle terapie autorealizzative. “Storicamente —
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afferma — il ‘selfism’ deriva da un umanesimo esplicitamente anticristiano e la sua ostilità al cristianesimo è l’espressione logica delle sue divergenze dottrinali circa la natura del Sé, la creatività, la famiglia, l’amore e la sofferenza” 109. In esso vede un surrogato secolare della religione, al quale va fatto risalire il culto del Sé che si attualizza, oggi così diffuso. Lo contrappone categoricamente al progetto spirituale cristiano: “L’inflessibile e unilaterale ricerca di una glorificazione del Sé è in diretta contraddizione con l’ingiunzione cristiana a perdere il Sé. Certamente Gesù Cristo non visse e non patrocinò una vita che coi criteri di oggi potrebbe essere qualificata come ‘autorealizzata’. Per il cristiano il Sé è il problema, non il potenziale paradiso” 110. Ancora una volta ritroviamo l’immagine del Sé come idolo, che configura un’antropologia antitetica a quella cristiana. Si acutizza però anche il disagio per la notevole confusione che avvolge il concetto del Sé. Leggendo la saggistica a cui ci siamo riferiti, si fa sempre più netta la convinzione che quando teologi e psicologi parlano di “perdere se stesso” o di “realizzare se stesso” non si riferiscono alla stessa realtà psicologica ed esistenziale. Il dialogo naufraga così miseramente su equivoci semantici.
Abbiamo passato in rassegna alcune critiche teologiche al concetto di autorealizzazione, intorno a cui ruota il tentativo più esplicito di legittimare la spinta sociale al cambiamento. È una critica che si rivolge, più che ai procedimenti psicoterapeutici in se stessi, ai presupposti ideologici e al modello antropologico promosso. Alla teologia sta a cuore affermare, in positivo, la trascendenza della salvezza cristiana, che non si identifica con l’autorealizzazione che può compiere l’uomo. Al tempo stesso, però, i teologi che combattono con intenzioni demistificatorie il progetto autorealizzativo tendono a trasmettere un’immagine parziale del cristianesimo. Riservando il vero cambiamento esclusivamente alla conversione, sottolineano lo stacco tra le traversie dell’esistenza individuale ― che si struttura in rapporto a una situazione socioculturale concreta, che prevede uno sviluppo, e in cui possono sorgere conflitti con gli impegni presi nel passato — e la vita spirituale. Perché si possa recuperare l’unità naturale-soprannaturale del progetto umano, è necessario procedere a una riformulazione della fedeltà in chiave dinamica. Di questo nuovo discorso sulla fedeltà vogliamo tracciare ora le linee portanti.
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4. Verso una concezione dinamica della fedeltà
È tramontata l’epoca della fedeltà? L’ideale di vita che vi si ispira non gode oggi buona stampa. Già la stessa restrizione semantica del termine — di fedeltà si parla quasi esclusivamente nell’ambito della vita di coppia, precisamente là dove i nuovi costumi la sottopongono alla maggiore conflittualità — testimonia la sua emarginazione nella costellazione dei valori che strutturano la vita contemporanea. La fedeltà ha cessato di ispirare quei progetti di vita in cui l’impegno aveva la connotazione di una disponibilità illimitata. Era un ideale di perfezione consegnarsi con “santa indifferenza” nelle mani dell’autorità, la quale poteva disporre a discrezione e contare su una fedeltà assoluta, in un rapporto gerarchico in cui l’ineguaglianza era riconosciuta e accettata. Oggi questa fedeltà, che era uno stile di vita ancor più che uno stato, non ha più corso. “Si può dire che questo ideale di fedeltà oggi non è colto. La credenza nell’avvenire e nel progresso, l’esperienza di un cambiamento incessante di cui ci si compiace di dire che è uniformemente accelerato, la necessità di rendersi malleabili, di piegarsi al profilo di un mondo fluido, la certezza che tutte le situazioni sono inedite, la dissoluzione del gruppo sociale tradizionale — che trasmetteva valori e regole indubitabili —, l’attenzione nei confronti dell’individuo in ciò che ha di originale, alla sua soggettività incomparabile, alle sue vicissitudini e alle sue chances —, tutto ciò e molte altre ragioni ancora impediscono di cercare nel passato un modello capace di guidare la vita” 111. In netto contrasto con il posto che la fedeltà aveva nella morale tradizionale, oggi essa suscita diffidenza. Si ha paura di essere ingannati dall’ideale di fedeltà, come se la fedeltà ci sottrasse il movimento della vita e l’apertura al futuro.
Eppure la fedeltà non può essere così facilmente eliminata dalla nostra immagine dell’uomo. Essa incrementa la fiducia degli uomini tra di loro, e quindi è un elemento fondante della convivenza umana; inoltre realizza anche un tratto importante di quella unità dell’uomo che è un’immagine dell’unità divina 112. Anche un’antropologia razionale non può non vedere che la fedeltà umana ha le sue radici ultime nell’oggettività del mondo. C’è sempre un mondo oggettivo che precede l’intervento della nostra libertà, ed è necessario riconoscere questa limitatezza. Senza una scelta, non ci si àncora in questo mondo. La decisione, che
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implica anche il coraggio di rinunciare alle molte possibilità a favore di una sola, attua questo radicamento 113. Essere fedele significa allora consacrarsi al compito proposto dalla realtà presente, inscritta come un’esigenza nella oggettività del mondo e fatta propria mediante il processo della decisione concreta. “Contro la tentazione di vivere a modo proprio ― cioè secondo la passione —, la fedeltà restaura un’obiettività alla quale bisogna piegare il desiderio per esistere conformemente alla ragione” 114.
Il valore umano della fedeltà può essere stabilito anche nel quadro di un’antropologia più centrata sull’esistenza dell’uomo. È pur vero che la filosofia esistenzialista è una delle principali responsabili del declino della fedeltà come valore. Alle grandi incertezze sul senso della storia e sul futuro del mondo, l'esistensialismo ha aggiunto l’insicurezza sulla “identità” individuale. La radicalità con cui sembra distrutto ogni progetto di vita ha portato alcuni esistenzialisti, ispirati a una concezione personalista dell’uomo, a riflettere sul posto che ha la fedeltà nell’esistenza individuale 115. La loro analisi ha gettato una luce ancora più cruda sulle contraffazioni della fedeltà; ma al tempo stesso ha fatto emergere le strutture antropologiche della vera fedeltà: l’impegno in una gerarchia di verità e di valori (secondo Mounier, una persona raggiunge la piena maturità solo quando si impegna a una fedeltà che valga più della vita); l’interpersonalità, che crea il legame tu-noi-io; le dimensioni della storicità: memoria fedele, presenza e impegno per il futuro; la creatività; le manifestazioni sociali della fedeltà; le sue condizioni etiche, che includono anche la giusta disciplina.
La sfida a rintrodurre la fedeltà nella spiritualità del cristiano è stata assunta dalla teologia morale contemporanea. Ne fa fede B. Häring, che ha assunto come Leitmotiv della sua sintesi della morale cristiana la libertà e la fedeltà creativa 116. La teologia morale, radicandosi nel
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nostro tempo, non ne subisce semplicemente gli influssi. Anzi, può fornire a sua volta criteri per discernere, tra quanto viene proposto come liberazione dell’uomo, ciò che contribuisce davvero alla liberazione e ciò che lo asservisce agli idoli di moda. Mentre il dibattito teologico spinge a discriminare, come abbiamo visto, tra l’autorealizzazione umana e la conversione evangelica, la morale contribuisce a distinguere la fedeltà dalla mera stabilità. “La nostra costanza — afferma Häring — diventa vera fedeltà solo mediante un genuino discernimento che elimina le false fedeltà ed approfondisce quelle autentiche”. I cristiani non sono chiamati a una fedeltà qualsiasi, ma alla fedeltà dell'alleanza. Lungi dall’identificarsi con la stabilità, questa può domandare rotture radicali col passato (“Avete udito tutto che fu detto... ma io vi dico”; “chi non abbandona il padre, la madre...”). La fedeltà a se stessi va completata, in prospettiva cristiana, con la fedeltà a Colui che chiama e agli altri. L’autorealizzazione narcisistica, così coltivata nel nostro tempo, si equilibra mediante l’impegno verso il “tu/noi”, che deriva dal carattere dialogico o intersoggettivo della fedeltà. La fedeltà, infatti, non esprime solamente una costanza nella scelta degli oggetti, ma è anche una risposta al desiderio dell’altro, ma parola data all’altro. Più precisamente, è proprio la costanza della parola data che specifica la fedeltà, distinguendola dalla costanza dell’attaccamento.
L’etica cristiana della fedeltà deve assimilare la nozione di conflitto, con tutta la sua complessità messa in evidenza dalla psicologia 117. L’uomo è fatto tanto per la fedeltà che per il cambiamento. Le sue disposizioni naturali lo spingono ugualmente a cercare l’attaccamento e a trasgredirlo. Il carattere reciproco dell’impegno, inoltre, può costituire un
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fattore sia di costanza, sia di cambiamento. Possono cambiare gli interessi individuali (un fenomeno non esclusivo dell’adolescenza; anche l’adulto può modificarsi, sotto la spinta di un’evoluzione inerente alla propria storia); può cambiare l’“altro”, creando così una situazione in cui il mantenimento dei legami interpersonali e degli impegni diventa conflittuale. La fedeltà in tali casi può essere vissuta come una tensione dolorosa, che si accompagna a un sentimento di impotenza. Più difficili da riconoscere sono quei quadri patologici della fedeltà in cui non esiste conflitto o sofferenza acuta, ma solo noia e stanchezza. La fedeltà in tali casi può avere un effetto sterilizzante: è una barriera che impedisce di entrare in contatto con le proprie aspirazioni profonde. La creatività, che si richiede alla fedeltà come garanzia di autenticità, modifica il modo abituale di rappresentarsi il compito della fedeltà nell’ambito di quadri socio-culturali statici. Anche la spiritualità ne è coinvolta. A proprio vantaggio. Perché la spiritualità cristiana è pur sempre obbedienza allo Spirito, il cui programma è di “far nuove tutte le cose”.
5. Dagli “stati di vita” alle “fasi della vita”
Riferendoci ancora una volta alla crisi della concezione della vita incentrata sui valori di fedeltà, dobbiamo registrare che le critiche di maggior peso sono quelle di natura antropologica. La fedeltà umana, in quanto costume sociale e ideale spirituale, si fondava su un’immagine dell’uomo che oggi ci è diventata estranea. Essa privilegiava la ragione. Pur definendo l’uomo come animal rationale, accentuava talmente l’aggettivo da lasciare completamente in ombra il sostantivo. Vivere secondo la ragione comportava il dovere di sganciarsi dai condizionamenti pulsionali nella vita, raggiungendo già nella storia un perfetto equilibrio sopra-temporale. In questo ideale si rifletteva “una teoria dell’essenza umana che, al limite, significa che non c’è niente di imprevisto, che gli avvenimenti non sono che lo sviluppo di ciò che era già precedentemente contenuto nell’essenza, che tutta la vita è, in ultima istanza, condensata in un nucleo compatto, che essa deve essere presa o lasciata in blocco e che la questione della fedeltà è chiara, perché consiste unicamente nel domandarsi se ci si accetta o ci si separa radicalmente da
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se stesso... Questa immagine classica dell’uomo è per noi oggetto di dubbio. Non crediamo più in quel compimento sempre anticipato che prometteva l’essenza: ciò che ci domina è la certezza dell’incompiutezza, della finitezza; prendiamo sul serio l’azione; comprendere l’uomo come soggetto pratico ci convince che rimaniamo sempre distanti da noi stessi, da quella chiara domenica in cui potremo godere di noi stessi, riposarci in una pienezza immediata” 118.
La concezione essenzialistica ha segnato profondamente la spiritualità cristiana. La spiritualità degli “stati di vita” ce ne offre una chiara testimonianza. Validi tentativi di superare questa concezione sono stati fatti da quei teologi che hanno cercato di introdurre le categorie temporali nella fondazione stessa della teologia spirituale. Citiamo, per tutti, la teologia “esperienziale” di V. Truhlar 119. La vita spirituale si situa per Truhlar fondamentalmente a livello di esperienza. Ispirandosi a quei teologi che hanno stabilito un fecondo confronto tra la metafisica classica e il punto di vista della filosofia trascendentale moderna — in particolare a K. Rahner — Truhlar considera l’esperienza come una situazione gnoseologica sui generis. Il sapere di cui è questione nella vita spirituale non è il “pensare” concettuale, né quella conoscenza della realtà che acquisiamo mediante la sperimentazione: è il sapere relazionato all’esperienza del proprio essere e dell’assoluto, comune a tutti gli uomini. È indubbiamente una percezione peculiare, perché l’essere non si sente mediante determinate percezioni sensitive, immaginative, concettuali, né per il tramite della volontà o del sentimento: l’accesso all’essere è diretto, “acategoriale”. Questa esperienza dell’essere accompagna ogni categoria dell’attività umana, benché come tale non possa mai essere afferrata con i concetti.
Valorizzando l’elemento esperienziale della vita umana, la teologia spirituale trova un centro unificatore. Essa non ha più bisogno di localizzarsi nel regno sopratemporale delle essenze, ma può calarsi nel contingente, nel mutevole. Un posto particolare nella sistematizzazione della vita spirituale attribuisce Truhlar alle traversie dell’esistenza, cioè a quelle vicende della vita che distruggono i valori acquisiti (amore, salute, beni materiali, stima, onore, vedute culturali, politiche, religiose), e costringono
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a ristrutturare il quadro della propria vita. “Che cosa apportano alle genesi di una vita spirituale ed esperienziale? Se l’uomo sotto i colpi non si intorpidisce o irrigidisce, viene affinato da un processo di maturazione personale che riguarda specialmente l’amore e la rinuncia. Nella separazione dal valore... l’uomo vive il fatto che il valore perduto non è la persona stessa; percepisce in sé qualcosa che, in tale separazione, perdura nel cambiamento del mondo e dei suoi oggetti; cioè percepisce se stesso. E quanto più i valori raggiungono l’intimo, tanto più intensamente l’uomo, dopo la loro distruzione, prende coscienza di sé, trova il suo nucleo personale che è pure il suo fondo esperienziale” 120.
Nella teologia spirituale di Truhlar viene efficacemente recuperato l’elemento contingente dell’esperienza umana, come occasione di un incontro autentico con l’Assoluto che per il cristiano è sempre “esperienza di Cristo”. Si passa così da una concezione monolitica e atemporale della vita spirituale, dove l’incontro con il reale concreto è una minaccia destabilizzante, al suo contrario: ogni singolo frammento di esperienza umana può essere punto di ignizione dell’Assoluto. Qui va denunciato però anche un limite. La vita umana viene segmentata, rischiando di perdere la sua forma strutturale, la sua Gestalt. In particolare, la valorizzazione unilaterale della “puntualità” dell’esperienza disattende il fenomeno, ben noto in antropologia medica e in psicologia, della strutturazione dell’esistenza individuale per “fasi”. Ogni fase della vita ha la sua caratteristica insostituibile, e anche un suo compito specifico. Se non si assume ogni fase nella seguente, integrandovela stabilmente, si hanno sviluppi patologici a livello psichico. E anche spirituale. La pedagogia religiosa non ha ben assimilato questa lezione. Insistendo sulla totalità del corso della vita, da strutturare con una di quelle decisioni tipiche con cui si determina il proprio “stato di vita”, ha distolto l’attenzione dalle fasi specifiche, e della dialettica che si instaura tra fase e totalità. Nelle diverse fasi della vita esistono differenze nel comprendere e valorizzare gli aspetti esistenziali della vita umana (dolore, malattia, morte, separazioni), nonché un differente rapporto esistenziale alle verità religiose, agli obiettivi morali e alle mete della spiritualità. La teologia deve elaborare una fenomenologia del corso della vita umana, come strumento di una spiritualità che si rivolga all’uomo nei suoi vissuti concreti. L’unico tentativo degno di nota in tal senso è un breve saggio di Romano
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Guardini dedicato alle età della vita 121. Anche se il pensiero di Guardini non è stato in seguito ripreso e valorizzato, rimane un’indicazione valida, che la teologia spirituale potrebbe sviluppare. L’orizzonte in cui si muove Guardini è filosofico. Vuol mettere in evidenza le esperienze umane fondamentali sulle quali riposa ogni pensiero. Nello stesso tempo traccia uno schema ideale di sviluppo, con le sue crisi, pericoli e vantaggi, che assicura creatività alla vita umana. Una creatività che non si limita alla ricerca filosofica in senso intellettuale, ma che si rivolge piuttosto alla “sapienza”, e quindi alla vita stessa come creazione sapienziale.
Guardini concepisce le “età della vita” come forme fondamentali dell’esistenza umana, modi caratteristici della vita dell’uomo in diversi periodi del suo cammino, dalla nascita alla morte. Comportano delle maniere peculiari di sentire, vedere e agire di fronte al mondo. Tra le fasi e l’insieme dell’esistenza esiste un rapporto dialettico. Ogni fase della vita esiste in funzione del tutto e di ciascuna altra parte. I fenomeni della memoria e della previsione manifestano l’unità della vita; la quale, appunto perciò, può acquistare la fisionomia etica e spirituale di un progetto. La vita non è un insieme di pezzi, ma un tutto che è presente in ogni momento dello sviluppo. Ma ogni fase, d’altra parte, costituisce un’unità ben definita, che ha il suo proprio significato. I caratteri di ogni fase sono così nettamente marcati, che l’individuo non trapassa semplicemente da una fase all’altra, ma deve staccarsene. Ogni distacco costituisce una crisi caratteristica. Se non si supera la crisi, lo sviluppo armonico di tutta l’esistenza è minacciato.
Tra l’infanzia e l’adolescenza va situata la crisi della pubertà. Le esperienze fondamentali dell’infanzia — l’affermazione incondizionata del proprio essere, l’universale parentela di tutte le cose, il dialogo incessante che unisce l’uomo a ciò che lo circonda, la voce di Dio — vengono assunte nell’esperienza che struttura la giovinezza: quella dell’assoluto. In questa fase di idealismo naturale predomina la purezza che rifiuta ogni compromesso, unita alla convinzione che le idee vere possono modificare la realtà. È il periodo che vede nascere il coraggio di prendere delle decisioni da cui dipenderà la vita intera. Le decisioni possono essere prese di fronte a Dio, a se stesso, a un altro essere umano con la nascita dell’amore; si traducono nella scelta di una professione, nell’adesione a una vocazione, in un legame affettivo. Nella giovinezza per lo più
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prendono forma quelle scelte che struttureranno il resto della propria esistenza — eventualmente la scelta dello “stato di vita” —. La crisi che segna il passaggio all’età adulta è quella dell’esperienza. Prendendo coscienza della realtà, l’idealista naturale deve riconoscere che l’assoluto non è tagliato nell’esistenza in modo semplice. Incombe il pericolo di capitolare di fronte alla realtà, adottando un atteggiamento positivista o di scetticismo: molte cose per le quali ci si era impegnata la vita finiscono per non avere più senso. È il grande disincanto cui non sfugge nessuna esistenza umana. Il “taedium vitae” può installarsi in modo permanente. Se invece si accettano i limiti e le insufficienze della vita, si entra nella maturità spirituale. Nella fase vitale della maturità l’esperienza fondamentale è quella della durata, ancorata sulla stabilità interiore della persona. Anche questa fase del pieno possesso delle proprie forze conosce una crisi: la crisi del distacco, che raggiunge il suo culmine con l’accettazione della morte. Solo attraverso questa porta bassa si entra nelle zone profonde dell’esistenza, si accede all’esperienza del mistero.
È troppo presto per dire se la teologia tradizionale degli “stati di vita” sarà definitivamente abbandonata, o se conoscerà un nuovo sviluppo, incentrandosi intorno ai temi che oggi più attirano l’attenzione: la valutazione positiva dell’autorealizzazione personale, la concezione dinamica della fedeltà, la spiritualità esperienziale, la riflessione antropologico sapienziale sulle fasi di vita. Più che un ramo secco da tagliare, appare come un tronco capace di portare, dopo gli innesti appropriati, nuovi frutti.
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Capitolo Terzo
LA CORPOREITÀ
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IL CORPO COME ESPRESSIONE E COME COMUNICAZIONE
Il linguaggio dei gesti corporei non si insegna in nessuna scuola, eppure tutti arriviamo a capirlo, a parlarlo correttamente, a comunicare con gli altri esseri umani senza gravi intoppi. Non parla solo la nostra lingua, formulando parole, ma parlano anche le mani, i piedi, gli occhi, il corpo intero. Gli studiosi del comportamento umano hanno già messo nel dovuto rilievo la nostra capacità di usare dei segni per comunicare. Una disciplina in grande sviluppo, la semiotica, ne ha fatto l’oggetto di una trattazione specifica. Quel che ci offre l’ultima pubblicazione di Desmond Morris, L’uomo e i suoi gesti, 122, è qualcosa di più settoriale. Di tutti i segni che attraversano l’universo conoscitivo dell’uomo, vengono presi in particolare considerazione quelli che formula il corpo. Un repertorio di gesti corporei, quindi. Ma fondato su ben altri presupposti ideologici che, poniamo, La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano di De Jorio (1832), che Morris cita come uno dei primi tentativi precursori del suo lavoro. Nel mezzo è passato Darwin, sollevando la questione scientifica dell’origine della specie umana. È noto che Darwin si occupò, nella sua prospettiva evolutiva, dell’espressione fisica delle emozioni in un’opera (The expression of emotions in man and animals) che, fino a un’epoca più recente, non ha goduto la meritata attenzione degli scienziati. Eppure è proprio quest’opera la vera antenata della ricerca di Morris. La sua analisi dei gesti dell’uomo è più che un’antologia comparativa, in senso sincronico, come potrebbe compilarla uno studioso
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del folklore o di antropologia culturale. Non può essere neppure schedata tra le ricerche che si occupano della funzione del corpo nella semantica e nella pragmatica della comunicazione umana 123. Desmond Morris è uno studioso del comportamento animale, un etologo; anzi, più crudamente: uno zoologo. Direttore della sezione mammiferi dello zoo di Londra dal 1959 al 1967, studioso in particolare dei primati, deve la sua fama mondiale al libro con cui nel 1967 ha sorpreso — affascinato ― scandalizzato milioni di lettori: La scimmia nuda. Partiva dal presupposto che per capire l’uomo bisogna considerarlo, né più né meno, che come una delle 193 specie di scimmie viventi; con una sola particolarità: che è nuda, mentre le altre sono coperte di pelo. Per l’evoluzionismo darwiniano ottocentesco, l’uomo deriva dalla scimmia; per Morris l'homo sapiens è rimasto scimmia. Le opere successive di Morris, Lo zoo umano e Il comportamento intimo, confermavano la sua fama di “enfant terrible” della divulgazione scientifica. Il disagio maggiore derivava dal non sapere che valore dare alle sue affermazioni: erano asserzioni scientifiche o “boutades” impertinenti? Si presenta ora con questa sua ultima opera, frutto di 10 anni di lavoro sul campo e di un esauriente vaglio della letteratura precedente. Abbandonato il tono provocatorio e la scrittura semplificatrice — che seducevano i lettori quando i suoi scritti venivano pubblicati per stralci nel “Daily Mirror” —, vuol fare ora un esplicito lavoro scientifico. Il programma di Morris è di applicare allo studio del comportamento umano i principi che l’etologia ha elaborato per quello animale. Il titolo originale, più pedante ma più preciso, esprime meglio l’intento del suo lavoro: Manwatching. A Field Guide to Human Behaviour. Si tratta di osservare l’uomo, in modo che il suo stesso comportamento lasci trasparire il proprio senso biologico; vale a dire, la sua funzione nella soddisfazione dei bisogni e, in ultima analisi, nel mantenimento della specie.
Il libro vuol essere al tempo stesso un’opera divulgativa, nel senso che si rivolge a un’ampia cerchia di lettori. Tuttavia qui Morris esce dal cliché costruitosi con le sue opere precedenti. Sulla questione di fondo, cioè la legittimazione di una etologia umana, si pronuncia in termini sfumati ed evasivi: “Non vi è nulla di insultante nello studiare gli esseri
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umani come animali. Dopotutto, noi siamo animali. L'homo sapiens è un primate, un fenomeno biologico regolato da leggi biologiche, come ogni altra specie. La natura umana non è che un tipo particolare di natura animale. Certo, l’uomo è un animale straordinario; ma anche tutte le altre specie lo sono, ognuna a suo modo, e l’osservatore scientifico dell’animale umano può portare molti nuovi contributi allo studio della specie, se mantiene questo atteggiamento di umiltà evolutiva”. Rinuncia alle provocazioni per assumere il tono più suasivo del richiamo all’evidenza. Le sue analisi del significato dei vari gesti non hanno la forza di una argomentazione stringente; il loro valore dimostrativo risiede nell’assenso intuitivo che riescono a evocare nel lettore.
Ciò che viene costruito su una base antropologica così ristretta ha stabilità diseguale. Molta parte del lavoro è salda; quando invece l’analisi si estende ai comportamenti ad alta densità simbolica, allora la costruzione pencola paurosamente e minaccia di franare. Così, per esempio, quando viene affrontato il comportamento religioso (“azioni effettuate per ingraziarsi divinità forgiate dalla nostra immaginazione”, dice il sottotitolo del capitolo), oppure quando si traccia una biologia dell’estetica o si analizza il comportamento etico. La spiegazione del comportamento altruistico è esemplare. Assumendo come base del comportamento umano la pura finalità biologica, l’altruismo in quanto tale è un assurdo. Per Morris l’animale umano si comporta in modo “apparentemente altruistico”; come tutti gli altri animali, non può essere geneticamente programmato ad agire con vero altruismo. I gesti che pretendono la qualifica di altruistici, comprese le più alte vette dell’auto-sacrificio e della filantropia, sono tutti a servizio dell’“ego”. Là dove ciò non è evidente, lo si deve a un processo di simbolizzazione — il vedere una cosa come la metafora di un’altra —, responsabile dell’estensione ad altri dell’impulso fondamentale a ricercare il proprio vantaggio.
Se in passato filosofi e teologi hanno preteso di dare ragione del comportamento umano prescindendo completamente dalla scienza che si occupa dei fatti biologici, ora il dogmatismo sembra prendere dimora tra gli scienziati: la biologia, e nient’altro che la biologia, per spiegare il comportamento umano. Tuttavia la nostra intenzione non è qui quella di mostrare l’inadeguatezza dell’approccio etologico quando viene esteso anche a quei comportamenti che specificano l’uomo in quanto tale. Tanto meno vogliamo negare la legittimità dell’approccio etologico in sé, purché rinunci alla sua pretesa imperialistica di ridurre tutto entro i suoi
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schemi. In particolare, le debite riserve che possiamo avere circa l’antropologia riduzionistica di Morris (= “l’uomo non è altro che...”) non dovrebbero impedirci di partecipare alla festa dei gesti a cui ci invita. Come specie “gesticolante” non abbiamo l’uguale nel regno animale! La nostra inventiva in questo campo è tanto grande che nessuno ha finora seriamente tentato di compilare un esauriente dizionario internazionale dei gesti umani. Anche il voluminoso lavoro di Morris, resta un primo abbozzo parziale di una ricerca destinata ad occupare gli studiosi per parecchi decenni. Premessa una classificazione con intenti sistematici (i gesti vengono divisi in: accidentali, espressivi, mimici, schematici, simbolici, tecnici e codificati), inizia la grande, fantasiosa rassegna del linguaggio fatto non di parole, ma di azioni: gesti di affermazione o negazione, il linguaggio dello sguardo, i gesti con cui segnaliamo la nostra posizione nell’ordine di preminenza sociale, le reazioni al pericolo, i gesti e riti di trionfo, fino al comportamento di riposo. La lista dei gesti presi in considerazione da Morris potrebbe essere allungata indefinitamente. In breve, è tutto il comportamento umano che qui viene indagato nella prospettiva del corpo come soggetto espressivo.
L’espressività del corpo è l’aspetto saliente di questa ricerca, da cui prendiamo lo spunto per delle considerazioni che escono dal quadro di un’analisi eto-antropologica dei gesti dell’uomo. Vogliamo sottolineare il ritorno al corpo come uno dei tratti emergenti della cultura attuale. Mentre la società industriale avanzata persegue il suo progetto di esproprio del corpo — sostituendolo col surrogato di un corpo come oggetto di consumo —, le controculture, specialmente quelle giovanili, avanzano progetti alternativi centrati sulla riappropriazione del corpo. Per il moralista supercilioso, preoccupato per le trasformazioni del costume, la pornografia delle edicole e il nudismo dei naturisti si equivalgono. In realtà, si tratta di comportamenti che non sono riconducibili a un denominatore comune. È l’atteggiamento verso il corpo che segna maggiormente la differenza. Mentre la pornografia è un segno dell’ulteriore decadimento del corpo a merce, la caduta dei tabù in certi contesti può essere ricondotta a quel vasto movimento che incentra la crescita spirituale dell’uomo nell'occuparsi seriamente del corpo. Ciò che lo distingue dal banale culto del corpo promosso dalla società del benessere è proprio l’elemento spirituale, in quanto nel corpo si considera l’uomo intero. In tal senso il ritorno al corpo è parte costitutiva di quel “Growth Movement” in cui confluiscono le correnti più diverse dello spiritualismo moderno.
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Non si tratta di ridurre l’uomo al corpo, come fa il consumismo, bensì di fare del corpo il punto di partenza di un processo di crescita che coinvolge tutto l’uomo. Quando si dice oggi: “Tu sei il tuo corpo”, non lo si intende nel senso di un riduzionismo crassamente materialista. È piuttosto un invito a considerare che l’uomo come totalità trova nel funzionamento del corpo, in quanto luogo in cui si coagulano azioni ed emozioni, la condizione del suo completo benessere. Il ritorno al corpo equivale a mettere in moto un processo che inverte la tendenza a una sempre maggiore estraneità rispetto al nostro stesso corpo. Il suo linguaggio naturale non ci è più trasparente: non siamo più neppure in grado di interpretare i suoi segni di malessere, per i quali deleghiamo l’onnipotente macchina medica. L’autopercezione è il fattore critico della nostra esistenza nel mondo: se si atrofizza, è compromessa radicalmente la nostra esistenza in quanto uomini, ivi compresa la possibilità di comunicare con gli altri.
L’incremento dell’autopercezione del corpo comincia con la presa di coscienza che ci sono differenze nella tensione muscolare nelle diverse parti del corpo, intimamente connesse con le emozioni e con il loro benessere o malessere psichico e spirituale. È necessario mettere in moto la percezione del proprio corpo, porre a contatto le sensazioni profonde con le azioni esterne, per mobilitare le energie originarie. Per eliminare i conflitti che si inscrivono nel corpo e rafforzare la capacità di sentire, in contrasto con i modelli di reazione offertici dalla cultura tecnologica, sono state messe a punto diverse tecniche corporee. Alcune sono tradizionali e derivano dalla secolare pratica dello yoga, di recente diffusasi anche in Occidente. Altre, più moderne, possono essere comprese sotto la denominazione comune di “terapie del corpo” (intendendo terapia non come quel processo che interviene per riparare uno stato patologico, ma come un mezzo tecnico per rendere il processo di crescita più cosciente e soddisfacente). Il punto di maggiore concentrazione di tale movimento è la “Bay Area” di San Francisco, in California. Valga, per tutte queste terapie, il richiamo al “massaggio Esalen” — così chiamato perché proposto dal gruppo dell’istituto Esalen a Big Sur —, in cui il massaggio diventa uno strumento naturale per una percezione più affinata del corpo proprio ed altrui e per un potenziamento della capacità di relazionarsi agli altri.
Il movimento femminista ha assunto in proprio l’istanza di un ritorno al corpo. La donna ha sofferto più dell’uomo della scissione schizofrenica
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tra corpo e spirito. Idealizzata, talvolta, dalla mistica della femminilità e ridotta ad avere un rapporto col proprio corpo solo per delega, mediante il riferimento al corpo dell’uomo, oppure, talaltra, relegata nel puro biologico della funzione generatrice. Riappropriarsi del proprio corpo vuol dire per le donne, oltre al raggiungimento di obiettivi di rivendicazioni contingenti, gettare le basi di una cultura femminile. Come primi tentativi del genere possono essere indicati i volumi Noi e il nostro corpo, prodotto da un collettivo femminista di Boston, e il più recente Getting clear, di Anne Kent Rush, che rielabora in prospettiva femminista le terapie del corpo diffuse nell’area californiana.
Dall’analisi del comportamento gestuale umano alle pratiche che incrementano l’autopercezione, il filo conduttore è costituito dall’interesse per il corpo in quanto strumento privilegiato per l’espressione e la comunicazione. L’accenno ai movimenti che promuovono la riappropriazione del corpo ci apre una prospettiva sulle possibilità pedagogiche offerte da una migliore conoscenza del corpo umano nella sua gestualità. Il primo campo di applicazione è indubbiamente quello della sessualità. La grande miseria della sessualità contemporanea non deriva primariamente dalla mancanza di principi morali o dalla carenza di informazione. Lo squilibrio è causato piuttosto dall’atrofizzazione dell’autopercezione del corpo (o dalla sua esasperazione patologica nelle forme che la biologia del comportamento chiamerebbe “supernormali”). Una vera educazione sessuale non può aver luogo finché non diventa chiaro che il vero protagonista del dialogo sessuale è il corpo pienamente umanizzato.
La sessualità è essenzialmente relazione, un legame che passa per il contatto fisico. Nel suo capitolo sui segni di legame per contatto fisico Morris lascia cadere la cifra di 457 forme di contatto fisico finora individuate dagli studiosi del comportamento. Conosciamo per esperienza quotidiana l’estrema varietà e sottigliezza di queste azioni; ogni giorno interpretiamo migliaia di questi segni di legame e ne inviamo centinaia a quanti ci circondano. La conoscenza raffinata del linguaggio espressivo del corpo è indispensabile soprattutto per i legami amorosi, i quali appunto si nutrono di contatto fisico. Di gesti ha bisogno l’amore per esprimersi, per crescere, per dissipare equivoci, per evitare il tramonto per usura e per carenza di stimoli.
La stessa conoscenza del proprio corpo è meno una questione di tavole anatomiche che di emozioni. Oltre alle zone tabù di competenza della censura, ci sono quelle create dall’educazione. Un’interessante
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ricerca-pilota in questo campo è ampiamente illustrata da Morris nel suo libro. La ricerca è stata fatta su giovani laureati negli Stati Uniti. Il corpo venne suddiviso in dodici zone di contatto; poi si chiese ai soggetti quanta probabilità avevano di essere toccati in quelle aree da: 1) la madre, 2) il padre, 3) amici dello stesso sesso, 4) amici del sesso opposto. Ne è emerso che ogni rapporto ha una propria combinazione peculiare di zone tabù e non-tabù. Variano non solo da cultura a cultura, ma anche da persona a persona, per il tramite dell’educazione familiare. Di recente si è diffusa negli Stati Uniti, come rimedio alle inibizioni personali, la pratica degli “abbracci di gruppo”. Proprio queste forme estreme rivelano con più chiarezza il bisogno di un’adeguata educazione, emotiva più che nozionale, al rapporto sereno, disinibito e armonioso col proprio corpo. In questo senso accettiamo di buon grado il richiamo che ricaviamo dall’opera di Desmond Morris a ritornare alla fondamentale essenzialità dei gesti. I gesti dell’uomo sono così importanti perché — solo, tra le 193 specie di scimmie — con questi gesti può ricevere e trasmettere l’amore.
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LA RIAPPROPRIAZIONE DEL CORPO NELLA CULTURA CONTEMPORANEA
Ogni cultura evoluta mostra la tendenza a passare da un atteggiamento implicito verso il corpo a una riflessione tematica su di esso. È possibile, in tal senso, stabilire un’analogia tra il bambino che si apre alla coscienza scoprendo il suo corpo e il processo di riflessione esplicita sulla dimensione corporea dell’esistenza che avviene nelle varie culture 124. Ogni cultura ha il suo modo proprio di vivere il corpo e di parlarne.
problemi che sorgono nello stadio attuale di civiltà industriale avanzata sono inediti. Perciò anche il nostro approccio del corpo non ha precedenti nella storia culturale dell’umanità. Superato il momento di riflessione filosofico-etica volta a superare la tradizione dualista che contrapponeva l’anima al corpo 125, il punto di partenza attuale è legato piuttosto alle varie forme di disagio connesse alla nostra situazione nel mondo. Si diffonde la convinzione che a un rapporto sbagliato con la natura, oggetto del vivace dibattito ecologico, si accompagni la perversione del rapporto con la concreta struttura biologica del nostro corpo.
La perdita dell’armonia corporea è una delle malattie più gravi della civiltà. Abbiamo disimparato il linguaggio delle sue funzioni vegetative.
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Il corpo sembra aver perso la sua trasparenza; ci è diventato estraneo, quasi nemico. L’alienazione ha assunto un aspetto biologico ben definito, che passa attraverso il rapporto che abbiamo col nostro corpo. Presa coscienza del pericolo, movimenti culturali diversi propugnano con estrema decisione una riappropriazione del corpo.
1. La politica del corpo nelle controculture
Nel labirinto che costituisce la geografia culturale del nostro tempo emergono alcune tendenze dominanti. Da una parte, la civiltà tecnologica occidentale esporta i suoi modelli di vita e i suoi valori, sostituendosi alle culture tradizionali; dall’altra, l’uniformità nell’ambito di questa civilizzazione planetaria della macchina è rotta da forti resistenze, che si strutturano come controculture.
Tra le numerose trasformazioni che avvengono in questo complesso magmatico ce n’è una che riguarda direttamente il nostro tema: cambia il rapporto che, individualmente e socialmente, intratteniamo con il corpo. “Usciamo da una società in cui le norme erano sopra; il corpo, e l’io come complesso biopsichico, ‘sotto’: oggi tende ad accadere il contrario; è l’esperienza di noi stessi che, sempre più di frequente, costruisce, almeno nei desideri, l’immagine del mondo ed i significati dell’esistenza... Oggi la società, dopo aver negato e trasceso il corpo, vi ritorna. I valori si calano nel sociale, diventano invisibili, si mescolano alle nostre esperienze, la realtà contingente diventa spazio, simbolo, significato dell’esperienza del nostro corpo e del corpo degli altri” 126.
La rivendicazione dei diritti del corpo è il postulato indiscusso su cui si basa l’organizzazione della vita sociale. La promessa di “vivere meglio”, che aggrega gli uomini e li induce a sottomettersi alle limitazioni che impone la cultura, si dettaglia come diritto al benessere del corpo, allo sviluppo fisico e alla felicità sensuale.
Lo spiritualismo e l’ascetismo nelle forme tradizionali sembrano definitivamente banditi. Anche gli esponenti della controcultura che perseguono ideali che chiameremmo mistici, non lo fanno seguendo la via
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della repressione della “libido”. Il loro è un misticismo mondano, un’estasi corporale che abbraccia e trasforma l’esistenza terrena.
L’esperienza vissuta, anche quando è riflessa nell’arte e nel pensiero, proclama che il corpo è il mediatore della cultura. Basti pensare al ruolo che il corpo gioca nella psicoanalisi e nella medicina psicosomatica, nel teatro — che è lo spazio privilegiato della coscienza corporea — e nella danza, nella letteratura e nel pensiero fenomenologico tedesco e francese. Contemporaneamente, a livello di costume, la società si fa sempre più permissiva. Il corpo trionfa nella sua nudità. Il corpo sportivo — ‘sano, bello e forte’ — è la più recente creazione mitologica.
La civiltà, che si fondava sulla rimozione del corpo, sembra ora riabilitarlo. Ma tale riabilitazione è reale o solo apparente? questo è il punto in cui si inseriscono criticamente le controculture. Sono opera delle masse giovanili, influenzate da pensatori eterodossi rispetto al sapere accademico 127. Sorte nell’ambito della lotta per la qualità della vita, le controculture hanno prodotto un fuoco d’artificio di nuove esperienze e modi espressivi. Traducono un modo alternativo di intendere l’umanesimo del corpo, una diversa visione di cos’è umano. “La rivalutazione di antiche pratiche artigianali e l’instaurarsi di rapporti umani non convenzionali, gli esperimenti coraggiosi compiuti nell’organizzazione di comunità deliberatamente fondate, le esperienze di vita tribale, i nuovi stili e colori nell’abbigliamento, un desiderio di allegria percepibile anche nei suoni, il profumo stuzzicante dell’incenso e dei fiori, i riti organizzati prendendo a spunto forze e cicli cosmici reali o presunti, tutti questi aspetti della controcultura, per quanto insignificanti e goffi, costituiscono dei tentativi di ricatturare i valori antichi e duraturi che la civiltà industriale è in procinto di distruggere” 128. La festosità esteriore dei movimenti giovanili che difendono la sensualità della vita non deve trarre in inganno. Essi hanno coscienza che stanno conducendo una battaglia per la sopravvivenza in un mondo in cui la carne e lo spirito vengono sistematicamente calpestati dalle macchine. I maîtres à penser dei giovani sono
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quei pensatori radicali che hanno demistificato l’umanesimo del corpo inalberato dalla civiltà tecnologica, mettendo a nudo l’alienazione che cresce coi consumi di massa. Anche il corpo è diventato una merce che si consuma. Lo dimostra la meccanicizzazione del corpo che avviene nello sport 129. Si assiste allo sfruttamento sistematico e razionale delle attitudini psicomotorie di un individuo in vista del raggiungimento di prove eccezionali. La meccanicizzazione del corpo più gravida di conseguenze è quella che avviene nel lavoro. Con l’avanzare della civiltà tecnologica l’uomo è espropriato del proprio corpo, ridotto a una macchina cibernetica a servizio del rendimento industriale. La liberalità nei confronti degli istinti sessuali è uno specchio per le allodole. In realtà la libido è controllata come valore commerciale. La scarica sessuale è permessa solo perché, ristabilito l’equilibrio della personalità, l’uomo possa investire di nuovo le sue energie nella produzione. Lui stesso sarà il consumatore forzato di ciò che è prodotto al di là dei bisogni: ad allettarlo al consumismo penserà l’erotismo pubblicitario, che a sua volta si serve disinvoltamente del corpo. “Desublimazione repressiva” della sessualità, ha chiamato questo processo H. Marcuse, uno dei profeti più ascoltati della controcultura giovanile.
Le articolazioni del pensiero di Marcuse sono estremamente complesse 130. Ma la generazione giovanile che ne ha fatto la propria bandiera per la battaglia di destabilizzazione istituzionale del ’68 ne aveva individuato e volgarizzato il pilone portante: il problema-chiave dell’“alienazione” ha assunto oggi un significato diverso da quello che è stato tradizionalmente indicato dal marxismo. La dialettica della liberazione non passa per la lotta di classe, ma per il corpo umano. Esso è un eterno campo di battaglia dove si combatte la lotta degli istinti, antecedente a quella delle classi sociali. La “logica del dominio” che domina nelle lotte di classe si innesta su un’alienazione più fondamentale che riguarda l’uomo nella sua vita psichica e nel suo rapporto con la natura. L’alienazione
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è il risultato di profondi e segreti atti repressivi che non saranno eliminati da un semplice rimescolamento delle strutture istituzionali della nostra società. La liberazione individuale, come diverso progetto di vita a partire da un rapporto alternativo con il corpo, è il presupposto per una liberazione intesa come costruzione di una società diversa 131.
Di queste istanze si fanno portatrici le controculture giovanili quando difendono la sensualità della vita. Denunciando il valore-feticcio attribuito al corpo in modo mistificatorio dalla cultura consumistica di massa, esse intendono affermare il significato umano del corpo: epifania della persona, e non sofisticato monumento funebre di essa. I ‘cantori del corpo’ nell'auspicare la rinascita della valenza corporale prospettano un progetto di emancipazione propriamente politica. È una politica del corpo che ha però un chiaro valore di contestazione delle strutture entro le quali il corpo viene rinchiuso ideologicamente o programmaticamente 132. Si oppone ai modelli culturali dominanti, tanto nei paesi socialisti che in quelli dove prevale la borghesia. Alla società austera della rigida ortodossia comunista, che riduce tutto il problema del corpo e del desiderio a una manifestazione piccolo-borghese, discorso ‘sovrastrutturale’ e quindi reazionario dell’arsenale ideologico della borghesia decadente, le giovani generazioni contrappongono un progetto di società costruito sulla festa piuttosto che sul lavoro. Rifiutano di rimandare la danza a... domani, vale a dire a quando si saranno risolti i problemi della produzione e della giustizia. Interpretando acutamente la portata politica dell'approccio giovanile dei problemi, R. Garaudy si domandava: “Che succederebbe se, invece di costruire solamente la nostra vita, avessimo la follia o la saggezza di danzarla? Questa è forse una delle questioni più importanti che pone oggi la gioventù nella sua contestazione dei fini stessi del mondo che noi le trasmettiamo” 133.
La riaffermazione del corpo è non meno ostile ai modelli cui si ispirano le culture capitalistiche occidentali. Qui il problema del desiderio
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non è eluso, bensì sfruttato sul piano consumistico. Il corpo fa parte dei prodotti intorno al quale si organizza tutta una specie di liturgia pubblicitaria. Per contro, il corpo è diventato il luogo fisiologico e psicologico della solitudine.
“Il privato è politico”. Questo slogan della controcultura esprime la volontà di unire militanza e gioia di vivere. La politica da promuovere è quella che non ignori o non strumentalizzi il corpo, ma si costruisca su quelli che sono i soggetti reali della storia e tenga conto di tutti i livelli dell’esperienza umana.
2. Il corpo al femminile
Nella tendenza del nostro tempo a un ritorno al corpo e ai suoi valori il movimento femminista si inserisce con una carica particolare di novità e fresca irruenza. Il tema che abbiamo assunto come filo conduttore di questa panoramica, ‘riappropriarsi del corpo’, è propriamente uno slogan del femminismo. Come tale ha una reputazione di estremismo e di provocazione battagliera. È stato associato ad altri slogans (come quelli che rivendicano alle donne un potere arbitrario sull’aborto: “L’utero è mio...”). Questa interpretazione dello slogan è però molto restrittiva. Sotto la bandiera dell’appropriazione del corpo le militanze femministe più coscienti hanno condotto una battaglia culturale di vitale importanza. L’obiettivo era quello di recuperare la sensazione del corpo come propria casa. Il primo ostacolo è costituito dalla prevaricazione della corporazione medica, composta prevalentemente di uomini. La dipendenza e la passività nei confronti della scienza medica sono comuni tanto agli uomini che alle donne. Le conseguenze sono però più gravi per le donne. Mentre gli uomini fanno ricorso al medico soltanto quando intervengono fatti patologici, le donne gli affidano anche una serie di manifestazioni che fanno parte della loro normale vita sociale e biologica (mestruazioni, parto, allattamento, menopausa).
Le leaders dei movimenti femministi si sono fatte portavoce del senso di frustrazione e di rabbia di tante donne, private delle conoscenze necessarie per un rapporto cosciente col proprio corpo ed esposte alla gestione paternalistica di esso da parte dei medici. Scoprire il proprio corpo, il suo linguaggio, e le sue necessità, e assumerne il controllo, è
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diventato un obiettivo prioritario nel programma femminista. È un presupposto per l’autogestione della salute. Vasta risonanza ha avuto, ad esempio, il manuale Noi e il nostro corpo, scritto da un collettivo di donne di Boston 134. “Scritto dalle donne per le donne”, precisa il sottotitolo.
Le autrici parlano dell’effetto liberante che ha questa forma di educazione del corpo. Essa comunica consapevolezza ed energia che cambiano la vita. La conoscenza del proprio corpo ha infatti una risonanza psicologica immediata. Come l’ignoranza, la paura e l’insicurezza dell’identità fisica bloccano le energie, così la presa di coscienza mette in grado di raggiungere la completezza umana. La conclusione dell’introduzione del libro può essere assunta come espressione tipica del cammino di liberazione percorso da molte donne del nostro tempo: “Immaginate una donna che cerchi di fare un lavoro o di avere un rapporto paritetico e soddisfacente con altre persone, ma intanto si senta fisicamente debole, perché non ha mai tentato di essere forte; esaurisce tutta la sua energia cercando di cambiare faccia, figura, capelli, odore, cercando di uniformarsi a qualche modello ideale stabilito dalle riviste, dai film, dalla televisione; si sente disorientata o si vergogna del sangue mestruale che ogni mese fluisce da qualche scuro recesso del suo corpo; sente i processi interni al suo corpo come un mistero che viene a galla solo come fastidio (una gravidanza non voluta o un cancro cervicale); non capisce o non le piace il sesso e concentra le sue fantasie sessuali in romantiche fantasie senza scopo, pervertendo e facendo cattivo uso della sua potenziale energia perché è stata educata a negarla. Se impariamo a capire, ad accettare, a essere responsabili della nostra identità fisica, possiamo liberarci da alcune di queste preoccupazioni e possiamo cominciare a fare uso delle nostre energie disinibite. L’immagine che noi abbiamo di noi stesse avrà una base più solida, saremo migliori come amiche e come amanti, come persone; avremo più fiducia in noi, più autonomia, più forza, saremo più complete” 135.
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Questa nuova coscienza di benessere e autorealizzazione a partire da un rapporto armonioso col proprio corpo si è tradotta nello slogan squillante: “Woman is beatiful”.
La ‘riappropriazione del corpo’ porta il movimento femminista a combattere battaglie ancora più decisive. Per vivere con gioia il corpo non basta infatti un rapporto diverso con la medicina ginecologica: è necessaria una trasformazione culturale. La mancanza di informazione sul funzionamento del corpo e in genere il silenzio su tutti gli argomenti che riguardano il sesso non sono che un aspetto di quel complesso di comportamenti e valori che costituiscono l’ideologia patriarcale. Per giustificare l’egemonia maschile sono state maggiorate le differenze di comportamento tra uomini e donne e spiegate per lo più in modo fisiologico, facendo cioè riferimento alle diverse funzioni fisiche, in particolare alla maternità.
La funzione riproduttiva è servita a giustificare, anzi a mascherare agli occhi stessi delle interessate, l’oppressione culturale. Le donne sono state in larga misura confezionate artificialmente dall’uomo 136. Se la donna è un fatto di natura, la femminilità è un fenomeno sociale. Per usare un’immagine efficace di Jean Rostand: il fatto di aver giocato con la bambola o con i soldatini di piombo è altrettanto importante nella storia dell’individuo quanto la presenza del cromosoma X o Y.
Il condizionamento culturale dei ruoli ha un’incidenza immediata sul corpo. La donna ha vissuto il suo corpo come schiavitù non tanto per la sua dipendenza dai fatti biologici, quanto per l’espropriazione che ha subito. A questo proposito Dacia Maraini parla di “sessualità vissuta per conto di terzi, mai fine a se stessa” 137. Il potenziale di gioia e di piacere è stato esorcizzato mediante una serie di tabù che hanno portato la donna a guardare il suo corpo come qualcosa di estraneo. Il corpo della donna è uno strumento di procreazione in mano all’uomo. La situazione è stata giustificata con argomenti di ordine biologico: tale
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sarebbe la ‘natura’ della donna. La divulgazione degli studi di antropologia culturale ha permesso di rendersi conto che i ruoli maschili e femminili in altre culture hanno assunto forme diverse, sono meno opprimenti per la donna. Va dunque smascherato il pregiudizio secondo cui i ruoli sociali propri della cultura patriarcale sarebbero stati definiti secondo la vera natura dell’uomo e della donna. È stata piuttosto la natura rispettiva che è stata definita a posteriori in funzione dei ruoli assegnati dal sesso dominante. Questo ha trovato nella cosiddetta natura un comodo alibi. E non sono mancati miti, religiosi e profani, forgiati per giustificare sovrastrutturalmente il ruolo di dipendenza della donna 138.
Se le donne non si riappropriano della autodeterminazione personale, che comporta una ridefinizione dei ruoli culturali, la semplice rivendicazione del corpo potrebbe rivelarsi un boomerang pericoloso. Infatti è proprio la definizione della donna a partire dal lato biologico (il ché non esclude la parallela idealizzazione e la mistica della femminilità), che ha costituito l’asse centrale della mentalità patriarcale.
Il programma delle avanguardie femministe, di comprendere la donna a partire dal suo corpo riconquistato, non equivale perciò a ciò che intende il sessismo dilagante: presentare la donna in riferimento all’uomo, per offrirgli un corpo associato ad un progetto, in vista del consumo. Si può definire la donna a partire dal corpo, ma solo dopo che si è concluso il processo della liberazione.
La prospettiva della ‘liberazione’ amplia quella della ‘emancipazione’ femminile, così come è stata tradizionalmente intesa e promossa dal movimento operaio. Il raggiungimento dell’uguaglianza dei sessi è stato uno dei fini dell’umanesimo marxista, da quando Engels nell’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato ha denunciato che la moderna famiglia singola è fondata sulla schiavitù domestica della donna, aperta o mascherata. Integrare le donne nel mondo della produzione equivaleva a liberare le donne dalla schiavitù domestica.
Per un lungo periodo la proposta politica e culturale del movimento operaio si è limitata a scalzare l’atteggiamento ostile dell’inserimento
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della donna nell’ambiente del lavoro, per ottenere che le venisse riconosciuto il diritto ad essere produttrice, oltre che riproduttrice. Sembrava che bastasse assicurare alla donna il lavoro, per fare tutto quanto era necessario per garantirle la piena valorizzazione in quanto persona umana 139. Ci si batteva per il diritto della donna al lavoro, tralasciando di occuparsi di lei come persona intesa nella sua totalità. Il movimento femminista, attaccando il tradizionale rapporto uomo-donna, ha riproposto la questione femminile in termini nuovi: come problema personale e politico, culturale e biologico insieme. Lo sfruttamento non è mai soltanto economico. La società patriarcale ha fatto un uso repressivo della funzione riproduttiva, e quindi del corpo femminile. Per questo la liberazione della donna è oggi un cammino che passa attraverso il superamento di tabù che vietano la conoscenza del proprio corpo e coartano la libertà personale. Ma l’obiettivo finale della riappropriazione del corpo è la creazione di nuovi modelli culturali per i rispettivi ruoli maschile e femminile. La donna, che ha usato il corpo per compiacere l’uomo secondo le regole del gioco stabilito dall’uomo stesso, si sta dando oggi il permesso di scoprire le potenzialità inedite della sua esistenza corporea.
Il cambiamento di mentalità in atto non avviene senza difficoltà e conflitti. Se occorre una educazione nuova della donna nei confronti della maternità e della sessualità, non è meno necessaria una rieducazione dell’uomo nei confronti della donna. Ma c’è una speranza che sostiene la rivoluzione dei ruoli sessuali: quella di uomini e donne più umani.
Il corpo ci appartiene più che ogni altra cosa. Esso si agglutina talmente col nostro ‘io’, che entra nella sua sfera di identità e incomunicabilità. I fenomenologi (in particolare Merleau-Ponty) hanno messo in evidenza che noi abbiamo la percezione non solo di ‘avere’ un corpo, ma di ‘essere’ il nostro corpo. Questo rapporto individuale con il proprio corpo deve essere integrato con una prospettiva sociale. La società
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in cui viviamo, infatti, struttura il nostro corpo con le sue norme e valori; influisce sulla sua conservazione (pratiche igieniche e culinarie), sulla sua presentazione (cure estetiche, abbigliamento), sulle espressioni affettive (segni emozionali). Per designare i modi in cui gli uomini, nelle diverse società, usano tradizionalmente il loro corpo, il sociologo Marcel Mauss ha coniato l’espressione ‘tecniche del corpo’ 140. Anteriormente alla tecnica propriamente detta esiste l’insieme di tecniche per l’uso del corpo come ‘il più naturale strumento dell’uomo’, nelle attività e nei movimenti vitali più abituali. L’educazione è, per buona parte, la messa in forma del nostro corpo secondo le esigenze della società nella quale viviamo: l’apprendimento, appunto, delle ‘tecniche del corpo’.
Nella nostra civilizzazione tecnologica la strutturazione sociale del corpo non avviene più con la spontaneità e l’immediatezza che riscontriamo nelle culture tradizionali. Ne è derivato uno squilibrio generalizzato. La principale causa è stata individuata nell’accelerazione del mutamento, che ha un effetto disastroso sul complesso della vita umana. Si è parlato di “shock del futuro” 141. Data la totale interdipendenza dei processi fisici, emozionali e ambientali, l’incapacità del corpo umano di sostenere l’accelerazione del mutamento servendosi delle ‘tecniche’ tradizionali si ripercuote su ogni aspetto della vita dell’uomo. La mente, il corpo e i sensi devono funzionare al di sopra della loro capacità, con un aumento costante della tensione. Lo stress permanente ha effetti distruttivi diffusi. Si manifesta nell’angoscia e nelle malattie psicosomatiche, nei disturbi del sonno e nell’uso crescente di farmaci (tranquillanti ed eccitanti). L’aumento impressionante delle malattie mentali è l’ultima tappa di questa disgregazione.
La liberazione dallo stress psicofisico è diventata un imperativo del nostro tempo. Di qui il boom delle tecniche di rilassamento che suppliscono all’inadeguatezza delle ‘tecniche del corpo’ tradizionali. Gran parte delle terapie attuali tendono a far riprendere contatto con quelle sensazioni fisiche che armonizzano tra loro la mente e il corpo e ci mettono in grado di funzionare in modo più armonico. Mirano a liberare il corpo dallo stress e quindi ad aprire le riserve di energia che permettono un
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un rendimento migliore. Si tratta, in sostanza, di terapie dell’integrazione umana. L’orizzonte problematico delle controculture, che risalgono dal malessere della civiltà ai progetti politici e culturali che la sottendono, per lo più rimane loro estraneo.
Alcune di queste terapie affondano le radici nella tradizione orientale. Approdate in occidente, hanno perduto qualsiasi connotazione mistico-religiosa. Il pragmatismo occidentale le ha considerate esclusivamente come efficaci discipline psicosomatiche. La più diffusa è indubbiamente lo Yoga. In realtà ciò che praticano gli occidentali è lo ‘Hatha Yoga’ (cioè lo Yoga del corpo fisico), che in India è considerato come una disciplina secondaria per raggiungere piani superiori di coscienza 142. Da noi invece viene praticato semplicemente per riceverne vantaggi fisici e mentali, senza prefiggersi alcuna evoluzione spirituale.
Di matrice orientale è anche la ‘meditazione trascendentale’ 143. È stata introdotta nel 1959 negli Stati Uniti dal maestro indiano Maharishi Mahesh Yogy; più di un milione di persone la praticano già quotidianamente. Trascendentale non ha alcuna implicazione metafisica o religiosa. Indica solo che questa tecnica di meditazione porta coloro che la praticano oltre il livello familiare della loro esperienza da vegli, in uno stato di profondo riposo a cui si aggiunge un’accresciuta attenzione.
È convinzione di Maharishi che fondamento della salute mentale sia una integrazione organica della mente e del corpo 144. Nella tecnica che egli ha diffuso, il coordinamento mente-corpo avviene grazie allo stato di profondo riposo in cui il soggetto induce se stesso. Il meditante lascia che la sua mente faccia esperienza di uno stato rilassato e gradevole. Lo stato ipometabolico determina l’eliminazione spontanea dello stress, con acquisto dell’energia tanto del corpo che dello spirito. Normalizzando lo stato del sistema nervoso, la meditazione trascendentale promuove, al pari di una psicoterapia, la soluzione di conflitti emozionali. I suoi adepti la considerano una scorciatoia della psicoterapia, in quanto l’autointegrazione
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si determinerebbe da sola, saltando il lungo travaglio del processo terapeutico in psicoanalisi.
Numerose altre tecniche di rilassamento, senza alcuna parentela con la tradizione religiosa orientale, agiscono sul corpo per indurre uno stato di benessere psichico che controbilanci la tensione patologica. Accenniamo alle più note. Il ‘training autogeno’ è stato messo a punto dal neurologo berlinese J.H. Schultz partendo da esperienze ipnotiche 145. Il suo inventore iniziò domandandosi che cosa sarebbe successo se le sensazioni fisiche descritte dai soggetti ipnotizzati (calore e pesantezza agli arti, calma delle attività cardiaca e respiratoria, sensazione di caldo a livello dell’addome e di fresco a livello della fronte) fossero state comunicate ad un soggetto sveglio con un linguaggio a formule calmo e penetrante. Lo stesso stato di rilassamento fisico-psichico dell’ipnosi sarebbe stato trasmesso a colui che pratica la ‘autodistensione concentrativa’. Praticamente si tratta dunque di una autoipnosi. La sua efficacia terapeutica è ormai comprovata, come pure i benefici effetti sui soggetti sani.
Anche le terapie comportamentali hanno elaborato metodi di rilassamento volti allo scioglimento di tensioni intrapsichiche e di spasmi fisici 146. La terapia più diffusa è la ‘desensibilizzazione sistematica’ proposta da Wolpe e Lazarus 147. Essa stessa è uno sviluppo della tecnica di rilassamento proposta da Jacobson, che si proponeva di alleviare svariate malattie psicosomatiche e forme di tensione per mezzo di un rilassamento muscolare ‘progressivo e differenziale’, grazie alla presa di coscienza successiva delle sensazioni cinestesiche corrispondenti ai diversi gruppi muscolari dell’organismo in stato di contrazione e di rilassamento 148.
La tecnica di desensibilizzazione si fonda sul concetto della reciprocità dell'inibizione. Vale a dire: se l’angoscia impedisce il rilassamento, questo, a sua volta, blocca l’angoscia. Il paziente viene dunque fatto rilassare; in questo stato gli vengono progressivamente presentate le sensazioni e le immagini che lo atterriscono, finché l’angoscia non è stata eliminata.
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Un capitolo in grande sviluppo è attualmente quello della terapia della ‘Gestalt’ e la bioenergetica 149. Queste tecniche mirano a eliminare i blocchi emozionali e fisici che interferiscono con la consapevolezza del presente. La persona è condotta a penetrare nel ‘qui e ora’, a stabilire un contatto immediato con la pienezza delle sue sensazioni, dei suoi movimenti fisici e della sua energia vitale.
Ciò che è comune a questo gruppo così eterogeneo di tecniche terapeutiche è la presa di coscienza che il malessere della civiltà si iscrive nel corpo. Come un sismografo sensibile, il nostro organismo registra uno stato di tensione permanente che lo inceppa nelle sue funzioni più essenziali: come organo motore e come strumento per la comunicazione interpersonale. Riappropriarsi del corpo vuol dire intraprendere una paziente rieducazione di esso al fine di raggiungere di nuovo il sentimento dell’unità della persona. Essere presenti al proprio corpo vuol dire essere a proprio agio in esso e nelle relazioni interpersonali. Le varie tecniche mirano congiuntamente a rendere possibile un diverso modo di essere. Usando la terminologia di Eric Fromm: dal corpo vissuto ‘secondo la modalità dell’avere’ al corpo vissuto ‘secondo la modalità dell’essere’.
4. La salute come autogestione del corpo
La società industriale avanzata crea condizioni di vita da cui molti si sentono oppressi. I suoi difensori presentano i disagi come un prezzo ragionevole da pagare, in rapporto ai benefici attribuiti al progresso. Al progresso si accredita in modo speciale la tutela efficace della salute. Se la società sviluppata stritola valori e vita spirituale, in compenso sembra offrire una vita più lunga e un’assistenza sanitaria garantita.
Alcune voci critiche si sono però levate contro questa falsa apparenza. Illustri biologi hanno denunciato l’illusoria ambizione di produrre industrialmente una ‘salute migliore’ 150. Più radicale di tutti, il sociologo
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Ivan Illich ha accusato la medicina moderna di essere la più grande minaccia per la salute dell’uomo.
Prendiamo in considerazione queste contestazioni dell’imperialismo della medicina in quanto protestano contro un decurtamento antropologico e propongono una riflessione fondamentale sul concetto stesso di salute come fatto umano globale. La riappropriazione del corpo passa anche attraverso la riappropriazione della forza spirituale necessaria per essere in salute.
Una fatale deformazione del concetto stesso di salute avviene implicitamente quando la si concepisce come qualcosa che dipenda dalla cura di una corporazione professionale a ciò dedita. Durante le ultime generazioni il monopolio medico sulla cura della salute si è imposto, travolgendo le risorse naturali dell’individuo e gli espedienti terapeutici tradizionalmente trasmessi dalla cultura popolare. Più la società è progredita, più tende ad assomigliare ad un grande utero plastico in cui l’individuo è preso in cura dai tecnici in camice bianco, dalla nascita (anzi, dal concepimento e anche prima, se si considerano il trattamento fetale e il consiglio eugenetico) alla morte. Nell’architettura delle città l’ospedale ha sostituito la cattedrale come simbolo centrale della convivenza civile. La crescita a dismisura della macchina sanitaria ha agito, paradossalmente, non a favore della salute, ma contro di essa. La supermedicalizzazione sociale della vita ha paralizzato i meccanismi comunitari ed interiori che garantiscono la salute. La salute umana, infatti, è qualcosa di diverso dalla semplice assenza di fatti morbosi che minaccino l’equilibrio di una struttura biologica. La salute è un compito; come tale la salute dell’uomo non è paragonabile all’equilibrio fisiologico degli animali. Implica la capacità personale di far fronte alla vita in modo autonomo e responsabile. Quando l’organismo è diretto da altri, la salute, come potenziale umano, regredisce inevitabilmente.
Per i critici della medicina l’impresa medica è la causa maggiore del declino generale della salute, in quanto questa è diventata l’affare esclusivo di un’istituzione pianificata, incaricata di ‘produrla’ e ‘migliorarla’ indefinitivamente. Il sistema medico espropria così le persone di ogni capacità di compiere con le loro forze un’azione di autoregolazione dell’organismo. Questa gestione eteronoma ha un effetto tanto più deleterio in quanto viene a paralizzare la sana capacità morale di reazione alla sofferenza, alla invalidità e alla morte.
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Illich chiama questo fenomeno ‘iatrogenesi culturale’, intendendo con ciò il danno inferto alla salute dalle professioni sanitarie in quanto distruggono la capacità potenziale dell’individuo di far fronte in modo personale ai fatti morbosi e la volontà di soffrire la propria condizione reale. “La medicina organizzata professionalmente è venuta assumendo la funzione di un’impresa morale dispotica tutta tesa a propagare l’espansione industriale come una guerra contro ogni sofferenza. Ha così minato la capacità degli individui di far fronte alla propria realtà, di esprimere propri valori e di accettare il dolore e la menomazione inevitabili e spesso irrimediabili, la decadenza e la morte. Godere buona salute significa non soltanto riuscire a fronteggiare la realtà, ma anche gioire di questa riuscita; significa aver caro ma anche arrischiarsi di sopravvivere. La salute e la sofferenza come sensazioni vissute e consapevoli sono fenomeni propri degli uomini, che in ciò si distinguono dalle bestie” 151.
È dunque una fatale illusione credere che la salute possa essere prodotta come uno dei tanti beni di consumo che la società opulenta promette a tutti. Essa appartiene, per ricorrere ancora alla terminologia di E. Fromm, alla modalità dell’“essere”, non a quella dell’“avere”.
L’illusione del benessere sanitario come bene di consumo garantito a ognuno è un aspetto del grande sogno della società industriale, in particolare della società consumistica che si è affermata a dimensione planetaria dopo la seconda guerra mondiale, di conseguire il paradiso nell’al di quà mediante la produzione e il consumo illimitato di beni (Fromm lo chiama “la Grande Promessa di Progresso Illimitato”). Il fallimento della Grande Promessa, anche sotto l’aspetto sanitario, lascia l’uomo contemporaneo più vulnerabile nella sua salute, e per di più espropriato del proprio corpo. Questa affermazione può apparire paradossale, riferita ai grandi consumatori di cure mediche che siamo diventati. L’uomo d’oggi è morbosamente attento alla minima disfunzione del proprio corpo. Al più lieve disturbo è già nella sala d’attesa del medico. La pratica degli esami preventivi (screening sistematico della popolazione) lo fa assoggettare alla condotta di malato prima ancora di denunciare un qualsiasi malessere. L’espropriamento del corpo passa proprio attraverso questi modelli di comportamento diffusi dalla prassi sanitaria moderna. Tra l’uomo e il suo corpo si è inserita la grande macchina della scienza.
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Il gergo scientifico sostituisce il parlare comune: il paziente non sa più parlare del suo corpo e del suo male. Il linguaggio diventa proprietà esclusiva del personale sanitario. Il malato non capisce, per lo più, per quale malattia venga curato e a quale terapia è sottoposto. I professionisti della sanità parlano ‘marziano’, e nessuno fa da interprete per il povero terrestre. Anzi, è auspicabile che il malato non interferisca, per non intralciare l’opera di chi si occupa della sua guarigione. Il paziente abdica a favore del medico, al quale attribuisce la capacità di capire il proprio corpo. Spesso non sospetta neppure che in questo modo si preclude la via più sicura per capire il linguaggio del proprio corpo.
Riduce così il corpo a una macchina guasta, in cui solo il tecnico può mettere le mani con competenza. Il corpo, invece, è un organismo ― il ‘suo’ corpo appunto — che parla un linguaggio sufficientemente chiaro. Ogni cultura tradizionale metteva in grado di capire il linguaggio del proprio corpo. Noi, i surmedicalizzati, sembriamo diventati ciechi e sordi riguardo ad esso. Trattiamo con brutalità la sua delicata struttura biologica, come se lo stress costante in cui siamo immersi fosse una condizione normale. Quando il corpo recalcitra, gli diamo, come ad un asino caparbio, una frustata farmacologica. Il sovraconsumo dei farmaci è diventato un’epidemia nella nostra società: un tranquillante per dormire e un energetico per essere in forma. Espropriati della gestione della propria salute, del corpo e del suo linguaggio, il ricorso all’automedicazione farmacologica pare essere diventato l’unico modo per sentirsi padroni del proprio corpo.
Per l’uomo industrializzato “prendere un farmaco, non importa quale e per quale motivo, è un’ultima possibilità di affermare il proprio dominio su di sé, di manipolare lui stesso il proprio corpo anziché lasciarlo manipolare dagli altri. L’invasione farmaceutica lo porta alla medicazione, da parte sua o altrui, che riduce la sua capacità di padroneggiare un corpo di cui è ancora in grado di curarsi” 152.
La denuncia dell’impasse a cui la medicina tecnologica e l’assistenza sanitaria della società dei consumi ci hanno condotto non mira al catastrofismo. Vuol piuttosto arrestare l’epidemia iatrogena finché è possibile. L’aspetto positivo della denuncia è l’invito al ‘profano’ a rivendicare il controllo della propria salute e sul proprio corpo. Coloro che conservano
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una speranza nell’uomo fanno fiducia alla sua coscienza, autodisciplina e risorse interiori. Rivolgono al singolo, che dall’istituzione sanitaria è spogliato di ogni capacità autonoma di affrontare le vicissitudini della propria vita fisica, l’invito a riappropriarsi del corpo per vivere l’avventura della salute. Ciò comprende un’azione politica per il diritto concreto di ognuno all’atto produttivo autonomo, grazie a un’ampia deprofessionalizzazione delle cure, all’accesso della gente alle conoscenze mediche necessarie per le malattie più correnti, al libero accesso a una farmacopea semplificata. Dal punto di vista antropologico, bisogna riaffermare ‘la salute come virtù’, per usare una formula incisiva di Illich. In quanto compito personale da assumere, essa domanda una responsabilità di fronte al dolore, alla malattia e alla morte. Questa è l’alternativa umanistica al culto quasi religioso che la medicina pretende dall’uomo dell’era tecnologica.
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DIMENSIONI SPIRITUALI DEL CORPO
Perché al solo formulare la frase nominale “spiritualità del corpo” siamo presi da un senso di disagio? Perché soggiaciamo all’impressione di un’operazione culturale ibrida, o addirittura di una forzatura semantica? È un fatto: nell’ambito della cultura occidentale siamo tutti, in misura maggiore o minore, influenzati da una scansione della realtà umana in termini dualistici, che ci fa opporre la materia — il corpo — allo spirito 153. L’esistere nel corpo sembra uno stato che fa resistenza alle varie forme di trascendimento, sia mistico-religiose che intellettuali. Più di recente il corpo è diventato estraneo non solo alle avventure spirituali, ma alla stessa esistenza quale si coglie attraverso l’esperienza dei sensi. L’estraneità del corpo è un dato maggiore della nostra antropologia vissuta. Le ragioni per cui vi si è pervenuti sono varie. Tra gli studiosi, chi preferisce accusare la metafisica greca, chi punta il dito contro la scienza moderna (la quale, assumendo la distinzione cartesiana tra soggetto e oggetto, ha mediato una concezione del corpo come “res extensa” su cui si esercita il dominio del soggetto). Il corpo è oggetto di manipolazione, come tutta la materia. Mentre la medicina tecnologica procede a sostituzioni sempre più sofisticate di organi del corpo, come pezzi di ricambio di una macchina, l’ingegneria genetica estende le possibilità di intervento verso confini fantascientifici. Più cresce il potere di manipolare
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il corpo, più sembra che il corpo stesso si faccia lontano dall’esperienza vissuta.
Mentre formuliamo queste osservazioni sullo Zeitgeist, con tono di rammarico per l’impoverimento dell’esperienza corporea che esso implica, ci rendiamo conto di quanto siano parziali. Possiamo attribuire validità generale all’atteggiamento verso il corpo che abbiamo evocato solo se accettiamo l’implicito diktat egemonico del sapere scientifico. Ma ci sono più cose, tra il cielo e la terra, di quante ne conosca la scienza accademica! Ci sono più atteggiamenti nei confronti del corpo di quello tecnico-manipolativo. Anche in Occidente. Una scorsa a questo spettro di valenze diverse ci fornirà gli elementi con cui nella cultura contemporanea, dentro e fuori l’esperienza religiosa, si nutre un atteggiamento verso il corpo che a buon diritto possiamo chiamare “spirituale”.
1. Il corpo nella cultura olistica della salute
La medicina costituisce un osservatorio privilegiato degli umori e delle tendenze del nostro tempo circa il corpo. Nel dibattito antropologico contemporaneo è diventato quasi un luogo comune ripetere che la medicina ha “cosificato” il corpo. Se ne attribuisce la responsabilità alla medicina come scienza della natura, così come si è formata nella prima metà del secolo scorso, opponendosi alla medicina speculativo-romantica. Quando l’uomo è considerato semplicemente come un pezzo di natura tra gli altri, si opera una violenta mutilazione antropologica. Le tendenze attuali, che a noi sembrano significative dal punto di vista della spiritualità del corpo, si muovono nella direzione opposta, verso un recupero della “totalità” e della persona umana. Tuttavia va riconosciuto che l’atteggiamento reificante, proprio della medicina come scienza della natura, non è abusivo. Il corpo come oggetto è una dimensione della nostra esperienza fenomenologica, oscillante tra due percezioni: quella di “essere” un corpo e quella di “avere” un corpo. La medicina sviluppa, tanto nell’ambito concettuale che in quello pragmatico, la dimensione di oggettività del corpo. Ma il corpo dell’uomo conserva la particolarità di essere il corpo di un “soggetto”. Le conseguenze sono rilevanti quando consideriamo la patologia del corpo da un punto di vista teoretico. Un fatto morboso non è solo qualcosa che “ho”, perché
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mi sopravviene, ma anche qualcosa che “faccio”. Il medico-filosofo Viktor von Weizsäcker, che in quanto patologo fu profondamente influenzato dalla conoscenza psicoanalitica dei dinamismi psichici, introdusse la distinzione tra Es-Stellung e Ich-Stellung nei confronti della malattia. Quando si è in un rapporto “Es” con la malattia — la malattia come un “non-Io”, qualcosa che capita, che aggredisce l’organismo dall’esterno —, viene privilegiato l’aspetto obiettivo-razionale. Ma a un certo punto del trattamento il malato si sente autorizzato ad assumere la malattia nell’ambito dell’io. Qui ci troviamo nel regno non più dell’“essere” e “non-essere”, bensì del “poter-essere”, “dover-essere” ecc., cioè di quelle categorie che sono il fondamento della moralità. La malattia diventa allora un elemento costitutivo di una particolare biografia, nella sua unicità e irripetibilità; il malato assurge a soggetto “strutturante”, tanto della propria malattia quanto della propria guarigione 154.
A un livello di minore astrazione filosofica, ritroviamo un approccio specificamente umano del corpo in molte espressioni della medicina contemporanea, a condizione che ci allontaniamo dall’ambito accademico in cui predomina tuttora la concezione meccanicista ispirata dal positivismo. Le correnti più disparate di medicina umanistica convergono nel tentativo di temperare e ammorbidire la prospettiva fredda, scientifica della “natura come nemico” propria della scienza medica allopatica. Convinti che l’uomo moderno ha deviato dall’antica saggezza ispirata da un contatto diretto con la natura, e con il corpo in particolare, molti pazienti hanno voltato le spalle al trattamento ortodosso, dando la preferenza a sistemi medici e a pratiche che si muovono in un orizzonte di unità cosmica. Il pensiero orientale e nuove filosofie dei sistemi biologici hanno introdotto sulla scena occidentale il concetto che l’interazione tra l’individuo e il mondo è un processo in cui fluisce l’energia vitale. Antiche e nuove idee orientali — agopuntura, t’ai chi ch’uan, aikido, yoga, meditazione, terapie di polarità — si sono unite a nuove idee occidentali, dando vita a una diversa concezione del fatto morboso e della terapia. Questi sistemi mirano al bilanciamento delle energie nel campo “corpo/universo”, piuttosto che alla “normalità” come misurazione statica standardizzata della salute. Colui che fornisce la terapia manipola
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energia, invece che chimismo e strutture. Il cliente è visto come un sistema di interazioni, non in termini di sintomi isolati o di errori cellulari. Possiamo chiamare “olistica” questa concezione della salute e del modo di curarla. La prospettiva olistica riconosce che la vita dell’individuo è un processo di dispiegamento continuo, e la malattia l’interruzione di questo flusso. Tutto può influenzare la nostra salute: fattori grossolani e sottili, fisici, emotivi, mentali, spirituali e ambientali; tutti sono correlati. La prospettiva olistica insegna a guardare al di là del sintomo immediato, a situarlo in un contesto più comprensivo. Una disarmonia nella vita si rifletterà sintomaticamente nel corpo, comunicandoci — se vi prestiamo attenzione — che è necessario un cambiamento. La malattia è allora un messaggio, una specie di feed-back del processo della vita che ci informa che qualcosa turba l’armonia e ci richiama ad agire con coscienza, a prendere parte attiva allo sviluppo del nostro benessere, ad assumere responsabilità per la propria vita. Il presupposto olistico è che il corpo sa come curare se stesso, essendo un sistema naturale di guarigione che tende alla buona salute. Il nostro compito è di sgomberare il campo da ciò che ci impedisce di intendere le ragioni del corpo. Rimosso l’ostacolo, la buona salute emerge dall’interno della persona 155.
Mentre la rivalutazione del corpo come armonico sistema naturale fa il suo timido ingresso in medicina, il corpo trionfa nelle correnti più recenti di psicoterapia. Nella psicoterapia analitica ortodossa il corpo continua ad essere metodologicamente escluso dal trattamento. Lo dimostra lo stesso setting analitico, che dispone l’analizzato e l’analista in modo tale che il corpo resti escluso dal campo visivo; l’unico legame tra i due è la parola. Nelle nuove forme di psicoterapia, invece, il corpo è posto al centro del processo terapeutico. Specialmente nelle terapie di gruppo. “Le nuove forme di gruppo riscoprono ciò che era al centro delle psicoterapie di gruppo all’alba della nostra civiltà — nella Grecia antica e a Roma — con i baccanali, i riti dionisiaci — e che si è mantenuto in Africa nelle “terapie da trance”, quelle “terapie da possesso” che Roger Bastide chiama “cure motrici” 156.
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Tracciare una mappa delle psicoterapie centrate sul corpo è un’impresa che supera i limiti di questa panoramica. Basterà indicare il Filone centrale costituito dallo sviluppo delle intuizioni di W. Reich (lo studioso che, con i suoi studi sulla psicologia del gesto e del movimento del corpo e l’analisi del carattere individuale in quanto sistema cui spetta la funzione di regolare l’utilizzazione dell’energia, resta il principale precursore dell’introduzione del corpo sulla scena della terapia). La corrente più autorevole è attualmente la bioenergetica di A. Lowen. Presupponendo un parallelismo tra la dimensione psichica e la dimensione corporea, la bioenergetica mira a individuare i nodi di tensione muscolare che tengono bloccata l’energia, ad allentare la tensione con opportuni esercizi di catarsi, e a restituire infine l’energia al libero fluire nel respiro, nel movimento del corpo, nella percezione delle sensazioni.
“Psicoterapia con il corpo”: un paradosso verbale affine a quello implicito nella “spiritualità del corpo”. Nell’uno come nell’altro caso si delinea un superamento della divisione dell’uomo in compartimenti stagno, grazie alla valorizzazione del corpo come realtà pregnante in cui è contenuto tutto l’umano. Perché questa comunicazione tra corpo, psiche e spirito si realizzi, è necessario che la realtà corporea non sia privata della sua valenza simbolica. È l’istanza che caratterizza la conoscenza esoterica del corpo, nelle diverse epoche e culture.
2. L’uomo e i suoi corpi: la conoscenza esoterica
Esiste un fiume sotterraneo di conoscenza del corpo irriducibile a quello rappresentato dall’anatomia-fisiologia-psicologia scientifiche. Come un corso d’acqua carsico, appare talvolta in superficie con manifestazioni vistose, poi si lascia riassorbire, per riapparire più in là sotto altro aspetto. Una delle ultime apparizioni, in ordine di tempo, è quella che può essere chiamata “fenomeno Castaneda”. Le opere di questo scrittore hanno suscitato in tutto il mondo occidentale un interesse che trascende quello dell’etnologia e dell’antropologia culturale 157. Il successo
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non può essere spiegato senza riferirsi all’insoddisfazione diffusa per le visioni materialistiche dell’uomo e alla nostalgia di una natura che sia manifestazione dello spirito. Castaneda, entrato in rapporto con indios messicani depositari di tradizioni esoteriche, ha divulgato una “via di liberazione” analoga a quelle ben note dell’oriente: taoismo, yoga, vedanta e zen. Un mondo impensato si rivelava agli occhi dei figli della civiltà tecnologica: dove la sapienza viene trasmessa per via di iniziazione; la natura, da oggetto passivo del dominio dell’uomo, si anima per assumere i contorni del “mysterium fascinosum et tremendum”; il potere dell’uomo si dilata, diventando l’iniziato, attraverso la conoscenza, uno strumento in mano alla Potenza.
Il punto di vista esoterico può essere sintetizzato in un aforisma: niente in questo mondo ha solo un significato; tanto meno l’uomo e il suo corpo. Una concezione puramente fisica è limitata: la scienza non esplora che l’anticamera di ciò che l’uomo è realmente. La visione esoterica fornisce una conoscenza progredita dell’entità umana a tutti i livelli nei quali opera. Questo tipo particolare di conoscenza ha un’ascendenza molto autorevole. Tradizioni antichissime si sono occupate del corpo umano e delle sue funzioni, della mente e delle sue potenzialità. Le troviamo in Egitto, in Israele, in Grecia, in India e in Cina, nelle civilizzazioni precolombiane del nord e del centro America. A innumerevoli generazioni hanno fornito una profonda conoscenza dell’uomo nella sua totalità; tutt’ora non sono solo oggetto della ricerca storica e antropologico-culturale erudita, ma una fonte viva a cui anche le generazioni attuali continuano ad attingere.
Una delle credenze più persistenti dell’umanità, che troviamo in ogni epoca e sotto tutte le latitudini, è che la forma fisica del corpo è solo il riflesso di una serie di altre realtà, o “corpi”; nella loro totalità queste forme invisibili e interpenetranti riflettono l’Uomo cosmico, la natura stessa di Dio 158. Scritti e insegnamenti spirituali e filosofici di tutte le epoche hanno indicato nello studio dell’uomo la chiave per penetrare
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nella natura dell’universo e di Dio; ma l’uomo a cui si riferivano era una realtà molto più complessa di quella fisico-biologica che cade sotto i sensi. “L’uomo è più della sua ombra”, si può dire con il mistico indiano Shankara riferendoci al corpo umano.
Tutti i temi ricorrenti nelle concezioni esoteriche del corpo — il corpo come tempio in cui abita la divinità; la dottrina delle proporzioni armoniche disegnate dal Creatore; i significati occulti della fisiotassi; il legame organico tra microcosmo e macrocosmo, nonché tra il corpo e gli elementi fondamentali, tra il corpo e i segni zodiacali 159 — presuppongono una visione dinamica. Il corpo è una realtà irradiante, al centro di un campo di energie. Anche la rappresentazione tradizionale di una triplice divisione in corpo, anima e spirito, è dinamica: la sua ragione d’essere sta in una circolazione d’energia tra ciò che è sopra (spirito) e ciò che è sotto (materia), dove l’anima gioca un ruolo decisivo nella trasformazione. La gradazione di sostanza si traduce in una gradazione di coscienza. In tutte le tradizioni esoteriche la comprensione di questi piani di coscienza interrelati è fondamentale per l’anatomia dinamica dell’uomo. La concezione più elaborata dei centri energetici si trova nella dottrina indiana dei chakras; ma in modo diverso è presente in tutte queste tradizioni. Numerose tecniche — in primo luogo la meditazione — sono state messe a punto per favorire quella circolazione interna e cosmica di energie a cui si può ricondurre, in ultima analisi, ogni sistema dottrinale e pratico che meriti il nome di “spiritualità”. La convinzione comune a tutte le tradizioni esoteriche è che la vita del corpo è una chance per una realizzazione spirituale. Nella loro concezione sacramentale del mondo, infatti, il corpo e la materia sono mediatori dello spirito.
C’è il rischio di un malinteso di fondo quando si considerano le conoscenze esoteriche del corpo: quello di confondere le analogie verbali e figurative, di cui si serve questo tipo di conoscenza, con la realtà stessa. Esse non sono altro che dita che indicano la luna, non la luna! La conoscenza esoterica domanda di essere trasformata in esperienza. In ciò il cammino esoterico presenta singolari analogie con la concezione oggi emergente di teologia spirituale come via esperienziale.
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3. Verso una spiritualità cristiana del corpo
Sulla soglia di ogni trattazione tematica della spiritualità cristiana del corpo inciampiamo nell’inevitabile questione: esiste un rifiuto religioso del corpo? L’ostilità del cristianesimo al corpo è stata così spesso ripetuta che sembra diventata un truismo. 11 problema è difficilmente solubile finché ci si limita a un confronto di testimonianze dottrinali favorevoli e contrarie alla tesi. Se ne trovano, infatti, sia nell’uno che nell’altro senso. Non è difficile allungare la lista degli atteggiamenti, sia dottrinali che pratici, che riflettono una valutazione negativa del corpo: dalle pratiche più fantasiose di mortificazione della carne in uso tra gli anacoreti, alla tradizionale educazione repressiva nei confronti del patrimonio istintuale del corpo (identificato con la sessualità), fino alla lussureggiante letteratura ascetica, dedita alle peggiori intemperanze verbali quando si tratta di diffamare il corpo e di esaltare ciò che lo umilia, come le malattie 160. Per contro, lo stesso insegnamento tradizionale cristiano, che ruota attorno alla dottrina dell’incarnazione — “caro cardo salutis” —, è ricco di elementi di grande umanità nei confronti del corpo. I più accreditati maestri di spirito sono unanimi nel ritenere che un cristiano non potrebbe disinteressarsi del corpo senza danno 161. Ogni rottura dell’armonia tra corpo e anima nuoce a tutt’e due. L’equilibrio fisico è perciò necessario per l’esercizio della vita cristiana. Per dare concretezza a questo insegnamento tradizionale, ci si può riferire a S. Francesco. Nel Poverello di Assisi è presente, con marcate caratteristiche medioevali, la disciplina ascetica per il dominio del corpo. Egli amava parlare di “fratello asino”, per indicare che il corpo deve essere sottomesso all’anima come il servo al suo padrone. Ma riteneva, allo stesso tempo, che bisognava dare al corpo la sua giusta parte di cibo, bevanda, sonno: “il servo di Dio deve provvedersi ragionevolmente,
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affinché fratello corpo non possa mormorare”. “Fratello asino” è, dunque, anche “fratello corpo” 162.
L’antropologia cristiana nella riflessione recente ha messo in primo piano l’esigenza che la corporeità venga sperimentata come valore. L’assunzione della propria corporeità appartiene al processo di identificazione dell’essere umano. Ciò presuppone che l’uomo venga accettato dagli altri nella sua corporeità, in una educazione positiva al valore del corpo. L’equilibrio può venir compromesso tanto dal disprezzo o dall’indifferenza verso il corpo, quanto dal culto esagerato di esso. In concreto, influenze stimolanti nel campo della spiritualità sono state esercitate dal programma di “riappropriazione del corpo” emergente nella cultura contemporanea. Molte esigenze avanzate dallo “human potential movement” americano sono state assunte in ambito spirituale. L’integrazione di corpo, emozioni, psiche e spirito è diventata un programma anche per molte persone che intendono vivere lo spirito del vangelo. Di qui l’interesse per le tecniche, di sviluppo recente, che mirano al conseguimento di questa “totalità” integrata (wholeness): tecniche per il rilassamento, esercizi per liberare l’aggressività, terapie relazionali intese al potenziamento della comunicazione corporea 163.
La maggiore attenzione al corpo che si sviluppa da parte di persone interessate al divenire spirituale dell’uomo è di tutt’altra qualità rispetto a quella che produce il culto del corpo. La sensualità dilagante non coincide con l’accettazione del corpo. Non è difficile scoprire, infatti, dietro a certe espressioni della celebrazione neopagana del corpo — il corpo giovane, bello e sexy: uno degli ultimi miti creati con l’intento scoperto di servire alla civiltà dei consumi —, una segreta ostilità verso il corpo stesso. Accettare la realtà corporea di qualcuno significa rispondere positivamente al corpo nella sua espressività umana, anche quando non ha una perfetta forma fisica. Nella valorizzazione spirituale del corpo è contenuta anche una critica del culto idolatrico del corpo, che si riduce, in definitiva, a una caricatura della realtà umana del corpo.
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Non mancano pubblicazioni recenti su temi particolari, nel quadro del coinvolgimento del corpo nella vita spirituale. Segnaliamo soltanto gli studi relativi alla partecipazione del corpo alla preghiera, alla meditazione corporea, al servizio carismatico di guarigione. Tralasciando di entrare nei dettagli di tali sviluppi, vogliamo piuttosto richiamare l’attenzione sulla necessità che la teologia spirituale sviluppi una riflessione non occasionale sul corpo. Nel corpo si coagula la vita psichica e spirituale, essendo il luogo centrale della nostra esperienza umana; ad esso spetta una posizione centrale anche nella riflessione sistematica che caratterizza quella disciplina — la teologia spirituale — che è stata chiamata a buon diritto “mistagogia della vita cristiana”. Come primo tentativo esemplare in tal senso ci si può riferire all’opera di p. Truhlar. L’autore è ben referenziato: con i suoi 25 anni di insegnamento di teologia spirituale alla Gregoriana e le sue numerose pubblicazioni, p. Truhlar può essere considerato uno dei fondatori di questa disciplina a livello accademico. È noto come p. Truhlar, alla ricerca di un centro unificatore che desse coerenza tanto al metodo quanto al contenuto della teologia spirituale, lo abbia individuato nel concetto di “esperienza dell’assoluto”. La via esperienziale indicata come nucleo germinale della vita spirituale non è di tipo irrazionalistico (come la categoria dell’Erlebnis nella fenomenologia della religione). Essa si situa piuttosto su un piano in cui l’antinomia “razionale” — “irrazionale” è inappropriata, in una situazione gnoseologica sui generis. Il sapere di cui è questione nella vita spirituale non è il “pensare” concettuale, né quella conoscenza della realtà che si acquisisce mediante la sperimentazione: è il sapere relazionato all’esperienza del proprio essere e dell’assoluto, comune a tutti gli uomini. Nella via esperienziale l’essere si “sente”: non mediante determinate percezioni sensitive, immaginative, concettuali; e neppure per il tramite della volontà e del sentimento (il Gefühl dei tedeschi, in quanto si oppone alla conoscenza). L’accesso all’essere passa al di sopra di tali categorie: è diretto, “acategoriale”. Si perviene a questo contatto immediato con l’essere indirizzando l’attenzione non verso gli oggetti così come sono nell’uomo, ma verso ciò che li accompagna e in cui essi sono immersi, verso ciò che costituisce il loro orizzonte. Questa esperienza dell’essere accompagna ogni categoria dell’attività umana, benché come tale non possa mai essere afferrata con i concetti. È una possibilità dell’essere umano, anche se non si realizza per tutti e con frequenza. Si richiede che il centro personale dell’uomo si rivolga ad essa mediante una certa attenta apertura.
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L’importanza del concetto di “esperienza” nella teologia spirituale si rivela nelle sue conseguenze. Tutta la disciplina ne risulta ampliata nei suoi interessi e “centrata”. Perché la via esperienziale conduce a un centro, in cui tutto l’uomo è presente come nel punto di partenza della sua vita intera. Tutto è unificato: lo spirito, la psiche, l’immaginazione, i sensi. L’esperienza dell’assoluto si manifesta attraverso il corpo, si iscrive nella respirazione 164. La spiritualità, grazie a questa integrazione del corpo, perde il carattere rarefatto che il termine era solito evocare, per assumere la concretezza poliedrica della vita umana. La via indicata dall’opera di p. Truhlar rimane un’indicazione autorevole in un’epoca in cui, dopo l’ebbrezza dei miti del progresso e della macchina, ci stiamo ripiegando sul corpo per difendere la fragile realtà che si chiama “la qualità umana”.
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CORPO E VITA SPIRITUALE
I movimenti più vivaci e creativi della cultura contemporanea esprimono la ricerca di un rapporto con il corpo diverso da quello imposto dal modello culturale dominante. Superato il momento semplicemente rivendicativo, il recupero della dimensione corporea non vuol essere antitetico allo spirito e ai suoi valori, ma inclusivo di essi. Il riferimento al corpo non è più allora un ripiegamento regressivo, quasi un ritorno all’esperienza corporea infantile, ma piuttosto la scoperta di una quarta dimensione 165, in cui esperienza del corpo ed esperienza dello spirito si implicano reciprocamente.
Questa visione integrata e dinamica dell’uomo interpella più che qualsiasi antropologia dualista colui che si riferisce al mondo biblico. Per parlare dell’uomo nella Bibbia sono usati tre termini: corpo, anima e spirito. Non si tratta di tre componenti dell’uomo, ma di tre termini che disegnano sempre l’uomo intero, ciascuno con riferimento ad aspetti diversi di ciò che costituisce l’esperienza umana concreta e indivisa. Ne consegue che, secondo l’antropologia biblica — come secondo l’approccio contemporaneo del corpo —, lo psichismo e il corpo non possono essere estranei alla vita spirituale. La realizzazione spirituale può passare anche attraverso quel delicato e minuzioso lavoro in cui sembra impegnato solo il corpo (vedi, ad es. lo yoga).
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Anche per l’uomo contemporaneo, che si considera tutto intero “corpo”, c’è una vita nello spirito. Anzi, nello Spirito. C’è un modo di cercare Dio che privilegia l’esperienza individuale, compresa quella che si concentra sul corpo.
Necessariamente sorge una tensione dialettica con altri modi di cercare Dio, in primo luogo con quelli che privilegiano l’impegno (diventato oggi azione politica, militante). È la vecchia opposizione tra l’azione e la contemplazione, vecchia quanto il cristianesimo. E oggi non ancora risolta, forse perché non risolvibile. In compenso, oggi diventa più chiaro che nessuno ha diritto di monopolizzare la ricerca di Dio, identificandola con la propria. Ambedue i poli della lotta e della contemplazione sono necessari alla chiesa e devono rimanere in dialogo costante. Anche all'interno di ciascun cristiano. La militanza ha bisogno di attingere forza nella profondità della preghiera; la contemplazione domanda di incarnarsi nell’azione.
Un aspetto singolare della preghiera cristiana dei nostri giorni è la riscoperta del corpo. Lo illustreremo presentando in dettaglio due esperienze spirituali che probabilmente, nel panorama generale del fatto cristiano, saranno giudicate marginali. Non per questo meno tipiche, però. Anzi, tanto la preghiera per la guarigione quanto la meditazione corporea mostrano l’impronta inconfondibile dello spirito che distingue la nostra epoca.
1. Salvezza per il corpo nel rinnovamento carismatico
La salvezza cristiana è rivolta all’uomo intero: corpo, spirito e anima. I credenti raggiunti dal movimento carismatico dovevano riscoprire questa verità, e proprio loro, in genere accusati di “spiritualismo”, ricordare a tutti i cristiani il ruolo del corpo nella salvezza 166. Nei gruppi
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di preghiera neo-pentecostali il corpo occupa, in generale, un posto centrale. La preghiera non è intesa in modo cerebrale o intellettualistico. Essa trascina, permettendo la partecipazione di tutto l’essere. Le mani trovano il ritmo per sottolineare il canto, le membra si sciolgono, la preghiera in lingue gorgoglia spontaneamente. Il corpo intero, fatto per la comunicazione interpersonale, vive con intensità questa sua destinazione originaria.
La valorizzazione del corpo in seno ai gruppi di preghiera carismatici doveva portare però ancora più lontano, fino alla riscoperta del carisma delle guarigioni. “La fede guarisce”: è l’esperienza quotidiana nei gruppi di preghiera. L’antecedente culturale di questa fusione di fede e terapeutica è costituito, specialmente in America, da una tradizione, risalente al secolo scorso, di guaritori carismatici. Sono di casa nelle sètte, di cui la più nota è la Christian Science. Questi fenomeni sono rimasti marginali alle chiese istituzionali, in particolare a quelle della Riforma, tradizionalmente ostili ad espressioni emotive che esulano dal puro servizio della Parola 167. In genere le guarigioni miracolose che avvengono nelle sètte non godono buona reputazione. Si è soliti associarle a macchinazioni di fanatici, all’uso di violente suggestioni di massa, a superstiziosi esorcismi. Il pericolo di abusi è reale. Tuttavia la funzione delle sètte è sempre stata quella di richiamare la chiesa a carenze, trascuratezze e deviazioni da ciò che è originario nel messaggio cristiano. È facile distanziarsi con sufficienza e commiserazione dalle iniziative settarie; più difficile, ma più utile per le chiese, cercare di accogliere ciò che c’è di genuino nelle loro istanze.
L’esperienza di guarigioni mediante la fede dei carismatici cattolici non si innesta direttamente sulla tradizione settaria. Il suo antecedente immediato è una prassi più moderata, stabilitasi nelle comunità ecclesiali che le avevano dato diritto di cittadinanza. Una certa decantazione è avvenuta nei decenni scorsi, soprattutto in ambienti episcopaliani e presbiteriani 168. Progressivamente si sono stabiliti dei criteri a tutela della
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qualità delle guarigioni: tendere a che il fine ultimo dei servizi di guarigione sia l’adorazione; capire in quale senso la malattia può dipendere da una dissociazione nella relazione con Dio e con il prossimo; mantenere il contatto con i medici e non sottovalutare l’utilità delle cure tecniche; prevenire ogni atmosfera di malsana eccitazione; non passare all’imposizione delle mani se non come climax di un lungo cammino di preghiera, non più come atto magico davanti a un uditorio affamato di sensazionale.
La pratica della preghiera per la guarigione che troviamo nei gruppi di preghiera e rinnovamento cattolici è sintonizzata con questo clima spirituale. Le riserve circa l’uso indiscriminato dei poteri di guarigione continuano a farsi sentire; anzi, secondo un osservatore attento, “i cattolici romani tendono ad avvicinarsi al guaritore per fede con una diffidenza e uno scetticismo immensi. Essi sospettano un inganno inteso ad allettare i credenti e a spingerli negli errori del fanatismo entusiasta” 169. I pentecostali cattolici sono restii ad usare il termine “taumaturgo” per indicare le persone che sembrano possedere il carisma di guarire. Nel loro linguaggio, il potere di ridare la salute è proprio di Dio solo; grazie al battesimo e al dono dello Spirito, esso è partecipato a ogni credente. Ciò vuol dire che il potere di Dio è messo a sua disposizione, sia che egli diventi un ministro riconosciuto, sia che non lo diventi 170. I ministri di questi carismi non si comportano come dei taumaturghi, ma come degli oranti. Sono fratelli che pregano per altri fratelli, non detentori di un potere autonomo.
La riscoperta della preghiera collettiva per la guarigione dei malati è avvenuta spontaneamente, sul filo degli avvenimenti entusiastici che hanno caratterizzato gli inizi del movimento carismatico. Attualmente è diventata prassi comune dei gruppi di preghiera. “I carismatici non dànno l’idea di voler impiantare un qualche ufficio di constatazione medica, proprio come non si occupano di registrare il parlare in lingue per vedere se c’è qualche lingua straniera. Essi vivono i carismi in funzione dell’incontro con Dio e con gli uomini. Quel che importa ad essi è che il Signore è vivo, oggi come ieri, che la salvezza non concerne l’“anima” soltanto, ma tutto l’uomo, il corpo compreso, e che in questo campo neanche il vangelo predica la rassegnazione, bensì la speranza” 171.
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La preghiera per la guarigione si recita il più delle volte in sedute di preghiera a parte, che hanno luogo dopo i regolari incontri di gruppo. La preghiera comune è accompagnata dall’imposizione delle mani, quasi un gesto di comunione cristiana attorno a chi soffre. Non è mai una sola persona che prega e impone le mani.
Nei gruppi pentecostali cattolici il ministero della guarigione è comunitario, non individuale. Si pone cura nell'evitare il miracolismo. La guarigione stessa, del resto, non è considerata come l’avvenimento fisico che lascia strabiliati e perplessi i rappresentanti della scienza. È vista come un processo che inizia dall’intimo risanamento spirituale, vale a dire dall’esperienza di essere stati afferrati da Gesù e posti nella vita stessa della famiglia di Dio. La guarigione fondamentale consiste nella conversione stessa. Dalla certezza di questa presenza della salvezza nella propria esistenza rinnovata scaturisce una forza nuova per affrontare i mali della vita, presente e passata. Qualsiasi esperienza di rifiuto, oppressione, non-amore può essere guarita, comprese le ferite provocate dalle vicende traumatiche del passato. I carismatici amano parlare, a questo proposito, di “guarigione delle memorie”. Con questa espressione si vuole indicare la purificazione dei sentimenti subconsci di ansia, paura, vacuità e inutilità. È il presupposto per la soluzione dei problemi di natura emotiva 172. Alla pace interiore è attribuita una grande potenza terapeutica: quando la coscienza è piena d’amore, di gioia, di pace, di pazienza, di bontà, di benevolenza, di fede, di dolcezza, di padronanza di sé (cioè di quanto Paolo in Gal. 5,22 chiama “frutti dello Spirito”), possiede una forza di guarigione contro ogni male, comprese le malattie del corpo.
A seguito della preghiera comunitaria, avvengono anche guarigioni di mali fisici. Secondo l’autorevole testimonianza di Mac Nutt, “la metà di coloro per la cui guarigione noi preghiamo vengono guariti (o migliorati notevolmente) dalle loro malattie fisiche, e circa i tre quarti dai loro problemi emozionali o spirituali”.
Guarigione, anche straordinaria, non vuol dire miracolo. Almeno, non nel senso dell’apologetica. Quello che interessa non è l’accertamento di un fatto che costituisca un’eccezione alle leggi naturali e permetta
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quasi di sorprendere Dio in azione, per dimostrarlo all’incredulo. Il ministero delle guarigioni recupera l’aspetto religioso della guarigione stessa. Essa è un momento dell’incontro con Dio, il quale si fa presente con i suoi doni. Ma è Dio stesso, non i suoi doni, che è al centro dell’interesse del credente. Non si prega per mettere la potenza di Dio a servizio dell’uomo. L’incontro personale è preferito al risultato, il ringraziamento alla domanda. I servizi di guarigione tendono a ristabilire la relazione esistenziale dell’uomo con se stesso, con Dio e con gli altri. La fede che guarisce è la fede che crea rapporti di comunione, la fede che apre all’amore. La comunità dei credenti vi scopre così un ruolo terapeutico singolare. Non perché offre asilo e incoraggiamento ai “guaritori”, ai quali anche la società moderna, malgrado la medicina scientifica, sembra non sia ancora in grado di rinunciare. La comunità cristiana guarisce in quanto diventa quello che deve essere: la casa di coloro che sono colpiti dal potere di emarginazione e dissociazione del male in tutte le sue forme173. Allora essa è un riflesso autentico dello Spirito e offre ai malati, handicappati, anziani, ai sofferenti nel corpo e nello spirito quello spazio in cui sono possibili relazioni umane ravvicinate, accettazione, sostegno, conforto: ciò di cui l’uomo ha bisogno per riconciliarsi con la vita e lasciar agire le forze di guarigione. Così anche le comunità cristiane del XX secolo possono essere un riflesso fedele di Colui che “passò guarendo e facendo del bene” (cfr. At. 10,38).
2. Meditazione corporea
Dal punto di vista della storia della spiritualità cristiana, il nostro modo di pregare (silenzioso, intellettuale, volontaristico, e con la completa esclusione della partecipazione del corpo) è una singolarità che non conosce precedenti.
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Più che un’espressione della tradizione, va considerato come un’invasione surrettizia di puritanesimo. Per contrasto, basti pensare alla tradizione della “preghiera pura” coltivata nella cristianità orientale dal movimento esicasta 174. Cercando di far “discendere” l’intelletto nel cuore, gli oranti miravano ad acquistare coscienza della presenza divina. Il mezzo privilegiato era considerato la “preghiera di Gesù” (l’invocazione: “Signore Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me”), ripetuta incessantemente, al ritmo stesso della respirazione. La “preghiera pura” è infatti tutt’altro che mentalismo rarefatto. Si serve di tecniche, come il controllo della respirazione, che hanno un impressionante parallelo nelle tecniche di concentrazione delle religioni asiatiche.
Anche la tradizione cattolica fino alle soglie dell’epoca moderna non conosce la diffidenza per il corpo nella preghiera. Sono note le indicazioni precise circa gli atteggiamenti del corpo che dà S. Ignazio negli “Esercizi spirituali”.
Perfino la spiritualità domenicana, apparentemente così intellettuale, attribuisce un congruo posto al corpo. S. Tommaso (Summa T. II-II, 9.84, a. 2) insegna che la preghiera corporale è perfettamente valida e buona, anche se il nostro cuore e il nostro spirito non vi sono totalmente impegnati. La teologia dell’Aquinate beneficiava indirettamente del ricco insegnamento sulla preghiera corporale che S. Domenico stesso aveva lasciato in eredità al suo ordine. Ne dà testimonianza un documento redatto probabilmente dopo la sua morte: “Le nove maniere di pregare di San Domenico” 175. Al santo dobbiamo riconoscere una grande libertà e inventività del gesto. La sua preghiera comprende inchini profondi e lenti, prostrazioni, genuflessioni frequenti, l’abbandonarsi alle lacrime (che una lunga tradizione anche liturgica considera un dono), il tenersi “sulla punta dei piedi, le mani levate al cielo”...
Riferendoci a questa tradizione, potremmo sentirci incoraggiati ad avere meno inibizioni nel muovere e nell’usare il corpo nella preghiera 176.
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Oltre alla tradizione propria del cristianesimo, esistono in altri ambiti religiosi esperienze di preghiera corporea di valore universale. Tra le diverse tradizioni sono possibili influenze reciproche. Una delle novità più clamorose di questi ultimi anni è appunto l’invasione dell’occidente da parte della meditazione orientale, specialmente nella forma assunta dal buddismo Zen, proveniente dal Giappone.
Lo Zen (il termine equivale a “concentrazione”, “meditazione assisa”) non è propriamente né una religione, né una filosofia. Fondamentalmente è un’esperienza personale ed esistenziale, non rappresentabile in termini discorsivi. L’illuminazione (in giapponese satori) è un’esperienza che fa toccare il fondo dell’essere. Tuttavia chi l’ha vissuta la presenta come la cosa più naturale, più rispondente alla natura dell’uomo. È una riconquista del significato elementare delle cose e di se stesso mediante un’adesione immediata all’oggetto, senza mediazione di concetti e parole. Presupposto per essere presi in questa esperienza è l’abbandono della guardia intellettuale.
Il movimento Zen fu introdotto in America verso la fine del secolo scorso e si è diffuso in centri di livello scientifico e universitario. Alan Watts ne fu il divulgatore principale e D.T. Suzuky uno dei maestri più ascoltati 177. Lo Zen divenne di moda all’epoca della generazione beat. I giovani in rivolta nei confronti della convenzionale concezione scientifica dell’uomo e della natura pensarono di aver trovato nello Zen qualcosa di cui avevano bisogno e fecero libero uso di ciò che avevano capito di questa esotica tradizione. Forse quello che i giovani hanno preso per Zen ha scarse relazioni con la tradizione originale; ciò che essi ne trassero fu soprattutto un rifiuto di tutto ciò che è positivistico e cerebrale, in senso costrittivo 178.
In Europa, soprattutto in ambito tedesco, l’interesse per lo Zen ha avuto una motivazione specificamente religiosa. Mediato da P. Lasalle-Enomya e soprattutto K. Dürkheim, che hanno avuto un’iniziazione personale
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nei monasteri buddisti giapponesi, lo Zen è stato diffuso come una tecnica di meditazione perfettamente assimilabile da cristiani 179.
Anche a proposito della comprensione europea dello Zen andrebbe posta la questione di quanto corrisponde all'originale. Malgrado tutti i tentativi di concordismo, gli uomini religiosi dell’occidente restano coscienti che ciò che viene praticato in oriente e in occidente col nome di meditazione è profondamente diverso 180.
La meditatio cristiana è un’attività spirituale che conduce dal mondo sperimentale a Dio che si rivela, alla sua parola e opera di salvezza. È essenzialmente religiosa e domanda una presenza attiva del soggetto, che riflette ed elabora (nella “contemplazione”, invece, anch’essa tradizionale in occidente, il credente accede a un’intima, profonda pace, in atteggiamento di accoglienza). La meditazione buddista è invece “senza oggetto”. Non è concentrazione di tipo meditativo; non è neppure contemplazione, poiché tende a mantenere la mente completamente vuota da ogni presenza conoscitivo-concettuale. L’effetto della meditazione Zen è la sensazione della non-differenza fra l’io e il mondo esteriore. Spontaneamente, senza che vi abbia posto intenzione, il meditante vede crollare le barriere formali fra soggetto e oggetto, fra spirito e contenuto dello spirito, fra idea e cosa proiettata nell’idea.
Ciò che oggi, a seguito del fecondo influsso dello Zen, si diffonde tra i cristiani col nome di “meditazione” non coincide esattamente con quanto questo termine designa nelle rispettive tradizioni dell’oriente e dell’occidente. Dallo Zen si è presa la tecnica, dalla meditazione cristiana l’intenzione profonda. “Preparare l’uomo all’esperienza dell’Essere, aprirlo alla vita della metamorfosi mediante il contatto con l’Essere: tale è lo scopo di ogni pratica meditativa” (K. Dürkheim). Non dunque una ricerca di tipo razionale, una riflessione su un tema; ma neppure l’illuminazione orientale che denuncia l’io e il mondo come illusioni. Piuttosto
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una via esperienziale all’Assoluto, un cammino verso la “realtà seconda”, come l’ha chiamata Balthazar Staehelin 181, vale a dire la coscienza di appartenere a ciò che non è finito. La meditazione consiste nel trovare un “centro” che renda la realtà seconda trasparente. Con la scoperta del vero centro è connesso un rapporto differente con se stesso, con gli altri e con il mondo; un altro stile di vita, un altro modo di essere: la meditazione è, dunque, un cammino di trasformazione. Il processo avviene in noi, nel nostro corpo, grazie al nostro corpo. Per questo, preferiamo dare a questa pratica il nome di meditazione corporea. Vediamone ora gli elementi costitutivi.
La meditazione è un processo che ci conduce al più intimo del nostro intimo, facendoci essere pienamente raccolti e pacifici in profondità. Lo stile di vita odierno è caratterizzato da un risucchio verso la periferia. Così il contatto con gli strati profondi della persona è compromesso. Il centro di gravitazione tende a spostarsi verso gli strati che ci rappresentano come superiori, vale a dire la ragione che pensa con chiarezza logica e la volontà intenzionale. È quanto idealmente localizziamo nella testa. Questo spostamento va a spese del contatto con gli strati più profondi, cioè quelli dell’esperienza vitale e dell’intuizione, dove non è più in questione la ragione o la testa, ma qualcosa che localizziamo più in basso 182.
La struttura psicologica dell’uomo metropolitano contemporaneo ha un riscontro propriamente fisiologico. La tendenza all’attività frenetica e alla realizzazione personale nelle prestazioni intellettuali e volitive si traduce in un particolare rapporto con il corpo. La percezione del corpo è atrofizzata. “Nella pratica, il senso meno sviluppato e che è invece il più utile per la personalità (ivi compresa la personalità morale) è il senso
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interno o propriocettivo. I cinque altri sensi lasciano allo spirito la possibilità di sfuggire, di assorbirsi o proiettarsi nell’oggetto visto, ascoltato, toccato, odorato o gustato. Mentre il senso interno, che non rivela che più o meno oscuramente il corpo in se stesso nella sua sostanza vivente, mette a dura prova l’intelligenza, ed è proprio questa prova che è salutare. Infatti la presenza effettiva al senso interno domanda al mio spirito di lasciare lo schermo mentale per dimenticarsi in qualche modo a vantaggio della sostanza diffusa nel volume delle mie membra e di tutto il mio corpo. Se riconosce sinceramente questa sostanza in se stessa, l’accetterà come irriducibile ai suoi concetti, benché intimamente associata all’unico soggetto che io sono. Sboccia qui un’umiltà fondamentale senza la quale nessun altro grado di umiltà sembra accessibile” 183.
Prendere il cammino dell’universo interiore, rompere il contatto con l’ambiente per raccogliersi in se stesso, concentrarsi per abbandonare le spiagge della vita inautentica, la superficie immediata dell’esistenza: tutto ciò è stato sempre inteso come l’essenza del processo mediativo. Quello che c’è di caratteristico nella meditazione influenzata dalle pratiche orientali è che tutto questo processo si condensa nella riappropriazione del centro naturale del corpo. Si è diffuso anche negli ambienti cristiani che praticano la meditazione corporea il termine giapponese con cui si disegna tale centro ideale: hara. Di per sé la parola significa “ventre”. Essa indica però un atteggiamento d’insieme, che comprende sia l’anima che il corpo, in cui il centro di gravitazione della persona sta nel ventre, le forze che trattengono l’uomo in alto sono in stato di relax, la profondità può esercitare il suo influsso riequilibratore e l’essere umano intero è aperto e disponibile per il contatto con il mistero dell’essere. Lo hara cresce nella meditazione, fino a diventare la disposizione abituale dell’uomo.
Lo strumento privilegiato per accedere a questo centro naturale del corpo e disporsi così all’evento meditativo è la tecnica del respiro. Anche questa è mutuata dalla tradizione orientale, dove alla respirazione è stata dedicata una cura che non trova riscontro nelle culture occidentali. La respirazione non è solo un processo fisiologico che assicura all’organismo la sua riserva di ossigeno, ma un fenomeno che coinvolge tutto l’uomo. È espressione dei processi psichici (le diverse modalità di respiro:
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affrettato o calmo, mozzo o sciolto, superficiale o ampio e profondo, sono legate a stati d’animo diversi); a sua volta il respiro può influenzare profondamente questi stessi processi psichici ed emotivi. La distorsione dell’equilibrio mediante la rottura con gli strati profondi e lo spostamento del centro di gravitazione verso la testa, di cui soffre la nostra cultura, si manifesta anche nella respirazione. Essa è bloccata inconsciamente nella parte superiore del corpo, creando un’ulteriore tensione. La respirazione toracica tende così a sostituire quella col diaframma. Questo muscolo, che è il grande mediatore del respiro profondo, cade nell’immobilità e si atrofizza. Il movimento di espirazione, di solito, non è condotto a termine: viene frenato, traducendo così un’angoscia viscerale, la paura di morire (di “spirare”, appunto). Ciò impedisce di attendere la nuova inspirazione come un dono da ricevere con riconoscenza. Si “fa” la respirazione, invece di “lasciarla farsi”. Questo modo di respirare è una manipolazione del movimento naturale della vita che raccoglie le nostre tensioni e fa ostacolo alla trasformazione. La respirazione toracica è l’espressione fisiologica del volere intenzionale, della volontà di autoaffermazione e dell’eccitazione permanente.
Il recupero della respirazione diaframmatica e del suo ritmo naturale permette di ricostruire i ponti con gli strati profondi dell’essere. Ritrovando le nostre radici, riannodiamo con quella parte di noi stessi che sfugge alla nostra volontà. Il modo di respirare di una persona traduce il suo atteggiamento generale di fronte alla vita. Quando la respirazione torna ad essere un abbandono armonioso alla natura col suo ritmo di morte e rinascita, si è posta la premessa per la trasformazione esistenziale cui tende la meditazione. Si respira allora nel ventre — lo hara —, che è di fatto il centro geometrico del corpo. La respirazione diaframmatica comunica calma e fa essere se stesso in profondità. Respirazione, distensione, centro del corpo: aspetti diversi dell’unico processo che avviene nella meditazione corporea, cioè un cammino di trasformazione che porta alla nascita di una struttura (Gestalt) nuova.
Il giusto respiro mette in accordo con lo spirito della meditazione ed introduce ad essa. Per definizione, non si può spiegare verbalmente, facendo ricorso a un discorso razionale, l’esperienza che la meditazione rende possibile 184. Per avere almeno un’idea del processo interiore che
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viene messo in moto, ci si riferisce al ritmo quaternario chiamato “ruota della metamorfosi” (K. Diirckheim). Anch’esso è stato mutuato dal buddismo Zen.
Il ritmo quaternario è suggerito dal ritmo della respirazione. Quando questa non è deformata da tensioni psichiche e contrazioni fisiologiche, ma si svolge con naturalezza, il rapporto tra espirazione e inspirazione è di tre a uno (due tempi di espirazione, un tempo di pausa e un tempo di inspirazione). Il processo interiore può essere favorito unendo mentalmente ai quattro tempi della respirazione delle parole che esprimono il significato dei diversi momenti che nell’intero cammino ciclico portano alla trasformazione.
Le parole suggerite dai maestri occidentali di meditazione Zen sono: “mi lascio”, “discendo”, “mi dono”, “mi ricevo”. Sono i quattro raggi il cui movimento costituisce la “ruota della metamorfosi”. L’insieme realizza anche il ritmo binario di morte-nascita inscritto in ogni respirazione dell’essere vivente: ogni rivoluzione della ruota, ogni respirazione, contiene in sintesi tutta la densità del cammino che si estende per la vita intera. Mentre il corpo resta immobile, si tratta di entrare nel ritmo stesso del respiro, nel lento e profondo movimento del diaframma che va e viene. Il primo tempo è quello dell’espirazione, che induce a “lasciare la presa”. Il respiro invita a lasciarsi in quanto persona, centrata e contratta nella parte superiore del corpo, installata in tutto un sistema di sicurezze artificiali, difese e paure, complessi, ruoli e maschere. Abbandonato il centro di gravità situato in alto, che imprigiona l’uomo nel cerchio del piccolo “io” col quale ci siamo identificati, ci si prepara ad essere invasi da una coscienza diversa, in cui l’atteggiamento fondamentale consiste non tanto nel “voler fare” quanto nel “lasciar fare”. Accompagnando l’espirazione, la coscienza può scendere ancora più in basso, verso quel centro di gravitazione, situato nel bacino, che abbiamo chiamato hara. È il secondo tempo dell’espirazione (“discendo”). L’espirazione, diretta dolcemente ma fermamente verso il basso, veicola le tensioni che traducono una mancanza di fiducia totale e di abbandono, la paura davanti alla vita. Spariscono le contrazioni localizzate nel bacino, traccia di innumerevoli repressioni. La sensazione di essere nello hara suscita un senso di forza diversa da quella che ha origine nella volontà, e genera progressivamente un altro atteggiamento vitale. Parlando dello hara, Dürckheim così descrive questo stato: “Tutto ciò che popola la forma di coscienza abituale è scomparso. Improvvisamente, ciò che era
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sentito come un vuoto spaventoso dell’io egocentrico diventa una pienezza che le parole non potrebbero esprimere e che penetra la persona intera, dandole forza, luce e calore” 185. È quanto vive il meditante nel vertice di distensione che costituisce il tempo di pausa tra l’espirazione e l’inspirazione. Il lasciarsi culmina con naturalezza nell’abbandono, nel dono completo di sé (“mi dono”).
Il riflusso del respiro segue non più per comando della volontà, ma per forza propria. È la quarta fase. Come una nascita, la nuova inspirazione viene da sé, la si riceve come un dono; si riceve se stesso come un dono (“mi ricevo”). E ciò senza abbandonare la posizione alla radice dell’essere, al centro della terra, raggiunta nella fase precedente di abbandono. Lasciando subito la presa, senza violenza, la “ruota della metamorfosi” si rimette in movimento. Con l’esercizio della meditazione, man mano che la distensione si approfondisce, il meditante si calerà maggiormente nel movimento, lasciandosene afferrare interamente.
Una questione è a questo punto inevitabile: la meditazione corporea ha un significato religioso o solo profano? È noto che nella tradizione orientale non si attribuisce alla meditazione un valore religioso, in quanto connesso con una fede e una rivelazione. In quell’ambito culturale la preoccupazione principale è quella di un’esistenza umana rettamente fondata nel centro dell’essere. In Giappone l’educazione tradizionale ha sviluppato, oltre alla meditazione, una quantità di esercizi — dal tiro dell’arco, all’arte di intrecciare i fiori (ikebana), alla cerimonia del thè ― per consentire la giusta disposizione, cioè un’esistenza vissuta a partire dallo hara 186.
I mediatori occidentali della saggezza orientale hanno operato una reinterpretazione in senso religioso, sia naturalistico che propriamente soprannaturale. Hanno presentato la meditazione come un processo che permette di scoprire la trascendenza nel cuore stesso dell’immanenza,
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valorizzando al massimo il movimento di unificazione essenziale dell’essere che compie il meditante. Riscoprendo ciò che è più profondo in sé, l’uomo troverebbe la faccia che è permanentemente rivolta verso Dio.
Cristiani che esercitano la meditazione corporea testimoniano di attingervi un aiuto per vivere il proprio rapporto con Dio nel senso della fede cristiana. La meditazione può essere anche un’esperienza esistenziale rigorosa di unione col Cristo nella sua morte per aver parte alla sua resurrezione. Questa è la “ruota della metamorfosi” del cristiano. Da una visione esteriore del mistero essenziale della fede cristiana la meditazione fa accedere a una comprensione dall’interno. Una comprensione che non è data da una sapienza razionale e dialettica, ma da una saggezza che va incontro alla rivelazione divina percorrendo la via del corpo, sulla traccia esile ma potente del soffio vitale. È la via che, in senso inverso, ha seguito Dio stesso nella rivelazione: “A noi Dio l’ha rivelato per mezzo dello Spirito (la “ruah”, il soffio di vita). Lo Spirito infatti conosce tutto, anche i pensieri segreti di Dio. Nessuno può conoscere i pensieri segreti di un uomo: solo lo spirito che è dentro di lui può conoscerli. Allo stesso modo solo lo Spirito di Dio conosce i pensieri segreti di Dio” (1 Cor. 2,10-11).
3. Riflessioni conclusive
Il ritorno del corpo è un tema obbligato della cultura contemporanea. La riappropriazione del corpo è un fatto. Un fatto, però, da interpretare. Molti discorsi retorici lasciano intendere che noi saremmo la prima generazione che sa valorizzare il corpo. Ma il gran parlare che si fa del corpo potrebbe essere un fenomeno analogo a quello dell’“arto fantasma” (il fenomeno per cui gli amputati sentono il loro arto più vivo e doloroso che mai); forse l’interesse per il corpo è espressione dell’ansietà generata dall’aver perso il rapporto armonioso con il corpo.
È ben vero che il corpo diventa oggetto di discorso solo a seguito di una frattura che ridesta dalla coscienza ingenua di essere il proprio corpo 187. Tale frattura è avvenuta nella nostra cultura. La violenza quotidiana
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a cui il corpo è sottoposto spiega a sufficienza perché esso sia diventato un sintomo dolorante. “Non c’è bisogno di mostrare come il nostro corpo sia represso e atrofizzato nella nostra civilizzazione tecnica, tanto ciò è ammesso correntemente da tutti (meccanizzazione, burocrazia, lavoro a catena...), al punto che non è più il corpo che determina il suo proprio spazio, ma questo gli è imposto dai modi di vita moderni (trasporti, habitat...). Perciò siamo congelati in atteggiamenti stereotipati che ci impongono le nostre attività regolate e predeterminate. Abbiamo perso la coscienza di cos’è il nostro corpo e del dinamismo che lo abita: non conoscendone che la semplice apparenza, lo abbiamo ridotto ad essere uno strumento di sopravvivenza” 188.
I movimenti centrati nella riappropriazione del corpo, partendo da questo sintomo di malessere, procedono a proposte di progetti di civiltà alternativi. Un rapporto equilibrato col corpo non è un bene di consumo da aggiungere a quelli che promette la società costruita sul mito del progresso illimitato. L’essere “bene” dell’uomo (il benessere) è solo quello che deriva da un essere “di più”. L’esperienza del corpo, che prende avvio dall’alienazione che conosciamo oggi, rilancia esistenzialmente una ricerca antropologica. È la nostra concezione dell’uomo che viene messa in discussione e ripresa. La riappropriazione del corpo si apre quindi, in definitiva, sul processo dell’ominizzazione. L'impasse della civilizzazione attuale dimostra all’evidenza che l’ominizzazione comprende la vita dello spirito. L’umanità non può sopravvivere senza un “super-vivere” 189. La vera riappropriazione del corpo non è dunque un’operazione riduttiva, bensì integrativa. Non si tratta di realizzare il corpo contro lo spirito, o prescindendo dallo spirito. Le avanguardie della nuova umanità intendono intraprendere l’integrazione del corpo con lo spirito, dal momento che sempre l’uomo è in questione tutto intero.
Anche alcuni cristiani, che respirano lo spirito del tempo, riscoprono nella preghiera il corpo come via privilegiata della comunicazione con Dio. Michelangelo lo ha espresso simbolicamente dipingendo la creazione dell’uomo sulla volta della cappella Sistina. Al posto della creazione per mezzo della parola subentra un contatto personale, sensibile; attraverso le dita che si toccano fluisce la corrente che congiunge il cielo e la
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terra. Per affermare la reciprocità tra Dio e l’uomo, l’artista non ha tolto il corpo all’uomo, ma ne ha prestato uno a Dio. La nostra epoca è provocata ad esplorare il mistero della corporeità, come altre epoche hanno esplorato quello della spiritualità. Ai cristiani di domani, ancor più che a quelli di oggi, sarà dato di vivere lo Spirito col corpo.
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Capitolo Quarto
VICISSITUDINI DEL CORPO
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L’APPROCCIO MEDICO DELLA SESSUALITÀ
Interrogativi antropologici ed etici
Sulla famiglia malata abbondano diagnosi e proposte di terapia. Sono in crisi i valori o le strutture, i ruoli o la comunicazione? Tot capita, tot sententiae. Sempre più spesso capita di sentir additare tra le cause dei mali della famiglia la miseria sessuale del nostro tempo. In questo caso il discorso riguarda, di per sé, direttamente la coppia, ma coinvolge la famiglia intera, in quanto il malessere si riverbera necessariamente su tutto il nucleo familiare. Così avviene, per esempio, quando la disarmonia sessuale dei genitori porta alla rottura del matrimonio e alla dispersione della famiglia. Molte coppie denunciano di avere una vita sessuale carente, talvolta piena di sofferenza. L’impressione è che il malessere sia realmente grande e tenda a espandersi. È un fenomeno nuovo, tipico della nostra epoca, o è sempre esistito ma emerge solo oggi perché le condizioni culturali (rivendicazione del diritto alla felicità personale, l’impatto dei mass media che ha fatto cadere i tabù e ha portato alla luce del giorno anche i segreti delle alcove) lo permettono? Una cosa è certa: la domanda di aiuto per le difficoltà sessuali è cresciuta vertiginosamente in breve volgere di anni. È un fenomeno che possiamo inserire nella domanda globale di salute, considerata come uno dei diritti fondamentali del cittadino. La salute sessuale (definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come “l’integrazione degli aspetti somatici, affettivi, intellettuali e sociali nell’essere sessuato in modo da pervenire a un arricchimento della personalità umana, della comunicazione dell’amore”) è un aspetto del benessere che ognuno si sente autorizzato a perseguire e anche a pretendere.
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A fronte di una concezione della sessualità di grande spessore antropologico, come quella che rispecchia la definizione dell’O.M.S., sta la richiesta di aiuto nei termini reali della domanda. Questa ha per lo più le stesse connotazioni della domanda medica corrente: oggettiva, volta al ristabilimento della funzione, preoccupata di togliere i sintomi. Nella fattispecie, i sintomi da eliminare sono le disfunzioni sessuali più invalidanti: impotenza ed eiaculazione precoce per l’uomo, anorgasmicità e vaginismo per la donna. Il sesso, così medicalizzato, diventa un ulteriore capitolo del manuale di patologia, un’appendice delle malattie veneree. La logica che sottende questa operazione è quella dell’imperialismo medico, che continua ad annettere province al suo dominio. Fatto il colpo di mano, tutto sembra apparentemente rimasto come prima, eppure una trasformazione radicale si è introdotta nel settore della vita umana che è stato medicalizzato. Quando è la volta della vita sessuale, la regione si chiama “sessuologia medica”, e i nuovi funzionari coloniali “sessuologi”. La loro caratteristica, come quella di tutti gli altri specialisti medici, sarà quella di sapere sempre più cose su un oggetto circoscritto, separato dall’ambiente e spesso anche dal resto dell’organismo.
La tendenza prevalente della medicina odierna è di occuparsi di organi e di apparati, non della persona nella sua totalità, e tanto meno del rapporto tra le persone. L’uomo, ridotto dapprima al ruolo di portatore di un organo malato, scompare progressivamente dal campo di osservazione: è un oggetto troppo grande per essere esaminato al microscopio (a meno che non si mandi il paziente da un altro specialista, quello della “psiche”, il quale possiede a sua volta un proprio strumento, non meno selettivo). Il timore che ci sorprende di fronte alla proposta di una sessuologia medica, intesa come istanza competente a ricevere le domande di aiuto nel campo delle disfunzioni sessuali, è quello di sacrificare una delle regioni più cariche di significato dell’esistenza umana per avere in cambio una nuova specialità medica e nuovi specialisti che si occupano di guasti da riparare. Prima di passare a esaminare quali sono le condizioni antropologiche ed etiche che rendono praticabile una sessuologia medica, è opportuno fermarsi a valutare che cosa comporta per la medicina il fatto di essere chiamata in causa nei problemi della vita sessuale.
L’aprirsi della medicina alla sessualità umana, è di per sé, qualcosa di nuovo. Si registra infatti in tutta la storia della medicina occidentale una certa riluttanza a occuparsi di questo aspetto della vita. Il sesso in medicina è insieme vicino e lontano. La vicinanza è garantita dal fatto
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che il medico si occupa della vita biologica, considerata nella naturalità dei suoi processi. Egli ha accesso immediato al corpo, senza veli né segreti. Il corpo offerto allo sguardo medico nella sua nudità sfuma simbolicamente nella nudità dell’incontro erotico. Allo stesso tempo il sesso in medicina è lontano. Anzi, allontanato. Per precauzione, innanzi tutto. Già nel giuramento di Ippocrate, che possiamo considerare come la più antica formulazione di quello che diventerà in seguito il codice deontologico del medico, troviamo espressa la preoccupazione di erigere una barriera tra l’attività medica e la sfera del sessuale: “In qualsiasi casa entrerò — giurava il medico su Apollo, Esculapio, Igea e Panacea — lo farò solo per la guarigione dei malati, evitando ogni ingiustizia e danno coscienti e specialmente ogni azione sessuale contro donne e anche contro uomini, liberi e schiavi”. Gli impegni di tipo deontologico hanno la funzione di creare attorno al medico un’atmosfera di fiducia, a garanzia della professione stessa. Servono al medico per garantirsi un credito in quanto professionista. L’impegno specifico a non avvalersi per un vantaggio sessuale dell’esposizione del corpo e della fragilità del paziente, incline come in nessun’altra situazione alla dipendenza del medico, non è ripetuto nei moderni codici deontologici, ma solo perché è entrato nei costumi e ritenuto ovvio 190. Ma non solo per opportunità professionale la medicina ha preso le distanze dalla vita sessuale dei pazienti. Esiste probabilmente un motivo più profondo e non sempre cosciente, connesso con la finalità stessa dell’attività medica. Il medico si sente infatti riferito al dolore, mentre la sessualità lo mette di fronte al piacere. Questo aspetto della vita umana rimane abitualmente estraneo alla formazione medica tradizionale. E il medico, quando nel vivo della professione si imbatte nei problemi della vita sessuale dei pazienti, rinvia volentieri ad altre istanze, come quelle religiose. La reticenza del medico è sperimentata da molte persone anche nel campo della contraccezione, che molti medici preferiscono considerare più un problema di coscienza che un fatto sanitario.
La sessualità umana non è entrata nell’area del discorso scientifico attraverso la medicina. Vi è stata introdotta, da un lato dalla psicanalisi,
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dall’altro dalle scienze del comportamento. La prima ha messo a soqquadro la sensibilità borghese sul finire del secolo scorso svelando il contenuto sessuale rimosso di malattie apparentemente soltanto “mentali”, come la nevrosi. A differenza del suo collega Breur, Freud non si è tirato indietro, in una posizione di sicurezza, quando ha avvertito la natura sessuale dell’isteria di Anna O.; ma per trattare le pulsioni senza esserne travolto ha preso delle precauzioni. Queste misure condizionano ancor oggi il trattamento analitico ortodosso. In esso il corpo è rigidamente escluso, sottratto addirittura dal campo visivo. Il setting analitico è così severo proprio perché ha a che fare con la sessualità, anche se a livello simbolico. Nella psicoanalisi la dialettica vicino/lontano che abbiamo riscontrato nella medicina rispetto alla sessualità viene portata all’estremo: tanto più ci si avvicina al sesso, tanto più ci si premunisce di neutralizzarlo.
L’altro canale attraverso il quale la sessualità è stata assunta nel discorso scientifico è quello della ricerca sul comportamento. Il punto di riferimento obbligato da questo punto di vista è l’opera di Kinsey. La sua indagine ha assunto un valore simbolico, tanto che continua ad essere citata come l’inizio di un nuovo sguardo sulla sessualità umana. Non che prima che Kinsey cominciasse a intervistare la gente sui loro comportamenti sessuali esistessero solo conoscenze speculative e aprioristiche sul sesso. Benché i clinici non discutessero volentieri di problemi sessuali tra di loro o con i pazienti, c’era una ricerca di base sulla fisiologia e sugli aspetti comportamentali della riproduzione, nonché osservazioni sul comportamento sessuale umano. Kinsey stesso nel volume sul comportamento sessuale dei maschi riassume una ventina di ricerche, pubblicate tra il 1915 e il 1947, che usavano tecniche sistematiche di questionario e di intervista ed esaminavano reperti clinici per ottenere informazioni sul comportamento sessuale umano 191. Tuttavia è pur vero che con i rapporti Kinsey si è aperta una nuova epoca. Dopo un periodo di forte resistenze alla ricerca avviata da Kinsey e dai suoi collaboratori, questo tipo di indagine ha ottenuto diritto di cittadinanza; anzi, l’approccio empirico è considerato oggi come l’unico capace di contrastare l’ignoranza che si traveste da dogmatismo. Ora la ricerca sessuale in genere è considerata socialmente e moralmente accettabile dalla maggior parte della comunità scientifica e anche dal pubblico non specialista.
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Più di recente il ruolo pilota nella ricerca sulla sessualità è stato assunto dagli scritti, molto ben pubblicizzati, di Masters e Johnson 192. Il loro interesse si è concentrato direttamente sui cambiamenti anatomici e fisiologici che sopravvengono nella risposta agli stimoli sessuali, nonché sulla dinamica esatta dell’atto sessuale, sul suo decorso normale e sulle sue insufficienze. Superate le ultime esitazioni, la ricerca sulla sessualità umana ha preso la via dell’osservazione e dell’esperimento: non più questionari, ma elettrodi e sofisticate apparecchiature di registrazione durante l’atto sessuale stesso. Agli occhi di molti si è infranta così l’ultima barriera che inibiva la ricerca scientifica sulla sessualità. Questa ha cominciato ad essere considerata una funzione fisiologica come le altre, senza alcuna particolare aura di sacralità.
La “distanza” dal sessuale è così completamente abolita? Siamo entrati nell’epoca di una “sessuologia medica” che estende alla sessualità la precomposizione meccanicistica dell’uomo che domina buona parte della medicina? Questi timori ricevono conferma più dalle opere di divulgazione pseudo-scientifica (come quei manuali sul sesso e il matrimonio che hanno conosciuto una diffusione straordinaria negli ultimi vent’anni) che dai prodotti dei veri scienziati. Quando la sessualità viene ridotta al buon funzionamento degli organi genitali, solo apparentemente è abolita la distanza dal sesso, quasi fosse tutto risolvibile in superficie, nel visibile. In realtà si crea un’altra distanza, quella della completa oggettivazione.
Anche la sessuologia medica può, invece, conservare lo specifico della sessualità umana, senza deformarla. A esemplificazione, possiamo citare il manuale di sessuologia a cura di J. Money e H. Musaph, tradotto anche in italiano 193. Il riduzionismo nella costituzione di un sapere specialistico qui è stato coscientemente evitato. Non si è seguita la tendenza riscontrabile nelle specializzazioni mediche — ginecologia, “andrologia”, urologia — a sganciare la genitalità dalla sessualità, giungendo così a una completa spersonalizzazione dei vissuti sessuali. Perché la sessualità dell’uomo conservi il suo carattere umano, bisogna che lasci spazio a tutte le componenti, che emergono solo da un approccio pluridisciplinare.
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Questa esigenza è rispettata dal manuale di Money. In esso la biologia e la fisiologia hanno uno spazio rispettabile, ma non meno della psicologia e dell’antropologia culturale, dell’etologia e della sociologia, e anche dell’etica e della teologia. La scelta di fondo del manuale è quella di un approccio empirico centrato sulle basi comportamentali della sessualità umana. L’oggetto di uno studio corretto degli attributi umani, infatti, non è solo l’uomo, ma tutta la natura. Nel manuale si trovano ricerche sugli ormoni e sul loro influsso sul comportamento, sui feronomi e le monoammine cerebrali, esperimenti di cambiamento di sesso nei pesci e negli uccelli. E sbaglierebbe il cultore delle “scienze dell’uomo” che considerasse con sufficienza la ricerca biologica di base: anch’essa è necessaria per capire l’uomo. Con particolare interesse sono studiati gli esseri con i quali siamo in più stretta relazione: i primati non umani. Sono il termine di paragone più immediato, in quanto ci offrono l’opportunità di definire i modelli del comportamento tipicamente umano. In esso confluisce ciò che abbiamo ereditato come primati e ciò che è specifico della nostra natura umana. A livello umano, infatti, la sessualità rivela un “supplemento di senso”. Non è più soltanto una funzione fisiologica finalizzata alla riproduzione o al piacere, ma ha un’importanza esistenziale e interpersonale. Anche la sessuologia medica può e deve sapere che la sessualità umana va collocata in uno schema complesso, che comprende anche le dimensioni metafisica e religiosa.
Della presenza di questa sensibilità nel manuale di Money citeremo due esempi: il capitolo su “Pelle, tatto e sesso”, e la sezione dedicata a “Religione, ideologia, sesso”. È da considerare un segno dei tempi che un manuale di sessuologia denunci l’impoverimento del contatto fisico nella nostra cultura e sottolinei l’importanza del tatto nei rapporti umani. La gamma è vasta: va dalla relazione madre-bambino (“una relazione buona si esprime in un buon contatto epidermico, un cattivo rapporto in un contatto epidermico ridotto al minimo indispensabile”) al contatto fisico con i pazienti agonizzati (“non è difficile riuscire a calmare un paziente agonizzante inquieto e agitato accarezzandogli le mani e la testa”). Recentemente il contatto fisico è stato introdotto in varie tecniche psicoterapeutiche, specialmente nelle psicoterapie di gruppo; e il massaggio sta acquistando, oltre al carattere terapeutico per cui è stato sempre coltivato, anche un significato relazionale. Il benessere psicofisico dell’individuo, ci dicono insomma i sessuologi, richiede una cultura meno fobica dei contatti.
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La sessualità umana comporta anche un sistema normativo. Non per un abusivo straripamento del religioso, ai fini della repressione. Il motivo va ricercato nel fatto che le idee sulla sessualità e la concezione antropologica sono collegate strettamente, e la proclamazione di un messaggio sul significato dell’esistenza umana implica necessariamente un messaggio sul significato della sessualità umana. Il manuale prende in considerazione le linee etico-normative di tre sole grandi religioni: il giudaismo, la cristianità protestante e quella cattolica. Concisamente vengono messe in risalto le caratteristiche fondamentali di ciascuna: la ricerca di equilibrio tra restrizione e spontaneità nel giudaismo, le fluttuazioni delle chiese protestanti sotto la spinta di cambiamenti culturali avvenuti tra il xvi e il xx sec.; il valore dell’essere umano come filo conduttore delle posizioni della morale cattolica. Agli estensori degli articoli sta a cuore rilevare che né la chiesa cattolica, né le chiese protestanti si sono espresse riguardo al sesso in maniera indipendente dal contesto socio-culturale, e che attualmente la fedeltà ai precetti religiosi in materia di sessualità è diminuita in maniera considerevole nei credenti di tutte le religioni, che hanno gradatamente adottato i valori laici prevalenti nella società circostante.
Il lettore cattolico potrà eccepire che l’autorevolezza dell’enciclica “Humanae vitae” viene piuttosto minimizzata, e che si guarda con simpatia a quegli sviluppi permissivi nell’etica sessuale su cui ha preso posizione negativamente il documento “Persona Humana”. Tuttavia deve riconoscere, facendo un bilancio generale del manuale, che è possibile realizzare una sessuologia medica che non tradisca il suo oggetto e rimanga fedele alla nozione di sessualità come sessualità dell’essere umano.
La salvaguardia di tutte le dimensioni antropologiche, comprese quelle etiche, della sessualità umana all’interno della sessuologia medica ha una diretta incidenza sull’aspetto terapeutico. Lo scopo delle terapie sessuali — che è genericamente quello di aiutare le persone che hanno problemi di disfunzioni sessuali o di “identità di genere” — è perseguito differentemente dalle diverse terapie. L’antropologia implicita in ognuna è determinante nell’influenzare gli obiettivi e la strategia per raggiungerli. Nel vasto emporio delle psicoterapie attuali un diritto di priorità spetta alla psicoanalisi e alle terapie derivate. Nella psicoanalisi l’inadeguatezza sessuale è considerata come un’espressione sintomatica di un conflitto non risolto. Lo scopo terapeutico è proprio la risoluzione di quel conflitto. Il trattamento è diretto all’esplorazione di tutta la personalità,
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piuttosto che concentrato sul singolo sintomo, quale può essere la disfunzione sessuale specifica. Anche le altre psicoterapie di derivazione psicoanalitica, pur non muovendosi a livello dinamico profondo, si occupano dei tratti della personalità e della loro influenza sull’attività sessuale. Spesso forniscono rassicurazione e una certa qual rieducazione sessuale, ma non un trattamento diretto al sintomo.
Del tutto diverso è l’approccio proprio delle terapie behavioristiche. L’accento cade proprio sullo specifico problema comportamentale, piuttosto che sul conflitto di personalità soggiacente. Si presuppone infatti che il comportamento inappropriato sia appreso, e mantenuto dalle condizioni ambientali. Si può perciò cambiare il comportamento mediante esperienze rieducative e mutamenti nelle situazioni ambientali. Per quanto riguarda specificamente le sintomatologie sessuali, si ricorre alle tecniche di “desensibilizzazione” messe a punto da Wolpe per i comportamenti disfunzionali legati all’ansia 194. Un passo ulteriore in questa linea è stato fatto da Masters e Johnson, i quali hanno cercato un’applicazione terapeutica delle conoscenze sulla risposta sessuale umana ricavata dalla loro ricerca 195. La premessa di base è di considerare il sesso come una funzione naturale, la quale però è mal compresa. Ciò va addebitato alla nostra cultura, che lega la prestazione sessuale all’idea di “performance”, e alla povertà di comunicazione tra i due partners. Di qui la paura del fallimento sessuale, che Masters e Johnson considerano la causa principale dell’inadeguatezza sessuale. I loro assunti terapeutici consistono essenzialmente nel trattamento della coppia che ha problemi sessuali come un’unità; nell’intervento di un’équipe terapeutica costituita da un uomo e da una donna; nell’isolamento della coppia disfunzionale dal contesto della vita quotidiana e dal lavoro, e partecipazione a un programma terapeutico per un periodo di due settimane. Un progetto così esigente è praticabile da poche persone. È stato necessario perciò modificare il setting terapeutico di Masters e Johnson, introducendo il trattamento di individui, oltre che di coppie, facendo intervenire un solo terapeuta, integrando le tecniche di terapia sessuale con la più tradizionale terapia psicodinamica.
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Un forte shock sull’opinione pubblica hanno prodotto quelle tecniche che usano materiali grafici esplicitamente sessuali. Durante gli incontri di gruppo, in un’atmosfera quieta e rilassata, vengono mostrati molti stili e generi di comportamento sessuale, mediante l’uso di films, videoregistratori, diapositive. A questa parte fa seguito una discussione di gruppo, in cui vengono esplorati e comunicati sentimenti e reazioni al materiale visivo. Il presupposto da cui parte questo approccio è che molti problemi sessuali sono il risultato di fattori emotivi inappropriati, i quali producono ansia circa le sensazioni e il comportamento sessuale. Esponendo le persone a contenuti sessuali espliciti, dopo la forte reazione di ansia iniziale, l’aperta discussione mira a ridurre l’ansia e a produrre atteggiamenti più accettabili circa il comportamento sessuale. Questo materiale, abbondantemente esposto in occasione del terzo congresso mondiale di sessuologia medica tenutori a Roma, ha provocato reazioni comprensibili. La preoccupazione è che la sessuologia prenda la strada della facilità, nonché della commercializzazione, che la porti a confondersi con la pornografia. La pubblicità di quel materiale audiovisivo, benché ideato con fini educativi e terapeutici, non è infatti molto diverso da quella di un volgare sexshop.
La sessuologia medica è una disciplina in formazione. Deve essere aiutata a non percorrere sentieri ambigui, a non impoverire la sessualità umana, sotto la spinta del mercato o di una scienza ispirata da una antropologia mutilata, dimentica che l’uomo è un’unità bio-psico-spirituale. È necessario l’apporto di coloro che condividono una visione spiritualizzata dell’uomo. Da loro ci si attende una giusta valutazione del corpo: nessuna riserva sulle conoscenze fisiologiche che possono aiutare a sbloccare la vita sessuale inceppata. Ma devono anche ricordare alla nostra cultura, non ancora libera dal mito del materialismo meccanicista, che l’elemento decisivo per la sessualità umana è il giusto rapporto del cuore e delle emozioni con se stessi e con gli altri. “Adesso quasi tutti sanno fare l’amore, ma quasi nessuno è capace di amarsi”: la frase che stata attribuita a un eminente sessuologo. Un’affermazione che dovrebbe far riflettere quanti pensano che basta la padronanza delle tecniche sessuali per liberare la vita amorosa degli uomini e delle donne dal malessere che le soffoca.
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IL TEMPO DELLA MALATTIA
Per un rinnovamento dell’insegnamento cristiano
1. La voce di coloro che “non si rassegnano”
Il discorso sull’atteggiamento cristiano di fronte alla malattia è farcito di luoghi comuni. Si dà per scontato che l’atteggiamento veramente degno del cristiano sia quello della pazienza, rassegnazione, accettazione; eventualmente anche l’offerta spirituale, l’oblazione come vittima riparatrice, la partecipazione alla sofferenza redentrice. Il fiume di parole spese sul cristiano malato e sofferente non ha avuto di solito l’avallo esplicito della teologia e della morale. Sembra piuttosto che queste discipline abbiano quasi ceduto questo terreno in appalto alla pietà. E la pietà, specialmente quando fiorisce su un humus tendente alla morbosità, pecca sovente di intemperanza. È tempo che tutto il discorso che si fa sul cristiano e la malattia sia imbrigliato robustamente dalla teologia; la morale deve prendere possesso di ciò che ha demandato alle pie esortazioni ascetiche.
Prima di tracciare le linee portanti di un progetto di etica cristiana della malattia sarà utile ascoltare alcune voci che cantano fuori del coro. Ci aiuteranno a sottrarci al fascino dei clichés e ci indicheranno i punti dolenti del linguaggio abituale. Vorrei cominciare col citare una voce che sorge fuori dell’ambito cristiano, quella di un filosofo marxista che si è occupato molto seriamente del cristianesimo. E. Bloch 196 ha attizzato nuovamente il fuoco sotto il crogiuolo in cui Marx ha messo il cristianesimo
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quando ha accusato l’ideologia religiosa di svolgere la funzione di “oppio dei popoli”. Egli crede di poter affermare che il cristianesimo ha imprigionato la dinamica rivoluzionaria del messaggio di Gesù. Troppo spesso al “leone di Giuda” fu sostituito “l’agnello”. Così prese forma la “mentalità cristiana”, centrata sulla “pazienza della croce”: “in tal modo l’elemento sovversivo della Bibbia fu l’ultima volta interrotto in forza del mito dell’agnello sacrificato. In tal modo fu sanzionata la pazienza della croce tanto degna di essere raccomandata agli oppressi e tanto piacevole per gli oppressori, che corrisponde nel suo insieme all’incondizionata obbedienza dinanzi all’autorità, come se essa in sé e per sé provenisse da Dio. Sì, anche ogni teologia della speranza che desidera porsi al culmine di ciò che trasforma e di ciò che è nuovo, ricade di nuovo nella conformità, quando essa con conveniente passività spezza la punta alla speranza di Gesù prima e fino alla croce. E tutto ciò si lega con quei brani di Paolo che trattano della croce, e che appartengono all’apologetica e non al quod ego della ribellione e ancor meno alla dialettica; “dolore, dolore, croce, croce spettano al cristiano”, dice partendo da questo assunto il più tardo Lutero (e parla ai contadini martoriati, non ai signori)”.
Resistiamo all’impulso di neutralizzare subito la denuncia contenuta nelle parole di Bloch adducendo il fatto che essa proviene da un ateo e da un marxista. Il cristianesimo non deve sottrarsi ad un confronto serio con l’accusa di poter trasformarsi in una ideologia che contribuisce a tenere i poveri e gli afflitti nella loro situazione, in cambio di una promessa alienante. Del resto, la critica proveniente dal materialismo storico non è l’unica voce che si oppone a ciò che si è soliti chiamare discorso “cristiano” sulla sofferenza. Anche una certa “spiritualità dell’azione” fiorita in seno al cristianesimo stesso ha contribuito a mostrare i limiti e le ambiguità dell’atteggiamento di rassegnazione. Lo spirito moderno ha ormai definitivamente acquisito quanto sia serio l’obbligo di sottomettere la terra, combattendo contro tutto ciò che diminuisce l’uomo. Come profeta di questo nuovo atteggiamento Teilhard de Chardin ha conquistato un uditorio di ampiezza mondiale. Nel suo libro L’ambiente divino ― dedicato a “coloro che amano il mondo” — ha inteso tracciare le linee fondamentali della spiritualità dei cristiani che vivono, come Teilhard stesso è vissuto, “votati alle forze positive del mondo”. Prende posizione su ciò che viene abitualmente designato come “accettazione cristiana”, nozione soggetta a terribili equivoci, che costano molto caro al
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al cristianesimo: “Una falsa interpretazione della rassegnazione cristiana è, insieme a una falsa idea del distacco cristiano, la principale fonte delle antipatie che fanno così lealmente odiare il Vangelo da parte di un gran numero di Gentili”; “La rassegnazione cristiana è sinceramente considerata e biasimata da molte persone oneste come uno degli elementi dell’“oppio religioso” che provocano il sopore più pericoloso. Dopo il disgusto della terra, non c’è atteggiamento che si rimprovera con più rancore al Vangelo di aver diffuso, che la passività davanti al Male, una passività Che può arrivare fino a coltivare perversamente la diminuzione e la sofferenza” 197.
Teilhard pensa che una spiritualità autenticamente cristiana non può non integrare anche gli insuccessi dell’uomo, le sue “passività di diminuzione”, e che quindi comprende anche la rassegnazione. Ma la rassegnazione cristiana non è l’acquiescenza passiva di cui parla una certa ascetica, e soprattutto non va disgiunta dalla lotta contro le diminuzioni. Il cristiano per praticare integralmente la perfezione del suo cristianesimo non deve disertare di fronte al dovere della resistenza al male. Al contrario, “in un primo tempo, deve lottare sinceramente e con tutte le forze, in unione con la potenza creatrice del mondo, perché ogni male retroceda, perché niente diminuisca, né in lui, né attorno a lui (...). Finché la resistenza resta possibile, egli si irrigidirà dunque, lui, figlio del Cielo, quanto i più terrestri dei figli del Mondo, contro tutto ciò che merita d’essere scartato o distrutto”; “Al primo approssimarsi delle diminuzioni, noi non sapremo trovare Dio altrimenti che detestando ciò che precipita su di noi, facendo il nostro possibile per schivarlo. Più respingiamo la sofferenza, in quel momento, con tutto il nostro cuore e con tutte le nostre braccia, più noi aderiamo, allora, al cuore e all’azione di Dio” 198.
Per Teilhard questo primo momento della lotta a oltranza contro il male deve essere integrato da un secondo momento di genuina accettazione. L’atteggiamento cristiano completo è composto così di due tempi: il primo di lotta contro il male, il secondo di sconfitta e della sua trasfigurazione. Si introduce in tal modo la distinzione tra un dolore da combattere e un dolore da subire. Si invita a combattere la malattia e le altre forme di dolore finché se ne ha i mezzi, e ad accettarla, come una specie
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di prova o di bene misterioso, quando non si può vincere. Per quanto questa soluzione possa essere difettosa, essa ha il merito di aver sottolineato che la lotta attiva contro ogni forma di male è parte integrante di una spiritualità autenticamente cristiana.
La malattia, con i rivolgimenti psichici e le fratture esistenziali che provoca, è stata tradizionalmente il pascolo degli apologeti. Fiutando una disponibilità particolare del malato, gli sono piombati accanto per parlargli della sua miseria e della sua colpa, per proporgli la conversione a Dio e l’inserimento nella Chiesa. Ormai i cristiani stessi sono a disagio di fronte a questa tattica, che sentono come unfair. Chi ha dato voce più chiaramente al rifiuto di un Dio-tappabuchi è stato il teologo evangelico D. Bonhoeffer. Scriveva in una delle sue ultime lettere dal carcere: “L’estromissione di Dio dal mondo, dalla sfera pubblica della vita umana, ha portato al tentativo di riservargli ancora, se non altro, la sfera del “personale”, “intimo”, “privato”. E siccome ogni uomo, da qualche parte, ha sempre una sfera del privato, lo si ritiene in quel punto più facilmente vulnerabile... Come l’opinione del volgo riesce a esorcizzare una personalità altolocata solo raffigurandosela “nella vasca da bagno”, così succede qui. È una specie di soddisfazione maligna sapere che ognuno ha le sue debolezze e le sue nudità... Diffidenza e astio, come atteggiamento fondamentale verso gli uomini, sono la rivolta dei mediocri. Dal punto di vista teologico l’errore è doppio: primo, si crede di poter chiamare peccatore un uomo, soltanto dopo aver spiato le sue debolezze e le sue volgarità; secondo, si ritiene che l’essenza dell’uomo sia nei suoi secondi piani più intimi e reconditi, definendoli la sua “interiorità”; e proprio in questi tenebrosi nascondigli dell’uomo Dio dovrebbe avere i suoi domini (...). Insomma, io pretendo che Dio non venga ficcato di contrabbando in qualche estremo e segreto ricettacolo, che si prenda molto semplicemente atto della maggiore età del mondo e dell’uomo, che non si “stronchi” l’uomo nella sua mondanità, ma lo si metta a confronto con Dio nelle sue posizioni più forti, che si rinunci a qualsiasi trucco da preti e non si veda nella psicoterapia o nella filosofia dell’esistenza la preparazione alle vie del Signore. La Parola di Dio trova l’indiscrezione di tutta questa gente troppo plebea per potervisi alleare. Essa non si allea con la ribellione della diffidenza, con la rivolta dal basso: essa regna” 199.
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L’apologetica, per sfruttare la situazione di malattia, si appoggia su un’antropologia che attribuisce al dolore una funzione centrale nella vita dell’uomo. Possiamo dare a tale antropologia il nome di “dolorismo”. Non sorprende il fatto che talvolta il malato stesso si trovi a suo agio in posizioni spirituali di tipo doloristico. Uno dei rischi della malattia è infatti proprio quello di conquistare il giudizio, fino a erigere la sofferenza a valore supremo. La psicologia ci mette in guardia contro la regressione psicologica, che il fatto drammatico della malattia provoca in certe persone. La denuncia di tale pericolo induce a guardarsi da motti altisonanti, come: “la mia gioia è soffrire — soffrire o morire — nel soffrire è la mia felicità...”; a non pronunciare alla leggera parole che sembrano ammirevoli, ma che forse non sono che imprudenti o vuote; a diffidare di una accettazione troppo gioiosa o entusiasta della malattia, che può nascondere un atteggiamento psicologico auto-punitivo. Ci può essere un amore alla sofferenza che rischia di non essere altro che corruzione delle sorgenti della vita o pigrizia di fronte allo sforzo necessario per vivere. L’accettazione cristiana della croce non va assolutamente confusa con il disgusto per la vita.
La reazione di chi rimette in discussione la tradizionale spiritualità del malato è diretta soprattutto contro una visione troppo ristretta della vita del cristiano malato. Se nel malato non si considera altro che la sua malattia, lo si imprigiona in essa, si costruisce la sua spiritualità sulla parte negativa del suo essere, e non su quella vivente. È sintomatica in tal senso la presa di posizione di alcuni malati, che esprimono un atteggiamento di fronte alla malattia alternativo a quello doloristico. “Non abbiamo bisogno di una farmacia spirituale, ma di un buon nutrimento comune. Ciò che i malati domandano non è una cappella di infermeria, ma la Chiesa. Abbiamo bisogno semplicemente di una spiritualità ecclesiale. Non domandiamo che si apra per noi una scuola di spiritualità, dove tutto sia visto attraverso un’ottica di malati e in odore di ospedale. Che non ci si parli continuamente ‘in quanto malati’, come se non si volesse sapere altro da noi; prima di essere malati siamo uomini e figli di Dio” 200.
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2. Rinnovando, si va contro l'insegnamento della Chiesa?
Abbiamo ascoltato alcune voci, provenienti dagli ambiti culturali ed esistenziali più diversi. Malgrado la diversità, hanno un elemento comune: da pulpiti diversi predicano la stessa necessità di rivedere quello che si è soliti presentare come l’atteggiamento esemplare del cristiano nella situazione di malattia. Rivelano il bisogno di superare una spiritualità che tende al dolorismo; di interrogarsi criticamente se, incentrando l’atteggiamento etico sulla rassegnazione, si interpreta fedelmente il messaggio di Gesù o piuttosto non lo si violenta deformandolo. È necessario sottoporre al rigore di una riflessione teologica seria il pullulare di parole generose sulla “buona sofferenza”, sul suo significato e il suo valore, sulla malattia come fonte di merito e di privilegio — parole che generalmente non costano niente a chi le dice.
Prima di procedere all’individuazione dei punti forti di tale etica cristiana della malattia è necessario rispondere a un interrogativo: la revisione dell’atteggiamento tradizionale è teologicamente lecita? Ad alcuni cattolici sembra che l’insegnamento del magistero ordinario sia orientato nel senso del dolorismo e dell’ascetica di accettazione, e che perciò ogni tentativo di innovazione sia pregiudizialmente bloccato. In particolare, gli ambienti che coltivano una spiritualità del malato di tipo doloristico si appoggiano incondizionatamente sull’insegnamento dei romani pontefici. Se prendiamo però in esame i testi in questione ci accorgiamo che si tratta di interventi di due generi diversi: discorsi direttamente rivolti a malati, condotti sul tono dell’esortazione spirituale, e discorsi rivolti ai medici e al personale curante. In quest’ultimo caso si tratta prevalentemente di morale professionale. Pio xn, in particolare, approfitta di questi incontri per rispondere a precise questioni etiche poste dalla specializzazione medica o dalla tecnica. Nei due gruppi di discorsi si nota un diverso atteggiamento di fondo nei confronti della malattia. I primi infatti svolgono ampiamente tutti i temi tradizionali dell’ascesi di accettazione e richiedono al cristiano un atteggiamento per lo più passivo, o quanto meno limitato alla sola attività di offerta; quelli del secondo gruppo invece, pur affrontando gli argomenti naturalmente richiesti dalla particolare assemblea, presuppongono una considerazione positiva del valore della salute e negativa della malattia, e conseguentemente inculcano un atteggiamento di lotta e di superamento dei limiti. Abitualmente queste due concezioni della malattia, con l’atteggiamento spirituale che
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ne deriva, non hanno comunicazioni tra loro e sono riservate ai rispettivi gruppi di malati o di sani. Questo fatto non dipende solo dall’occasionalità dei discorsi. È avvertibile anche l’influenza della spiritualità propria dei gruppi ai quali i discorsi sono rivolti.
Finora l’insegnamento pontificio è stato espressione, per lo più, di quel complesso di idee teologiche e di atteggiamenti spirituali tradizionalmente diffusi dalla predicazione spicciola e dalla pastorale, cioè di quell’atteggiamento che possiamo chiamare “ascesi di accettazione”. Anche il Concilio Vaticano n si è allineato con questa posizione nel “Messaggio ai poveri, agli ammalati e a tutti coloro che soffrono”. Ma non possiamo trascurare taluni sporadici interventi di tono diverso, riflesso di un altro modo di considerare e di vivere la malattia 201. Ciò fa supporre che l’evoluzione dell’insegnamento pontificio circa la spiritualità della malattia è lungi dall’essere terminata. Per questo motivo non è lecito prendere il magistero ordinario — e tanto meno un discorso o un’allocuzione isolata rivolta a un gruppo particolare! — come unico parametro per elaborare dottrinalmente quale debba essere l’atteggiamento morale e spirituale del cristiano nella malattia.
3. La malattia e il comandamento di vivere
Non è possibile qui sviluppare in dettaglio un’etica cristiana della malattia che assuma tutte le istanze di rinnovamento che sono emerse. Ci limitiamo ad indicare quelli che, a nostro avviso, dovrebbero essere i pilastri fondamentali. Il primo è il riferimento alla vita come dono. Il fatto stesso di essere creato apre per l’uomo una condizione ricca di benedizione. La vita è un bene, un privilegio e un valore, perché costituisce la grande occasione di incontrare Dio e di mettersi a servizio dei fratelli. Col dono della vita Dio dà anche il comandamento di vivere. L’esigenza di vita implicata dal comandamento di Dio domanda all’uomo di approvare la vita, di “volerla”, perché c’è un’obbedienza a Dio insita nell’esistenza umana come tale. Volere la vita diventa allora la salute, cioè la forza che ci permette di essere uomini nel corpo e nello spirito.
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In questa prospettiva la malattia ci appare come qualcosa che viene a contraddire, diminuire, intralciare o paralizzare il voler vivere. Essa provoca l’indebolimento o il bloccaggio della forza di essere uomo. Per obbedire al comandamento di Dio bisogna che l’uomo voglia fare tutto ciò che è necessario per assicurare la continuità della propria vita psichica e fisica, contrastando ciò che rischia di paralizzarla. Tale atteggiamento si può riassumere in quella che K. Barth chiama la “regola fondamentale dell’etica della malattia”: “Esigere che il paziente si riferisca continuamente, come tutti quelli che lo accostano, non alla sua malattia, ma alla sua salute e alla sua volontà di ritrovarla” 202.
Sul piano pratico, il malato non dovrà essere incoraggiato ad esagerare la sua impotenza o a coltivare l’inattività come dovere di stato. Si eviterà di dire perciò che “ai malati non si domanda di agire, ma di accettare”, che tutto ciò che è richiesto loro è di “offrire la propria sofferenza”. “Salvare dall'annientamento o dalla diminuzione ciò che è salvabile delle nostre capacità, creare delle supplenze, perseguire adattamenti nuovi, in una parola requisire in noi tutto ciò che ci conserva in azione, in qualsiasi maniera, dovrebbe essere una delle nostre preoccupazioni dominanti” 203: così esprime una “grande malata”, a nome di altri malati, la costanza necessaria al cristiano che vuol obbedire al comandamento di vivere.
L’utilizzazione delle proprie energie, finalizzate a uno scopo costruttivo, si chiama lavoro. Perciò il malato — in particolar modo l’affetto da handicap — dovrebbe lavorare. Lavorare e non “ammazzare il tempo”! Anche nel caso che un malato non possa più continuare la sua attività abituale, non diventa con ciò buono a niente. Rimane in ogni caso la possibilità di un irraggiamento spirituale, proporzionatamente all’opera di “spiritualizzazione” che ogni essere umano deve perseguire. La frequentazione di qualcuno che continua con tenacia, nonostante le limitazioni della malattia, a cercare la vita per farne dono agli altri, attira lo sguardo verso il vero tesoro dell’umanità, cioè verso l’insieme dei valori morali e spirituali di vita e di energia, accanto ai quali non si può passare senza sentirsi vitalizzati.
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4. La malattia nel mistero pasquale
Il secolo punto di riferimento di un’etica cristiana della malattia è il mistero pasquale del Cristo, sul quale ogni cristiano è chiamato a modellare la sua vita. Ogni progetto vitale deve passare attraverso le due tappe dialettiche della croce e della risurrezione.
Tutti coloro che vivono “in Cristo” e sono stati assimilati a lui mediante la fede e il battesimo sono chiamati a partecipare alla croce del Signore. Ma per parteciparvi realmente non basta semplicemente soffrire: bisogna rovesciare il significato della sofferenza, facendola diventare espressione di carità pasquale. Il cristiano che vuol vivere secondo il dinamismo della nuova alleanza inaugurata dalla vicenda pasquale del Cristo trova nello stato di malattia dei condizionamenti particolari. La malattia porta infatti dei sovvertimenti profondi in tutta la vita dell’uomo. Dal punto di vista psicologico, si nota una tendenza alla regressione. Anche la vita morale è intaccata dalla malattia. È un luogo comune ripetere che il malato diventa egoista; bisogna piuttosto riconoscere che la malattia svela ed esaspera tutte le forme di egoismo già in atto nella vita da sano. Certamente la vita morale è condizionata dalla malattia. La sofferenza fisica infatti tende di per sé a concentrare tutta l’attenzione e tutta l’energia del malato verso il polo più esterno della persona. Essa sovverte quell’equilibrio psico-fisico che è presupposto indispensabile di ogni vita umana. Neppure la vita religiosa sfugge ai condizionamenti della malattia. Questa è per lo più l’occasione di un’esplosione del senso elementare del sacro, che si manifesta sotto forma di presentimento di forze che ci superano e ci sottraggono il dominio della nostra vita; e non è raro il caso che la religiosità si degradi ulteriormente in credulità e magia. In breve, possiamo dire che non è mai il corpo da solo ad essere ammalato; è tutto l’uomo, che soffre di un disordine, ad essere ammalato.
Tuttavia anche la sofferenza fisica può far parte della vita morale del cristiano, nella misura in cui entra nel dinamismo dell’amore oblativo e se ne rende espressione. Ma qual è l’atteggiamento che rende possibile questo capovolgimento del significato della sofferenza? Evidentemente la passività e la rassegnazione — quell’accettazione dell’inevitabile che potrebbe anche essere talvolta calo e/o perdita della speranza — non costituiscono l’atteggiamento adatto. Ci vuole un movimento positivo per fare della malattia e delle sue conseguenze un’espressione più profonda della vita morale. È necessario un movimento di superamento che
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si inserisce nella dinamica dell’amore pasquale. Secondo l’espressione di un noto moralista, “la sofferenza assume il significato di un limite, come il corpo; cioè essa trae il suo valore dal superamento di sé stessa. Se per sé stessa tende ad aggravare materialmente, essa è, di contro, mediazione privilegiata verso la spiritualizzazione più intensa dal momento in cui la si considera nel suo vero senso: ostacolo da travaricare verso lo spirito. Allora essa diventa pretesto e occasione di un amore più grande” 204.
La vita spirituale del cristiano, come quella del Cristo stesso, sta sotto il comandamento dell’amore. Regola fondamentale di un comportamento nella malattia conforme a quello di Cristo è di riferirsi al dono di sé al Padre e ai fratelli, da continuare anche nella malattia, nonostante i condizionamenti negativi che questa tende a porre alla vita psichica, morale o spirituale. Si tratta di uno sforzo per non arrestare lo slancio della vita nuova in Cristo, fatto in una condizione che di per sé rende più difficile l’orientamento oblativo della vita. Così è reso possibile alla malattia di diventare “croce”, cioè situazione in cui la donazione è provata, purificata, approfondita.
Non possiamo presentarci al cristiano malato con la presunzione di portargli una valida teoria filosofica del dolore o una teologia della malattia, pretendendo di spiegargli il come e il perché della sua sofferenza. Sono impressionanti le parole che il Cardinal Veuillot diceva sul suo letto d’ospedale, durante la sua ultima malattia: “Sappiamo fare delle belle frasi sulla malattia. Io stesso ne ho parlato con calore. Dite ai preti di non dirne niente: noi ignoriamo quello che è. Ne ho pianto”. Bisogna che il senso di questo evento dell’esistenza umana sia trovato dal di dentro, vivendo la malattia nella dimensione creaturale e pasquale della propria vita morale: e ciò nessun altro può farlo, se non il malato stesso.
Si può solo stargli accanto nel servizio fraterno e nella testimonianza di una fede e di una speranza che suscitano in noi la fiducia che niente può separci dall’amore di Dio che ha preso possesso di noi nel Cristo (Rm. 8,31-39); niente, neppure la malattia: “siamo ritenuti moribondi e invece, ecco, viviamo!” (2 Cor, 6,9).
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PROBLEMI ANTROPOLOGICI ED ETICI DEL MORIRE, OGGI
1. Il nuovo volto della morte
Una volta si sapeva morire. Lo si imparava così come si apprendeva qualsiasi altro comportamento, guardando cioè come facevano gli altri. Le morti erano più frequenti, prima che i progressi della medicina e le migliori condizioni igieniche prolungassero la vita media in modo così spettacolare in soli pochi decenni. E per di più erano pubbliche. A meno che non si trattasse di morte violenta o d’incidente, si moriva nel proprio letto, circondati dai familiari. I bambini non erano tenuti lontano dal capezzale dei morenti; anzi, sarebbe parso una crudeltà privarli di quell’ultimo contatto.
La “buona morte” era uno spettacolo edificante. C’era quasi un obbligo morale di avvertire colui che stava per morire, nel caso in cui non avesse già sentito l’approssimarsi della fine, perché non mancasse il grande momento. Morire senza rendersene conto era la sciagura più paventata dai devoti (“a subitanea et improvisa morte: libera nos, Domine”, si pregava nelle litanie dei santi). La preparazione alla morte ha costituito, fino a un’epoca molto recente, un cardine della predicazione e della devozione privata. Si viveva per morire, e si moriva per la vita eterna. “Morire bene” era un’arte: aveva i suoi maestri (i morenti che avevano fatto del loro trapasso una specie di solenne liturgia, e che venivano citati ad esempio dai predicatori), i suoi testi (le “artes moriendi”, appunto), i suoi cultori (potenzialmente, tutte le persone timorate di Dio).
Ieri come oggi la morte faceva paura. Ma la ragione dell’angoscia era diversa: in passato il credente aveva paura di ciò che faceva seguito
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alla morte, del giudizio di Dio e della sorte eterna che gli era destinata; oggi teme di più i tormenti dell'agonia. La paura che abita molti di noi è soprattutto di finire in quella terra di nessuno che si estende tra il mondo dei vivi e quello dei morti, di diventare uno di quei corpi vegetanti che non finiscono mai di morire. Il rischio maggiore di morire in modo disumano è connesso con le malattie degenerative, come il cancro. Per questo il cancro è diventato il tabù principale del nostro tempo. Attorno ad esso si è formata una specie di mitologia popolare, fatta di immagini raccapriccianti, di sensi di colpa, di paure irrazionali di contagio 205. Simbolo della malattia mortale per eccellenza, nessuno osa nominarlo. Eppure in Italia muoiono di cancro centodiecimila persone ogni anno. Quante probabilità hanno di sapere che cosa sta loro capitando, di programmare la propria vita residua, di essere fino alla fine responsabili delle decisioni che li riguardano? Pochissime. Attorno a loro si estende la congiura del silenzio. L’uno o l’altro familiare si vanterà poi di aver saputo celare al morente la natura del suo male fino all’ultimo. Alcuni non sanno perché non vogliono sapere: anche questo è un loro diritto. Ma quanti malati terminali soffrono nell’anima dolori più atroci di quelli del corpo perché non possono parlare con nessuno delle loro emozioni di fronte alla fine che sentono imminente?
Il compito di dare l’annuncio della morte in passato era riservato al sacerdote. Finché la morte era un atto religioso, il passaggio da questo mondo a Dio, era compito dei ministri della Chiesa assistere il morente nella liturgia della sua morte. I sacramenti offrivano il sigillo della presenza divina; i familiari facevano corona, come “ecclesia domestica”, al mistero del trapasso dal tempo all’eternità. In epoca di secolarizzazione, allorché si muore non per destino o per chiamata di Dio all’altra vita, ma per il fallimento della scienza medica che non riesce a prolungare la vita oltre un certo limite, la posizione del sacerdote è diventata precaria. “Chiamare il prete” vuol dire, nel linguaggio popolare, che il medico ammette di essere arrivato al termine delle sue possibilità terapeutiche, che bisogna abbandonare ogni speranza di guarigione e “pensare all’anima”. Equivale praticamente a una sentenza di morte. Per non spaventare il morente, che si è continuato a illudere con pie menzogne, si rimanda il più possibile. Quando il ministro giunge al capezzale, si trova per
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lo più di fronte a un essere senza coscienza. Tutto quello che ci si aspetta da lui è che amministri i sacramenti. Come possono i sacramenti, in tali condizioni, essere dei “segni della fede”? Quella del morente può essere solo supposta; né è pensabile che tali gesti gli diano, ex opere operato, quel “conforto” che pretendono gli annunci mortuari. La vaga religiosità residua nell’ambiente familiare, che domanda, per proprio sgravio di coscienza, che il sacerdote “faccia tutto quello che deve fare” sul morente, è per lo più lontanissima dalla partecipazione che domanderebbe la celebrazione di un sacramento. Non ci stupisce allora il malessere dei sacerdoti quando si vedono ridotti da annunciatori del Vangelo a stregoni che praticano riti incomprensibili intorno agli agonizzanti. La disaffezione dei sacerdoti dai riti tradizionali e l’impossibilità pratica di parlare al morente della sua fine, quando tutti attorno a lui hanno scelto il partito del silenzio, aumentano la solitudine totale di chi è arrivato al termine dei suoi giorni.
2. Perché abbiamo emarginato la morte?
Non possiamo accontentarci di costatare come muore l’uomo d’oggi nella società che abbiamo costruito. Vogliamo anche capire perché si è arrivati a prescrivere un tale comportamento al morente. L’ordine sociale, che non può sussistere senza una certa uniformità, è garantito mediante un sottile, spesso informale, regolazione dei comportamenti. Tra quelli devianti, alcuni vengono tollerati, altri puniti. Anche se non c’è un’autorità ufficiale che sancisce a quali regole ci si deve attenere, tutti sappiamo che ci sono alcune cose che “non si fanno” ed altre che “si fanno”. Anche il modo di morire è determinato dalla cultura in cui viviamo: c’è un morire ammesso, corretto, decente, e uno che cade sotto il biasimo sociale. Inconsciamente ci sforziamo di morire come ci si attende da noi, anche se questa morte in sordina è sempre più angosciosa, sempre meno degna dell’uomo. In altre culture si muore — e naturalmente si vive — diversamente. Non è facile convincersene, perché abbiamo la tendenza ad assolutizzare la nostra esperienza. È necessaria un’opera di educazione che ci indirizzi lo sguardo oltre i confini geografici e quelli del tempo. La prima è opera dell’antropologo, la seconda dello storico. Una folta pubblicistica ci ha fornito in questi ultimi anni
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una quantità di informazioni sulla morte e i costumi sociali legati ad essa. Un esempio del lavoro antropologico ci è fornito dall’opera di L.V. Thomas 206. Il procedimento scelto dall’antropologo è quello comparativo; confrontando tra loro le diverse risposte culturali al problema della morte, si mette in evidenza tanto la diffidenza, quanto l’unità della natura umana. Thomas ha istituito un confronto tra una società arcaica attuale, cioè il mondo tradizionale negro-africano, e la società industriale, meccanizzata, produttivistica, che è la nostra. Nel mondo africano il gruppo si fa carico dell’individuo dalla nascita alla morte: lo integra ai differenti ambienti sociali, moltiplica i riti di passaggio, lo assiste e rassicura in caso di malattia, insegna come morire, organizza funerali e lutto. Nel nostro ambiente culturale, al contrario, l’individuo si trova isolato di fronte ai suoi problemi (insicurezza, angoscia, traumi): muore solo, non è più circondato da simboli e riti che tranquillizzano, niente è previsto per aiutarlo a fare il lutto per la perdita della vita propria e altrui. La conclusione che l’antropologo tira dal confronto è tagliente: “C’è una società che rispetta l’uomo e accetta la morte: l’africana; c’è né un’altra, mortifera, tanatocratica, ossessionata e terrificata dalla morte: quella occidentale”. La posizione che la morte occupa nel nostro pensiero è ambigua. Le si accorda troppo, dal momento che le si attribuisce il potere di annullare completamente l’essere; non le si dà abbastanza, perché la si riduce a un avvenimento puntuale, privo di spessore simbolico, senza radici nell’immaginario. Il riferimento al caso africano ha un valore illustrativo, più che normativo. Altri studi antropologici — con riferimento, per esempio, a culture dell’area geografica del Brasile 207 — portano alla stessa conclusione: esistono società che hanno fatto circa la morte scelte più sagge delle nostre. In esse i problemi legati alla morte sono risolti in modo da salvaguardare gli interessi sia dell’individuo che del gruppo.
Un altro modo per sottrarci all’azione ipnotica che esercita su di noi l’esperienza culturale che viviamo è quello di confrontarla con il passato. Per correggere la nostra miopia storica possiamo ricorrere al lavoro di ricerca di Philippe Ariès. Con numerosi saggi e opere sistematiche 208,
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ha ricostruito gli sviluppi del sentimento della morte in Occidente nell’ultimo millennio. La sua ipotesi è che esista una correlazione tra l’atteggiamento davanti alla morte e le variazioni della coscienza di sé e dell’altro, il senso del destino individuale e del grande destino collettivo. Una forte incidenza esercita anche la credenza nella sopravvivenza individuale e nell’esistenza del male. Cambiando questi elementi, nel periodo che va dal Medioevo all’epoca contemporanea si trasforma anche l’atteggiamento verso la morte. Lo storico delle mentalità riesce a coglierlo nei mille dettagli della vita quotidiana (fonti letterarie e iconografiche, liturgie ufficiali e devozioni private dei fedeli, sepolture e cimiteri, testamenti e atti notarili). Affondando lo sguardo nel passato dell’Occidente, ci rendiamo conto che non esiste un unico atteggiamento verso la morte ― il nostro! —, come ingenuamente siamo portati a credere. Abbiamo piuttosto diversi modelli, irriducibili l’uno all’altro. Seguendo la sistemazione di Ariès, si sono avuti successivamente: la “morte addomesticata” (l’atteggiamento patriarcale in cui la morte è insieme prossima, familiare e insensibile, accettata come cosa ovvia — “tutti moriamo” —, elemento dello scenario familiare); la “morte di sé” (quando il senso del destino si è spostato dalla comunità all’individuo, e la morte è stata vista come la distruzione della propria identità, staccata ormai dal destino collettivo); la “morte romantica” (che Ariès chiama anche “morte di te”, per evidenziare che l’affettività, prima diffusa, si è ormai concentrata su alcuni rari esseri, dai quali non si sopporta più di separarsi): è l’epoca delle “belle morti”, impregnate di patetico, e del culto dei morti; la “morte rovesciata”, infine, il modello del nostro tempo. Rispetto alle idee e ai sentimenti tradizionali è avvenuto un rivoluzionamento totale: la morte si cancella fino a sparire, è nascosta allo stesso morente. La morte diventa qualcosa di sporco, da sottrarre anche agli sguardi dei congiunti. La medicalizzazione della morte, iniziata con i primi successi terapeutici della medicina scientifica, celebrerà i suoi trionfi nell’ospedale concepito come istituzione totalitaria. La morte scompare così definitivamente dall’universo domestico. A rendere totale l’esclusione della morte basterà un ultimo tratto: la soppressione del lutto. I sopravvissuti che mostrino in pubblico il dolore per la perdita del congiunto sentono il gelo attorno, la rarefazione dei rapporti sociali. Il lutto è diventato uno dei comportamenti sociali devianti che la nostra società, basata sulla salute — giovinezza — felicità, non tollera più.
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Lo storico si limita a registrare la rivoluzione nei sentimenti e nei costumi relativi alla morte; i critici della cultura si domandano il perché. Come mai siamo arrivati a tacere sistematicamente della morte, a negarne in maniera organizzata l’evento, a rimuovere dal campo della nostra coscienza tutto ciò che si riferisce ad essa? Il fenomeno della diffusione del tabù della morte in Occidente può essere interpretato in modi diversi. Qualcuno pensa che l’evacuazione della morte sia da attribuire al predominio dello spirito capitalistico che cementa il nostro ordine sociale. In casa del capitale è proibito parlare di morte! Quando i rapporti esistenti sono solo quelli utilitaristici, secondo la logica della mercificazione, l’individuo che cessa di produrre e di consumare è escluso dal patto sociale. Altri individuano la radice più profonda del processo nell’ascesa della classe borghese, che ha scalzato dalle radici la concezione fino allora prevalentemente clericale della vita, nella quale il pensiero della morte aveva un ruolo importante e la relatività della vita su questa terra era fortemente accentuata 209. Nel corso del processo di emancipazione la borghesia non è riuscita a trovare nella nuova concezione della vita una soluzione al problema della morte. Di fronte alla morte non si sapeva fare altro che tacere o negarla: “Il borghese è un figlio di questa terra. La sua vita gli basta. Così egli combatte il primato della morte”.
Altri critici della cultura attribuiscono al pensiero scientifico la responsabilità della progressiva scomparsa della morte dal quadro di vita quotidiano della nostra civiltà. Le scienze naturali hanno oscurato la visione dell’aldilà; il pensiero scientifico ha introdotto anche la morte in una prospettiva di secolarizzazione. Così la morte, dopo essere stata per secoli una realtà religiosa inviolabile, è potuta diventare oggetto di ricerca scientifica 210. Anzi, ha preso un posto di primo piano nel sapere scientifico moderno relativo alle scienze umane: è la tesi dell’epistemologo M. Foucault. Nell’opera Nascita della clinica moderna ha applicato allo sguardo medico il suo metodo “archeologico”, che intende ricostruire ciò che in profondità rende conto di una cultura. Ha analizzato lo sviluppo della medicina tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo: appena mezzo secolo, ma decisivo per l’instaurarsi di un nuovo rapporto
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tra la percezione del corpo e il linguaggio sul corpo 211. Nasce in questo periodo quel modo singolare di considerazione del corpo e la malattia che sarà chiamato “occhio clinico”. La disciplina che lo costituisce è l’anatomia patologica, cioè quel processo di verifica delle “cause” del decesso a cui si procede dopo la morte; il docente è il cadavere: il cadavere aperto ed esteriorizzato è l’intima verità della malattia. La morte, fissata nei suoi meccanismi, non più confusa con la malattia, diventa la grande analista. La malattia, vista dal cadavere, perde il suo aspetto enigmatico; con l’autopsia l’invisibile diventa visibile. La vita rimane oscura finché non è vista a partire dal cadavere: allora la vita stessa diventa limpida come il cadavere. L’anatomia patologica ha dissipato in medicina la paura della morte. Per tendenza immemorabile gli occhi del medico si volgevano verso l’eliminazione della malattia, verso la salute da rispristinare; la morte restava alle sue spalle come la minaccia del suo sapere e del suo potere. Ora lo sguardo medico chiede conto alla morte della malattia e della vita stessa. La medicina ha integrato la morte “in un insieme tecnico e concettuale in cui essa assume i suoi caratteri specifici e il suo valore fondamentale di esperienza”.
3. Morire umanamente: un diritto
Non è solo per curiosità intellettuale che ci interroghiamo su che cosa determina i nostri comportamenti nei confronti della morte. Vogliamo capire, perché vogliamo cambiare; e vogliamo cambiare perché ci rendiamo conto che oggi si muore in un modo che non è degno dell’uomo. La denuncia del carattere sempre più disumano che assume il morire nella nostra cultura è venuta dai cultori delle scienze dell’uomo,
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sociologi e psicologi in un primo luogo 212. Mettendosi a esaminare come muore l’uomo oggi, hanno infranto il tabù e avviato una tacita ribellione all’evacuazione della morte dalla nostra civilizzazione. Studi dettagliati hanno preso in considerazione, per esempio, la coscienza del morire. Analizzando il modo in cui l’équipe medica comunica col malato senza speranza, ci si è resi conto che tale coscienza è completamente sbilanciata da una sola parte, quella del medico, che detiene tutto il sapere e il potere. La dissimulazione è la regola generale di comportamento; la conoscenza completa e condivisa della propria sorte da parte del malato grave è un caso eccezionale. I segni della morte sfuggono al malato; i medici e le infermiere, che sono in grado di interpretarli, preferiscono nasconderglieli.
Anche il “tempo di morire” è stato sottoposto a indagine. Ne è risultato che l’atteggiamento davanti alla morte è cambiato non solo per l’alienazione del morente, ma anche per la variabilità della durata della morte. I progressi della medicina continuano ad allungare il processo del morire. Al limite, esso tende a dipendere dalla volontà del medico, che deve decidere se mettere in atto, tenere in funzione o arrestare le complesse apparecchiature della rianimazione artificiale. Il morente non è più che un povero oggetto privo di volontà, e spesso di coscienza. Se il personale ospedaliero può prevedere l’ora della morte, non la comunica. Medici e infermiere ne parlano tra loro a mezze parole, per allusione. Il morente non ha più uno status sociale. L’assistenza tecnica prolunga l’esistenza dei malati, ma non li aiuta a morire.
Un posto di particolare rilievo in questa produzione spetta all’opera della dott.ssa E. Kübler-Ross. Il volume con cui ha divulgato il suo lavoro 213 è apparso in America nel 1969: da allora è diventata un punto di riferimento obbligato per tutti coloro che si occupano dell’assistenza ai morenti. Attualmente è tradotto e conosciuto anche in Europa. Nello studio del morire la Kübler-Ross ha introdotto un’innovazione che ha l’audace semplicità delle cose che, non appena proposte, appaiono le più ovvie. Invece di osservare i morenti come oggetti, la Kübler-Ross li ha trattati come persone umane, capaci in quanto tali di relazione. Ha
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instaurato con i pazienti allo stato terminale dei colloqui semistrutturati, vertenti sulla loro condizione, i loro bisogni emotivi, la comunicazione con l’ambiente. Di tali colloqui ha fatto poi materiale di studio per tutti coloro che avevano il compito di assisterli: medici, personale infermieristico, cappellani. Per capire che cosa vive un paziente inguaribile, ha creato una situazione in cui questi potesse esprimersi; e ha cercato di convincere il personale ospedaliero che è necessario anzitutto mettersi alla scuola del malato, ascoltarlo, per comprenderne in modo psicodinamico quanto vuole comunicare (con le parole, i silenzi, i gesti, con tutto il comportamento).
Uno dei risultati più divulgati dell’opera della Kübler-Ross è la nozione di “fasi del morire”. Dal momento in cui viene annunciata la probabilità di una morte prossima, si possono identificare nel malato cinque fasi, ognuna con i suoi comportamenti tipici: il rifiuto, accompagnato dall’isolamento e dall’incredulità; la rivolta, che proietta i sentimenti rabbiosi in tutte le direzioni, da Dio alla famiglia, al personale curante; il patteggiamento, che è una specie di compromesso in cui il malato che si sa condannato cerca di strappare una dilazione; la depressione, creata da problemi esistenziali che il malato si sente incapace di risolvere o da uno stato d’animo orientato al distacco; l’accettazione, in cui, in un vuoto di sentimenti, si abbandona la lotta e ci si lascia scivolare nel riposo finale prima del lungo viaggio. La Kübler-Ross non pretende che tutti i morenti attraversino i cinque stadi, e nell’ordine da lei stabilito. È piuttosto probabile che il morente si arresti all’uno o all’altro stadio, specialmente a quello del rifiuto della propria morte, se tutti attorno a lui congiurano per mantenerlo nell’ignoranza o nell’illusione. La conoscenza dei diversi stadi assume un’importanza determinante per chi assiste il morente, sia esso un familiare, un’infermiera o il cappellano. Il suo compito comincia col rendersi conto che cosa sta vivendo il morente: perché i suoi bisogni sono diversi a seconda del momento che attraversa. Se colui che assiste il morente non sa distinguere, per esempio, il momento del trapasso dalla resistenza all’accettazione, può fargli più male che bene: sarà frustato nei suoi sforzi e renderà la morte un’ultima dolorosa esperienza.
Gli studiosi di psicologia sociale, gli psicoterapeuti e gli esperti della comunicazione interpersonale che si sono dedicati ai morenti hanno dovuto sperimentare personalmente le odiosità che si riversano su chi osa infrangere un tabù. Contro le loro ricerche si sono levate resistenze fortissime,
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specialmente nell’ambiente ospedaliero. Si è stentato ad ammettere che voler conoscere gli atteggiamenti umani all’avvicinarsi della morte non è malsano sadismo, ma il presupposto indispensabile per umanizzare la morte. Si continua a ripetere che nessuno vuol guardare in faccia la propria morte, e che quindi mentire al morente è un gesto di compassione, perché lo protegge dall’ansia. Ma coloro che si sono avvicinati al morente con lo stato d’anima giusto — senza brutalità, certo, ma allo stesso tempo aperti alla comunicazione — si sono resi conto che la paura di parlare della morte è un atteggiamento socialmente imposto. Una volta avviata la conversazione, i morenti ne ricavavano un vero beneficio. La loro ansia, invece di aumentare, si scarica.
Mentre le scienze dell’uomo mantengono vivo il dibattito sulla necessità di riconoscere un ruolo sociale al morente, e quindi di assisterlo secondo i suoi bisogni, un’altra istanza a umanizzare la morte viene dall’etica. Più precisamente dalla “bioetica”, cioè da quella riflessione critica che verte sulle accresciute capacità dell’uomo di influire sulla vita e sulla morte. I medici sono tradizionalmente portati a porsi interrogativi etici sulla liceità o meno di certi loro interventi. Rispondendo a simili quesiti Pio XII ha svolto un magistero autorevolissimo. Le norme di comportamento che ha indicato ai medici, in materia di rianimazione e di terapia antalgiche per esempio, sono considerate con rispetto anche da chi non condivide la fede cristiana. Con la bioetica si fa strada, invece, un atteggiamento nuovo: non sono tanto i medici che si interrogano sulle norme deontologiche o etiche a cui attenersi nella professione, ma piuttosto persone preoccupate del destino dell’umanità che pongono interrogativi alla scienza.
Quella medico-biologica fa sorgere problemi di una gravità particolare. Le possibilità attuali di manipolare la materia e di intervenire nei processi vitali sono tanto grandi, che è necessario porvi un limite. Il diritto dell’uomo alla salute può entrare in conflitto con altri diritti umani, a cominciare da quello della libertà. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sentito il bisogno di pubblicare una dichiarazione su “La salute e i diritti dell’uomo. Con particolare riferimento ai progressi in biologia e in medicina”, per proteggere la persona umana e la sua integrità fisica e intellettuale dalle violenze che può subire in nome del progresso scientifico. Nel documento è fatto esplicito riferimento al “diritto
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di morire” 214. Ciò che si domanda ai medici, in nome del diritto di ogni uomo ad avere una morte umana, è che rinuncino all'“accanimento terapeutico”: non tutte le risorse per prolungare la vita di cui la medicina dispone si risolvono a vantaggio del morente. Spesso producono solo uno sterile prolungamento di sofferenza, e allontanano definitivamente dal morente la possibilità di vivere la propria morte da protagonista. Il “diritto di morire” di cui si parla in questo contesto fa parte della “riappropriazione della salute” proposta da I. Illich 215.
D’altra parte, è pur necessario ribadire il principio deontologico che chiede al medico di prestare la sua opera fino all’agonia. Troppo spesso la morte rimane esclusa dal programma. Quando si dissolvono le possibilità di guarire, il medico tende a passare la mano: dirada le visite, o addirittura si defila. Anche quando “non c’è più nulla da fare”, c’è ancora molto da fare. C’è anzitutto da alleviare il più possibile il dolore; ma c’è anche un’opera di assistenza, sostegno, conforto. È un diritto del malato di avere l’aiuto del medico nel morire. Per dovere professionale il medico si impegna implicitamente a rendere il tempo finale del paziente il più confortevole possibile. Essere di aiuto al morente per rendergli possibile un trapasso umano è un compito che, oltre che il medico, investe chi opera nel campo dell’assistenza. In maniera particolare coinvolge la comunità cristiana. È la logica stessa del Vangelo che porta i discepoli di Gesù a mettere al centro coloro che nella società la logica del potere spinge ai margini. Coloro che stanno perdendo la vita sono i più poveri tra i poveri. Ad essi la chiesa è debitrice di un servizio di speranza. Gesti e parole tradizionali — liturgie, rituali, iniziative pastorali —, che la cultura cristiana ha sviluppato nei secoli, sono diventate inadeguate di fronte alla forma che oggi ha assunto il morire. I problemi nuovi domandano risposte creatrici.
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FONTI
Degli studi qui riprodotti sono già apparsi nella rivista Medicina e Morale: “La riflessione antropologica in medicina” (1980/1); “Antropologia cristiana per un’etica della salute” (1976/3); “Il tempo della malattia” (1975/1). Il cap. II, riproduce, con modifiche, quanto già pubblicato nel Nuovo Dizionario di spiritualità, Roma 1979, ed. Paoline, alle voci “Ecologia”, “Utopia”, “Modelli spirituali”. Dallo stesso dizionario è ripresa anche la voce “Corpo”.
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APPENDICE
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SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
I volumi di cui viene qui presentata una scheda bibliografica sotto forma di recensione o di discussione critica spaziano tra i diversi campi del sapere: filosofia, teologia, sociologia, psicologia. Malgrado l’eterogeneità, un minimo comun denominatore è facilmente rintracciabile nella raccolta: tutti i libri presentati affrontano un tema antropologico in relazione alla salute. Le varie tessere del mosaico si lasciano senza violenza comporre in un tutto organizzato intorno a un progetto di uomo, spesso in marcato contrasto con quello costruito sui valori esclusivi e riduttivi della cultura tecnologica. La “Gestalt” che emerge è quella di un uomo che ritrova, tratto a tratto, i lineamenti essenziali di un universale concreto: Gesù di Nazaret. I problemi esistenziali che pone il confronto con la vita, la malattia, la guarigione, la morte, sono dunque affrontati dall’angolatura di un’antropologia cristiana. E in armonia con questa si scandiscono anche le risposte agli interrogativi posti dalla prassi, e quindi dall’etica.
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P. Ferrari (a cura), Le separazioni dalla nascita alla morte, “Il Pensiero Scientifico”, Roma 1979, pp. XXVII-105.
Il volume appare nella collana “Psiche e storia”, fondata e progettata dal compianto Mario V. Rossi. Nata per favorire un incontro tra coloro che si occupano delle strutture dell’uomo, specialmente in ottica psicoanalitica, e i cultori delle discipline storiche, la collana ha il merito di aver già fatto circolare in Italia opere singolari, destinate altrimenti alla marginalità soltanto perché non seguono le mode culturali e non rientrano negli interessi settoriali dei programmi editoriali. È il caso anche di questo volume, che ha alle sue origini una serie di conferenze organizzate dalla scuola dei genitori e degli educatori alla Pitié-Salpêtrière, a Parigi. Il tema unico, su cui sono stati chiamati a confronto diversi specialisti, è quello delle “separazioni” nella vita dell’uomo. Il concetto di “separazione” è preso in una accezione tanto ampia da abbracciare tutto lo spettro che va dal biologico allo spirituale: dalla nascita alla morte, dal divorzio all’emarginazione sociale, passando per i distacchi dell’età puberale e adolescenziale. Si va quindi dalla ineluttabilità biologica alla pura accidentalità.
La riflessione sul posto che occupano le separazioni nella vita dell’uomo è il necessario complemento di quella dedicata allo studio dell’attaccamento. Dall’opera ormai classica di J. Bowlby, Attaccamento e perdita, sui danni permanenti causati da un distacco precoce del bambino dalla madre, è ormai acquisito per le scienze dell’uomo che l’attaccamento è un bisogno primario, più forte della fame, più precoce della sessualità (sullo stato attuale della ricerca di questo settore “Il Pensiero Scientifico” ha pubblicato
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un’opera, intitolata appunto L’attaccamento, che raccoglie un ampio confronto tra etologi, psicologi dell’età evolutiva, psicoanalisti). Ma l’attaccamento deve essere bilanciato dalla capacità di distaccarsi. Là dove questa fa difetto possono subentrare addirittura forme di patologia. La più grave è indubbiamente l’autismo infantile, che studiosi di grande attendibilità scientifica come Bion e Bettelheim fanno risalire all’incapacità di distaccarsi dal rapporto simbiotico con la madre per formarsi un Sé indipendente. Nella presentazione dell’edizione italiana G. Di Chiara fa il punto sulla riflessione psicoanalitica circa la separazione. Riferendosi alla pratica della psicoterapia, riconduce la psicoanalisi a un processo di separazione. L’esperienza psicoanalitica è ricondotta essenzialmente al “sentimento di separazione”, che per essere messo in essere presuppone però una precedente esperienza di incontro. Analizzato e analizzante, “isolati all’interno del loro intimo rapporto”, assurgono a una parabola dell’esistenza umana.
Le separazioni sono dunque necessarie: per nascere, per morire, e per far fronte alle vicissitudini della vita. Il problema non è quello della legittimazione antropologica delle separazioni, ma piuttosto quello delle modalità concrete in cui avvengono le separazioni nella società attuale. La famiglia si è trovata esautorata del ruolo di mediazione. L’ospedale e la medicina sono ormai i delegati ai momenti di passaggio alla vita, come del passaggio alla morte. La necessità di una equilibrata distanza dalle persone più vicine è stata turbata dalla medicalizzazione totale delle fasi critiche della vita. Gli asili parcheggio e gli ospedali senza presenza umana, per quanto efficienti, non ci fanno uscire dal labirinto in cui ci siamo cacciati. I medici, psicologi, psicoanalisti, filosofi che quest’opera chiama a consulto non rinnovano i lamenti ormai triti sulla solitudine dell'uomo-massa contemporaneo, ma denunciano l’atrofizzazione del sano “sentimento di separazione”, da cui deriva la capacità di essere soli. Pur senza i toni provocatori di Illich in Nemesi medica, anche gli autori di questi saggi reclamano una svolta culturale, che metta in discussione la medicalizzazione totale della vita e rivendichino alla famiglia il ruolo che le strutture sociali tendono a sottrarle. “Per far progredire l’umanità bisogna chinarsi con l’umanità sopra le culle dove l’essere umano incomincia a vivere, a sorridere, a parlare... e anche a morire”, afferma This nel capitolo dedicato alla nascita. Questo progetto umanistico scandisce il ritmo interiore del discorso sulla separazione, che alcuni (utopisti?) si ostinano a presentare come un luogo antropologico da difendere senza cedimenti.
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Naître... et ensuite?, “Les cahiers du nouveau-né”, n. 1-2, Paris 1978, pp. 363.
Il volume che presentiamo, anche se non è più fresco di stampa, merita l’attenzione di quanti si interessano all’umanizzazione della medicina. È una autorevole indicazione di rotta, ma anche una testimonianza impressionante dei contrasti ideologici e operativi che attraversa il mondo della sanità. L’associazione che sponsorizza il volume è il G.R.E.N.N. (Groupe de recherches et d’études du nouveau-né), un gruppo di studio in cui specialisti venuti da orizzonti diversi confrontano le loro esperienze. La loro prospettiva è interdisciplinare. Sulla base del comune interesse a uno studio critico delle condizioni della nascita, si incontrano ostetrici, pediatri, levatrici, puericultrici, psicologi, psicoanalisti, sociologi, etologi. Alcune giornate di incontri presso la maternità dell’ospedale Saint-Vincent-de-Paul, a Parigi, hanno fornito il ricco materiale di cui è costituito il libro: relazioni e dibattiti, ritrascritti alla lettera. Dibattiti appassionati, che sfiorano talvolta l’intemperanza verbale. Contrasti accesi, sullo sfondo dell’identico interesse per il benessere del bambino, che fanno ancor più risaltare le differenti concezioni antropologiche implicite nei diversi approcci. Il confronto prende l’avvio dal fenomeno dei bambini maltrattati: si discute della genesi dell’attaccamento materno e delle sue vicissitudini, del problema di identificare precocemente il deterioramento dei rapporti genitori-bambini, e come porvi rimedio. Ma ben presto l’interesse dei partecipanti è calamitato dal discorso dell’accoglienza del bambino e delle nuove metodiche di parto. L’astro Leboyer attira nella sua orbita: favorevoli o contrari, bisogna ormai discutere della “nascita senza violenza”. I suoi sostenitori, presenti in forza agli incontri parigini — citiamo solo la psicologa Danielle Rapoport, cui si deve uno studio catamnestico sui bambini nati col metodo Leboyer, presso i quali ha rilevato un quoziente di crescita psicomotoria superiore alla media —, rischiano di sopravalutarne i meriti, attribuendogli in esclusiva la preoccupazione per l’umanizzazione della nascita. Si può parlare di un “fenomeno Leboyer” in quanto catalizzatore dell’interesse per il vissuto della nascita: prima di lui solo pochi precursori si erano interrogati sull’importanza delle prime esperienze del neonato, sul valore dei primi momenti della relazione genitori-bambino; dopo Leboyer nessuno sfugge all’interrogativo. Ma l’interesse di cui Leboyer si è fatto interprete è comune ad altri cultori delle scienze umane che guardino all’uomo da
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un’ottica più ampia di quella del biologismo medico. In primo luogo vanno ricordati gli psicoanalisti. Nei dibattiti parigini questo punto di vista è rappresentato da Françoise Dolto, la più nota studiosa dei problemi dell’igiene mentale infantile in Francia. Nella sua relazione ha affermato testualmente: “Ci si è talmente lanciati, e giustamente, nell’igiene del corpo e la cura del corpo degli esseri umani, come fossero piccoli mammiferi, che si è dimenticato tutto il resto; è per questo che c’è una tale quantità di bambini psicotici, superbi dal punto di vista fisico, ma che hanno delle rotture di comunicazione”. Finora l’ostetricia aveva un unico scopo: la sopravvivenza. Si occupava della meccanica del parto, mettendo in atto tutte le proprie risorse per aumentare la sicurezza. È bene aver cominciato con il corpo. Non si poteva fare altrimenti, soprattutto considerando l’alta percentuale di mortalità perinatale e di handicap da parto prima che la nascita fosse medicalizzata e ospedalizzata. Da una trentina di anni ci si occupa anche del dolore della partoriente. Ma l’ostetricia deve evolvere ulteriormente. È l’istanza avanzata in primo luogo dagli studiosi delle discipline psicologiche. Il filo conduttore che unifica i punti di vista propri delle scienze dell’uomo è l’elemento relazionale, cioè il rapporto genitori-bambino. Il quale è attualmente carenziato in modo preoccupante. Per comodità di funzionamento del servizio medico, infatti, si è preferito isolare il neonato da tutte le persone che vivono l’avvenimento della sua nascita.
Intorno al bambino si è fatto il vuoto; sterile dal punto di vista batteriologico, ma anche molto deprimente. Gli psicoanalisti sono in prima linea nel rivendicare l’importanza delle relazioni significanti. Non basta occuparsi della vita del corpo; c’è anche una vita simbolica, che si alimenta con la relazione di parola. C’è un metabolismo dello psichismo che comincia già dalla vita fetale ed è consustanziale al corpo del bambino. È la carenza di queste relazioni significanti che crea i pazzi. Il passo ulteriore che deve fare la medicina è l’accoglienza della dimensione affettiva e psicologica. Ma questo nuovo approccio fa ancora paura. Lo si vede dalle reazioni di alcuni ostetrici, le cui voci sono riportate nei resoconti dei dibattiti. Rifiutano le innovazioni proposte dai paladini della “nascita senza violenza”, perché vi vedono una minaccia del livello di sicurezza medica già raggiunto. Dando tanta importanza all’accoglienza del neonato, non si rinuncia alle acquisizioni tecniche? Una demedicalizzazione sistematica non sfocerebbe in un ritorno all’oscurantismo che ha preceduto la medicina scientifica? Ma che cosa vogliono questi
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fanatici dell’ecologismo e alternanza: che si torni a partorire a casa o addirittura nelle caverne? Non è sempre chiaro quanto queste resistenze siano dettate dalla preoccupazione che prevalga l’ideologia medica della diminuzione del rischio, costi quello che costi, o semplicemente dal timore di dover cambiare abitudini di routine ospedaliera che, tutto sommato, danno sicurezza all’operatore sanitario. L’impressione che ricava il lettore, quale spettatore lontano di quel dibattito tra persone interessate alla nascita, ma con preoccupazioni divergenti, è che non si tratti solo di difficoltà di comunicazione tra discipline diverse. Lo specialista ritaglia nel soggetto una zona d’interesse che diventa per lui la zona d’interesse; e tratta quella parte separandola dal tutto. Così il medico tende a preoccuparsi solo dell’integrità cerebrale del neonato, e lo psicoanalista della relazione significativa. Si può reintrodurre un po’ d’umanizzazione nelle strutture attuali, senza rinunciare alla sicurezza medica? È possibile che dei luoghi di convivialità, a dimensione umana, siano messi a disposizione delle donne che vengono a “dare la vita”, in modo che i bambini che aprono gli occhi sul mondo siano accolti amichevolmente? È lecito sognare una civilizzazione in cui la nascita sia un tempo di festa? Sono gli interrogativi che fondano il progetto di umanizzazione della nascita.
Il suggerimento che ha dato Leboyer, più valido di qualsiasi metodica, è quello di porre il bambino al centro, di mettersi finalmente ad ascoltarlo. È quanto hanno inteso i curatori di questo volume, stampando sulla copertina la foto del braccio di un neonato. Una mano profetica, con un dito puntato, in atto di chiedere la parola, come un appello a farsi ascoltare, a imparare da lui stabilendo una relazione viva. Dietro quella fragile mano sentiamo emergere una questione morale gravissima: è lecito andare sulla luna per studiare un mucchio di sassi, quando non ci siamo presi il tempo di osservare il sorriso del neonato?
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J. Money e H. Musaph (a cura), Sessologia, Borla, Roma 1978, pp. 1858.
Bisogna vincere qualche esitazione prima di affrontare quest’opera. Non spaventa la mole, elegantemente distribuita in tre volumi e tenuta insieme da un cofanetto; non ci intimidisce neppure la natura dell’opera: l’editoria ci ha da tempo familiarizzati con simili imprese, che intendono portare a un più vasto pubblico, con linguaggio accessibile, il sapere degli specialisti. Le riserve sono connesse con l’argomento: un manuale di sessuologia — anzi di “sessologia”, come precisano i curatori (“Chiamiamo le cose con il loro nome: il sesso è sesso e la sessologia sessologia”) — è una promessa, ma anche una minaccia. Sarà esteso anche al settore della vita sessuale quell’imperialismo medico che continua ad annettere province al suo dominio? Dopo il colpo di mano tutto sembra apparentemente rimasto come prima, eppure una trasformazione radicale si è instaurata. L’impero acquisterà un’altra regione: la ‘sessologia medica’; e già sono pronti i nuovi funzionari coloniali. La loro caratteristica, come quella di tutti gli specialisti medici, sarà quella di sapere sempre più cose su un oggetto sempre più circoscritto. L’uomo, ridotto dapprima al ruolo di portatore di un organo malato, scompare progressivamente dal campo di osservazione: è un oggetto troppo grande per essere esaminato al microscopio (a meno che non si mandi il paziente da un altro specialista, quello della “psiche”, il quale possiede a sua volta un proprio strumentario, non meno selettivo). Dovremmo dunque sacrificare una delle regioni più cariche di significato dell’esistenza umana per avere in cambio una nuova specialità medica, e nuovi specialisti che si occupano di guasti da riparare?
Per sapere se il timore è fondato, non ci rimane che esaminare l’opera. Non c’è dubbio: non abbiamo tra le mani uno di quei manuali sul sesso e il matrimonio che hanno conosciuto una diffusione straordinaria negli ultimi vent’anni, quelle guide che presentano un approccio meccanicistico della sessualità e contrabbandano le loro scelte di valore dietro una pretesa neutralità scientifica. A quest’opera hanno messo mano scienziati di tutto il mondo, ma specialmente americani e olandesi, specialisti in diverse discipline. Basterebbe già a garantirne la serietà il nome stesso del principale curatore, l’americano John Money, considerato uno dei massimi studiosi di sessologia umana e famoso per i suoi studi sul processo mediante cui il bambino stabilisce la propria “identità di genere”. L’impianto del manuale dimostra uno sforzo notevole di
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chiarezza didattica. Tutta la materia è stata divisa in 17 sezioni, introdotta ognuna da una breve presentazione del curatore. Le sezioni suddivise a loro volta in capitoli, per un totale di 108, ognuno affidato allo specialista più accreditato. Ogni capitolo concluso con un riepilogo; più di cento pagine di bibliografia, distribuita secondo gli argomenti. Romano Forleo, primario ginecologo dell’Ospedale Fatebenefratelli di Roma, ha curato l’edizione italiana, corredandola di un’introduzione in cui ha affrontato temi cruciali: la definizione della salute sessuale, l’educazione sessuale, la terapia delle disfunzione e la formazione sessuologica del medico.
La prima costatazione è che il riduzionismo nella costituzione di un sapere specialistico qui è stato coscientemente evitato. Non si è seguita la tendenza riscontrabile nelle specializzazioni mediche — ginecologia, “andrologia”, urologia — a sganciare la genitalità della sessualità, giungendo così a una completa spersonalizzazione dei vissuti sessuali. L’oggetto di questa sessuologia vuol essere la sessualità umana, con tutte le componenti che emergono da un approccio pluridisciplinare. La biologia e la fisiologia hanno uno spazio rispettabile, ma non meno della psicologia e dell’antropologia culturale, dell’etologia e della sociologia. La scelta di fondo del manuale è quella di un approccio empirico, centrato sulle basi comportamentali della sessualità umana. L’oggetto di uno studio corretto degli attributi umani, infatti, non è solo l’uomo, ma tutta la natura. Nel manuale si troveranno indagini sugli ormoni e sul loro influsso sul comportamento, sui feronomi e le monoammine cerebrali, esperimenti di cambiamento di sesso nei pesci e negli uccelli. E sbaglierebbe il cultore delle “scienze dell’uomo” che considerasse con sufficienza la ricerca biologica di base: anch’essa è necessaria per capire l’uomo. Con particolare interesse sono studiati gli essere con i quali stiamo in più stretta relazione: i primati non umani. Sono il termine di paragone più immediato, in quanto ci danno l’opportunità di definire i modelli del comportamento tipicamente umano. In esso confluisce ciò che abbiamo ereditato come primati e ciò che è specifico della nostra natura umana. A livello umano la sessualità rivela infatti un “supplemento di senso”. Non è più soltanto una funzione fisiologica finalizzata alla riproduzione o al piacere, ma ha un’importanza esistenziale e interpersonale. Il sesso umano va così collocato in uno schema molto complesso, da cui non è esclusa la dimensione metafisica e religiosa.
Della presenza di questa sensibilità nel manuale di Money citeremo due esempi: il capitolo su “Pelle tatto e sesso” e la sezione XVII, dedicata
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a “Religione, ideologia, sesso”. È un segno dei tempi che un manuale di sessuologia denunci l’impoverimento del contatto fisico della nostra società e sottolinei l’importanza del tatto nei contatti umani? La gamma è vasta: va dalla relazione madre-bambino (“una relazione buona si esprime in un buon contatto epidermico, un cattivo rapporto in un contatto epidermico ridotto al minimo indispensabile”) al contatto fisico con i pazienti agonizzanti (“non è difficile riuscire a calmare un paziente agonizzante inquieto e agitato accarezzandogli le mani e la testa”). Recentemente il contatto fisico è stato introdotto in varie tecniche psicoterapeutiche, specialmente nelle tecniche di gruppo; e il massaggio sta acquistando, oltre al carattere terapeutico per cui è sempre stato coltivato, anche un significato relazionale. Il benessere psicofisico dell’individuo, ci dicono insomma i sessuologi, richiede una cultura meno fobica dei contatti.
La sessualità umana comporta anche un sistema normativo. Non per un abusivo straripamento del religioso, ai fini della repressione. Il motivo va ricercato nel fatto che le idee sulla sessualità e la concezione antropologica sono collegate strettamente, e la proclamazione di un messaggio sul significato dell’esistenza umana implica necessariamente un messaggio sul significato della sessualità umana. Il manuale prende in considerazione le linee etico-normative di tre sole grandi religioni: il giudaismo, la cristianità protestante e quella cattolica. Concisamente vengono messe in risalto le caratteristiche fondamentali di ciascuna: la ricerca di equilibrio tra restrizione e spontaneità nel giudaismo; le fluttuazioni delle chiese protestanti sotto la spinta dei cambiamenti culturali avvenuti tra il XVI e il XX sec.; il valore dell’essere umano come filo conduttore delle posizioni della morale cattolica. Agli estensori degli articoli sta a cuore rilevare che né la chiesa cattolica, né le chiese protestanti si sono espresse riguardo al sesso in maniera indipendente dal contesto socio-culturale, e che attualmente la fedeltà ai precetti religiosi in materia di sessualità è diminuita in maniera considerevole nei credenti di tutte le religioni, che hanno gradatamente adottato i valori laici prevalenti nella società circostante. Il recensore cattolico potrà osservare che l’autorevolezza dell’enciclica “Humanae vitae” viene piuttosto minimizzata, e che si guarda con simpatia a quegli sviluppi permissivi nell’etica sessuale su cui ha preso posizione negativamente il documento “Persona Humana”. Ma come non potrà rallegrarsi, facendo un bilancio generale, per un manuale di sessuologia medica che non tradisce il suo oggetto e rimane fedele, da un capo all’altro dell’opera, alla sessualità dell’essere umano?
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Hanna Wolff, Gesù, la maschilità esemplare, Queriniana, Brescia 1979, pp. 252.
Da quando “femminismo” è diventata una parola di militanza, la “maschilità” si è colorata dì polemica. Dedicare un libro alla maschilità di Gesù e perciò una proposta rischiosa. “Gesù uomo”, suona innocuamente il titolo che Hanna Wolff ha dato in tedesco al suo saggio. Il traduttore italiano ha dovuto osare la delicata operazione linguistica di tradurre “uomo” con “maschio”, per rendere comprensibile fin dal titolo che ciò che ci viene proposto non sono considerazioni edificanti sulla “umanità” di Gesù, né argomentazioni teologiche su Gesù come “vero uomo”, come è tradizionale nella riflessione cristiana.
L’autrice è una psicologa, più precisamente una cultrice della psicologia del profondo di scuola junghiana. Di professione fa l’analista. Lavora cioè in quel campo delicato dei rapporti interpersonali in cui ci si addentra nei meandri della psiche umana per guarire le sofferenze causate dal cattivo uso delle emozioni, ma anche per aiutare le persone a raggiungere il pieno sviluppo. Risale allo stesso Freud la definizione ambiziosa dell’analisi come “educazione alla verità nei riguardi di se stessi”. Lo psicologo del profondo scopre che la verità dell’uomo è clamorosamente tradita nella vita quotidiana. Abbiamo modelli limitativi di ciò che è “un vero uomo” o “una vera donna”, basati sulla convinzione che un sesso debba realizzarsi a spese dell’altro. Il pendolo oscilla dalla predominanza patriarcale, in cui l’elemento maschile prevale su quello femminile e lo sottomette, alla supremazia matriarcale in cui è la donna che, sotto l’aspetto di madre, soffoca lo sviluppo dell’uomo. Quando l’uomo combatte la donna, in realtà mutila se stesso; e quando la donna rifiuta il maschile, propone una caricatura di essere umano. Un essere incompleto non può che esprimersi con aggressività e violenza: questa è la ragione psicologica della guerra dei sessi.
Ora un “maschio integrato” è una velleità o una ipotesi realistica un mito o una realtà storica? Hanna Wolff non ha esitazioni: un maschio integrato è esistito nella storia dell’umanità, e si chiama Gesù È una novità che l’interessa non solo come credente, ma anche come psicoterapeuta. In Gesù vede realizzate, in un modello personale e storico, le componenti della personalità pienamente sviluppata individuate da C.G. Jung. La Wolff ci propone un saggio sulla maschilità di Gesù in senso psicologico, non fantasie sulla sessualità di Gesù. Nessuna
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compiacenza, dunque, verso quelle curiosità pruriginose che si domandano come se la sia cavata Gesù con la propria sessualità. La questione centrale del libro è piuttosto si può dire qualcosa su Gesù che sia anche significativo per chi si occupa dell’uomo dal punto di vista psichico.
L’impresa può suscitare qualche perplessità. Sappiamo quanti tentativi sono stati fatti per indicare in Gesù il modello ideale delle proprie aspirazioni in materia di uomo o di società. Gesù è diventato il più grande “schermo di proiezione” della storia mondiale. I pensatori più disparati hanno fatto dire o pensare a Gesù quello che, volta a volta, stava loro a cuore. Sarà dunque di turno questa volta un Gesù “junghiano”, uomo esemplare che sa integrare nella propria maschilità le componenti femminili che Jung ha chiamato anima? L’autrice è ben consapevole del pericolo della proiezione. Non c’è che un modo per evitarla: prender sul serio la documentazione storica su Gesù. Avendo lei stessa avuto una formazione teologica, e muovendosi perfettamente a suo agio tra gli studi di esegesi biblica, è in grado di dare un ritratto di Gesù fedele alle acquisizioni delle scienze bibliche. Per quanto discepola di Jung, non teme di dire che il suo maestro in psicologia è assolutamente carente dal punto di vista biblico: cita le parole della scrittura acriticamente e non è informato sulla moderna scienza neotestamentaria. Jung non si è posto la questione di Gesù come persona storica: si è riferito a lui semplicemente come “archetipo”. Hanna Wolff è convinta invece che gli studi biblici siano in grado di documentarci in modo inoppugnabile che con Gesù incontriamo il primo maschio integrato della storia dell’umanità.
Davanti a lui dobbiamo dire: “Qui c’è qualcuno le cui caratteristiche non si trovano in nessun altro”. Gesù è inconfondibile nel suo tempo e nel suo ambiente. Ha distrutto l’androcentrismo, la centralità del maschio, proprio dell’antichità. La sua integrazione si riconosce dal suo comportamento con le donne. Gesù è un maschio “non animoso” verso la donna, non ha quindi quest’ostilità globale verso il femminile, quella svalutazione dei valori femminili che caratterizzano il maschio che non ha integrato la parte dell’anima dell’altro sesso, o quella dipendenza dalla madre, tipica di colui che non ha raggiunto l’autonomia. Su questa traccia l’autrice ci invita a seguirla nella scoperta di quelle componenti della personalità di Gesù che fanno di lui un modello concreto di umanità vissuta secondo il modello della maschilità integrata: la sua capacità di vivere a un livello di coscienza superiore, l’accettazione del sentimento
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e della creatività, il riconoscimento di quanto l’esistenza contiene di non vissuto e limitante (Jung lo chiama “ombra”: è l’altro lato del proprio sé) senza proiettarlo sugli altri. Proprio perché uomo integrato, Gesù trasmette un’immagine integra di Dio e un’immagine integra dell’uomo. Gesù destava meraviglia tra i suoi contemporanei: abbiamo nei vangeli degli echi precisi di quello stupore.
Oggi, dopo che la psicologia del profondo ha introdotto una nuova immagine dell’uomo e ci ha aiutati a capire perché le formulazioni tradizionali ci opprimono, quella meraviglia si ripropone intatta. Lanciando la sfida a riscoprire “il maschio Gesù, questo sconosciuto”, l’autrice ritiene che l’incontro con Gesù non porti solo la salvezza in senso soprannaturale, ma anche la salute in senso psichico.
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Hanna Wolff, Gesù psicoterapeuta, Queriniana, Brescia 1982, pp. 188.
Per la psicoterapia sono gli anni del boom. L’osservatore dei fenomeni sociali è impressionato dalla sua espansione quantitativa e dall’aumento del numero degli utenti. Con interesse ancora maggiore rileva l’emergere di una “cultura psicoterapeutica”, integrata compattamente alla vita quotidiana dell’uomo metropolitano. Lo scenario originario, che era quello dell’intervento di un professionista sanitario per lenire il dolore psichico, è cambiato. Ora alla psicoterapia non si domanda più solamente di subentrare quando si inceppa il funzionamento “normale” della persona. Ad essa si ricorre per ottenere l’allargamento dell’area dell’esperienza — corporea, sensoriale, emotiva —, un potenziamento delle capacità espressive, il decollo della creatività, il rafforzamento della propria identità e del proprio valore. La psicoterapia insegna a risolvere i conflitti interpersonali, a sciogliere i drammi della vita di coppia, ad allacciare rapporti costruttivi. È diventata ormai una parte costitutiva della nostra cultura, ove svolge il ruolo socializzante che in passato era riservato alla famiglia, alle istituzioni educative, alla religione. Per quanto se ne deplorino gli abusi, si ironizzi o ci si indigni sulle mistificazioni, non si può negare la funzione che ormai svolge nella nostra vita. La cultura del cambiamento ha trovato nella psicoterapia il suo strumento privilegiato, che ha provveduto a dotare di un’aureola di onnipotenza.
Può veramente la psicoterapia guarire il malessere della nostra civiltà, o si tratta solo di un cerotto sulla ferita? Anche la critica alla psicoterapia in nome del cambiamento politico delle strutture non può più procedere grossolanamente come in passato. Ci rendiamo conto che la psicoterapia non è necessariamente al servizio della repressione. Essa ha piuttosto un potenziale critico che, favorendo la liberazione delle emozioni e della fantasia, apre a un pensare, progettare, agire alternativi. La fantasia liberata si coniuga con l’agire politico.
Un indizio del posto che ha assunto la psicoterapia nel nostro sistema di vita lo troviamo nell’evoluzione del rapporto con la religione. Non lo si può negare: le istituzioni religiose non hanno favorito il diffondersi della psicoterapia. A lungo l’hanno guardata con diffidenza. Reazione perfettamente comprensibile, quando si consideri che tradizionalmente coloro che, spinti dal malessere interno, desideravano cambiare i loro sentimenti e il loro modo di vivere e di pensare, ricorrevano per
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più a un’esperienza religiosa. Il cambiamento veniva interpretato come una modificazione del rapporto con la divinità; al sacerdote era riservato un ruolo di intermediario in questo processo. Quando sono sorti dei professionisti con la competenza specifica di indurre modificazioni nella personalità, nell’ambiente religioso la reazione è stata per lo più di chiusura. Il rapporto tra le due agenzie di cambiamento è stato visto in termini di concorrenza. I dibattiti prendevano la via del confronto valutativo (del tipo: “è meglio il confessore o la psicoanalista?”). Dall’apologetica si è passati in seguito alla strumentalizzazione. È quanto avviene prevalentemente oggigiorno. La pastorale tende a fare l’occhiolino alla psicoterapia, ad adottarne le tecniche; ne assimila i metodi per servirsene come sussidio per la predicazione, per la conduzione dei gruppi, per il counseling.
La strumentalizzazione può avvenire anche dal versante opposto. In questo caso è lo psicologo che annette la religione al suo impero. L’esempio più lampante è quello di Wilhelm Reich, che con L’assassinio di Cristo ha creduto di ritrovare in Gesù il modello antropologico che egli stesso perseguiva. Secondo la sua tesi, se la religione cristiana si fosse sviluppata secondo la vera natura biologica di Gesù e secondo il suo insegnamento, avrebbe condotto direttamente al punto a cui tende la conoscenza della “bioenergetica orgonomica” di Reich!
Dopo il tempo delle condanne e dell’ignoranza reciproca, dopo le utilizzazioni strumentali di ogni segno, sembra legittimo salutare oggi l’inizio di una impostazione corretta dei rapporti tra psicologia e teologia, tra il cambiamento in nome dello Spirito e quello promosso a partire dalle esigenze della psiche. Hanna Wolff può a giusto titolo essere citata come un’espressione della nuova tendenza. È ben attenta a non cadere in nessuna forma di riduzionismo. Niente è più lontano dalle sue intenzioni che presentare un Gesù “junghiano”. Lo ha dimostrato nella sua opera precedente, Gesù la maschilità esemplare, dove ha anche trattato per esteso gli assunti metodologici per un corretto dialogo tra teologia e psicologia.
Sviluppando ulteriormente il suo approccio della persona di Gesù, in questo volume la Wolff considera Gesù in azione, nei suoi rapporti interpersonali. Intuisce un’analogia tra l’azione di guarire/salvare svolta da Gesù e il lavoro professionale dello psicoterapeuta. Anche qui è ben attenta a non fare cortocircuiti apologetici. Non vuol secolarizzare il vangelo, togliendo a Gesù la sua aureola messianica per rivestirlo di panni psicoterapeutici. Né offre combustibile al sacro fuoco carismatico che agita
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tanti terapeuti, fornendo loro l’identificazione con un modello profetico. Tra guarigione psichica e salvezza esiste un’analogia strutturale, che però salvaguarda la specificità dei due processi. L’autorealizzazione umana che si può ottenere mediante la psicoterapia non va confusa con la conversione predicata da Gesù. Ogni cambiamento che avvenga in profondità è sintomo di conversione. Tuttavia nessuno può sapere se è convertito, anche se ha raggiunto un benessere psicologico. Alla certezza della conversione ci si può avvicinare solo con un’opera di discernimento critico mediante lettura dei suoi segni, tra cui spiccano i “frutti dello Spirito”: amore, gioia, pace, comprensione, cordialità, bontà, fedeltà, mansuetudine, dominio di sé (cfr. Gal. 5, 22).
Si apre dunque un’epoca irenica nei rapporti tra psicologia e religione? Rispetto e dialogo tra i due approcci del problema umano del cambiamento non significa, fortunatamente, un grigio appiattimento senza vigilanza critica. Se l’umanizzazione dell’uomo è il fine comune tanto della psicoterapia quanto del cristianesimo, il rapporto tra i diversi modelli antropologici e tutt’altro che pacifico. La polemica inizia già nell’ambito delle diverse psicoterapie, come dimostrano le frecciate che la Wolff, cultrice di un’analisi che privilegia la comunicazione con l’inconscio, lancia all’indirizzo delle “autopsicoterapie” che si svolgono a livello dell’io. La divergenza è ancora più grande tra chi ammette e chi nega l’apertura al trascendente come dimensione di un’autentica esistenza umana. La critica rispettiva è feconda. Non mancano teologi che denunciano nelle terapie autorealizzative un’espressione moderna e raffinata di idolatria. Alcune psicoterapie suscitano riserve per la sottovalutazione della presenza del male nella vita dell’uomo, per l’inclinazione all’edonismo, per l’obnubilazione pratica delle esigenze morali. Anche coloro che guardano all’uomo da un’angolatura diversa da quella dell’interpellazione che proviene dal Dio biblico si dicono preoccupati per la nuova ondata di narcisismo promossa da molti indirizzi psicoterapeutici. D’altra parte, è bene che la religione non trascuri le verità scomode che provengono dalla psicologia circa il rischio della vita religiosa di alimentare nevrosi, quando stacca l’uomo dalla fonte sana della sua naturalità. La psicoterapia può aiutare a liberarsi da concezioni patologiche della religione. L’interesse appassionato per il verum è indispensabile a coloro che dedicano la vita a promuovere il bonum, vale a dire la salute/felicità/salvezza dell’uomo.
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H.R. Weber, Gesù e i bambini, Paoline, Roma 1981, pp. 136.
Per l’anno internazionale del bambino qualcuno temeva, da parte dei cristiani, la rispolveratura delle immagini oleografiche di un Gesù di maniera, circondato da stuoli di bambini con atteggiamenti da chierichetti. In realtà, si è visto che la versione edulcorata del “lasciate che i bambini vengano a me” ha fatto il suo tempo. In epoca di impegno sociale è più probabile trovare i cristiani allineati sui fronti dove si combatte contro la mortalità infantile e i maltrattamenti dei bambini, per una migliore nutrizione e per l’incremento dell’educazione. Campagne di questo genere sono necessarie e devono essere sostenute.
Ma per un credente la partecipazione ad esse non è tutto; anzi, privilegiando soltanto le potenzialità di promozione umana contenute nella sua fede, potrebbe anche rischiare di passare accanto all’essenziale. È il motivo che ha indotto il teologo Hans-Ruedi Weber a scrivere un libro: Gesù e i bambini. Il volume, nell’originale inglese è stato pubblicato dal Consiglio Mondiale delle Chiese, la massima organizzazione ecumenica. È un accurato studio biblico dei principali passi del Vangelo che parlano dell’atteggiamento di Gesù nei confronti dei bambini, completato da tracce e schemi per il lavoro di gruppo.
L’argomento è affrontato con l’impegno solitamente riservato ai temi centrali del messaggio cristiano. E, di fatto, nei Vangeli i bambini sono una cosa seria. I gesti e le parole di Gesù nei loro confronti sono stati uno dei modi in cui fin dall’inizio è stata annunciata l’irruzione definitiva del Regno di Dio. Di fronte ai bambini la novità cristiana è non soltanto affermata, ma tradotta in atto.
Nel comportamento di Gesù verso i bambini c’è qualcosa di nuovo rispetto al suo tempo. È chiaro che Gesù resta in tutto e per tutto ebreo. Intorno a lui non spira quell’aria di predilezione per il bambino che è tipica dell’ellenismo. Superata la decadenza dell’età classica, che si era spinta fino al costume di esporre i bambini deformi o ritenuti indegni di vivere, anche la civiltà pagana aveva maturato un’attenzione benevola per i bambini. Se ne occupava la poesia; l’arte ci ha lasciato opere di squisita fattura: amorini, bambini su animali, con fiaccole, lire o cornucopie.
Gesù non era mosso dal sentimento come un ellenista. Era un rabbi ebraico. E in quanto rabbi lo troviamo nella scena che costituisce il punto di riferimento obbligato per il nostro argomento: Mc. 10,13-16. Era uso che i bambini domandassero di essere benedetti dai rabbi famosi,
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così come i figli e le figlie andavano dal loro padre per essere benedetti. Anche a questo rabbi straordinario la gente portava i bambini perché li benedicesse e li toccasse. Il potere risanante della mano del profeta di Nazareth doveva essere proverbiale. Non si trattava solo di fede magica. Chi portava i bambini si aspettava che Gesù si comportasse come un rabbi e facesse loro anche una buona predica: che fossero sottomessi ai loro genitori e imparassero diligentemente la Torah, per essere capaci un giorno di fare le opere buone prescritte.
Nell’ambiente in cui viveva Gesù i bambini, pur facendo parte fin dalla nascita della comunità religiosa, avevano un ruolo marginale. Solo l’età adulta, e la perfetta osservanza dei doveri religiosi, faceva di loro dei membri del popolo di Dio a pieno diritto. Il loro stato giuridico-religioso è ritratto dalla triade ricorrente nella letteratura rabbinica: “sordomuti, deficienti, bambini”, tutte persone accumunate dal non avere il pieno possesso delle forze spirituali. Ad essi bisogna aggiungere le donne, anch’esse ritenute di poco valore e segregate.
Gesù, il rabbi che ha scandalizzato i suoi discepoli intrattenendosi con delle donne per strada e permettendo che queste lo seguissero e si occupassero di lui, è innovatore anche nei confronti dei bambini. “Si indigna”, quando i suoi discepoli vogliono allontanarli; e fa la predica. Non però ai bambini, bensì ai discepoli stessi: “A questi bambini e a coloro che sono simili a loro appartiene il Regno di Dio”. I bambini non sono dunque solo dei potenziali buoni ebrei osservanti, una volta che saranno stati dirozzati dall’educazione religiosa. Essi hanno già, prima ancora di poter fare le opere della Torah, un rapporto privilegiato con il regno: bisogna rivolgersi a loro per sapere che cos’è la salvezza escatologica che fa irruzione attraverso l’opera di Gesù. La nuova famiglia di Dio, quella che manifesta il Regno, si costituisce sulla base di un rovesciamento gerarchico. Le categorie più sottovalutate ed emarginate sono messe al centro; attorno ad esse si raccoglie il popolo di Dio.
Per gli esegeti, preoccupati di ricostruire le origini del cristianesimo, affermazioni di questo genere rivestono un’importanza particolare. Sono troppo rivoluzionarie rispetto a quei tempi e alla cultura ebraica antica per provenire dalla letteratura contemporanea a Gesù. Neppure possono essere considerate come creazioni della comunità primitiva, che ha continuato a condividere l’atteggiamento patriarcale dell’ambiente nei confronti delle donne e dei bambini. Gli studiosi si sentono perciò autorizzati a concludere che ci si trova di fronte al nucleo originario del messaggio di Gesù.
Anche i teologi considerano i gesti e le parole di Gesù verso i bambini
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con attenzione. Mettono in evidenza che Gesù non intendeva insegnare qualcosa sui bambini, parlare magari della loro innocenza o di altre qualità infantili in quanto modello da copiare per avere una vita virtuosa. Egli è in tutto e per tutto predicatore del Regno, preoccupato di rivelare la natura di Dio. Il profeta che mette il bambino al centro dell’economia della salvezza vuol sottolineare che il Regno giunge tra gli uomini in modo totalmente gratuito, al di là di ogni calcolo umano. Nelle sue parole è implicita una critica della concezione rabbinica della Torah e la “buona notizia” (Evangelo, appunto) di un Dio che fa grazia in forza della sua fedeltà all’alleanza. Il Regno non è opera di conquista umana: lo si riceve come i bambini che vengono accolti e presi in braccio dal re messianico. Sono azioni e parole profetiche che sovvertono le classificazioni tanto degli ebrei quanto degli ellenisti.
Il lavoro di riflessione della comunità primitiva, che a noi è possibile ritrovare nella teologia dei singoli evangelisti, ha colto il messaggio contenuto nella predicazione del Regno. Più che l’atteggiamento di Gesù nei confronti dei piccoli di età, l’interesse è andato al significato di metafora che aveva il suo comportamento. I “piccoli” sono diventati nel linguaggio dei Vangeli un simbolo del vero discepolo, che riceve il regno come un dono gratuito; i bambini posti nel mezzo (cfr. Mt. 18,1-5; Mc. 9,33-37; Lc. 9,46-48), una parabola della Chiesa. Anche in seguito, la comunità cristiana sembra aver privilegiato l’approfondimento teologico, piuttosto che la revisione del comportamento quotidiano nei confronti dei bambini. Paolo, ad esempio, ha scritto profonde meditazioni sulla nostra adozione come figli di Dio; ma quando si trattava di ragazzi e ragazze reali, il suo atteggiamento è rimasto esattamente quello degli ebrei del suo tempo.
Non dovremmo forse rammaricarci che i cristiani, pur possedendo nelle parole e nei gesti di Gesù la prima “Carta internazionale dei diritti del bambino”, abbiano poi trascurato di derivarne delle conseguenze pratiche? Non si tratta di ricercare oggi nei Vangeli ricette di pedagogia progressista o nuovi modelli di vita familiare e sociale. Ai Vangeli domandiamo che rendano la testimonianza viva del Gesù vivo, che ha vissuto la breve parabola della sua vita di uomo nella dimensione nascosta del Regno di Dio. Di questo Regno i bambini continuano a restare una predica vivente: “In verità vi dico chi non riceve il Regno di Dio come un bambino non vi entrerà” (Mc. 10,15). Ma il comportamento di Gesù è li ad insegnare ai credenti che il Regno, futuro nell’attesa, è tanto presente che può trasformare già ora la vita degli uomini. Anche ispirandoli a inventare nuovi rapporti tra adulti e bambini.
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Jean G. Lemaire, Vita e morte della coppia, Cittadella, Assisi 1981, pp. 502.
Un libro così voluminoso per parlare della coppia? Qualcuno lo riterrà uno spreco di carta e di tempo (intendo coloro che per la coppia si contenterebbero di una lapide: “requiescat in pace”...). Non è dello stesso avviso il dott. Lemaire. Psichiatra, psicoanalista, professore universitario a Parigi, ha alle spalle una lunga pratica di aiuto alle coppie in difficoltà. Le sue pubblicazioni sui conflitti coniugali e sulle terapie della coppia costituiscono da anni un punto di riferimento di grande autorevolezza. Questo suo ultimo lavoro fornisce quasi una summa di conoscenze sulla coppia, in cui confluiscono l’esperienza clinica e il dibattito scientifico. L’accenno all’esperienza “clinica” dell’autore non deve far concludere frettolosamente che le sue analisi riguardino le coppie dei pazzi. Solo una piccola parte dei suoi pazienti è affetta da turbe psichiatriche tradizionali; i più sono... “normalmente pazzi”! Chi ricorre allo psicoterapeuta di coppia più che la difficoltà patologiche personali è afflitto da difficoltà relazionali con il proprio partner. Sono processi che, sia pure in maniera diversa, sono vissuti dalla totalità degli individui nel corso della vita amorosa. Lemaire si preoccupa di mettere in evidenza un certo numero di fenomeni presenti nel funzionamento di tutte le coppie umane, che abbiano o no difficoltà particolari. Le coppie che sono state spinte dalla sofferenza a consultarlo, e delle quali riporta la storia in una serie di medaglioni, hanno semmai quel tanto di esagerazione che serve a scopi illustrativi.
Psicoanalista, Lemaire resta fedele al suo approccio dei problemi di coppia, che lo porta a privilegiare l’influenza delle dinamiche intrapsichiche inconsce. Il procedimento attraverso cui lo pscoanalista apre nell’opaca realtà psichica lo spiraglio che permette all’inconscio di lasciarsi scorgere, senza tuttavia mai consegnarsi, ha il fascino della creazione artistica. Si arriva a scoprire, per esempio, che la realtà profonda di certi matrimoni scarsamente basati sui sentimenti è la paura di essere divorati dall’amore; e che è una strategia difensiva quella che porta a scegliere un partner che ha la stessa paura inconscia di un amore intenso. Oppure che alcune persone esprimono una limitata capacità di vivere una relazione di carattere totale, e quindi parcellizzano le loro scelte o le limitano nel tempo, perché si difendono dai rischi depressivi. Per quanto possa essere seducente questa esplorazione della realtà psichica profonda
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che si nasconde sotto le apparenze — e spesso sotto l’apparenza del contrario —, l’approccio psicoanalitico resta uno tra i tanti, non esaurisce la comprensione dei fenomeni studiati e deve essere integrato con altri. Lemaire non assolutizza la psicoanalisi, ma cerca di complementarla con altri apporti di comprensione. Nella prima parte dell’opera, dedicata alla metodologia, illustra le tre prospettive da cui si può esaminare la coppia ― quella intrapsichica, quella psicologica e quella economico-culturale ― senza far torto a nessuna.
Spesso si rimprovera agli psicologi di non situare sufficientemente le difficoltà delle persone e delle coppie nell’ambiente. Ciò che succede all’interno delle coppie è rivelatore di numerose altre situazioni, anche collettive, che oggi si vivono. I cambiamenti della società, d’altra parte, influenzano in modo determinante il comportamento della coppia. La quarta parte del volume, dedicata al rapporto tra coppia e società, illustra questa articolazione con una chiara conoscenza dei problemi sociologici che sorprende da parte di uno psicoanalista. Il quale però non soffre di nessuna confusione di identità, e continua a fare il suo mestiere di esploratore dell’inconscio. La parte preponderante dell’opera si propone di studiare “l’inconscio e la strutturazione della coppia”. L’influenza inconscia è studiata nei due momenti cruciali della vita della coppia: la scelta del partner e la crisi. Nella scelta Lemaire cerca di far emergere, oltre ai bisogni per i quali i partners si attirano e strutturano la coppia, anche la distribuzione dei ruoli rispettivi. Adotta cioè l’analisi “sistemica” della coppia. Questo punto di vista costituisce un momento innovativo rispetto alla psicoanalisi classica. Mentre Freud, infatti, ha insistito sui processi ripetitivi che influenzano la scelta dell’oggetto, la prospettiva sistemica sottolinea dialetticamente il carattere innovatore e creativo del processo amoroso. Ne deriva una visione positiva anche della crisi. La crisi è un processo dinamico necessario per il funzionamento della coppia, la quale deve passare costantemente attraverso un flusso di strutturazione - destrutturazione - ristrutturazione.
In clima di crisi della coppia, mentre si diffonde la negazione del suo valore per l’autorealizzazione della persona, Lemaire propende per i toni moderati: “Coloro che spingono all’estremo la contestazione di qualunque progetto di vita a due, non sanno spesso quello che perdono rinunciandovi, per non parlare di altre forme di alienazione alle quali il loro rifiuto le condanna”. Lemaire non mitizza la coppia, né l’assume a valore supremo dell'esperienza umana. È cosciente che la vita di coppia
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svolge una naturale funzione terapeutica nei confronti degli aspetti più immaturi o più arcaici della personalità di ognuno. Lo psicoterapeuta ha lo scopo di facilitare questo processo, quando presenti delle difficoltà a cui i partners si sentano inadeguati. Ma sa che la coppia non è tutto. Anzi, la relativizza con un dubbio: gli individui più solidi, più maturi, più autonomi, hanno realmente bisogno della coppia? È un dubbio fecondo, che apre il discorso sulle modalità di esistenza umana prima, dopo o senza la coppia.
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R. Jacoby, L’amnesia sociale, Comunità, Milano 1978, pp. 228.
Conosciamo tutti, per esperienza personale, quella forma di “psico-patologia della vita quotidiana” che è l’amnesia. Anche dopo che Freud ci ha insegnato a riconoscervi uno dei tiri birboni che ci gioca l’inconscio, le amnesie non ci inquietano oltre misura. Esiste invece una forma grave di amnesia, cerca di allarmarci Russel Jacoby. Non colpisce l’individuo, ma le scienze sociali. È una malattia che le fa diventare astoriche, in quanto la capacità e anche il desiderio di ricordare si atrofizzano. Responsabile di questo tipo di amnesia non è l’inconscio, bensì la “società” stessa (mettiamo tra virgolette questa entità perché risalti meglio il parallelismo con la categoria indefinibile dell’inconscio). Risultato: l’obsolescenza pianificata del pensiero critico. La critica viene stemperata, a lungo andare rimossa. Chi avesse dubbi sulla dinamica di questo processo, argomenta Jacoby, non ha che da guardare che cosa è capitato alla psicoanalisi. Alla psicologia è attribuito un valore esemplificativo. Jacoby è di professione storico; il centro dei suoi interessi è costituito dalla dialettica tra individuo e società, così come è affrontata dalle principali correnti del pensiero contemporaneo. Il destino della psicologia del profondo acquista per lo storico una funzione pragmatica. Il libro si concentra perciò quasi esclusivamente su questo fenomeno culturale; non trascura però anche la sorte della ragione critica nei movimenti della sinistra politica (cfr. il cap. 5, dedicato alla “politica delle soggettività”). Fin dalle prime pagine Jacoby dispiega la bandiera sotto cui milita: è quella della “teoria critica”, filiazione della scuola sociologica di Francoforte. Il maestro, sulla cui parola è disposto a giurare, Herbert Marcuse; sullo sfondo, l’ombra imponente di T.W. Adorno.
La teoria critica vuol essere la teoria dell’individuo in eclissi, nel periodo della disintegrazione dell’io sotto l’urto di una società massificata. Nella transizione al capitalismo monopolistico, l’individuo ha subito un colpo mortale: “La categoria dell’individuo non è stata in grado di resistere all’industria dei giganti” (Horkheimer). Il compito culturale che la teoria critica si è proposto è la conservazione della dialettica tra individuo e società, evitando due possibili riduzionismi: lo psicologismo e il sociologismo. Il pensiero borghese e liberale ha inclinato verso lo psicologismo — cioè la riduzione di concetti sociali a concetti individuali e psicologici —, mentre la tendenza del pensiero marxista è stata quella opposta: la riduzione dei concetti individuali a una nozione impoverita
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della storia e della società. La coscienza resta per la teoria critica un fenomeno psicologico e sociale. Ma un fenomeno contorto, colpito dall’alienazione. I teorici critici sono rimasti folgorati dalle esplorazioni sotterranee di Freud, che mettevano in dubbio l’autonomia del soggetto. È la rilettura di Freud fatta da Marcuse, principalmente in Eros e civiltà. Freud è rivoluzionario proprio perché mina alle basi una delle fortificazioni più solide della civiltà moderna: l’idea dell’individuo autonomo. È il fondatore della critica dell’individuo, in quanto mostra che la società è presente nella cittadella ritenuta più inaccessibile. L’analisi del profondo rivela un individuo deinvidualizzato dalla società, storpiato e mutilato dalle costrizioni della civiltà, riempito di strati sedimentari di storia. La teoria critica rivaluta proprio quel “biologismo” freudiano, nutrito di materialismo ottocentesco, caduto così in discredito. Ricercando la genesi e la struttura della psiche individuale, Freud ne aveva smascherato il sostrato sessuale e biologico, e al tempo stesso il potere plasmante della società dentro e sull’individuo. La psicoanalisi ha dunque scoperto la società nella monade individuale, ponendosi così come la critica più implacabile all'individualismo borghese. Il “materialismo” di Freud toglie la scorza delle “norme” e dei “valori” sociali per trovare la dinamica sociale interna. È proprio questa la canzone che la teoria critica, che scandaglia le profondità psichiche in cerca di suoni di tristezza e di rivolta, ama sentire. Aderisce strettamente ai concetti radicali della psicoanalisi, che suffragano il rifiuto della civiltà contemporanea e rafforzano la resistenza ai suoi allettamenti. La storia della psicoanalisi è invece la storia del dimenticare; la contraddizione che Freud aveva svelato è stata ricoperta e la psicoanalisi ricondotta all’ovile. Il pensiero critico è stato rimosso (ritroviamo a questo punto la categoria di “amnesia sociale”) e la psicoanalisi ridotta a strumento di conformismo sociale. Jacoby illustra le sue tesi seguendo gli sviluppi teorici e terapeutici che passano per il revisionismo post- e neo-freudiano, a cominciare da Adler, il primo “dissidente”, fino alla stessa “psicologia di sinistra” di Laing e Cooper. Il principale bersaglio della sua critica è la corrente nota come “psicologia dell’io”, rappresentata autorevolmente da Hartman. Quando si è cominciato a valutare positivamente la sfera dell’io libera da conflitti, si è stabilito il presupposto per riadattare l’individuo alla società esistente. Con l’io il soggetto si riconosce un’individualità coerente e autonoma, capace di dominare i conflitti interni e di adattarsi alle esigenze della realtà esterna. La psicoterapia diventa perciò, di fatto, lo strumento per integrarsi
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nella società. La demistificazione operata da Freud viene riassorbita completamente: i conflitti sociali sono interpretati come se fossero psicologici; la disumanità — con le sue basi oggettive e sociali — viene umanizzata; la felicità “qui e ora”, concessa da una società “ a una dimensione” perché dopo tutto non scalza l’ordine esistente, sostituisce ogni progetto di liberazione. A questi progetti, anche se perseguiti in nome dell’umanesimo, del personalismo, dell’autorealizzazione, la teoria critica non può assolutamente aderire: non si possono curare i mali dell’individuo ignorando quelli della società. “Una psicologia critica non deve soccombere; non deve dimenticare la follia di tutto e sventolare ideologicamente la virtù di un’esistenza umana che oggi è inumana. Deve aiutare le vittime — i perduti, i battuti, quelli senza speranze — senza glorificarle”. Questa annotazione, carica di phatos, con cui Jacoby conclude il suo scritto, caratterizza il genere letterario: non un’opera serena da critico della cultura, bensì un intervento militante, un pamphlet contro gli operatori dell’igiene mentale,accusati di aver sostituito la terapia alla rivoluzione. Come ogni pamphlet eccessivo, non calibrato, forse ingiusto; ma molto efficace nel mettere a bersaglio frecce spietate contro il trionfalismo psicoterapeutico.
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L. Boggio Gilot, Uomo moderno e nevrosi, Paoline, Roma 1980, pp. 214.
Si sente parlare sempre più frequentemente della psicologia umanistica. Non è semplice definirla, perché non si tratta di una scuola con un suo programma, con maestri e discepoli riconosciuti. Si preferisce talvolta chiamarla “terza via”, individuandola così in quanto si differenzia dalle altre due che hanno già il crisma dell’approvazione accademica e del successo pubblico: la psicoanalisi e il comportamentismo. La psicologia umanistica si distanzia da questi due sistemi psicologici, con le loro rispettive applicazioni terapeutiche, perché non accetta la riduzione della problematica umana rispettivamente all’analisi dell’aspetto pulsionale inconscio e alla manipolazione del comportamento. Nell’uomo c’è dell’altro, e di maggior valore. La psicologia umanistica non ha elaborato un’antropologia unitaria. Rimane una “via”, che diversi psicologi e psicoterapeuti percorrono indipendentemente, senza obblighi reciproci di fedeltà a un’ortodossia. Tuttavia è possibile individuare alcuni tratti costanti, che conferiscono una certa omogeneità al movimento e lo distinguono in particolare dalla psicoanalisi.
Per sottolineare la differenza ricorriamo a due schemi, uno spaziale e uno temporale. Secondo il primo, la differenza che intercorre è quella che passa tra una “psicologia del profondo” e una “psicologia dell’elevatezza”. Lo schema è già presente nella nota lettera di Freud a Binswanger, uno dei principali fautori di una psicoterapia esistenziale. Il fondatore della psicoanalisi ammetteva di “essersi sempre confinato nel pianterreno e nella cantina dell’edificio”, ignorando deliberatamente i piani nobili dove dimorano ospiti illustri come la religione, l’arte ecc. La stessa immagine è usata da Maslow quando afferma che la nevrosi di oggi “viene dalle vette e non dalle valli dell’uomo”. La psicologia umanistica è unanime nel privilegiare questa dimensione spirituale e conoscitiva.
Un secondo schema è quello temporale. La psicologia del profondo è nata dalla scoperta del peso che ha il passato, specialmente quando è rimosso, nel determinare la patologia che si esprime nel presente. L’obiettivo della psicoanalisi è di insegnare a conoscere e integrare il passato nella coscienza. La psicologia umanistica considera invece anche il futuro. La psicoterapia tende a sbloccare una situazione di stasi che congela le potenzialità dell’individuo. Consiste nel rimettere in movimento il nostro divenire, nell’accettare di crescere. La terapia umanistica si
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propone non solo di fare la radiografia de] profondo, ma anche di far prendere coscienza del proprio bisogno di senso e di orientamento dell’esistenza.
Un frutto recente della psicologia umanistica italiana è il libro di Laura Boggio Gilot. Pagato il debito tributo a Freud e all’inconscio, il discorso è subito pilotato verso l’alto. Lo guida una concezione dell’uomo in cui, senza umiliare la parte pulsionale, viene però attribuito il giusto rilievo alla coscienza e allo spirito.
Se il passo dall’inconscio alla coscienza era già stato fatto da alcune correnti psicoanalitiche che si richiamano a una “psicologia dell’io” (Hartmann, Rapaport), è nuova l’accentuazione del supercosciente. Nell’autrice si avverte l’influsso dell’antica saggezza orientale, cui dobbiamo nel campo dello spirito scoperte per nulla inferiori a quelle che l’Occidente ha fatto nella natura. È cultrice yoga e ne ha integrato le tecniche nella pratica psicoterapeutica. Il suo pensiero si ispira a psicologi di spicco nell’area della psicologia umanistica: V. Frankl, E. Fromm, A. Maslow; ma soprattutto a Roberto Assagioli. Più noto all’estero che in Italia, è fondatore della “psicosintesi”. Nel nome è iscritto il programma: non vuol limitarsi all’analisi, che tiene conto solo del passato e del presente, nel loro attuale sviluppo, bensì procedere a una sintesi, che favorisca a promuova la realizzazione totale della persona. Costantemente viene ripetuto che l’uomo è un essere bio-psico-spirituale, e che necessariamente soffre di squilibrio se non sviluppa tutte le sue parti.
Il felice risultato di questo approccio si può vedere nelle considerazioni che l’autrice sviluppa nella prima parte del volume, in cui analizza la patologia nevrotica dell’uomo contemporaneo. A differenza della psicoanalisi, che fa risalire l’angoscia unicamente alla repressione della vita istintuale, il malessere della nostra cultura viene riportato alla perdita di significato della vita, all’appiattimento della coscienza e al decurtamento dello spirito. All’angoscia istintuale, legata alla repressione degli istinti primari, vengono affiancate quella ontologica e quella esistenziale. Il nevrotico soffre perché la sua personalità è carente, in quanto le sue potenzialità psicologiche ed umane non si sono espresse. La nostra cultura non favorisce soprattutto lo sviluppo della parte supercosciente, con la sua dotazione di creatività, intuizione, senso etico ed estetico, empatia, amore. Nel libro questo malessere viene inseguito in tutte le sue pieghe: dall’esplosione dell’aggressività alle crisi dell’amore, dalla patologia della volontà al diffondersi delle malattie psicosomatiche. La risposta a questi
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mali è costantemente indicata in un’unica direzione: il recupero dell’essere umano nella sua integralità.
La novità si fa sentire anche nella seconda parte, dedicata alla psicoterapia. La psicosintesi si propone primariamente un compito terapeutico, sempre però tenendo presenti tutti i livelli di espressione dell’uomo: quello emotivo e mentale, quello istintuale — determinato dalle funzioni dell’io —, e quello supercosciente, un’istanza che sottrae l’uomo alla chiusura immanentistica. La valorizzazione positiva dell’uomo determina anche la modalità del rapporto tra terapeuta e paziente, in quanto a quest’ultimo è attribuito un ruolo attivo. “Autoanalisi e autopsicoterapia”, ha specificato L. Boggio Gilot fin dal sottotitolo. A chi si incammina verso la conoscenza della propria realtà integrale si domanda di diventare il gestore della propria storia. Al terapeuta spetta una funzione di guida, nell’aiutarlo a risalire la scala gerarchica dei bisogni e dei valori. Perché i valori, come ha teorizzato Maslow, sono coerenti al grado di sviluppo umano: mancano nell’uomo psichicamente malato e si sviluppano nell’uomo sano. La psicoterapia così concepita dà concretezza all’abbagliante definizione del mondo data dal poeta Keats: “La valle del Fare Anima”.
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M.E. Hunt e R. Gibellini (a cura), La sfida del femminismo alla teologia, Queriniana, Brescia 1979.
Nel concerto di consensi che accompagnano i viaggi di Giovanni Paolo II le uniche voci di dissenso sembrano essere voci di donne. La scena si è ripetuta già due volte a conclusione della visita in U.S.A. e al termine del viaggio in Germania: una donna si leva a parlare ed esprime, senza addolcimenti diplomatici, il malessere femminile nella Chiesa, sollevando questioni scomode che riguardano la dottrina, la morale, la disciplina. Sortite stravaganti, da mettere nel conto dell’incontrollata emotività femminile? Non si può sostenere in buona fede questa interpretazione, per poco che ci sia presi la pena di raccogliere informazioni sulla Chiesa al femminile. Queste voci non sono isolate. Le prese di parola pubbliche rappresentano solo la parte emergente di un vasto movimento di riflessione teologica che vede le donne come protagoniste.
Chi ne volesse avere una visione d’insieme, non ha che da prendere in mano il volume edito della Queriniana: La sfida del femminismo alla teologia, a cura di Mary E. Hunt e Rosino Gibellini. Come in altri volumi analoghi, ugualmente editi nel Giornale di Teologia, si offre al lettore una presa diretta con movimenti di pensiero in germe o appena sbocciati. Dopo la teologia latino-americana e la teologia negra, è la volta della teologia fatta dalle donne, sulla scia del femminismo. Le autrici sono donne, e sono teologhe. Rivendicano per se stesse un’attendibilità professionale analoga a quella dei loro colleghi maschi, quando si qualificano “teologi”.
Il terreno di coltura di questo nuovo genere di teologi non è quello europeo, dove ancora la teologia è saldamente in mano maschile. Tanto meno l’Italia. In alcuni articoli circa la condizione in cui viene a trovarsi la donna che intraprenda studi teologici, apparsi nella rivista Testimonianze, Marinella Perroni faceva notare che l’abituale diffidenza verso le donne che predomina negli ambienti ecclesiali raggiunge forme esasperate quando queste pretendono di avere voce in teologia. L’unica via che rimane loro è quella di lasciarsi assimilare dai moduli maschili di pensiero, in linea con il passo che conclude il Vangelo apocrifo di Tommaso. In esso si fa affermare a Gesù, in risposta all’esclamazione di Pietro secondo cui Maria, in quanto donna, non è degna della vita: “Ecco, io la trarrò a me in modo da fare anche di lei un maschio, affinché anche lei possa diventare uno spirito vivo simile a voi maschi. Perché ogni donna che diventerà maschio entrerà nel Regno dei cieli”.
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Negli Stati Uniti alle donne teologhe è invece riuscito di prendere la parola, anche a livello accademico, pur restando donne. Tutte le autrici dei saggi raccolti in questo volume sono americane, così come americane sono le esponenti della teologia femminista più influenti e citate: Valerie Saiving, Mary Daly, Rosemary R. Ruether. Dal femminismo hanno preso gli strumenti per analizzare la condizione della donna, introducendo però nell’analisi la dimensione religiosa, trascurata dalle leaders del pensiero femminista.
La sfida del femminismo alla teologia si rovescia così in una sfida alle donne che portano nella loro lotta per la promozione della condizione femminile le loro aspirazioni spirituali: potrà la spiritualità — abitualmente usata come strumento per la soggezione della donna nel contesto della mentalità patriarcale — diventare un luogo di promozione umana? Molte femministe, disperando nell’impresa, hanno preferito rinunciare alla religiosità vissuta istituzionalmente, accusandola di essere troppo inficiata di ambiguità: preferiscono uscire dalle Chiese, per non rafforzare il potere patriarcale. Altre, come la citatissima Mary Daly, invitano le donne a vivere ai margini delle istituzioni ecclesiali, creando una nuova figura di cristianesimo di frontiera (la parola d’ordine alle altre donne è di “tenersi sulla linea di confine”).
Le autrici dei saggi qui raccolti appartengono a un’area più moderata. Non se ne vanno dalla Chiesa sbattendo la porta, né si mettono deliberatamente da parte per provocare e stimolare. Restando nelle Chiese hanno talvolta, come è il caso di alcune teologhe presenti nell’antologia, incarichi ufficiali di insegnamento accademico: senza che ciò comprometta l’indipendenza e l’originalità del loro pensiero teologico. Basta, per convincersene, percorrere l’elenco dei temi che emergono nei diversi saggi: dal linguaggio monosessuale (maschile) su Dio e le immagini della Dea, alla critica dell'antifemminismo cristiano; dal rapporto tra teologia femminista e teologia della liberazione, al problema centrale della cristologia (“Può un Salvatore maschile aiutare le donne?”).
Sono assenti certi temi tipici, che per alcuni servono a identificare la teologia femminista, come la discussione sull’ordinazione delle donne e sulla funzione della mariologia. E questo torna a vantaggio del profilo metodologico di questa teologia. La quale non vuol semplicemente aprire un capitolo nuovo, in cui far confluire le omissioni della teologia tradizionale, bensì trasformare la disciplina stessa. In ciò la teologia femminista è simile alle altre sfide più significative della teologia contemporanea;
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dove il punto di vista proposto — volta a volta: la secolarizzazione, la speranza, la liberazione — intendeva portare a un ripensamento di tutto il messaggio cristiano.
Il punto di vista femminile è quello della “parzialità”. Una parzialità riconosciuta e accettata, non contrabbandata come quella proposta dalla teologia imbevuta di mentalità patriarcale. Le teologhe l’accusano di diffondere una falsa genericità, la quale non è altro che un’estrapolazione dell'esperienza maschile, presentata come universalmente vera. In altri termini: quello che la teologia dice dell’“uomo”, intendendo l’essere umano in generale, in realtà vale per il maschio. L’esempio che ricorre più spesso negli scritti delle teologhe femministe è quello del peccato. Quando la teologia parla del peccato che caratterizza la condizione umana, generalizza i peccati di orgoglio, arroganza e abuso di potere, che sono propri dell’esperienza storica dei maschi. Non si può dire automaticamente lo stesso delle donne: i loro peccati tipici sono invece la banalità, la dispersività, la tendenza a lasciarsi distogliere dallo scopo, la dipendenza da altri per una definizione di se stessa.
La teologia femminista non contesta la validità della teologizzazione maschile, in quanto riflessione sulla propria esperienza, ma solo la pretesa di universalizzare un’esperienza limitata. La teologia femminista sorge all’ombra del sospetto: sospetto che le affermazioni teologiche tradizionali relative all’uomo valgono solo per “lui”, e non anche per “lei”. Ora è tempo che l’altra metà dell’umanità parli a partire dalla propria esperienza, rompendo il monopolio che finora ha tenuto il punto di vista maschile nella teologia cristiana occidentale.
Emerge così la centralità della categoria di esperienza, affrontata dal saggio di Judith Plaskow, Teologia maschile e esperienza femminile. Spingendo a fondo questo principio, vacilla anche la possibilità di parlare a partire da un’esperienza femminile generica, perché non esiste un modo monolitico di essere donna. Le teologhe che parlano e che scrivono sono coscienti di riflettere un’esperienza limitata: quella di donne bianche appartenenti al “primo mondo”, inserite nel contesto accademico. Non mistificano però la parzialità della loro esperienza, bensì l’assumono criticamente e stimolano l’espressione di tutte le esperienze particolari della salvezza.
Assumere il punto di vista della particolarità è una modalità che sconvolge il modo tradizionale di far teologia. Navighiamo ormai lontani dagli ancoraggi securizzati dei sistemi verso l’approdo del contingente.
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Sullo sfondo emerge l’esigenza di una duplice conversione che modifica la rappresentazione, anche teologica, che ci facciamo della natura umana: le donne sono invitate a diventare attive senza soccombere a tentazioni di dominio; gli uomini a diventare ricettivi senza per questo privarsi di ogni potere. Quando soggetto della teologia diventerà la personalità integrata, dove gli opposti sono stati riconciliati, emergerà la creazione nuova. Vale a dire, la creazione quale è stata voluta “dal principio”.
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Ph. Ariès, L’uomo e la morte dal Medioevo ad oggi, Laterza, Bari 1979, pp. 771.
Il recensore si sente intimidito dal compito di presentare l’opera di Ariès. Forse gli si trasmette qualcosa della trepidazione che ha trattenuto per diversi anni Io stesso storico francese dall’intraprendere la redazione di questo libro monumentale. Nella prefazione a un suo volume di più modeste dimensioni, sempre sullo stesso argomento, apparso nel 1975, Ariès tracciava una mappa precisa degli studi storici sulla morte che veniva conducendo da quindici anni; la presentava come la “storia di un libro che non volge alla fine”. Ora il libro è finito. Ci accingiamo alla lettura col fiato sospeso: riuscirà il nostro eroe a portare a termine un’impresa così rischiosa? Lo deponiamo con un respiro di sollievo: si, c’è riuscito! Teniamo trà le mani con riconoscenza un’opera storiografica di grande valore, che fa luce su un millennio di sviluppo dello spirito occidentale. L’ambito dell’indagine storica era espresso con precisione quasi pedantesca dal titolo del libro con cui Ariès ha presentato nel '15 le conclusioni provvisorie delle sue ricerche: Essais sur l’histoire de la mort en Occident du moyen àge à nos jours (il volume è ora disponibile anche in traduzione italiana: Storia della morte in Occidente, Mondadori 1978, pp. 255). La determinazione del periodo storico preso in esame è passata ora nel titolo italiano della sua summa. Il titolo originale francese (L’homme devant la mort) indica l’interesse specifico che guida Ariès nel tracciare la storia della morte in Occidente: al di sotto delle idee sulla morte e delle istituzioni funebri, egli cerca “l’atteggiamento” dell’uomo di fronte alla morte. La sua non è dunque la storia descrittiva degli avvenimenti, e neppure quella unicamente rivolta alle strutture economico-sociali che si celano dietro le sovrastrutture ideologiche. L’indirizzo storiografico a cui si può ricondurre l’opera di Ariès è piuttosto quella “storia delle mentalità” che ha avuto in Huizinga il suo maestro indiscusso. Essa viene dunque ad essere qualcosa come una “storia del sentimento della morte” (se vogliamo riferirci al celebre progetto di Henry Bremond di scrivere la “storia del sentimento religioso”).
Il sentimento della morte nel millennio preso in considerazione è presente in tutti i prodotti della cultura; eppure quale lavoro per lo storico rendere parlanti le vestigia del passato, cercare al di sotto delle apparenze le motivazioni profonde! Lo storico della mentalità fa ricorso a fonti di ogni tipo. Oltre a quelle “nobile”, da sempre usate dalla storiografia
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classica, non disdegna le meno appariscenti. Le fonti letterarie, iconografiche e liturgiche sono d’obbligo nello studio delle reazioni di fronte alla morte. Ma se si vuol toccare il sentimento che pervade una società, circolando nell’aria come un’evidenza da nessuno rimessa in discussione, oltre alla grande arte funeraria bisogna accostarsi anche alle tombe più modeste e artigianali; oltre alle liturgie gestite dai “clerici”, è opportuno tener presenti anche le devozioni private dei fedeli. Un corpus documentario molto istruttivo per lo storico delle mentalità sono i testamenti. Ariès vi ha dedicato un lungo lavoro (per tre anni ha scartabellato gli archivi notarili parigini;) ne ha ricavato una messe di informazioni precise sulle trasformazioni, di epoca in epoca, della mentalità dei testatori.
Per far parlare la massa compatta e ancora enigmatica dei documenti era necessario interrogarli con una determinata ipotesi. Quella che ha guidato il lavoro di Ariès è l’esistenza di una correlazione tra l’atteggiamento davanti alla morte e le variazioni della coscienza di sé e dell’altro, il senso del destino individuale e del grande destino collettivo. È questa correlazione che ha fornito ai dati raccolti una forma e un senso, una continuità e una logica. Nel libretto che contiene i saggi prodotti lungo l’itinerario di ricerca che va dal 1966 al 1975 il legame tra il sentimento della morte e il sentimento del proprio io e dell’altro è l’unico sistema di spiegazione dei dati (la morte si configura così come “morte addomesticata”, “morte di sé”, “morte di te”, e “morte proibita”). Al termine della redazione della sua opera sistematica Ariès dichiara che i dati raccolti indicano la presenza anche di altre correlazioni. L’atteggiamento nei confronti della morte risulta dipendente anche dalla credenza nella sopravvivenza individuale e nell’esistenza del male. Il viaggio dello storico attraverso l’epoca medievale e moderna percorre così paesaggi profondamente diversi. Non esiste un unico atteggiamento di fronte alla morte — il nostro —, come un’ingenua miopia storica vorrebbe farci credere; abbiamo piuttosto diversi modelli, irriducibili l’uno all’altro. Ariès li individua e li illustra successivamente. Il primo l’ha chiamato la morte addomesticata. Questo atteggiamento globale nei confronti della morte è il più antico in Occidente, e anche il più costante: ne possiamo trovare tracce da Omero a Tolstoi. Per più di due millenni ha resistito alle spinte evolutive di un mondo soggetto al cambiamento. Non è escluso che qualcuno muoia anche oggi con una “morte patriarcale”; ma per lo più l’atteggiamento antico, in cui la morte è insieme prossima, familiare e insensibile,
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si oppone al nostro: a noi la morte fa così paura che non osiamo più dirne il nome. Il nostro modo contemporaneo di non pensare alla morte è del tutto diverso da quello tradizionale: là la morte, addomesticata, era un elemento dello scenario familiare (“tutti moriamo”), e perciò accettata come cosa ovvia; presso di noi il silenzio della morte è il risultato di una repressione legata alla paura. Sottratta al quadro culturale che la rendeva domestica e innocua, la morte è diventata selvaggia.
Si è passati dalla situazione di origine al secondo modello, la morte di sé, quando il senso del destino si è spostato dalla comunità all’individuo. Il rapporto tradizionale tra sé e gli altri si è rovesciato: il senso della propria identità ha prevalso sulla sottomissione al destino collettivo. È il primo rilevante segno di modernità, che Ariès situa in quel periodo storico che da Huizinga in poi si è convenuto chiamare “autunno del Medio Evo”. Guidandoci attraverso il museo immaginario delle tombe e sepolture — più eloquente di una biblioteca di spiritualità per quanto riguarda i sentimenti collettivi circa la morte e l’aldilà — il nostro storico ha cura di farci notare il passaggio dall’anonimato delle tombe ai monumenti commemorativi che intendono perpetuare il ricordo della persona.
Questo modello della “morte di sé” è durato nella realtà dei costumi fino al XVIII secolo. Tuttavia già a partire dal XVI secolo si preparano delle profonde modifiche dell’atteggiamento globale, rintracciabili in un primo momento solo a livello dell’immaginario. La morte ha cominciato ad affascinare, a provocare le stesse curiosità strane, le stesse immaginazioni perverse dell’erotismo. Per spiegare questo strano fenomeno Ariès fa ricorso alle teorie di G. Bataille, secondo il quale l’amore e la morte costituiscono i due punti deboli della difesa che l’uomo ha innalzato contro la natura. Da queste due brecce nel bastione trapela la violenza selvaggia, che al di là di una certa soglia unisce in una sola sensazione la violenza e il piacere. In questa epoca appunto, che si estende grosso modo tra il Rinascimento e l’illuminismo, si osservano i primi segni di crisi delle tradizionali difese culturali contro la natura. Attorno alla morte si accumulano i fenomeni più paradossali: dall’amore per le dissezioni alla necrofilia, dall’accostamento di Eros e Thanatos nell’età barocca ai cimiteri di mummie. Allo stesso periodo risale anche la prima forma della grande paura della morte, che allora si esprimeva nel terrore di essere sepolto vivo. La morte, considerata allo stesso titolo della sessualità come una rottura insieme affascinante e terribile della familiarità quotidiana, ispira desiderio e paura: ambedue emozioni da bordo dell’abisso.
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L’epoca moderna ha visto diverse trasformazioni, più o meno sotterranee, del senso della morte. Ma solo quando si afferma la morte romantica possiamo dire che il sentimento millenario della morte entra in un’epoca che possiamo sentire come spiritualmente nostra. Chiamandola la morte di te, Ariès ha voluto sottolineare l’elemento determinante del cambiamento sopravvenuto nel XIX secolo: il senso dell’altro occupa il primo piano. L’affettività, che prima era diffusa, si è ormai concentrata su alcuni rari esseri, dai quali non si sopporta più di separarsi. “È una rivoluzione del sentimento, tanto importante per la storia generale quanto quella delle idee o della politica, dell’industria o delle condizioni socio-economiche, della demografia: tutte rivoluzioni che debbono avere tra di loro rapporti più profondi di una semplice correlazione cronologica”. La paura della morte, in germe nei fantasmi dei secoli precedenti, fu deviata da sé verso l’altro, l’essere amato. L’epoca romantica è stata, al tempo stesso, l’epoca delle “belle morti”. La morte non è più familiare e addomesticata come nelle società tradizionali, ma non ha più neppure l’aspetto selvaggio della trasgressione che affascinava-spaventava i figli spirituali del marchese de Sade. È diventata patetica e bella. Il patetico smisurato del romanticismo è canalizzato nel culto dei morti. Ariès dimostra inequivocabilmente che il carattere esaltato e commovente del culto dei morti, con l’annessa visita al cimitero, non è di origine cristiana. Deriva dal positivismo; i cattolici vi hanno in seguito aderito e l’hanno assimilato così perfettamente da crederlo un valore proprio.
L’ultimo modello descritto è presentato come la morte rovesciata. Lo conosciamo bene, perché è a noi contemporaneo. È una rivoluzione brutale delle idee e dei sentimenti tradizionali: la morte si cancella fino a sparire. È nascosta al morente stesso. Lo storico ipotizza che possa trattarsi qui del prolungamento dell’affettività del XIX sec.: si protegge il morente o il malato grave dalla sua propria emozione, nascondendogli fino alla fine la gravità del suo stato. La morte diventa qualcosa di sporco, da sottrarre agli sguardi degli stessi congiunti. Tanto il nascondere all’altro la sua morte, quanto il nascondere il malato stesso per il disgusto della malattia, obbediscono allo stesso imperativo: escludere la morte. La medicalizzazione della morte, iniziata con i primi successi terapeutici della medicina scientifica, celebrerà i suoi trionfi nell’ospedale concepito come istituzione totalitaria. La morte scompare così definitivamente dall’universo domestico. A rendere totale il rifiuto della morte basterà un ultimo tratto: la soppressione del lutto.
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La rivoluzione nei sentimenti e nei costumi relativi alla morte è così brutale che non ha mancato di colpire gli osservatori sociali. Qui Ariès si trova in compagnia di antropologi, psicologi, sociologi e medici che negli ultimi anni hanno denunciato il fenomeno, comune a tutte le società occidentali. Le opere di Morin, Gorer, Mitford, Illich sono note al nostro storico. A differenza dei critici della cultura, Ariès si astiene dall’indicare nella secolarizzazione o nell’avanzata dello spirito borghese le cause dell’emarginazione della morte nelle società orientate alla produzione e al progresso. Suo compito è quello di registrare le variazioni del senso della morte, rilevando al tempo stesso la continuità storica. Si astiene anche dal suggerire interventi per rimediare al grande malessere psico-sociale che deriva dalla moderna repressione della morte. Ma il lettore che si è lasciato prendere dalla passione di Ariès per la storia del sentimento umano della morte non può mancare di cogliere il suo invito implicito a cercare un’uscita dall'impasse attuale non in una “evacuazione della morte, bensì in una sua “umanizzazione”. Ciò vuol dire conservare una morte necessaria, ma allora accettata e non più vergognosa. Questo è l’insegnamento che con lo storico ricaviamo dalle antiche saggezze.
Al termine della presentazione dell’opera di Ariès la timidezza iniziale resta confermata. Il recensore non può non rendersi conto dell’impoverimento che subisce quella grande ricerca quando viene ridotta allo scheletro delle idee portanti e privata del continuo gioco che deriva dal confronto delle ipotesi con il vastissimo materiale eterogeneo di cui si serve lo storico. La recensione resta in ogni caso giustificata in quanto invito alla lettura dell’opera. Questa non interessa solo quella categoria singolare di studiosi che hanno assunto il nome di “tanatologi”. Vi possono attingere i cultori di letteratura e di arte come gli studiosi di scienze umane; gli operatori in campo sanitario (essi specialmente, sulle cui spalle grava il peso della morte completamente medicalizzata) come i privilegiati che possono dedicarsi ai piaceri dell'otium, concedendosi una lettura di raffinata qualità culturale.
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R. Gordon, Dying and creating: a search for meaning, The Society of Analitical Psycology, London 1978, pp. 186.
Continuare a ripetere che la morte sia un tabù culturale dell’Occidente comincia a diventare un luogo comune che non risponde più a verità, allorché si considerano le pubblicazioni sull’argomento che si succedono a ritmo incalzante. Tra le tante, questo libro di Rosemary Gordon, una psicoanalista inglese, merita una segnalazione speciale. Cattura l’attenzione già il titolo stesso, con quell’accostamento audace, e assolutamente non convenzionale, tra morte e creatività. L’unione tra i due termini è avvenuta per l’Autrice spontaneamente: non per un’alchimia culturale, ma sul filo della pratica professionale quotidiana. Con propria sorpresa — confessa — ha osservato che, qualunque fosse l’età e il quadro patologico dei suoi pazienti, presto o tardi nel corso dell’analisi arrivavano a un confronto con la morte; e che questo processo li metteva in contatto con le radici profonde della creatività. Tra la morte, creatività e trasformazione come esperienza psicologica scopriva un legame organico, che si può esprimere dicendo che la persona che vive e lavora creativamente è anche capace di morire creativamente. Prendeva così corpo gradualmente la tesi su cui è costruito il libro, cioè che la condizione per morire bene e creare bene è di rimanere aperti e disponibili sia alle forze della vita che alle forze della morte.
Trattando l’argomento della morte da psicoanalista, la Gordon deve inevitabilmente riferirsi al pensiero di Freud e Jung. Riconosce ad ambedue il merito di aver preferito affrontare il soggetto scomodo, piuttosto che nasconderlo sotto il tappeto come si era preferito fare nel sec. XIX e all’inizio del XX. È noto il posto che occupa la pulsione di morte, come antagonista della libido, nella teoria freudiana dell’ultimo periodo. Tuttavia alla pulsione di morte Freud non concede uno statuto analogo a quello della pulsione libidica. L’istinto di morte per lui rimane “muto”. Non si esprime direttamente nei termini di un desiderio attuale di morte, e neppure nella capacità di averne una rappresentazione mentale: la pulsione di morte si esprime solo nei termini o di paura della morte, o di aggressione. L’insufficienza della teoria freudiana nel dare alla morte tutto lo spessore antropologico che le spetta era già stata rilevata. Il medico-filosofo Viktor V. Weizsäcker, per esempio, avvertendo che in Freud la pulsione di morte è solo un surrogato dell’incontro dell’uomo con la morte come avviene realmente nella vita, aveva già proposto un
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completamento della famosa formula freudiana (“Aus Es soll Ich werden”) con il suo inverso: “Aus Ich soll Es werden”; vale a dire: dalla morte deve farsi la vita, e dalla vita deve farsi la morte. L’introduzione del soggetto nella patologia comporta l’introduzione della morte.
Il significato antropologico positivo della morte ha avuto la massima attenzione da parte di quelle psicologie che hanno preso in considerazione non solo le realizzazioni patologiche dell’esistenza umana, ma quelle “normali”, e ancor più le persone maggiormente autorealizzate. Maslow ha osservato che le peak-experiences — i vertici della realizzazione estetica, religiosa, amorosa — sono simili a una bella morte. È come se il vivere più esaltante possedesse in sé qualcosa avido di morire. Ogni compimento si presenta così come un cammino verso la morte.
A un livello intermedio tra Freud e Maslow possiamo collocare la teorizzazione di Jung del legame tra morte e creatività. È appunto la teoria junghiana che la Gordon adotta come impalcatura portante, integrandola con i più recenti apporti di Fordham sullo sviluppo della personalità. Punto di partenza è la convinzione del fondatore della psicologia analitica che la psiche dell’uomo si interessa direttamente, spontaneamente e naturalmente della morte. Come la natura stessa si prepara alla morte, così fa l’uomo. La morte non è soltanto un evento, ma un processo che comporta cambiamenti e sviluppi durante la fase terminale della vita. Jung afferma di essere stato in grado di riscontrare indicazioni, nei sogni di alcuni suoi pazienti, dell’avvicinarsi della morte, anche quando non c’erano pensieri coscienti provocati dalla situazione esterna.
L’ipotesi di una preparazione inconscia alla morte è stata verificata su materiale empirico dalla Gordon stessa in uno studio su cui riferisce dettagliatamente. Quattro suoi pazienti prossimi alla morte, sottoposti al test di Rorschach, hanno prodotto immagini che gli studiosi dell’espressione simbolica interpretano come riferentesi alla morte; e inoltre questi simboli rivelavano atteggiamenti sia di resistenza che di resa alla morte.
La complessità degli atteggiamenti nei confronti della morte — tanto di quelli individuali quanto di quelli che caratterizzano i gruppi socio-culturali — dipende dalla posizione che si assume su un asse che ha alle sue estremità la “separazione” e la “totalità”. In altri termini, si può puntare sulla ricerca di una identità ben differenziata: e allora la morte appare come il nemico e il distruttore; oppure sulla ricerca della sintesi, dell’unione, della totalità: uno stato che può essere realizzato solo quando nella morte la strutturazione dell’io viene superata, per riversarsi nel
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Sé. Gli stati caratterizzati da fusione, assenza di confini, non-essere, sono dominati da Thanatos. Questo desiderio di fusione può essere psicopatologico. In tal caso il rifiuto di morire si esprime nel rifiuto di vivere, cioè nella nevrosi. La Gordon illustra con chiarezza convincente il sofisma che sta alla base della psicosi: per evitare la morte che cammina accanto, si blocca il proprio sviluppo, in modo da non avere un lo da sacrificare; e inoltre, dal momento che cambiare significa accettare la coscienza della fine che si avvicina, insieme alla morte viene evitato ogni cambiamento. Il rifiuto psicopatologico della morte è illusorio, perché il rifiuto della morte futura significa la morte ora.
Ma c’è anche un’apertura alla morte non psicopatologica e regressiva, in cui agiscono le forze pulsionali che tendono alla massima realizzazione umana. Questa è propriamente l’esistenza creativa, condotta sotto la spinta della “ricerca del significato”. In quest’area di esperienza troviamo il senso di partecipazione mistica, che vede nella morte un passaggio verso il Sé. Condizione previa è che si sia formata nell’individuo la capacità della “funzione simbolica”, quel processo che nella psicologia di Jung unisce il conscio con l’inconscio, il familiare con l’estraneo. Per chiarire la differenza tra il Sé originario, dominato dal senso di fusione oceanica, e il Sé cui si giunge attraverso il processo creativo, che include e supera l’io, sarebbe forse opportuno parlare in questo secondo caso di “Sé transpersonale”, come fa la psicosintesi di Assagioli.
Nel presentare il libro della Gordon abbiamo dato la prevalenza alla discussione dei costrutti teorici. E a ragion veduta: perché il libro della Gordon è solido e stimolante dal punto di vista della teoria psicologica. Inevitabilmente però abbiamo fatto ingiustizia, in questa maniera, alla ricchezza clinica che contiene, con il continuo riferimento ai vissuti dei pazienti, così come prendono forma nell’analisi. Lasciamo la valorizzazione di questa dimensione del libro al contatto diretto che ne vorrà prendere il lettore.
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R.A. Moody, La vita oltre la vita, Mondadori, Milano 1977, pp. 165.
Portato dall’onda dell’interesse recente per la morte — o piuttosto per la forma storica che il morire ha assunto nella civiltà industriale avanzata — un nuovo libro ci giunge dagli Stati Uniti. Lo presenta Elisabeth Kübler-Ross, ormai un’autorità in materia, grazie all’eco internazionale della sue interviste con i morenti raccolte nel volume II morire e la morte (Cittadella, Assisi 1976). Anche questo libro non corre pericolo di passare inosservato: si occupa di un argomento singolare destinato ad assicuragli l’attenzione del grande pubblico. Espone i risultati di colloqui avuti dall’autore con persone tornate in vita dopo essere state credute o dichiarate clinicamente morte dai medici (in modo subordinato è riferita anche l’esperienza di persone che, durante incidenti o malattie gravi, sono andate vicine alla morte fisica). Mentre la Kübler-Ross studiava il morire e le sue fasi, abbandonando il morente sulla soglia in cui scivola nell’incoscienza, qui l’esplorazione si spinge fino a quella “terra di nessuno” che si stende tra la morte clinica e la frontiera da cui non c’è ritorno.
È autore della ricerca un giovane docente, R.A. Moody, i cui interessi fluttuano tra la filosofia e la medicina, arrivato casualmente a scoprire che qualcuno ha vissuto la singolare esperienza di poter raccontare la propria “morte”. Incuriosito, si è messo a cercare sistematicamente tali casi e ne ha scoperti, nel giro di pochi anni, circa 150; con queste persone ha condotto interviste approfondite. Egli si dichiara convinto che in ogni ambiente ce ne siano una quantità, ma che i protagonisti esitano a raccontare il loro vissuto per paura dell’incredulità generale o per geloso riserbo. Moody è stato colpito da un fatto singolare: pur provenendo i suoi intervistati dagli ambienti geografici e culturali più disparati e senza nessun contatto tra di loro, i loro racconti presentano una sorprendente analogia. Egli ha isolato una quindicina di elementi, che, in ordine diverso, ricorrono in quasi tutti i resoconti.
Ridotta alla sua struttura più tipica, l’esperienza della pre-morte può essere così tratteggiata. Il distacco dalla vita comincia con inconsuete sensazioni uditive; a volte fastidiose e spiacevoli, altre volte gradevoli. Spesso alla sensazione sonora si accompagna quella di percorrere rapidamente e forzatamente uno spazio buio, come una galleria o una valle. Ecco poi la prima imprevedibile esperienza: il morente ha l’impressione di abbandonare il proprio corpo. Si trova di colpo a osservare il proprio
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corpo da fuori, come uno spettatore o una terza persona. In genere a questo che si rende conto che sta morendo. Nella stragrande maggioranza dei casi le persone dichiarano di essersi sentite in un altro corpo dopo essere uscite dal loro corpo fisico. Pur dichiarando unanimemente l’inadeguatezza del linguaggio ordinario a descrivere il nuovo corpo, i reduci dell’ultima frontiera concordano sulle caratteristiche e sulle facoltà del nuovo corpo. Con questo essi possono vedere gli altri e comprendere i loro pensieri, ma non possono a loro volta essere veduti, né uditi. Ogni comunicazione con gli altri esseri umani si interrompe, anche quella attraverso il tatto, perché il corpo spirituale non è un corpo solido. Il sentimento di solitudine angosciosa che accompagna questa fase è alleviato però dall’incontro con altri esseri che si fanno vicini al morente per aiutarlo nel viaggio che sta compiendo. Si tratta di esseri spirituali, spesso parenti o amici morti; e soprattutto — se siamo disposti a concedere credibilità a questi incredibili racconti — una luce chiarissima. È sentita per lo più come un essere personale, che emana amore e calore; e interpella personalmente il morente. Questi prova verso la luce una irresistibile attrazione magnetica. Dopo la sua apparizione l’essere di luce comincia a comunicare con il morente. Ne segue un momento di stupefacente intensità, durante il quale il morente viene reso presente a tutta la propria vita. Più che di ricordi analitici, si tratta di una specie di panoramica istantanea, benché vivida e reale. Alcuni definiscono il riepilogo come un mezzo educativo usato dall’essere di luce. Mentre guardano passare la loro vita, l’essere sottolinea l’importanza di due cose: imparare ad amare gli altri e acquisire conoscenza.
Un ultimo elemento comune ai resoconti è il ritorno. Tutti, evidentemente, sono tornati; ma nelle testimonianze il modo e il perché del ritorno alla vita fisica variano sensibilmente da individuo a individuo. I più dicono di non sapere come è perché siano tornati indietro, o di poter soltanto fare congetture. Per lo più affermano di aver semplicemente sentito, al termine dell'esperienza, di essersi “addormentati” o di essere caduti in uno stato di incoscienza, per risvegliarsi poi nel corpo fisico.
La parte centrale del libro è costituita, abbiamo detto, dai resoconti di queste “esperienze della morte”, di cui abbiamo riferito l’ossatura costante. L’opera di Moody però non si ferma qui. Egli si è fatto apostolo e propagandista dell’interesse per quel tratto di confine dell’esistenza umana che per alcuni (pochi? molti? quanti, in realtà?) è stato reversibile. Nel corso di numerose conferenze, dibattiti, incontri ha ascoltato tante
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domande, alle quali ha cercato di dare una risposta. Esse vertono sull’autenticità e attendibilità dei racconti, la diffusione dell’esperienza, il rapporto con la religiosità delle persone coinvolte, gli aspetti clinici del fenomeno. L’autore stesso, infine, si è posto degli interrogativi sulle possibili spiegazioni di queste singolari esperienze, cercandole sia sul versante della fisiologia che su quello della psicologia. Questi dibattiti costituiscono la seconda parte del volume. Il quale resta, nel suo insieme, un’opera difficile da valutare. È una confezione astuta, mirante al successo? Il successo le è certo arriso. Pubblicato alla fine del ’75 da un’oscura casa editrice americana, il libro in poche settimane è stato stampato ben otto volte, raggiungendo la tiratura straordinaria di 174.000 copie. Ripreso in una collana economica, è entrato nell’orbita dei bestseller, suscitando vasta eco su tutta la stampa degli Stati Uniti. Cominciano ora le traduzioni nelle altre lingue.
Tuttavia l’ipotesi del bluff è poco credibile: la personalità dell’autore è lineare e il suo appassionato interesse all’argomento è convincente. Abbiamo dunque a che fare con un’opera scientifica o filosofica? Moody è ben cosciente di non poter pretendere una tale qualifica per il suo lavoro (cfr. p. 155). Egli rifiuta, del resto, di trarre “conclusioni” dal suo studio. In particolare si rifiuta di utilizzare le testimonianze raccolte per “provare” l’esistenza di una vita oltre la morte. In considerazione di tale esplicita intenzione dell’autore bisogna rilevare che la presentazione editoriale di copertina dell’edizione italiana (che afferma categoricamente: “esiste una vita dopo la morte”; e riferisce i racconti a “esperienze dell’aldilà”) è fuorviarne. Le esperienze qui considerate restano ancora nell’ambito dell’aldiquà; ampliano di una spanna l’ambito dei vissuti che fanno parte della vita umana, in quanto di essi si può ancora riferire, ma non aboliscono la frontiera dell’immanenza che può essere superata solo dall’immaginazione simbolica, dal logos filosofico e dalla fede religiosa. L’autore, benché affascinato dai fenomeni in cui si è fatto araldo, conosce la modestia del limite. Gli interessa maggiormente attrarre l’attenzione su questi vissuti, piuttosto che dare una spiegazione di essi. Afferma esplicitamente: “Durante le mie conferenze ho incontrato gente che mi suggeriva le spiegazioni più diverse. Chi ha una mente orientate verso un’interpretazione della realtà fisiologica o farmacologica o neuro logica vede i propri orientamenti come una fonte di spiegazioni intuitivamente ovvie, anche quando gli vengono sottoposti casi che sembrano escluderle o negarle. I fedeli di Freud identificano con gioia nell’essere
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di luce una proiezione del padre del soggetto, mentre gli adepti di Jung vi scorgono gli archetipi dell’inconscio collettivo, ecc. Pur desiderando sottolineare nuovamente che non intendo suggerire una mia spiegazione, ho voluto dare alcuni motivi che mi inducono a considerare quanto meno discutibili le spiegazioni che mi vengono proposte. Voglio suggerire semplicemente questo: lasciamo almeno aperta la possibilità che le esperienze di pre-morte rappresentino un fenomeno nuovo che può richiedere nuovi modi di spiegazione e interpretazione” (p. 150 s.).
E allora come catalogare l’originale inchiesta di Moody? Se la qualifica non viene presa in senso di discredito, la si potrebbe considerare un saggio antropologico con intenti umanistici. L’autore, se è indotto dalla coscienza dei limiti scientifici della sua ricerca a restare aperto e possibilista quanto alle interpretazioni dei fenomeni, è invece esplicito nel sottolineare l’interesse che porta al mutamento dei valori che fa seguito al ritorno in vita. La vita di coloro che hanno vissuto questa esperienza-limite è stata ampliata, approfondita. Nessuno ha ritenuto opportuno fare proseliti, tentare di convincere gli altri delle realtà conosciute. Tutti invece (tutti gli intervistati, in ogni caso: altri hanno evidentemente considerato l’esperienza come insignificante o l’hanno rimossa) hanno assunto un atteggiamento diverso nei confronti della vita e della morte. Quasi tutti sottolineano il loro desiderio di coltivare l’amore per gli altri, un amore di un genere unico e profondo. La decisione è connessa all’essersi sentiti totalmente amati e accettati dall’essere di luce mentre avveniva il riepilogo della vita. È come se la vita, vista dal limitare della pre-morte, cambiasse aspetto e mostrasse la sua natura più intima, quella di un progetto di crescita nell’amore e nella conoscenza. La morte stessa si trasforma: essa non spaventa più in quanto tale. La pre-morte appare perciò come una via tra le altre per giungere a una nuova e più vera consapevolezza. Tra le altre vie quelle che sembrano a Moody più vicine all’esperienza della pre-morte sono i fenomeni allucinatori prodotti da droghe (in particolare la pianta peyote, usata nella convinzione che costituisca un mezzo valido per passare ad altre dimensioni della realtà) e le esperienze di isolamento. Queste oggi vengono anche provocate sperimentalmente in laboratorio per studiare gli effetti della deprivazione sensoriale. Alcuni considerano ciò che hanno provato durante l’isolamento come autentiche esperienze di conoscenze di altri regni dell’essere, e non come immagini “irreali” e “illusorie”. “Ciò che impariamo sulla morte può rendere assai diverso il modo in cui viviamo” (p. 158): questa l’affermazione conclusiva
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dell’autore, che, a nostro avviso, costituisce il vero centro di gravitazione della ricerca. Perciò proponiamo di leggere questo libro singolare in chiave etico-umanistica, piuttosto che scientifica o metafisica.
È questa, in particolare, l’angolatura da cui vorremmo proporre la lettura di questo libro ai medici. Le testimonianze personali dei reduci dai gravi stati comatosi non offrono assolutamente nessuna luce alla patologia o alla terapia; tanto meno costituiranno un argomento per convincere il medico, o chicchessia, che l’aldilà esiste. Ma il medico, così abituato ad osservare solo i segni obiettivi e a diffidare di ciò che il paziente gli dice, così indifferente alla realtà interiore del paziente, potrà forse intuire l’abisso di esperienza umana che lo separa dal cliente che ha rianimato dalla morte clinica. All’orizzonte emerge l’auspicio di un rapporto tra medico e paziente di ben altra qualità umana. Se il medico dedicasse un po' di tempo anche a interrogare il suo paziente su ciò che ha provato e sentito (nel quadro di quei “sei minuti” che Balint reclama per il paziente), non potrebbe forse ricevere in contraccambio della sua opera medica un vantaggio esistenziale, un riflesso di saggezza di vita?
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T. Bertherat, Guarire con l’antiginnastica, Mondadori, Milano 1978, pp. 199.
Un libro di struttura autobiografica, in cui l’Autrice ci racconta il suo lavoro e l’itinerario che ha percorso per scoprirlo. Iscrittasi a un corso di cinesiterapia, aveva appreso il maggior numero possibile di tecniche applicabili alla terapia riadattiva. Ma la ginnastica medica le sembrava meccanica, violenta e il più delle volte inefficace. Non era questo il lavoro sul corpo che cercava. La rivelazione le venne da alcune insegnanti che praticavano una specie di ginnastica “alternativa”, in particolare da Frangoise Mézières, che la Bertherat considera come la sua vera maestra. Influenzata dalla medicina cinese, l’“antiginnastica” presuppone una visione del corpo in cui la salute dipende da un’equilibrata distribuzione dell’energia. È quindi opposta a quella occidentale, che divide il corpo a scompartimenti, in cui ogni “ripiano” è affidato a uno specialista diverso. Tendiamo a considerare il nostro corpo come una macchina per forza difettosa, composta di tanti pezzi separati (testa, schiena, piedi, nervi...), ciascuno di competenza di uno specialista del quale si accetta ciecamente l’autorità e il verdetto. Lasciamo la responsabilità della nostra vita, del nostro corpo, agli altri. La conseguenza? Il nostro corpo è diventata una casa disabitata! La chiave della felicità, corporea e psichica insieme, consiste nel riprendere possesso del proprio corpo, abitarvi finalmente e trovarvi vitalità, salute e autonomia: “prendere coscienza del proprio corpo è accedere a tutto il proprio essere ...poiché corpo e anima, psiche e fisico, e anche forza e debolezza, rappresentano non la dualità dell’essere, ma la sua unità”.
Il termine “antiginnastica” è inadeguato, per ammissione della stessa scrittrice; evoca solo imperfettamente i metodi naturali di coloro che considerano il corpo come un’unità indissolubile. Ancor meno lascia intendere quanto di positivo viene affermato sull’uomo: l’equazione pratica tra il corpo di un essere e la sua vita; l’incapacità di vivere pienamente, se prima non sono state risvegliate le zone morte del corpo e tolte le corazze della struttura muscolare (la dottrina bioenergetica di W. Reich aleggia da un capo all’altro del libro). L’“antiginnastica” si propone, come orizzonte utopico, di indicare la strada da percorrere per giungere sino a noi stessi: “Possiamo, dobbiamo sentire nel nostro corpo chi siamo ...Essere prima di tutto corpo. Essere finalmente corpo. Essere”.
Non mancano osservazioni originali: sul ruolo del corpo dell’insegnante
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nel rapporto didattico; sulla sensibilità per il corpo degli altri nel rapporto sanitario. A questo proposito, vale la pena riportare le osservazioni della Bertherat circa i medici. Non li assolve dall’accusa di insensibilità rivolta a molti di loro; ne dà soltanto una diversa spiegazione: “Invece di dire che non hanno cuore, sarebbe più giusto dire che non hanno corpo. Abitandolo così poco, avendo solo la percezione della testa e delle mani, non possono vedere i pazienti come esseri interi. Per quei medici i pazienti si riducono alla malattia che hanno”. Di qui passa a suggerire che, prima di scegliere la facoltà di medicina, i candidati possano seguire un corso di presa di coscienza del corpo: “Invece di essere ridotto allo studio di tavole anatomiche o alla dissezione di cadaveri, la loro conoscenza del corpo umano — dell’intero essere — sarebbe arricchita attraverso una ricerca effettuata sulla loro persona”.
I rappresentanti della scienza ortopedica faranno i loro appunti a questa singolare divulgazione di metodi terapeutici “alternativi”. Il grosso pubblico non potrà che rimanere affascinato dalla carica ideale e dall’entusiasmo contagioso che emanano da queste pagine. Fare del proprio corpo una “casa accogliente” da abitare con gioia, anzi da abitare in due: come negare il proprio assenso un simile programma?
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S. Sontag, Malattia come metafora, Einaudi, Torino 1979, pp. 69.
Susan Sontag tiene da anni un posto di rilievo sul palcoscenico letterario americano. Scrittrice, saggista, regista teatrale, animatrice di dibattiti e polemiche, conferisce un taglio personale ai soggetti più disparati a cui rivolge il suo interesse. Uno dei suoi ultimi interventi riguarda la malattia, o più precisamente la mitologia che circonda alcune malattie. Il saggio è apparso dapprima in tre quaderni dell’autorevole New York Review of Books ed è stato successivamente riunito in un volumetto. Ripetizioni e ridondanze, che sicuramente non erano avvertite negli articoli originali, sono piuttosto evidenti nella redazione unificata. Sarà difficile tuttavia che il lettore debba denunciare nel corso della lettura un calo di interesse. Muovendosi con disinvoltura tra una dovizia di citazioni tratte dalla letteratura americana e francese — nelle quali la Sontag si trova più a suo agio —, e marginalmente da quella tedesca, l’Autrice insegue le variazioni del suo tema: la malattia vista non come fatto medico-scientifico, ma come metafora di una realtà psicologica, sociale o politica. Una prima impressione superficiale potrebbe indurci a credere che ci troviamo di fronte al tipico letterato che si nutre di letteratura e produce letteratura. Ci soccorre l’informazione, riportata da alcuni critici nel recensire l’opera, secondo cui il libro non nasce da un puro interesse letterario, bensì da un’esperienza di cancro vissuta dalla scrittrice. Solo la nervosità della scrittura lascia indovinare l’intenso pathos che la ispira, quasi una tacita confessione di quanto la sofferenza causata dal peso delle metafore e dei simboli sovrasti quella legata al dolore fisico. La partecipazione interiore della Sontag non è dissimulata. La saggista lascia che il tema prenda tra le sue mani la colorazione di un messaggio, e che il saggio letterario sconfini nel pamphlet.
Il libro è costruito dall’intreccio di tre argomenti: l’uso della tubercolosi e del cancro come metafore di malattia mentale, la “psicologizzazione” della malattia, la malattia come metafora politica. Il confronto tra la mitologia popolare della tubercolosi e quella analoga che si riferisce il cancro è il più avvincente. Con un abile collage di citazioni e di riferimenti, la scrittrice evoca la funzione rispettiva delle due malattie nell’universo simbolico del proprio tempo: ambedue considerate, in epoche diverse, più che malattie, simboli addirittura della morte stessa; due nomi dotati di potere magico, soggetti alla disciplina del tabù. Per lungo tempo morire di tbc è stato considerato misterioso, romanticamente “interessante”,
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segno di una natura superiore e creatrice. Con la scomparsa della malattia — grazie soprattutto alla scoperta della streptomicina — la forza del mito dileguò. Alcune delle metafore legate alla tubercolosi sono passate alla follia (“l’idea del malato come creatura febbrile e spericolata, disponibile agli estremi delle passioni, come individuo troppo sensibile per tollerare gli orrori del volgare mondo di tutti i giorni”), altre sono state trasferite al cancro. Il quale non ha goduto del processo di spiritualizzazione che ha sublimato la tubercolosi, anzi è stato soggetto a una specie di “demonizzazione”: fonte di sofferenza tormentata, malattia ignobile e umiliante. Ma il cancro ha in comune con la tubercolosi la caratteristica di essere assurto a malattia mortale, veicolo perciò di tutti quei pregiudizi che neutralizzano il normale uso della ragione (basti pensare, per fare un solo esempio, alla paura di contrarre il cancro per contagio, che fa evitare la vicinanza o il contatto fisico con persone che ne sono colpite). Inoltre in questa specie di mitologia popolare della malattia che si trova riflessa negli stereotipi letterari, tanto la tubercolosi quanto il cancro sono considerate come malattie della passione: conseguenza della frustrazione la tbc, della repressione degli istinti sessuali o violenti il cancro.
L’analisi della Sontag trapassa così nel secondo tema: la “psicologizzazione” della malattia. Il carattere misterioso della malattia che, nelle diverse epoche, è assunta a simbolo del male che mina l’esistenza umana, favorisce l’uso della malattia per giudizi di tipo morale e psicologico. Sorge così il legame tra malattia e colpa. Per l’uomo secolarizzato la malattia non è più lo strumento della collera divina per i peccati personali o collettivi; essa resta, nondimeno, nell’ambito della responsabilità individuale. Dapprima la psicoanalisi ha aperto una breccia nella massiccia struttura del meccanismo materialistico che reggeva la medicina ottocentesca, riconoscendo nei conflitti psichici la causa dei sintomi somatici propri delle nevrosi; in seguito gli sviluppi della medicina psico-somatica hanno messo sempre più in luce lo stretto intreccio tra organismo, emozioni e idee nella maggior parte delle malattie. Anche quell’ineluttabile realtà materiale che è la malattia può avere una spiegazione psicologica: è quanto Susan Sontag chiama “psicologizzazione” della malattia. Il cancro, in particolare, viene ricondotto da una certa stampa divulgativa alla negazione delle emozioni, all’incapacità di esprimerle o di dirigerle. Già Groddeck, che per l’A. è il rappresentante più tipico dell’ala psicologizzante, interpretava il cancro come “energia frenata”.
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Nelle riviste popolari americane diventa la malattia delle persone “a marcia bassa”, che s’abbandonano di rado a sfoghi emozionali. Nel postulato che le emozioni producono malattie, e che la volontà possa curarle, la Sontag vede una terribile trappola: “Le teorie psicologiche della malattia sono un mezzo poderoso di gettare la colpa sul malato. Spiegare ai pazienti che sono la causa, involontaria, della propria malattia significa anche convincerli che se la sono meritata”.
L’ultima parte del volumetto affronta un particolare uso metaforico della malattia: quello socio-politico. È tradizionale ricorrere alle malattie in senso polemico. L’avversario diventa allora una minaccia per l’organismo sociale; la sua ideologia, secondo l’epidemiologia del momento, “la peste”, “il colera” o “la sifilide” da cui bisogna guardarsi. Anche il cancro, malattia del nostro tempo, non è sfuggito a questo uso. La metafora del cancro è radicale e tendenziosa, proprio per la bardatura mitica di cui questa malattia è rivestita. “Una metafora eccellente per i paranoici, per quelli che sentono il bisogno di trasformare le campagne in crociate, per i fatalisti (cancro = morte) e per chi subisce il fascino di un ottimismo rivoluzionario antistorico (l’idea che siano auspicabili soltanto i cambiamenti più radicali)”. In queste condizioni la metafora del cancro diventa “moralmente impossibile”, e S. Sontag si biasima per averla usata anche lei al tempo delle polemiche nel Vietnam, definendo la razza bianca “cancro dell’umanità”.
Non si può non dar ragione alla scrittrice quando afferma che le conoscenze mediche e i progressi nella terapia portano cambiamenti nelle immagini: il tempo della tubercolosi nella letteratura è finito (la protagonista di “Love story”, che nel secolo scorso sarebbe morta di “consunzione”, oggi è travolta dalla leucemia); neppure i comunisti parlano più dell’alternativa tra socialdemocrazia e fascismo come di una “scelta tra peste e colera”... Tuttavia è da supporre che l’abitudine di instaurare paragoni tra corpo e società, instauratasi già dal tempo dell’apologo di Menenio Agrippa, sopravviverà alla trasformazione delle immagini. Perché una lingua senza metafore non esiste. Finché non parleremo in algebra, la lingua salterà da una metafora all’altra.
Una questione più delicata è quella connessa con la “psicologizzazione” della malattia. La medicina scientifica, che persegue l’obiettività delle scienze della natura, non può rendere ragione alle domande — “Perché?, perché a me?” — che scattano quando sopraggiunge la malattia che minaccia la vita. La divaricazione tra la religione, che rispondeva
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additando la causa divina, e la medicina, nel cui ambito tali questioni non hanno senso, ha lasciato un nodo irrisolto. Se ne avverte la presenza nel senso di colpa, ora non più legato a una problematica religiosa, bensì fluttuante. Assumersi responsabilmente la colpa, riconducendo le cause al soggetto, diventa l’unica alternativa possibile per chi è immerso in una cultura che ha demitizzato la malattia.
La “psicologizzazione” non è poi così recente come crede la Sontag. Le sue radici vanno cercate nella riduzione antropologica già attuata dalla medicina greca. “Gli dei non sono colpevoli dei nostri dolori; le malattie e i dolori del corpo sono prodotti delle nostre dissolutezze”: lo affermava Pitagora. La scrittrice americana pensa che, per liberarsi dai resti scomodi di una incompleta demitizzazione della malattia, si debba procedere verso un razionalismo ancor più radicale, facendo piazza pulita di quel vissuto umano che si esprime mediante gli usi metaforici della malattia. Il suo discorso letterario e culturale si sostiene su un ingenuo a priori positivistico, secondo cui ci sarebbero nella malattia fatti “in sé”, che la lama acuminata della ragione è in grado di separare dalle idee (benché la sua analisi verta sulle idee: “Il mio tema non è la malattia fisica in sé, ma i modi in cui la malattia viene usata come figura o come metafora”). La tesi è esplicita, stampata nella prima pagina del libro: bisogna liberarsi dalle metafore (“la maniera più sana di essere malati è quella più libera da pensieri metaforici e ad essa più resistente”).
“La malattia non è una metafora”: quel “non”, sottolineato dall’Autrice, è il momento di maggior tensione del libro. Esso svela che il vero interesse della scrittrice si situa non a livello culturale, ma etico; non le interessa fare un brillante confronto tra i veli vaporosi (e mistificanti!) con cui la letteratura romantica ha avvolto la tubercolosi e lo spesso sudario angoscioso sotto il quale la nostra epoca nasconde il cancro. Intende piuttosto prescrivere un comportamento: “non bisogna” lasciarsi offuscare la ragione dall’irrazionale, veicolato dalla metafora di malattia mortale! Si ha bisogno di tutte le proprie forze razionali per lottare contro il male, senza lasciarsi paralizzare da sensi di colpa, angosce, ricatti morali. Allora il cancro diventerebbe una malattia “naturale”, come le altre. Si potrebbe morire di cancro come di infarto: con una morte logica, senza mistero, per usura dell’organismo.
Qui appunto sorgono le riserve più forti di chi non si lascia sedurre da questo accattivante razionalismo: quello della “morte naturale” non è un’altra creazione mitica? Potrà mai l’uomo riconciliarsi con l’idea
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della morte? Non potendo rispondere con categorie immanentiste agli interrogativi scomodi che pone la morte, la nostra cultura preferisce cancellarla dal discorso. Ecco perché è così difficile venire a capo di una “malattia mortale”, come è considerato oggi il cancro, senza guardare in faccia la morte. Ma in questo tabù della morte non c’è forse più inquietudine di eternità che in una piatta “morte naturale”? Si potranno muovere diversi appunti al libro di Susan Sontag: non certo quello, però, di non stimolarci a riflettere su quei massimi problemi umani che una volta erano chiamati “i novissimi”, ovvero le cose ultime che chiudono l’orizzonte escatologico individuale.
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G. Hourdin, Il dolore innocente. Un handicappato nella mia famiglia, Cittadella, Assisi 1978, pp. 254.
A più di un cattolico italiano il nome dell’autore risulterà familiare. Georges Hourdin ha fatto parte del gruppo di intellettuali che hanno contribuito a quella primavera della chiesa che la Francia ha vissuto nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, fino all’epoca del Vaticano II. Come direttore della rivista La Vie Catholique e come collaboratore di numerosi altri giornali e iniziative, Hourdin è stato uno dei cattolici impegnati più in vista. Nella sua vecchiaia il noto giornalista ha deciso di rendere di pubblico dominio una parte della sua vita rimasta costantemente in ombra. La sua famiglia ha conosciuto una dura prova: l’ultima degli otto figli, Marie Anne, è nata affetta da un grave handicap. Il linguaggio corrente lo chiama con un nome duro, che suona addirittura offensivo: mongolismo. Oggi si preferisce chiamarlo “sindrome di Down”, ovvero, con riferimento all’errore genetico che determina la malattia, “trisomia 21”.
I bambini che ne sono affetti portano nel loro corpo quelle stimmate visibili che li rendono immediatamente riconoscibili; la loro stessa intelligenza è gravemente compromessa. I trisomici ricevono in dotazione metà dell’intelligenza che avrebbero avuto se fossero stati normali. Si tratta qui dell'intelligenza misurata in Q.I., cioè della capacità di astrazione, di dominio dei segni e dei simboli creati dagli uomini per conservare e trasmettere il sapere. Ma questa intelligenza è tutto in una persona? Marie Anne capitava in una famiglia di borghesi appassionati di letteratura, di arte, di discussioni; una famiglia difficile da viverci per chiunque, ma soprattutto per chi è confinato nel mondo del concreto. Eppure la sua integrazione è riuscita. Il libro racconta in che modo. Grazie all’intelligenza e alla dedizione dei genitori e dei fratelli, ma anche a quegli educatori che per primi hanno tracciato dei sentieri pioneristici nel campo del recupero degli handicappati, Marie Anne ha potuto trovare un suo spazio, una sua funzione e un suo linguaggio espressivo. Anche questa, come ogni vera integrazione, ha prodotto reciprocità: i suoi familiari sono stati arricchiti da lei. Facendo il bilancio della sua vita, il padre intellettuale riconosce che proprio grazie a questa figlia è stato introdotto nel mondo del concreto e dell’affetto, della solidarietà e dell’innocenza, e ha scoperto dimensioni della propria personalità che ignorava. Lasciando briglia sciolta alle associazioni mentali, viene da ricordare
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le testimonianze registrate dal film-documentario Matti da slegare. Gli operai di un’officina metallurgica in cui erano stati integrati dei deboli mentali profondi, trisomici appunto, dichiaravano con una commozione mal celata come avessero scoperto, provocati da quelle presenze, una nuova solidarietà nell’ambiente di lavoro e fuori, e la possibilità di rapporti umani di altra qualità.
In questi ricordi meditati Hourdin ritorna a più riprese su un tema che attraversa il libro da un capo all’altro, fino ad attirare nella sua orbita il titolo stesso: il “dolore innocente”. La figlia handicappata lo ha costretto a guardare in faccia quella forma particolare di dolore che sorge da uno stato permanente di privazione, quando il bisogno di uguaglianza è violentato dal caso o dalla volontà dominatrice di alcuni. Il dolore innocente colpisce, secondo Hourdin, tutti gli esclusi e gli emarginati: il mal-formati, i male-amati, i mal-pagati; tutti coloro, insomma, che, senza loro colpa, sono privati definitivamente di una parte delle facoltà, dei sentimenti o dei beni che sono necessari per vivere la vita come la maggioranza degli esseri umani. La realtà del dolore innocente non offre solo lo spunto per una meditazione sulla zona di mistero che accompagna l’esistenza umana. Il credente Hourdin lo vive anche come una sfida a mettere in atto le capacità di condivisione proprie del cristianesimo e variamente realizzate nella storia millenaria della chiesa. Al progetto di lotta contro le ingiustizie fondamentali associa anche altri sforzi; ritiene che la risposta cristiana e la risposta democratica e socialista, siano “unite in maniera indissolubile nella volontà di diminuire o, se possibile, di eliminare il dolore innocente sulla terra”.
Nelle riflessioni sul dolore innocente Hourdin condensa il proprio passato di credente e di militante. L’angolatura teologico-sapienzale riflessa nel titolo rischia però di mettere in ombra quella più esperienziale e concreta del sottotitolo. Probabilmente più di un lettore sarà interessato alle sue esperienze di padre che ha dovuto affrontare il compito di educare una figlia trisomica. E in realtà il libro, oltre che un bilancio personale, vuole essere un invito alla fiducia per le famiglie che si trovano nelle stesse condizioni. Rintracciando il cammino percorso da una bambina ritardata mentale grave verso la conquista e l’esercizio della libertà, si rivolge ai genitori di bambini handicappati per condividere esperienze e speranze. È un discorso che interessa un numero rilevante di famiglie. Basti pensare che in Italia nascono, secondo stime attendibili, 1250 bambini Down all’anno. Hourdin ci fa partecipi dello smarrimento
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provato da lui stesso e dalla moglie di fronte alla diagnosi medica e alle difficoltà di intraprendere un’educazione della bambina senza una guida: “I medici ci avevano dato quel che potevano darci a quell’epoca. Sapevamo che nostra figlia era “mongoloide”. Era, il suo, un mongolismo medio. Era educabile. Tutto il resto, ora, toccava a noi...”.
Prima che l’opinione pubblica si interessasse al problema, l’isolamento dei colpiti da questo handicap e dalle loro famiglie era totale. Benché attorno a loro si costituisse spesso una costellazione di eroismi indicibili — intorno all’infanzia infelice esiste una società fondata sulla dedizione e la solidarietà —, tuttavia la mancanza di aiuti adeguati bloccava ogni possibilità di sviluppo mentale e sociale dei bambini Down. Attualmente qualcosa si sta muovendo per rompere questo isolamento sociale. Si è costituita a Roma, per esempio, l’Associazione Bambini Down, presso il Volontariato del Policlinico Gemelli. La mobilitazione delle famiglie è indispensabile per ottenere dei buoni esiti educativi. Dal momento che i bambini Down raggiungono gradi di sviluppo elevati solo se crescono in un ambiente familiare ricco di affetti e di stimolazioni, si richiede la partecipazione attiva dei genitori. Questi inoltre hanno bisogno di confrontarsi con gli altri nella stessa situazione, di scambiare esperienze e consigli, di socializzare il proprio problema privato.
I genitori di Marie Anne hanno messo in atto una strategia educativa che può essere considerata esemplare. La loro educazione è stata guidata costantemente dall’amore e dall’intelligenza. Non l’uno senza l’altra, perché, come ripete Hourdin, prendendo a prestito un’espressione dello psichiatra Bettelheim, “l’amore non basta”. Se l’amore non basta quando si tratta di realizzare un’educazione, qualunque essa sia, ciò vale in particolar modo quando si tratta dell’educazione di bambini handicappati. Il principio che ha guidato l’opera intelligente dei genitori di Marie Anne può essere riassunto nel tentativo costante di inserire la bambina nel nucleo familiare. Per arrivare a tanto hanno dovuto, come primo passo, accettarla. In un primo momento hanno accettato quella figlia inferma per senso del dovere e perché erano sufficientemente penetrati di spirito cristiano per non rifiutare nessuno (“La nostra figlia handicappata mentale era un messaggio che ci veniva da Dio e che ci chiamava in causa. Non ne capivamo ancora il significato. Ci sarebbe stato rivelato più tardi”). Ma il vero processo educativo, che avrebbe portato Marie Anne a raggiungere l’autonomia e una notevole realizzazione di sé, si è messo in moto quando l’accettazione si è spinta fino a trattarla come una figlia normale.
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Accade fin troppo spesso che il bambino trisomico sia trasformato in una bambola impotente dall’istinto di possesso dei genitori, unito alla volontà di proteggerlo. Gli si organizza una vita a parte, che gli risparmia difficoltà e umiliazioni, ma che al tempo stesso lo priva degli stimoli di cui ha bisogno per realizzarsi. Invece di essere super-protetta, Marie Anne è stata spinta e gettata nella vita. “Amarla — avvertivano i genitori — significava rispondere al suo desiderio di crescere, di essere come gli altri; amarla significava ristabilirla nella comunione della famiglia, della società e della vita”. A lei non è stato solo dato, ma anche chiesto, come a tutti gli altri figli. Così le sue capacità, diverse da quelle degli altri per il carattere concreto della sua intelligenza, sono state pienamente valorizzate.
“Ti voglio bene e voglio la tua libertà e la mia. Voglio che tu sia il più possibile grande”, dice il padre alla figlia. Il libro registra puntualmente, con le difficoltà, i regressi e le riprese, il cammino di Marie Anne verso una maggiore libertà. Senza trionfalismi. Anzi, il resoconto si chiude con una nota pessimistica: raggiunta l’età adulta e risolti brillantemente i problemi della vita pratica, Marie Anne si trova nell’impotenza totale quando pretende di realizzare un suo vagheggiato progetto coniugale. Come farà fronte alla frustrazione sentimentale e sessuale? Hourdin chiude il libro con questo interrogativo. Ma la natura della domanda stessa ci indica che già qui sfioriamo, se addirittura non vi siamo già entrati, il regno delle decisioni con cui ognuno tesse la propria storia personale. Quando l’handicappato è portato a questo livello, la sua educazione umana può dirsi coronata di successo.
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G. Berlinguer, Donna e salute, Il Pensiero Scientifico, Roma 1978, pp. 186.
La parola di Giovanni Berlinguer sui problemi della salute merita credito. Da molti anni si dedica con intelligenza e passione politica allo studio dei rapporti tra città e salute. Insegna medicina sociale all’università di Sassari e igiene del lavoro in quella di Roma; è responsabile del settore scientifico presso la commissione culturale nazionale del P.C.I. È molto attivo anche in campo editoriale. Autore di numerose pubblicazioni, dirige la collana “Società e salute”, presso cui appare questo volume. Una raccolta di scritti occasionali, che abbracciano l’arco di tempo di un decennio: relazioni a convegni di studio, interviste, interventi polemici, discorsi alla Camera dei Deputati. Li unifica il tema che viene evidenziato nel titolo: la donna e il suo rapporto con la salute. Nell’introduzione si scusa, ad captandam benevolentiam, dei limiti che gli provengono dal fatto di essere uomo. Difficilmente, tuttavia, le donne gli negheranno competenza e sincerità; né vorranno respingere il suo apporto per la trasformazione della condizione femminile. Neppure le femministe.
Il materiale eterogeneo raccolto nel volume trova la sua unità intorno ai due poli dell’azione sanitaria: il lavoro e la maternità. Il rapporto tra la donna e il lavoro è un tema delicato, perché vi si intrecciano problematiche antropologiche, politiche ed economiche. Ritardi e inadempienze turbano la buona coscienza anche del movimento operaio. Tra il XIX e il XX sec. un socialismo fortemente basato su ideologie positivistiche ha predicato l’inferiorità biologica della donna e la sua inettitudine al lavoro produttivo. Assolutizzando le reali differenze tra uomo e donna, sono rimaste offuscate le disuguaglianze che dipendono da condizionamenti sociali. Nel marxismo stesso, tanto come sviluppo teorico quanto come socialismo reale, c’è stata una certa trascuratezza verso questi problemi: la dinamica delle classi, che pretendeva di spiegare tutto, lasciava in ombra i nodi dell’esistenza individuale e del rapporto tra : sessi. Un marxismo prevalentemente economicista ha preso in considerazione solo i rapporti di produzione, trascurando quelli di riproduzione. Le rivendicazioni femminili hanno portato negli ultimi tempi alla graduale acquisizione di diritti particolari per la donna che lavora (divieto di lavoro notturno, distacchi per maternità, possibilità di allattare o accudire i figli malati); contemporaneamente, la presa di coscienza che il lavoro industriale è più nocivo alla donna che all’uomo ha indotto a privilegiare
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il momento della prevenzione, affinché, grazie ad una illuminata igiene del lavoro, il lavoro stesso diventi salubre. Oggi la legislazione si può dire adeguata e le possibilità scientifiche progredite; il pericolo ridiede invece attuale — è un’opinione di Berlinguer che ritorna in varie parti del libro — nello scarto tra la “ipertutela giuridica e l’ipotutela quotidiana”. In altre parole, le leggi, pur giuste, non sono immediatamente traducibili nella pratica, in quanto contrastano con le strutture sociali. “Vi sono reali difficoltà di conciliazione tra il lavoro, i sentimenti, i doveri familiari. Vi sono principi da affermare, ma anche fasi transitorie da affrontare con realismo”.
Una questione controversa che Berlinguer non evita di affrontare è quella del rapporto della donna con la medicina. Se in clima di medicina empirica alla donna è spettato un ruolo di detentrice del sapere terapeutico (e oggi si ristudiano le esperienze delle maghe e delle streghe!), la medicina scientifica è stata per lo più oppressiva per la donna moderna. Il paternalismo maschile è stato elevato al quadrato nel rapporto che rendeva la paziente soggetta al sapere e al potere del medico. L’ala più estrema del movimento femminista ha radicalizzato la protesta. Lo slogan della “riappropriazione del corpo” comporta come corollario il “riappropriarsi della medicina”, rifiutando la “medicina dei maschi”. Di qui il diffondersi di pratiche come il self-help, l’autovisita e l’autoterapia, l’aborto col metodo Karman (che non esige, di per sé, l’intervento del medico). Berlinguer rifiuta questa condanna in blocco della medicina moderna. Quando si respinge la scienza si rischia la regressione culturale, il ricorso a pratiche primitive prive di ogni sicurezza profilattica. A suo avviso va riconosciuto che “il sesso femminile ha tratto dai progressi delle scienze mediche e dall’assistenza sanitaria di massa più vantaggi del sesso maschile: se non altro perché la durata media della vita umana è cresciuta, nell’ultimo mezzo secolo, più per le donne che per gli uomini; e perché la medicina fornisce già ora i mezzi per superare radicalmente (anche se la società li usa in modo discriminato e insufficiente) alcune condanne storiche e biologiche della donna: può garantire l’incolumità nel parto, la scissione dell’attività sessuale dalla riproduzione, e può prevenire maternità indesiderate”. Senza sottovalutarne i vantaggi individuali e anche politici che la medicina ha portato alle donne, è ora necessario superare le forme di oppressione e di esclusione residue. Berlinguer auspica che la situazione evolva non verso il separatismo, bensì verso la partecipazione delle donne alla medicina scientifica e all’organizzazione
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sanitaria pubblica. Per modificare radicalmente i servizi sanitari nei loro rapporti con le donne è necessario un massiccio inserimento femminile nelle categorie medica, paramedica, infermieristica, nonché la partecipazione attiva delle donne nella gestione dei consultori.
La terza parte del volume è dedicata all’aborto. Giovanni Berlinguer ha contribuito alla formulazione della legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza. Riflette le posizioni di principio e quelle politiche del suo partito, senza risparmiare battute polemiche all’indirizzo dell’atteggiamento tenuto dalla chiesa italiana. Pur dissociandosi dalla tesi che l’aborto favorisca la libertà della donna, e auspicandone quindi più il superamento che la liberalizzazione, vede nella regolamentazione legale dell’interruzione della gravidanza un momento positivo di socializzazione del problema. L’ispirazione umanitaria che attribuisce alla legge è quella di rompere l’isolamento della donna costretta a fronteggiare una maternità non voluta. Per quanto si possa dissentire sull’efficacia di questa normativa nel favorire una risposta responsabile e collettiva al problema delle gravidanze non desiderate, non si può non essere d’accordo con Berlinguer quando auspica che si possa “procedere insieme armati di volontà sociale e culturale, anziché con gli articoli del codice penale” per tutelare la vita umana.
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B. Häring, Liberi e fedeli in Cristo, Paoline, vol. 3°, Roma 1981, pp. 570.
P. Häring ha concluso la sua fatica. Lo aspettavamo, questo terzo volume, con trepidazione. Ormai questa rifusione del suo celebre manuale di morale cristiana (La legge di Cristo, ugualmente in tre volumi, pubblicato per la prima volta nel 1953, su cui si sono formate le generazioni di teologi e di pastori che avrebbero vissuto la grande stagione della chiesa conciliare) è troppo nota per dover essere presentata in dettaglio. La trepidazione era legata a quanto lo stesso Häring confidava ai suoi lettori nella prefazione del secondo volume: che era affetto da cancro alla laringe e stava lottando con il tempo per portare a compimento la sua opera. Laringetomizzato nel frattempo, continua con i suoi scritti ad annunciare all’uomo del nostro tempo una morale evangelica: non casistica, non repressiva, ma davvero una morale che è una “buona notizia”. Tra il rigorismo dei legalisti e il lassismo di coloro che sono succubi della secolarizzazione, P. Häring ha scelto di percorrere una “via media”; che è però una via eroica, in un tempo di cambiamento e di incertezza.
L’ispirazione evangelica della morale di Häring si riflette nell’impostazione di fondo di questa nuova sintesi. L’impianto è quello tradizionale: il primo volume tratta la morale fondamentale, e gli altri due quella speciale. Un tema unificatore conferisce però omogeneità alle suddivisioni della materia. La morale fondamentale è costruita intorno alla “libertà per la quale Cristo ci ha liberati” (Gal. 5,1). Il primo volume della morale speciale ruota intorno alla “verità con la quale Cristo ci rende liberi” (Giov. 8,32): la verità — insieme alla bellezza — è il volto che acquista l’esistenza del discepolo che vuol vivere nella sequela di Gesù; la fede, la speranza e la carità (le classiche virtù teologali) sono le vie che conducono alla verità. Questo terzo volume è dedicato a quella che, nel linguaggio manualistico, è chiamata “morale sociale”: vale a dire, le nostre responsabilità in ordine alla salute delle persone, delle comunità e della vita pubblica, e in ordine all’instaurazione di rapporti interumani sani e di un ambiente salubre. Per i cristiani si tratta di vivere in consonanza con il mandato evangelico: “voi siete la luce del mondo” (Mt. 5,14), scelto come motto unificante del volume. Un apporto originale di Häring è quello di considerare l’etica sociale cristiana in un’ottica “terapeutica”. Prolungando l’azione di Gesù, la comunità dei suoi discepoli è
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impegnata in un’opera di risanamento: “I cristiani, come non possono privatizzare la loro fede e speranza, così devono manifestare di essere coinvolti nella presenza e nella venuta sanante di Cristo nel mondo”.
I cultori di morale medica sono particolarmente interessati all’estesa trattazione della materia, collocata in apertura di volume. È chiamata, secondo il neologismo americano, “bioetica”. P. Häring si è già più volte occupato dei risvolti morali della vita fisica. Lo documentano in particolare due volumi: Etica medica, Roma 1972 e Medicina e manipolazione, Roma 1976. Nel primo raccoglieva l’eredità della ricca pubblicistica prodotta dai moralisti cattolici intorno agli anni ’50 in tema di etica medica. La situava però nel nuovo contesto, costituito dai progressi della medicina e della biologia, da una parte, e dai nuovi sviluppi della teologia cattolica durante e dopo il Vaticano II, dall’altra. “Non diamo risposte una volta per tutte, né risposte già pronte per tutti i nuovi problemi. Dobbiamo oggi impegnarci lealmente per restare fedeli alla nostra eredità con le esigenze dei nuovi tempi, soprattutto nel dialogo interdisciplinare”, proclamava P. Häring nell’introduzione. Come criterio fondamentale per valutare i problemi attuali della professione medica e del paziente, assumeva la libertà e l’integrità della persona umana.
Uno sviluppo ulteriore è costituito da Medicina e manipolazione. La manipolazione medica, comportamentale e genetica veniva inserita nell’insieme delle manipolazioni insidiose che minacciano quasi ogni settore della vita moderna; senza però ignorare le possibilità offerte di liberarci da condizionamenti sfavorevoli allo sviluppo del genere umano. “Che cosa significa la manipolazione nella e per la storia della libertà e della liberazione?”, si domandava il teologo moralista. I criteri per il discernimento dei limiti etici della manipolazione venivano cercati nello spirito della teologia della liberazione.
Trattando la bioetica nel contesto della sua nuova sintesi della morale cattolica, Häring adotta un’angolatura che le conferisce maggiore spessore teologico. La sua preoccupazione non è quella di fornire soluzioni morali “allargate” ai problemi tradizionali, e tantomeno compromessi, bensì di acquisire la giusta prospettiva, operando scelte evangeliche di valore e di senso. Situa la promozione e protezione della vita, la salute e la terapia, la morte e il morire nel contesto del più ampio dovere, che incombe ai cristiani e a tutti gli uomini di buona volontà, di unire le forze per la costruzione di un mondo più sano. “Tutta la redenzione è un’opera di risanamento, di guarigione. Di conseguenza tutta la
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teologia, e segnatamente la teologia morale, ha un’essenziale dimensione terapeutica. Cristo, il Salvatore, è anche Medico, Colui che guarisce. Egli è venuto a guarire la persona singola nelle sue relazioni, ma ha pure proclamato il Regno, un regno che abbraccia tutto, e quindi anche un mondo sano in cui vivere. I cristiani sono, in Cristo, dei terapeuti, della gente che fa opera di guarigione. Essi hanno la missione di guarire se stessi, di guarirsi gli uni gli altri e di lavorare uniti per la creazione di un mondo più sano”. L’etica medica si configura così come una parte dell’etica sociale, cioè della nostra corresponsabilità nel mondo e per il mondo.
“Teologia morale per preti e laici”, è il sottotitolo che specifica l’orientamento di Liberi e fedeli in Cristo. Col superamento degli antichi schemi moralistici, che riservavano la conoscenza della morale ai confessori, affinché questi la trasmettessero poi ai fedeli, cade un ultimo bastione del paternalismo.
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V. Messori, Scommessa sulla morte, ed. SEI, pp. 414.
Eccoci al secondo appuntamento di Vittorio Messori con i lettori. Il successo così strepitoso del primo libro — Ipotesi su Gesù ha raggiunto in Italia il mezzo milione di copie e quasi altrettante all’estero, dove è stato tradotto in una quindicina di lingue — è una grossa ipoteca per uno scrittore. Riuscirà ancora a far centro, a conquistare l’interesse dei lettori, bombardati da centinaia di nuovi titoli a getto continuo, a mettere in moto la valanga di consensi che costituisce il successo di un libro? Il paradosso è che l’ultima preoccupazione di Messori sembra essere proprio quella di accarezzare i gusti del pubblico. Chi poteva predire un destino da best-seller a un libro che divulgava gli studi storici ed esegetici su Gesù? Questa volta la scelta dell’argomento sembra essere una vera provocazione. L’autore mette nelle mani del lettore un denso libro di più di quattrocento pagine dedicato alla morte, cioè proprio al soggetto di cui per educazione, per convenzione sociale, per angoscia repressa (e forse anche un po’ per scaramanzia...) evitiamo di parlare. In realtà sembra che Messori scelga l’argomento dei suoi libri in funzione di se stesso, non del lettore. Si presenta all’appuntamento con il frutto del suo appassionato e rovelloso meditare, e lo porge al lettore senza cerimonie: questo è ciò che a me interessa sopra ogni altra cosa; interessa anche a te?
I suoi libri sono una forma di dialogo. Messori si rivolge direttamente al lettore, lo interpella, cerca di convincerlo, qualche volta lo strapazza. Il dialogo è più che un espediente retorico per fissare l’attenzione; esprime il suo bisogno di rispecchiarsi, di confrontarsi, di mettere in moto la discussione. Così, per una di quelle tipiche contraddizioni di cui è intessuta la vita di ognuno, Messori, l’introverso e riservato Messori, si trova esposto in prima persona: deve parlare di sé, lasciar cadere controvoglia brandelli della sua autobiografia intellettuale e spirituale, prendere posizione, svelare le sue preferenze e le sue allergie (nella nostra vanità di homo sapiens ci illudiamo di regolarci secondo la logica delle idee chiare e distinte; ma forse l’animale che sonnecchia in noi continua a lasciarsi guidare dal fiuto, e scegliamo amici e avversari dall’odore... delle idee!). Messori evita le pose da personaggio. Anche dopo il successo del suo libro precedente ha mantenuto il suo stile di vita schivo. Ha evitato le interviste, gli interventi nei mass-media, le comparse in pubblico. Si è ritirato a lavorare, lontano dai clamori pubblicitari,
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nella redazione del mensile Jesus. I lettori conoscono le sue interviste a personaggi grandi e piccoli della scena culturale. Ormai sono familiarizzati al suo stile; sanno che Messori temporeggia finché non riesce a piazzare la sua domanda, l’unica che apparentemente gli sta veramente a cuore: chi è Gesù per lei? Lui, così schivo, non esita a fare le domande più indiscrete. Nel suo lungo soggiorno a Torino, prima come studente di scienze politiche e poi come giornalista, ha assimilato quel pudore piemontese che impone di non manifestare i sentimenti, di non tradire i moti più segreti dell’animo. Ma fa una vistosa deroga per ciò che riguarda la vita spirituale. Questa non può e non deve essere coperta della privacy, ma piuttosto discussa, confrontata, inseguita nelle pieghe più riposte della vita. Così, pudico e indiscreto insieme, Messori offre al lettore con questo libro la sua ruminazione sulle questioni ultime, sul senso della vita vista dalla soglia della morte: “ciò che mi sono detto prima di averti detto”, precisa al lettore.
A che titolo parla Messori della morte? Da giornalista? Il libro è certamente scritto in tono giornalistico: non una citazione di opere, solo le opinioni degli autori consultati; ma non è propria del giornalista la passione missionaria che lo anima. Da “tanatologo”? Messori ha letto con attenzione tutta la produzione dei tanatologi, cioè degli esperti della morte secondo le varie scienze dell’uomo, e ritiene preziosa la loro opera di sensibilizzazione, che ha tolto il tabù caduto sopra la morte nella cultura occidentale; tuttavia rifiuterebbe l’etichetta di tanatologo: ciò che egli persegue è un obiettivo diverso dalla semplice crescita del sapere sull’uomo. A lui interessa più la sapienza che la scienza. Vive più da contemplativo che da intellettuale. È l’impressione che mi si è imposta andandolo a trovare a casa sua, a Milano. Pareti foderate di libri fino al soffitto, bandita la televisione: l’ambiente ideale per il suo lavoro da solitario. Lavora per sé, ma tenendo presenti gli altri. La sua vocazione è forse quella di pedagogo, che vuol diffondere intorno a sé l’arte del buon vivere. E del buon morire. Accetta tatticamente la definizione di vita che dà la medicina, come l’insieme delle funzioni che si oppongono alla morte, ma per soggiungere subito che la spiritualità è una di tali funzioni.
La proposta di Messori non riguarda una spiritualità generica, ma specificamente quella cristiana, e più precisamente quella cattolica. Vuol indicare nella Chiesa cattolica il luogo in cui le questioni sulla vita e sulla morte sono poste nel modo più soddisfacente per l’intelligenza, più
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appagante per il desiderio; insomma, nel modo più “credibile”. La dottrina cattolica sulle cose ultime è il luogo in cui si può credere facendo la famosa “scommessa” pascaliana: la posta è la speranza di una felicità infinita, col rischio di perdere solo dei beni inconsistenti. L’affinità con Pascal trapela non solo nel titolo, ma in ogni fibra del pensiero di Messori: la stessa concezione militante e aggressiva della religione, propria del convertito; la stessa denuncia dell’insufficienza della filosofia (per Messori sono le ideologie: borghese, comunista e radicale, che hanno nascosto la morte come scheletri nell’armadio); la stessa scansione del viaggio verso la proposta cristiana: dapprima la scoperta di un uomo nascosto, esplorando i sottofondi dell’esistenza superficiale; poi la scoperta di un Dio nascosto, visibile però agli occhi della fede. Messori, dunque, apologeta della fede cristiana? Troppo sbrigativamente questo genere letterario era stato dato per superato.
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Giuseppe Colombero, La malattia. Una stagione per il coraggio, Ed. Paoline, pp. 159.
I medici, le medicine, gli ospedali son fatti per aiutare a guarire: chi lo metterebbe in dubbio? Non tutti invece sono disposti a sottoscrivere che anche il sacerdote che si avvicina al malato dia un contributo per la guarigione. Il sacerdote si occupa dell’anima: niente da eccepire (almeno per i credenti); ma che cosa ha che fare la sua opera con la guarigione? Il problema è proprio il modo in cui si intende la guarigione. Nel modello medico dominante questa consiste nel “togliere il male”: eliminare il dolore o il sintomo, ristabilire il funzionamento dell’organismo che esisteva prima che la malattia lo sconvolgesse, riparare il guasto e rimettere in efficienza la macchina corporea.
Ma la malattia dell’uomo non è solo una disfunzione dell’organismo. La sua realtà è molto più complessa. Per il malato la malattia è una minaccia alla propria libertà; una sfida a riscoprire il proprio corpo, che assume altre dimensioni; una provocazione rivolta all’identità psicologica; una minaccia di emarginazione sociale, che comincia con il trauma di trovarsi smarrito nei labirinti dell’ospedale; una crisi esistenziale, in cui bisogna spesso dare un nuovo contenuto alla speranza che animava il proprio progetto di vita; un sovvertimento di valori, che ha il suo riflesso nella vita religiosa. Tutto ciò, e molte altre cose ancora, significa la malattia per colui che la incontra sul suo cammino.
Quando consideriamo questa complessità di significato umano della malattia, la guarigione assume un’altra portata. Guarisce non colui a cui è tolta l’infermità, ma chi vive positivamente tutte le opportunità per la propria autorealizzazione umana e spirituale che la malattia gli offre. Il sacerdote può aiutare a guarire appunto in questo senso, facendosi il facilitatore della crescita in umanità. Ce lo ricorda Giuseppe Colombero con questo libro. Da diciotto anni è assistente religioso in un grande ospedale di Torino. Si è accostato ai malati non solo come distributore di sacramenti, ma come essere umano che vuol capire che cosa significa la malattia per l’altro essere umano che ha di fronte («Non vi sono due malati uguali. Ogni uomo elabora e gestisce la sua malattia in modo del tutto personale»). Li ha ascoltati e ha raccolto le loro testimonianze in una serie di protocolli che riportano il vissuto dei malati con le loro stesse parole. Ne risultano pagine straordinariamente vicine alla vita, dove è riflesso ciò che possono osservare quotidianamente coloro
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che hanno familiarità con i malati. Mentre viene messo in evidenza lo spessore psicologico delle reazioni abituali di fronte alla malattia, se ne valorizza la ricchezza umana. Il libro offre così un aiuto a chi vuol “aiutare a guarire” nel senso più globale; a chi vuol cioè fornire al malato un aiuto a ritrovare più profondamente se stesso attraverso la malattia. E magari anche a trovare Dio.
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M. Sandrail, Histoire culturelle de la maladie, ed. Privat, Toulouse 1980, pp. 447.
Con questa grande opera Marcel Sendrail ha voluto concludere la propria vita dedicata allo studio del significato antropologico della malattia nelle diverse civilizzazioni. La morte gli ha impedito di condurre in porto il lavoro progettato; nove altri specialisti sono stati chiamati a completare il progetto. A buon diritto, tuttavia, il volume reca in copertina il solo nome di Sendrail: sia perché i due terzi sono dovuti alla sua penna, sia soprattutto perché anche il resto dell’opera respira omogeneamente del soffio che egli gli ha conferito. Il suo intento non era quello di compilare una storia della medicina di stampo tradizionale: la carellata attraverso secoli e culture per esporre la condizione dei nostri antenati nella società, il loro esercizio dell’arte medica, i sistemi dottrinali antropologici e patologici, la catena delle scoperte, per finire invariabilmente con l’esaltazione dei progressi recenti e del trionfo della medicina negli ultimi due secoli. Sendrail progetta, invece, una storia della medicina in cui la preminenza non spetta a nessuna civiltà. La sua è piuttosto una storia delle malattie, con tutto il loro spessore umano. Non guarda perciò le malattie esclusivamente con lo sguardo medico che dall’esterno enumera i sintomi, identifica il male e ne determina le cause. Ai suoi occhi la malattia è, come per il paziente stesso, “il dramma oscuro, avvenimento della sua coscienza profonda, in cui si trova impegnato l’essenziale del suo destino singolare” (p. 159). La malattia è soggetta a un’interrogazione filosofica: essa è il male (la chiave di volta dell’opera è proprio il primo capitolo, dedicato a “La nascita del Male”), dalla cui scoperta nasce la coscienza di sé. Percorrendo l’Egitto e Babilonia, l’antica Grecia e il mondo biblico, la fede coranica e il medioevo, Sendrail scandaglia le diverse civiltà, alla ricerca della malattia dominante e del senso che le viene attribuito. Una speciale segnalazione merita il capitolo dedicato al cristianesimo delle origini (cap. 8: “Il buon Pastore”). Al Cristo è attribuito il netto rifiuto di quella confusione ostinata del male fisico e del male morale che ritroviamo a tutti gli stadi dell’evoluzione umana e che si impone ancora al nostro sentimento “spontaneo”. Gli altri ricercatori proseguono l’esplorazione di Sendrail in altre culture e la conducono fino ai nostri giorni.
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E. Heim, Krankheit als Krise und Chance, Kreuz Verlag, Stuttgart 1980, pp. 237.
In 25 anni di vita un adulto attraversa, in media, una malattia mortale, una ventina di malattie serie e circa duecento di media gravità, per non parlare di un migliaio di affezioni banali. La malattia è perciò un problema eternamente presente nella vita di ogni individuo. Ciò che varia di persona a persona è l’atteggiamento nei confronti della malattia. Chi si sente malato può ignorare i sintomi, curarli da solo o ricorrere a un medico. I fattori psichici sono decisivi per l’elaborazione personale del fatto morboso: è la forza psichica che decide se la malattia diventa una crisi o una chance esistenziale. Proprio questa variabile psichica è oggetto di studio dell’A., in nome di una concezione della medicina che gli americani chiamerebbero “olistica”, e che per i tedeschi è la “medicina della globalità” (ganzheitliche Medizin). Una nuova medicina non solo postulata, ma praticata. Heim parla, infatti, sulla base della propria ventennale pratica medica, nonché della comprensione del ruolo del malato acquisita mediante la propria esperienza di malattia. A suo avviso le carenze attuali della medicina vanno fatte risalire alla unilateralità che si è instaurata all’alba dell’epoca moderna, quando la Chiesa ha lasciato il corpo al medico, riservando a sé la competenza per l’anima. Queste carenze possono diventare, tuttavia, degli stimoli per rivitalizzazione della medicina, a condizione che il rapporto medico-paziente venga posto al centro dell’azione terapeutica; e che l’uomo malato venga considerato nella sua totalità, come essere bio-psico-spirituale.
278
Janos Pasztorfi, Die Medizin kann nicht heilen, Pro Inform Verlag, Wiesbaden 1983, pp. 176.
L’A., ungherese di origine ed economista di professione, trasferitosi nella Repubblica Federale Tedesca ha aperto uno studio come guaritore (Heilpraktiker) e ha sviluppato una scuola terapeutica dal nome ambizioso: “Terapia globale tridimensionale”. Parte dall’a-priori teorico che l’uomo esiste in tre dimensioni: coscienza, psiche e physis, e sostiene che “la medicina di scuola non può guarire” (Die Medizin kann nicht heilen), ma solo curare sintomi, perché solo la persona interessata, e non un’istanza esterna a lui, può mantenere o ristabilire la salute. Imparare a curare la propria salute è un processo di apprendimento che porta come risultato finale a un nuovo modo di pensare. In tale processo Pasztorfi privilegia l’aspetto cognitivo: sono i pensieri, e non la volontà, che giocano nell’organismo e anche nella vita il ruolo decisivo. Dedica una speciale attenzione ai pensieri che si sviluppano in “autosuggestione”: sono quelli dotati di particolare intensità, che inchiodano l’attenzione e svegliano l’interesse istintivo. Tali suggestioni possono essere anche delle alleate, purché si arrivi a cambiare le false suggestioni con quelle giuste. La proposta di Pasztorfi, corredata di istruzioni per un attivo apprendimento, si muove entro l’ambito dell’“autosuggestione attiva”, un metodo autoipnotico elaborato da Kretschmer.
279
P. L’Echevin, Musique et médicine, ed. Stock, Paris 1981, pp. 236.
L’accostamento proposto dall’A. è tanto nuovo e inusitato da sembrare quasi una provocazione. Lo spaesamento è una prova ulteriore di quanto la divaricazione tra “arte” e “scienza” sia stata fatta a spese dell’umano. Musicista e chirurgo: Patrick l’Echevin si è proposto di essere l’uno e l’altro, sottomettendosi seriamente e professionalmente alle due discipline. Di fronte all’imperativo culturale che richiede la specializzazione, sente il bisogno di difendersi. Lo fa anzitutto ripercorrendo i rapporti storici tra la musica e la medicina, dalle origini (“All’inizio era la magia”, in cui l’arte di curare passa obbligatoriamente attraverso P“incantesimo”, o canto magico) fino al XX secolo. Dallo stregone guaritore all’artista-medico, la storia si dimostra generosa nell’appoggiare la tesi dell’A. Il quale, però, non si accontenta né della conferma autobiografica, né di quella storica. Elabora una serie di riflessioni personali per esplicitare il legame intimo tra le due attività. La sua tesi può essere ricondotta all’assioma che “il medico si occupa dell’uomo nel suo insieme, e la musica traduce l’uomo tutto intero”. Con il vantaggio per la musica, rispetto alle arti dello spazio e della bellezza immobile, di essere Parte più comunicativa, ia sola che permette di tradurre il dolore del corpo e dell’anima senza descriverlo, perché è un linguaggio universale. Il successo della “musicoterapia”, rapidamente affermatasi negli ultimi anni, va esattamente nel senso indicato da l’Echevin.
280
Ernst Becker, Il rifiuto della morte, Ed. Paoline, Roma 1982 pp. 401.
Licenziando il suo libro, l’autore scriveva nella prefazione che lo considerava un «trattato di pace della sua anima di studioso», e che sentiva che era la sua prima opera veramente matura. Ciò che non sapeva, era che sarebbe stata anche l’ultima: la morte lo avrebbe colto di lì a poco, all’età di cinquant’anni. E probabilmente non immaginava il successo che avrebbe arriso al suo libro, insignito del premio Pulitzer e unanimemente salutato dalla critica di ogni sponda come uno dei più originali contributi degli ultimi tempi alla psicologia. Pur ammirando Freud e apprezzando il suo contributo alla conoscenza dell’uomo, Becker vuol procedere oltre. Ma, paradossalmente, il suo cammino oltre Freud e la psicanalisi lo riporta indietro. Ritorna, infatti, alle questioni poste da Kierkegaard. Il quale, sostiene Becker, pur scrivendo intorno al 1840, era un post-freudiano: a dimostrazione dell’eterna imprevedibilità del genio!
Kierkegaard è un prezioso compagno di viaggio, perché ci accompagna anche oltre il punto in cui ci lascia Freud, ovvero dove si arresta la conoscenza della psicodinamica inconscia. Se veramente si vuol giungere alle radici — è la tesi che accomuna Becker agli esponenti delle nuove correnti della psicologia umanistica e transpersonale — l’analisi psicologica e quella religiosa sulla condizione umana sono inseparabili. Distinte, ma non contrapposte; autonome nel proprio ambito e linguaggio, ma con reciproci profondi richiami.
La scienza, compresa la psicologia, rappresenta un “credo” che s’è sforzato di assorbire in sé e di negare la paura della vita e della morte. Ebbene, il rifiuto della morte è un’impresa non solo vana, ma anti-umana in assoluto, come ha insegnato Kierkegaard. È proprio il porsi con “timore e tremore” di fronte alla morte che qualifica l’esistenza umana. Attingendo l’autocoscienza, l’uomo giunge a riflettere sulla propria condizione, prende coscienza delle terribilità del mondo, della corruttibilità e della morte. La morte, in particolare, rappresenta l’ansietà peculiare e massima dell’uomo. E la psicologia non è in grado di risolvere questo problema, mentre può farlo la religione. La vittoria sull’umana limitatezza, secondo Becker, è impresa comune della scienza e del pensiero religioso, in quanto l’uomo è irriducibilmente un «animale teologico».
Riflettere sulla morte significa, in definitiva, porsi il problema di come essere uomo: un problema riguardo al quale nessuno è in grado
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di dare consigli ad alcun altro. Né Becker vuol atteggiarsi a maestro. Ma chi lo avrà seguito negli esigenti sviluppi del suo pensiero, maturato alla lettura di filosofi, teologi e psicologi, non rimpiangerà la fatica. Chiuderà il libro con la convinzione che il coraggio di vivere e il coraggio di morire sono le due facce della stessa medaglia.
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Renato e Rosellina Balbi, Lungo viaggio al centro del cervello, ed. Laterza, Roma 1982, pp. 126.
La saggistica volta a divulgare ricerche scientifiche che sembrerebbero assolutamente inaccessibili ai profani non è più una rarità. Anche nel campo della biologia del cervello — una punta di diamante della scienza moderna — non mancano studi rispettabili che mettono alla portata del lettore medio i risultati delle ricerche fatte da scienziati che altrimenti son soliti parlare solo tra di loro, e in “marziano”. Il saggio di Renato e Rosellina Balbi merita, nell’ambito di questa produzione, un’attenzione particolare. Per il lato umano che accompagna l’origine del libro, anzitutto. Si tratta di un’impresa famigliare. Il fratello è dedito alla ricerca scientifica e all’insegnamento universitario. Pubblica un grosso volume sull’evoluzione stratificata del cervello, che cade però nell’indifferenza del mondo accademico e rimane per lunghi anni ignorato. È risentito: non tanto per l’offesa al suo narcisismo, quanto piuttosto perché è convinto che la sua teoria spieghi meglio i fatti e abbia anche possibilità applicative in campo medico. Confida la sua amarezza alla sorella; e questa, che di mestiere fa la giornalista, specializzata in servizi culturali, e sa quindi come si parla al grande pubblico, gli viene in aiuto (non sono più i fratelli, forti e sicuri, che soccorrono le sorelline impotenti? Bisognerà rivedere qualche stereotipo...). Riscrive il libro a modo suo: lo condensa, lo semplifica (ma il fratello scienziato veglia perché non cada in semplicismi), gli conferisce la struttura appassionante di un puzzle. Inchioda fin dall'inizio l’interesse del lettore promettendogli di fornire una risposta a interrogativi avvincenti, quali: perché, se veniamo ipnotizzati, obbediamo passivamente all’ipnotizzatore? Perché facciamo certi sogni o certi lapsus? Perché chi cammina in stato di sonnambulismo non si fa male? Come si spiegano le doppie personalità? E il libro ha successo. Ottiene che anche i non addetti ai lavori si interessino alla “legge di Haeckel”, secondo cui l’ontogenesi (cioè l’evoluzione del singolo individuo) ripercorre la stessa strada della filogenesi (le tappe cioè che ha seguito l’evoluzione della specie che ha portato all’uomo). Questa legge è applicata al sistema nervoso: sia prima della nascita che dopo la nascita, ciascuno di noi passerebbe attraverso gli stessi stadi percorsi dall’antenato dell’uomo durante l’evoluzione.
Dove sta l’interesse pratico della teoria? Nella possibilità di prevedere che, in caso di lesione dei centri superiori, alcune funzioni abitualmente
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svolte dalla corteccia cerebrale siano «riprese in consegna» dai centri nervosi più arcaici. L’essere umano in questi casi può funzionare in modo soddisfacente, anche se è costretto a retrocedere a un livello evolutivo inferiore. Lo tengano presente i neuro-chirurghi: si potrebbe restituire a persone menomate senza speranza la capacità di muoversi o di parlare. Ma affinché non siano risvegliate infantili speranze nell’onnipotenza della medicina, scienziato e giornalista si affrettano ad aggiungere che in questo campo stiamo oggi muovendo appena i primi passi. Il paesaggio è ancora troppo oscuro perché basti a rischiararlo la legge di Haeckel riesumata.
Questo lungo viaggio al centro del cervello appassiona anche chi non è familiarizzato con la ricerca scientifica, perché è in definitiva un lungo viaggio intorno all’uomo. Sullo sfondo si muovono le domande più inquietanti: quanta parte del nostro comportamento è “animale” o istintuale, cioè programmata dalla natura? Quanto siamo liberi e quanto predeterminati? C’è un senso, una meta, una finalità nell’evoluzione — quel “punto Omega” che Teilhard de Chardin individuava nel Cristo —, oppure è solo un’avventura cieca della natura? La scienza probabilmente non può dare la risposta definitiva a queste domande. Né noi gliela chiediamo. Le chiediamo solo di mantenere vive le domande.
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INDICE
5 Introduzione - L’antropologia per umanizzare la medicina
13 Capitolo Primo - ANTROPOLOGIA CRISTIANA E MEDICINA
15 1. La riflessione antropologica in medicina
25 2. Antropologia cristiana per un’etica della salute
40 3. Victor von Weizsäcker: un modello di medicina antropologica
53 Capitolo Secondo - NEL COSMO E NELLA STORIA
55 1. Riflessione cristiana sull’ecologia
70 2. Utopia da vivere
79 3. Vivere e modellarsi. La funzione antropologica e spirituale dei modelli
95 4. Gli stati di vita: un approccio antropologico-spirituale
95 Capitolo Terzo - LA CORPOREITÀ
119 1. Il corpo come espressione e come comunicazione
126 2. La riappropriazione del corpo nella cultura contemporanea
144 3. Dimensioni spirituali del corpo
155 4. Corpo e vita spirituale
173 Capitolo Quarto - VICISSITUDINI DEL CORPO
175 1. L’approccio medico alla sessualità
184 2. Il tempo della malattia. Per un rinnovamento dell’insegnamento cristiano
194 3. Problemi antropologici ed etici del morire, oggi
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207 Appendice
211 Schede bibliografiche
211 P. Ferrari (a cura), Le separazioni dalla nascita alla morte
213 Naîitre... et ensuite?
216 J. Money - H. Musaph (a cura), Sessologia
219 H. Wolff, Gesù, la maschilità esemplare
222 H. Wolff, Gesù psicoterapeuta
225 H.R. Weber, Gesù e i bambini
228 J.G. Lemaire, Vita e morte della coppia
231 R. Jacoby, L’amnesia sociale
234 L. Boggio Gilot, Uomo moderno e nevrosi
237 M.E. Hunt - R. Gibellini (a cura), La sfida del femminismo alla teologia
241 Ph. Ariès, L’uomo e la morte dal medioevo ad oggi
246 R. Gordon, Dying and creating: a search for meaning
249 R.A. Moody, La vita oltre la vita
254 T. Bertherat, Guarire con l'antiginnastica
256 S. Sontag, Malattia come metafora
261 G. Hourdin, Il dolore innocente. Un handicappato nella mia famiglia
265 G. Berlinguer, Donna e salute
268 B. Häring, Liberi e fedeli in Cristo
271 V. Messori, Scommessa sulla morte
274 G. Colombero, La malattia. Una stagione per il coraggio
276 M. Sandrail, Histoire culturelle de la maladie
277 E. Heim, Krankheit als Krise und Chance
278 J. Pasztorfi, Die Medizin kann nicht heilen
279 P. L’Echevin, Musique et médicine
280 E. Becker, Il rifiuto della morte
282 R. e R. Balbi, Lungo viaggio al centro del cervello
1 Per la sociologia: D. Tuckett, An Introduction to Medical Sociology, London 1976; P. Swertz, Elementi di sociologia ospedaliera, Roma 1978; punto di riferimento obbligato restano gli apporti di T. Parsons, On becoming a patient, in J.R. Folta (a cura), A Sociological Framework for Patient Care, N. York 1966 e T. Parsons, Il sistema sociale, tr. it. Milano 1965. Molte sono le opere autorevoli di psicologia medica. Citiamo: M. Porot, La Psychologie médicale du practicien, Paris 1976; M. Sapir, La formazione psicologica del medico, Milano 1975; M. Reuchlin, Trattato di psicologia applicata, vol. VIII, Applicazione mediche, Roma 1974; L. Bini e T. Bazzi, Psicologia medica, in Trattato di psichiatria, vol. I, Milano 1971.
2 Manuali recenti di antropologia medica permettono una delimitazione precisa del campo di lavoro della nuova disciplina. Cfr.: G.M. Poster e B. Gallatin Anderson, Medical Anthropology, New York 1978; D. Landy (a cura), Culture, disease and healing: studies in medical anthropology, New York-London 1977.
3 Nella definizione di G.M. Foster (cfr. nota 2), l’antropologia medica ha una dimensione teoretica e una applicativa. Comprende le ricerche degli antropologi per descrivere e interpretare le interrelazioni bioculturali tra il comportamento umano, passato e presente, e i livelli di malattia e salute. Include anche la partecipazione degli antropologi in programmi il cui fine sia il miglioramento dei livelli di salute mediante una migliore comprensione delle relazioni tra i fenomeni bio-socioculturali e la salute.
4 Per una visione d’insieme e le diverse articolazioni dell’antropologia filosofica in medicina, cfr. P. Christian, “Medizinische und philosophische Anthropologie”, in Handbuch der allgemeinen Pathologie, Berlin-Heidelberg-New York 1969, vol. I, pp. 232-274.
5 S. Zweig, Die Heilung durch den Gesist, Salzburg 1931, p. 11.
6 M. Vegetti, Le scienze della natura e dell’uomo nel V sec., in Storia del pensiero filosofico e scientifico, Milano 1970, I, p. 126 ss.
7 C. Cluckhohn, L’umanità allo specchio. Introduzione all’antropologia, tr. it. Milano 1967, p. 1.
8 J. Galdstone (ed.), Man's Image in Medicine and Anthropology, New York 1963.
9 Tra i manuali teologici recenti la visione d’insieme più esauriente dell’antropologia cristiana è fornita da M. Flick - Z. Alszeghy, Fondamenti di un’antropologia teologica, Firenze 1970. Degli stessi autori, in tono più divulgativo, L’uomo nella teologia, Modena 1971.
10 Il punto di riferimento obbligato è la costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo. Tra i numerosi saggi di commento contenuti nella raccolta curata da G. Baraúna, La Chiesa nel mondo di oggi, Firenze 1966, cfr. G. Alberigo, La costituzione in rapporto al magistero globale del concilio, pp. 172-195 e J.M.R. Tillard, Il sottosuolo teologico della costituzione: la Chiesa e i valori terrestri, pp. 213-250.
11 Per l’antropologia biblica cfr. W. Mork, Linee di antropologia biblica, Fossano 1971; L. Scheffczyk, L’uomo moderno di fronte alla concezione antropologica della Bibbia, Torino 1970. Fondamentale resta la monografia di J.A.T. Robinson, Il corpo, Torino 1967.
12 Il corpo è sempre apparizione dell’uomo completo: è quell’espressione nella quale l’uomo intero si manifesta in se stesso, è l'esserci, la ‘presenza’ (F.J.J. Buytendijk), Inazione prima’ (G. Siewerth), la ‘parola’ (H.E. Hengstenberg), il ‘simbolo’ (K. Rahner), il ‘mediatore dell’essere’ (B. Welte), la ‘excarnazione’ (H. Conrad-Martinus), l’‘interiorità che si apre’ (R. Guardini) dell’uomo. Nel corpo si incontra non soltanto un aggregato materiale, bensì l’apparizione dell’unico uomo completo”: J.B. Metz, Corporeità, in Dizionario teologico, Brescia 1966, vol. I, p. 336.
13 Per una discussione più ampia sulle trasformazioni socio-psicologiche dell’atteggiamento nei confronti della morte, cfr. S. Spinsanti, I compagni scomodi dell’uomo-massa, Alba 1976.
14 Cfr. J.M. Aubert, Il rispetto per la vita corporale, in Problemi e prospettive di teologia morale, Brescia 1976, pp. 333-362.
15 K. Barth, Dogmatique, vol. III/IV, parte II (ediz. franc. vol. 16°), Genève 1965.
16 R.A. Lambourne, Community, Church and Healing, London 1963, p. 75.
17 Il tema della chiesa locale è una delle dimensioni portanti del rinnovamento ecclesiologico operato dal concilio. Per una visione d’insieme, cfr. F. Klostermann - N. Greinacher, La Chiesa locale, Brescia 1971.
18 La sceneggiatura del film è stata trascritta e pubblicata con lo stesso titolo, Matti da slegare, Torino 1976.
19 Nel film ricorrono testimonianze impressionanti delle trasformazioni di mentalità cui può dar luogo un’integrazione reale degli handicappati. Così la dichiarazione di un operaio in una fabbrica in cui lavorano dei giovani mongoloidi: “Noi abbiamo scoperto quel senso di umanità che prima forse l’avevamo un po’ perso, si era un po’ disperso. Questi ragazzi, che fra loro sono amici veramente, si vogliono bene: vedere loro a volersi così bene, anche in noi questo sentimento è rispuntato. Anche loro hanno insegnato qualcosa a noi”. Un altro operaio propone anche l’inserimento nelle scuole: “Se inseriti in scuole normali, con altri ragazzi, intanto anche gli altri ragazzi imparano a conoscerli e, quando crescono, non hanno più quella lontananza che abbiamo avuto noi da loro”: Matti da slegare, p. 75.
20 V. v. Weizsaecker, Natur und Geist, München 1964, pp. 123-125.
21 Encyclopedia Universalis, vol. 20, p. 2068.
22 R. Sarró, “Weizsäcker en España”, in V. von Weizsaecker, El hombre enfermo, Barcelona 1956, pp. V-XXII.
23 L. Chiozza, “Lo studio patobiografico quale integrazione della conoscenza psicoanalitica con la pratica della medicina generale”, negli atti del seminario: L’interpretazione psicoanalitica delia malattia somatica nella teoria e nella pratica clinica (organizzato dal Centro psicoanalitico di Roma il 17-18 febbraio 1979), pro manuscripto, pp. 114-124.
24 Nel discorso commemorativo per la morte di v.W., W. Kütemeyer ha affermato che l’importanza di v.W. si evidenzia solo oggi, in quanto ci troviamo all’inizio di una nuova epoca di sapere scientifico e di agire scientifico: v.W. ci appare non una grandezza da consegnare al passato, bensì una potenza del futuro. Una forza che libererà la sua piena potenzialità solo nell’avvenire”: W. Kuetemeyer, “Viktor von Weizsäcker zum Gedachtnis”, in V. von Weizsaecker-D. Wyss, Zwischen Medizin und Philosophie, Göttingen 1957, p. 20.
25 A. Auersperg, Poesie und Forschung: Goethe, Weizsäcker, Teilhard de Chardin, in Beitrage aus der Allgemeinen Medizin 18 (1965).
26 F. von Rad, Anthropologie als Thema von psychosomatischer Medizin und neologie, Stuttgart 1974, p. 7s.
27 “Già da studente ero convinto che la vittoria sulla schiavitù del meccanicismo non si potesse ottenere mediante un sistema di filosofia della natura parallelo o sovrapposto, bensì mediante una trasformazione della ricerca”, in Natur und Geist, cit., p. 100.
28 In uno scritto sconcertante v.W. svolge delle sorprendenti considerazioni a proposito di medici che nei campi di concentramento hanno fatto esperimenti sugli esseri umani e hanno eseguito il programma di eutanasia. Essi hanno calpestato le idee dell’umanesimo, ma va detto che è lo stesso orientamento natural-scientifico della medicina, che li educa a vedere nell’uomo solo un oggetto. Se questa circostanza discolpa in gran parte gli accusati, si risolve in una imputazione contro la medicina che tratta la biologia come una scienza della natura; V. von Weizsaecker, Euthanasie und Menschenversuche, in Psyche I, 68 (1948).
29 Natur und Geist, p. 101.
30 V. v. Weizsaecker, Der Gestaltkreis. Theorie der Einheit von Wahrnehmen und Bewegen, Leipzig 1940. È l’aspetto nel pensiero di v.W che ha più suscitato l’interesse dei ricercatori. Il concetto di “ciclo gestaltico” serve a v.W. per spiegare il processo integrativo del rapporto soggetto-ambiente che si compie nell’azione.
31 L. von Krehl, Krankheitsform und Persönlichkeit, Leipzig 1929, p. 17.
32 V. v. Weizsaecker, Ludolf von Krehl. Gedachtnisrede, Leipzig, p. 10.
33 V. von Weizsaecker, Wege psychophysischer Forschung, in Arzt und Kranker, I, p. 198.
34 V. von Weizsaecker, Meines Lebens hauptsächliches Bemühen, in H. Kern, Wegweiser in der Zeitwende, München-Basel 1955, p. 245.
35 V. v. Weizsaecker, Natur und Geist, p. 98.
36 V. v. Weizsaecker, “Meines Lebens...”, cit., p. 253.
37 V. v. Weizsaecker, Natur und Geist, p. 103s.
38 Ivi, p. 138.
39 “In fondo non penso diversamente da come pensi tu: non tendo affatto a conservare l’elemento psicologico senza la base organica. Tuttavia, oltre alla convinzione, non ho nulla, né di teorico né di terapeutico, su cui fondarmi, e perciò debbo comportarmi come se fossi di fronte solamente a fattori psicologici”; S. Freud, Le origini della psicanalisi. Lettere a Wilhelm Fliess 1887-1902, Torino 1968 (lettera 96).
40 V.W. ha descritto l’atteggiamento personale e del suo ambiente dopo la crisi della prima guerra mondiale in un altro libro di memorie: Begegnungen und Entscheidungen, Stuttgart 1949.
41 M. Buber, Die Kreatur, in P. Vogel (a cura), Viktor von Weizsäcker. Arzt im Irrsal der Zeit, Göttingen 1946, p. 5s.
42 H. Ehrenberg, Das Verhältnis des Arztes Weizsäcker zur Theologie und das der Theologie zu Weizsäckers Medizin, in P. Vogel, cit., pp. 7-20.
43 V. Weizsäcker, Begegnungen und Enlscheidungen, p. 58.
44 Riportiamo, a titolo esemplificativo, le parole conclusive del libro di Rachel Carson, che come pochi ha contribuito a destare l’interesse generale ai problemi ecologici: “Ci troviamo oggi ad un bivio... La via percorsa finora ci sembra facile, in apparenza: si tratta di una bellissima autostrada, sulla quale possiamo procedere ad elevata velocità ma che conduce ad un disastro. L’altra strada — che raramente ci decidiamo ad imboccare — offre l’ultima ed unica probabilità di raggiungere una meta che ci consenta di conservare l’integrità della terra”, in Primavera silenziosa, Milano 1976, p. 268.
45 Cfr. esauriente documentazione in F. Appendino, “Ecologia”, Dizionario enciclopedico di teologia morale, Roma, Edizioni Paoline 1973, e la voce analoga nel Supplemento della IV ed., Roma 1976.
46 Così F. Gogarten, Verhängnis und Hoffnung der Neuzeit, Stuttgart 1958. Questi temi sono stati portati al gran pubblico da H. Cox, La città secolare, tr. it., Firenze 1968.
47 Lynn White, The Historical Roots of Our Ecologie Crisis in Science p. 155 (1967) pp. 1203-1207.
48 H. Cox, La città secolare, cit., p. 23.
49 R. Dubos, Il Dio interno, Milano, 1977, p. 151 ss.
50 Ib. p. 162.
51 J. Salk, Sopravvivenza dei più saggi, Roma 1977, p. 121.
52 Ib., p. 37.
53 Cfr. M. Heidegger, Uber den Humanismus, Francoforte 1949.
54 Cfr. A. Schweitzer, Die Lehre von der Ehrfurcht vor dem Leben, Monaco 1966.
55 Una denuncia appassionata, corredata da una documentazione schiacciante, è stata fatta di recente dallo scrittore Hans Ruesch, Imperatrice nuda, Milano 1976. Sul banco degli imputati è citata la medicina moderna, che si presenta con la pretesa di solenni paludamenti scientifici, ma in realtà è nuda come l’imperatore della famosa favola. Ruesch afferma tra l’altro: “I vivisettori respingono le accuse di agire solo per lucro, per velleità di carriera o sadismo travestito da ‘curiosità scientifica’, autoproclamandosi altruisti, facenti parte di quelle rare personalità a cui sta a cuore unicamente il benessere dell’umanità. Senonché, a prescindere dalla considerazione che l’umanità, quella vera, quella di Leonardo e Goethe, di Voltaire e Victor Hugo e Schweitzer, ha sempre vibratamente proclamato di non volere affatto progredire sulle sofferenze degli animali, è ormai ampiamente dimostrato — e la documentazione in materia è schiacciante — che la vivisezione è una pratica non solo disumana e quindi disumanizzante, ma una continua fonte di errori, che hanno causato gravi danni alla scienza e all’uomo e sono destinati a causarne molti altri ancora, annullando largamente qualsiasi ipotetico vantaggio; e nel migliore dei casi essa porta a risultati ampiamente scontati, dunque è inutile. Difatti la storia della medicina dimostra chiaramente che tutte le conoscenze che abbiamo in medicina provengono dall’esperienza e dall’osservazione cliniche, e non dal campo sperimentale”, p. 14.
56 Cfr. H. Sachse, Der Mensch als Partner der Natur, in Überleben und Ethik, Monaco 1976, pp. 27-54.
57 Si pensi alla lirica evocazione dell’uomo armonizzato con l’ambiente offerta dal film di Akiro Kurosawa: “Dersu Uzala: il piccolo uomo delle grandi pianure”. Quella realizzazione della natura umana appare come portatrice di valori troppo alti perchè ci si rassegni a lasciarla scomparire sotto i colpi delle accette che abbattono la taiga per far posto alle città. Del resto, è ugualmente necessario sottrarsi alla illusione che un rapporto armonioso sia possibile solo nel contesto della natura incontaminata. Quello di una creatura “incontaminata” è un mito romantico. Come l’uomo è prodotto ed espressione della natura, così la natura non esiste se non umanizzata. Gli uomini hanno creato il loro ambiente trasformando la natura a seconda dei loro desideri. Il biologo Dubos osserva, nel libro già citato, che la meravigliosa armonia che esiste ora in molte parti del mondo tra le varie componenti naturali non può essere considerata come un’espressione spontanea, bensì come il prodotto di una continua e intima collaborazione tra luomo e la località in cui vive: “moltissimi paesaggi sono stati plasmati dagli uomini, che organizzano terreno, acqua e vegetazione secondo modelli provenienti dalla loro cultura e dai loro gusti personali. Un paesaggio, inoltre, si arricchisce di ulteriori significati a seconda dei miti di cui l’hanno circondato pittori, scrittori e musicisti, e dei grandi avvenimenti con cui esso è stato associato” p. 143. Le località, come le persone, hanno parecchie vocazioni potenziali, che l’uomo può contribuire a rendere tali. Rispetto ecologico della natura non equivale perciò a rinuncia a progettare e trasformare.
58 Cfr. il già citato J. Salk, Sopravvivenza dei più saggi.
59 I limiti dello sviluppo, Milano 1972.
60 Cfr. T. Roszak, La nascita di una controcultura. Riflessioni sulla società tecnocratica e sulla opposizione giovanile, Milano 1971.
61 Cfr. H. Waldenfels, Meditazione: est e ovest, Brescia 1977.
62 R. Dubos, cit., p. 270 ss.
63 Cfr. M. Adriani, Utopia, in Enciclopedia delle Religioni, vol. VI, Firenze 1970, pp. 42-46.
64 Cfr. E. Gilson, Les métamorphoses de la Cité de Dieu, Parigi-Lovanio 1952, tr. it. Milano 1963.
65 Tra le migliori opere di sintesi, cfr. W. Nigg, Das ewige Reich, Monaco 1930, tr. it. Milano 1947; N. Cohn, The Pursuit of Millennium, Londra 1957, tr. it. Milano 1965; R. Mucchiello, Le mythe de la cité idéale, Parigi 1960.
66 G. Durand, L’immaginazione simbolica, tr. it. Roma 1977.
67 R. Ruyer, La valeur religieuse des grandes anticipations, in L’Utopie et les Utopies, Parigi 1950, pp. 285-289.
68 L’espressione è di A. Peccei, La qualità umana, Milano 1976.
69 Cfr. L. Cerfaux, La Théologie de l’Eglise suivant saint Paul, nuova ed. Parigi 1965, pp. 275, 310 ss.
70 Cfr. R. Schnackenburg, Messaggio morale nel Nuovo Testamento, tr. it. Alba 1959.
71 K. Lewin, Field theory in social science, Nuova York 1951, p. 103.
72 La migliore presentazione d’insieme di questi movimenti è quella offerta da R.A. Knox, Illuminati e carismatici, tr. it. Bologna 1970.
73 I.T. Ramsey, Models and Mystery, Londra 1964. È utile il riferimento anche ad altre opere di Ramsey, più specificamente teologiche, in cui è sottolineato il ruolo del modello nel linguaggio religioso; per es., Religious Language, an Empirical Placing of Theological Phrases, Nuova York 1963. Si occupa del modello dal punto di vista linguistico anche M. Black, Models and Metaphors: Studies in Language and Philosophy, Ithaca 1968.
74 I.T. Ramsey, Models and Mystery, p. 61.
75 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, tr. it. Torino 1964, p. 82.
76 Ci rifacciamo alla revisione del pensiero di Wittgenstein attuata di recente da alcuni studiosi delle sue opere più attenti e più problematici. Cfr. A. Janik - S. Toulmin, Wittgenstein’s Vienna, Londra 1973. In Italia questa rilettura di W. è stata divulgata soprattutto da D. Antiseri in numerosi scritti.
77 Cfr. W.W. Bartley, Wittgenstein maestro di scuola elementare, tr. it. Roma 1974.
78 P. Engelmann, Lettere di Ludwing Wittgenstein con Ricordi, tr. it. Firenze 1970, p. 107.
79 M. Scheler, Vorbilder und Führer, in Schriften aus dem Nachlass, t. I., Berlino 1933, p. 27.
80 Ibidem.
81 Cfr. M. Scheler, Der Formalismus in der Ethic und die materiale Wertethik, Halle 1916.
82 H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion, Parigi 1932, pp. 29-30.
83 La problematica dell’idea di eroismo e della figura dell’eroe nel mondo contemporaneo è stata fatta oggetto del seminario annuale con cui l'Enciclopedia Britannica promuove lo studio dei grandi problemi ideologici attuali. Il resoconto con i vari contributi si trova nella pubblicazione The Great Ideas Today, 1973. Segnaliamo in particolare l’articolo di Potok, Heroes for an Ordinary World, pp. 71-76.
84 Cfr. V. Bombert, “Sartre: The Intellectual as Impossible Hero”, in V. Bombert (ed.), The Hero in Literature, Greenwich, Conn. 1969, pp. 239-265.
85 Cfr. H. Weinrich, “Teologia narrativa”, in Concilium IX (1973, n. 5) pp. 66-79; J.B. Metz, “Teologia come biografia. Una tesi e un paradigma”, in Concilium XII (1976, n. 5) pp. 76-87.
86 J.B. Metz, “Breve apologia del narrare", in Concilium IX (1973, n. 5) p. 88.
87 R. Guardini, Libertà, grazia destino, tr. it. Brescia 1968, p. 7.
88 Herrlichkeit è attualmente in corso di pubblicazione in italiano. La cura G. Ruggieri per conto della Jaca Book.
89 Alcuni teologi statunitensi, muovendo da posizioni etiche centrate sul “carattere” individuale e sul suo influsso sulla comunità, hanno portato contributi originali a quella che potremmo chiamare la “teologia della vita”. Ci riferiamo soprattutto alla scuola di H. Richard Niebuhr. Le opere più significative sono quelle di J. Guastafson, Christian Ethics and the Community, Philadelphia 1971; S. Hauerwas, Character and the Christian Life: A Study in Theotogical Ethics, San Antonio 1974; e soprattutto J.W. Mc Clendon, Biography as Theology: How Life Stories can Remake Today’s Theology, Nuova York 1974, che abbiamo seguito più da vicino.
90 Cfr. le pertinenti osservazioni di C.H. Roquet su Yeronimus Bosch in quanto pittore religioso nell’articolo a lui dedicato nell'Encyclopaedia Universalis, vol. III, 1971, pp. 447-452. La sua opera è presentata come l’analogo pittorico dell’esperienza mistica, costituita da una serie di “sguardi” che si elevano e si epurano fino all’invisibile.
91 J. Leclercq: Valeurs chrétiennes, Tournai - Paris 1952, p. 172.
92 Ibi, p. 179-180.
93 F. Lepargneur, “L’état de maladie”, in Présences, 90 (1965), 81-90.
94 Cfr. F.M. Robert, “Théologie de la maladie”, in Présences, 93 (1965), p. 33.
95 Per una trattazione più ampia del problema della malattia come “stato di vita”, cfr. S. Spinsanti, Etica cristiana della malattia, Roma 1971.
96 J. Remy, “Fidelité aux engageraents et structure des échanges sociaux”, in Lumière et Vie, 10 (1972), 6-24. Tutto questo fascicolo di L. et V., dedicato alla fedeltà, contiene materiale utile per l’argomento che stiamo sviluppando.
97 Ibi, p. 22.
98 Il saggio di G. Sheehy, Passaggi, tr. it. Milano 1978, collocabile tra la divulgazione psicologica e il giornalismo, rende in modo molto efficace l'“ethos” del cambiamento che domina la cultura odierna, specie americana.
99 Cfr. S.J. Korchin, Psicologia clinica moderna, tr. it. Roma 1977, p. 616 ss. Il movimento del potenziale umano è una delle voci di quell’orientamento d’insieme e ha preso il nome di “psicologia umanistica”. Cfr. C. Buehler - M. Allen, Introduzione alla psicologia umanistica, tr. it. Roma 1976; V. Voelker (a cura), Humanistiche Psychologie. Ans.atze einer lebensnahe Wissenschaft vom Menschen, Weinheim 1980; R. May, Psicologia esistenziale, tr. it. Roma 1970.
100 Vedi K.W. Back, ‘Self-realization therapies’, in Encyclopedia of Bioethics, New York 1978, pp. 1547-51. La voce tratta in modo esauriente anche la problematica etica connessa con tali psicoterapie. Conclude che “è emersa a sufficienza l’evidenza di danno e di pericolo per autorizzare qualche controllo pubblico sul movimento”.
101 R.K. Hudnut, The Bootstrap fallacy. What the Self-Help books don’t tell you, London 1978. Il titolo è assolutamente intraducibile: sì riferisce a un’espressione idiomatica inglese che significa “contare unicamente sulle proprie forze”. Far credere che sia possibile autorealizzarsi senza l’aiuto della grazia — è la tesi del libro — è l’inganno che le psicologie in questione tendono all’uomo moderno.
102 Ibi, p. 11.
103 “La mia tesi in questo libro è che coloro che si realizzano recuperano la religione negli atti passivi dello spirito-preghiera, sogni, lettura della Bibbia, contatto con le emozioni, svuotamento di sé — che portano a fare più di quanto avremmo sognato che fosse possibile. Dio è negli atti passivi. Dio è il cuore che si fonde con la testa, l’interno che si fonde con l’esterno”, p. 15. Per una valutazione antropologica positiva della dimensione “patica” dell’esistenza, cfr. V. von Weizsäcker, Pathosophie, Göttingen 1957.
104 A. Reuter, Who says I’m OK?, Concordia Publ. 1974.
105 Ibi, p. 74.
106 P.C. Vitz, Psychology as religion. The cult of selfworship, Grand Rapids 1977.
107 Ibi, p. 36.
108 Ibi, p. 81.
109 Ibi, p. 103.
110 Ibi, p. 89.
111 J.Y. Jolif, “Fidelité humaine et objectivité du monde”, in Lumière et Vie, 10 (1972), p. 27.
112 Cfr. K. Hormann, “Treue”, in Lexikon der christlichen Moral, Innsbruck-Wien 1976.
113 J.B. Metz, “Decisione”, in H. Fries, Dizionario teologico, tr. it. Brescia 1968, I, p. 434.
114 Sono le considerazioni che svolge J.Y. Jolif nell’articolo sopra citato. A suo avviso, “gli antichi non avevano torto di vedere nella fedeltà una disposizione coestensiva a tutta la vita morale, allo stesso tempo che la via di accesso all'umanità. Deve essere in questo modo, perché essa è, nel suo fondo stesso, riconoscimento e accettazione di quelle che si potrebbero chiamare le regole fondamentali dell’esistenza umana”.
115 Cfr. G. Marcel, “Fidelité créatrice”, in Du refus à l’invocation, Paris 1940, pp. 199-217; M. Nedoncelle, De la fidelité, Paris 1953; E. Mounier, Il personalismo, tr. it. Roma 1966.
116 B. Haering, Liberi e fedeli in Cristo, 3 voll., Roma 1980-81. La crisi della fedeltà nella cultura contemporanea non è minimizzata, bensì presa come stimolo a ripensare cristianamente la fedeltà: “Uno dei fenomeni più preoccupanti del nostro tempo è la rottura di tanti matrimoni e l’alta percentuale di preti e religiosi che lasciano la loro vocazione originaria. In conseguenza di ciò i giovani tendono a non assumersi gli impegni di vita ben definiti. Vogliono sperimentare il matrimonio senza il vincolo dei voti matrimoniali o senza impegni pubblici di alcun genere. Sembra che molti di loro abbiano bisogno di maggior tempo per diventare capaci di impegnarsi al livello di un’opzione fondamentale. Inoltre molti di quelli che ritengono di aver avuto il necessario grado di “identità” quando si sono impegnati nel matrimonio o nella vita religiosa, ora si chiedono se l’oggetto del loro attuale impegno corrisponda ancora al loro impegno originario. Tutto ciò è un sintomo di profondi cambiamenti culturali, di nuove concezioni del matrimonio e del celibato e anche del cambiamento intervenuto nell’autocomprensione della chiesa”: Liberi e fedeli in Cristo, vol. II, Roma 1980, p. 85s. Tra i contributi teologici più rilevanti al ripensamento della fedeltà in chiave dinamica citiamo: P. De Locht, Les risques de la fidelité, Paris 1972; H. Kramer, Unwiderrufliche Entscheiedungen im Leben des Christen, München-Paderborn 1974; K. Demmer, Die Lebensentscheidung. Ihre moraltheologische Grundlage, München-Wien 1974; V. Ayel, Inventer la fidelité au temps des certitudes provisoires, Lyon 1976.
117 Osservazioni molto pertinenti sulla psicologia dinamica della fedeltà si possono trovare in D. Widloecher, “Approccio psicologico del problema della fedeltà”, in AA. VV., Divorzio e indissolubilità del matrimonio, tr. it. Assisi 1973, pp. 105-123.
118 J.Y. Jolif, “Fidelité humaine..”, art. cit. p. 32.
119 Cfr. V. Truhlar, Concetti fondamentali della teologia spirituale, Brescia 1971. Nell’introduzione alla nuova edizione, Brescia 1981, si può trovare una discussione più ampia del significato della “teologia esperienziale” di Truhlar nel contesto della spiritualità moderna.
120 V. Truhlar, Lessico di spiritualità, Brescia 1973, p. 666.
121 R. Guardini, Die Lebensalter und die Philosophie, Würzburg 1955.
122 D. Morris, L’uomo e i suoi gesti, tr. it., Milano, 1978.
123 Pensiamo, per esempio, alla fortunata opera di J. Fast, Body language, 1970, a cui si deve la popolarità del termine “linguaggio del corpo”.
124 Per l’importanza della scoperta del proprio corpo nello sviluppo psicologico individuale si veda l’opera fondamentale di H. Wallon, Origini del carattere nel bambino, tr. it. Roma 1974. Wallon ha messo in luce che il bambino non scopre il suo corpo se non attraverso la sua relazione con gli altri e quell'“altro” primordiale che è la sua immagine nello specchio. Correlativamente, la fusione emozionale con la madre e poi con i parenti si iscrive nel tessuto tonico della muscolatura del bambino.
125 Una sintesi esauriente di questa problematica si può trovare in C. Squarise, Corpo, in Dizionario enciclopedico di teologia morale, Roma 1973, pp. 149-166.
126 S. Acquaviva, In principio era il corpo, Roma 1977, p. 15 s.
127 “La maggior parte di ciò che al giorno d’oggi avviene di nuovo, provocatorio, impegnato, nella politica, nell’educazione, nelle arti, nelle relazioni sociali (amore, corteggiamento, famiglia, comunità), o è opera di giovani che sono profondamente, persino fanaticamente, avversi alla generazione dei loro padri, o lo è di coloro che si rivolgono fondamentalmente ai giovani”: T. Roszack, La nascita di una controcultura. Riflessioni sulla società tecnocratica e sulla opposizione giovanile, tr. it. Milano 1971, p. 13.
128 R. Dubois, Il Dio interno, tr. it. Milano 1977, p. 226.
129 Cfr. B. De Marchi, “Funzione della società, liturgia deI corpo o fattore dì umanizzazione?”, in Vita e Pensiero, 60 (1974) pp. 15-47. Tutto questo numero monografico di V. e P., dedicato allo sport, è pertinente al tema dell’espropriazione-riappropriazione del corpo. Il corpo è desublimizzato sia quando è usato come veicolo di messaggi pubblicitari, sia quando funziona come macchina muscolare per battere primati.
130 Il pensiero di Marcuse sull’uso repressivo che la società capitalista avanzata fa della desublimazione degli istinti si trova in L’uomo a una dimensione, tr. it. Torino 1967 e in Eros e civiltà, tr. it. Torino 1964.
131 “La situazione di scacco in cui ci troviamo forse deriva anche dal fatto che la rivoluzione è stata pensata come un fatto sociale che partiva soprattutto da un sistema di idee, da un’ideologia: mi sembra sia giunto il momento di cominciare a pensare anche a partire da noi stessi e dal nostro corpo, dalla nostra psiche e dalla dimensione dell’eros, dal sistema dei bisogni e dai limiti di spazio e di tempo del nostro essere nel mondo, che ci dà anche il senso dell’infinito e dell’eterno”: S. Acquaviva, op. cit., p. 188.
132 Cfr. J.M. Broehm, Corps et politique, Paris 1975.
133 R. Garaudy, Danser sa vie, Paris 1973, p. 13.
134 The Boston Women’s Health Book Collective: Noi e il nostro corpo, tr. it. Milano 1974. Il titolo originale inglese (Our Bodies, Ourselves: “I nostri corpi, noi stesse”) esprime efficacemente l’appropriazione del tema filosofico esistenziale: “io sono il mio corpo”. Sul rapporto della donna con la medicina si veda anche Ehrenreich, Le streghe siamo noi, tr. it. Milano 1975.
135 Ib., p. 13.
136 Cfr. E. Figes, Il posto della donna nella società degli uomini, tr. it. Milano 1970. Una panoramica esauriente è offerta da Sociologia della condizione femminile, a cura di F. Bonazzi e G. Catelli, Roma 1977; con una vasta bibliografia ragionata, pp. 97-115. Lo sfruttamento della donna nell’ordine patriarcale è spiegato da E. Fromm, Avere o essere?, tr. it. Milano 1977, come predominio della modalità dell’avere che si realizza nel possesso di esseri viventi, p. 38 s.
137 Cfr. D. Maraini, Quale cultura per la donna?, in AA. VV., Donna, cultura e tradizione, Milano 1976, pp. 60-66.
138 Cfr. O. Thibault, La domination du sexe mâle: phénomène biologique ou culturel?, in La revue nouvelle 30 (1974/1), pp. 44-51. Sugli abusi causati dall’ambiguità della parola ‘natura’ e sulla corresponsabilità della teologia cattolica nel rafforzare, con un’interpretazione maschilista dei dati della Scrittura, le ideologie profane, cfr. J.M. Aubert, La donna. Antifemminismo e cristianesimo, tr. it. Assisi 1976, spec. pp. 116-131.
139 La validità e i limiti della politica di emancipazione femminile del movimento operaio sono obiettivamente considerati da C. Ravaioli, La questione femminile, Milano 1976 (specialmente “La riappropriazione del corpo. Intervista con Giovanni Berlinguer”, pp. 89-110).
140 M. Mauss, “Les techniques du corps”, in Journal de psychologie 32 (1936) n. 3-4; il saggio è anche riprodotto in Sociologie et Anthropologie, Parigi 1966.
141 A. Toffler, Future shock, Nuova York 1970.
142 Cfr. A. Von Lysebeth, Imparo lo yoga, tr. it., Milano 1975.
143 Informazione esauriente è fornita dal volume di H.H. Bloomfield - M.P. Cain - D.T. Jaffe, MT. La meditazione trascendentale, tr. it. Milano 1976 (il sottotitolo dell’originale situa questa tecnica nella prospettiva che stiamo considerando: “Discovering inner energy and overcoming stress”).
144 Maharishi Mahesh Yogy, The Science of Being and the Art of Living, Stoccarda 1966 (tr. it. Ubaldini, Roma 1970).
145 J.H. Schultz, Il training autogeno, 2 voll., tr. it. Milano 1971; K. Thomas, Autoipnosi e training autogeno, tr. it. Roma 1976.
146 Cfr. in generale P. Geissmann - R.D. De Boussinger, I metodi di rilassamento, tr. it. Roma 1972.
147 J. Wolpe - A.A. Lazarus, Behaviour therapy techiques, New York 1966.
148 E. Jacobson, You must relax, New York 1957.
149 Il testo base è Teoria e pratica della terapia della Gestalt, di F. Perls - R.F. Heffeline - P. Goodman, tr. it. Roma 1971.
150 R. Dubois, The mirage of health: utopian progress and biological change, New York 1959.
151 I. Illich, Nemesi Medica. L’espropriazione della salute, tr. it. Milano 1977, p. 139 s.
152 Ib., p. 86.
153 Cfr. J. Sarano, Significato del corpo, tr. it. Roma 1975, p. 47 ss. Oltre che il fondamento filosofico dell’atteggiamento dualista, Sarano ne illustra la funzionalità. Il dualismo può svolgere il ruolo di momento e di strumento della totalità personale. La supremazia del Sé sul corpo anima l’impegno etico della lotta contro la malattia.
154 V. v. Weizsäcker, Pathosophie, Göttingen 1956; soprattutto il cap. sulla “Biographik”, pp. 241-263; Id., Der kranke Mensch, Stuttgart 1951, p. 352 ss.
155 Si veda, come una chiara indicazione di tendenza, The holistic health handbook. A tool for attaining wholeness of body, mind and spirit, Berkeley 1979.
156 A. Ancelin Schützenberger - M.J. Sauret, Il corpo e il gruppo, tr. it. Roma 1978, p. 126.
157 Le opere di Carlos Castaneda hanno avuto anche in Italia un notevole successo di pubblico. Va segnalata in primo luogo la trilogia: A scuola dallo stregone (1970), Una realtà separata (1971), Viaggio a Ixtlan (1972), integrata dalle opere successive L’isola del Tonal (1975) e Il secondo anello del potere (1978).
158 La teosofia ha diffuso la nozione della pluralità dei corpi, nei quali l’uomo abita, e la dottrina del “corpo sottile”, secondo cui il corpo fisico sarebbe solo l’esteriorizzazione di un’invisibile incorporazione della vita psichica; anche il corpo sottile sarebbe di ordine materiale, ma di una natura più dinamica della sua cornice fisica sensibile: cfr. G.R.S. Mead, The dottrine of the subtle body in Western tradition, London 1967; A. Besant, Man and his bodies, London 1896. Un’esposizione molto informativa sull’insieme delle dottrine esoteriche sul corpo è offerta da D.T. Tansley, The subtle body, London 1977.
159 Una rassegna completa delle dottrine arcane ed esoteriche del corpo, secondo le varie membra, nel volume enciclopedico di B. Walter, Body magic, London 1979.
160 La Preghiera per domandare a Dìo il buon uso delle malattie, di B. Pascal, è il capostipite illustre di una straripante letteratura ascetico-consolatoria, che non ha conservato la nobiltà e l’equilibrio che pur erano presenti in Pascal. L’immagine del corpo che traspare in quelle opere rasenta talvolta il manicheismo. Per un’analisi di tale letteratura, cfr. S. Spinsanti, Etica cristiana della malattia, Roma 1971. In quella sede abbiamo anche ricostruito le dipendenze della letteratura ascetica sulla malattia dalla scuola di spiritualità che fa capo a De Berulle.
161 Cfr. D. George, Corps (spìritualité et hygiène), in Dict. de Spirit, II-2, Paris J953, c. 2342.
162 Cfr. Specchio di perfezione, n. 27, in Fonti francescane, I, Assisi 1977, p. 1333 s.
163 Per un esempio dell’assimilazione delle istanze dello “human potential movement” in un progetto di spiritualità cristiana, cfr. T. Rowe, Wholeness. Body, mind and spintone man, London 1976. L’antropologia biblica, costruita su una triplice scansione dell’umano — corpo, anima e spirito — offre possibilità integrative maggiori di qualsiasi antropologia dualistica. Cfr. B. De Geradon, Le coeur, la langue, les mains. Une vision de l’homme, Paris 1974.
164 Si veda il capitolo dedicato all’integrazione del corpo in V. Truhlar, Concetti fondamentali di teologia spirituale, Brescia 1971, p. 72: “Bisogna inserire anche il corpo nella ricerca della via esperienziale, mettere anch’esso nell’impegno generale dell’uomo intero, affinché non sia un ostacolo, ma piuttosto un elemento che porta all’esperienza e che si unisce armonicamente nella percezione del proprio essere e dell’essere assoluto, nonché nell’estensione di questa percezione e di questo senso, in tutti i campi della vita umana... All’interno della realtà umana anche il corpo viene percepito e come penetrato dal senso dell’assoluto (Dio)”.
165 Cfr. la rubrica “Découvrir la quatrième dimension” che A. Goettmann ha tenuto per tutta l’annata 1976 nella rivista Temps et paroles. Gli articoli sviluppano l’idea che dall’esperienza spirituale dipenderà la modificazione radicale dell’uomo e l’avvenire del mondo. Terremo presenti gli articoli soprattutto nel paragrafo dedicato alla meditazione corporea.
166 La letteratura sul rinnovamento carismatico comincia ad essere notevole. Con speciale riferimento alla situazione italiana si veda M. Panciera, Il rinnovamento carismatico in Italia, Bologna 1977, corredato di abbondante bibliografia. Le opere più autorevoli sul ministero delle guarigioni sono quelle di F. Mac Nutt, Il carisma delle guarigioni, tr. it., Alba 1977, e M. Scanlan, Inner Healing, New York, 1974. Un esauriente capitolo dedica all’argomento R. Laurentin, Il movimento carismatico nella Chiesa cattolica. Rischi e avvenire, tr. it., Brescia 1976, pp. 120-151.
167 Tuttavia alcuni teologi riformati hanno continuato ad interessarsi al carisma delle guarigioni. Vedi: B. Martin, Die Heilung der Kranken als Dienst der Kirche, 1949; D. Hoch, Heil und Heilung, 1954; H. Doebert, Das Charisma der Krankenheilung, 1960.
168 Per un bilancio storico delle esperienze di guarigioni carismatiche agli ambienti di lingua inglese della Riforma si veda L. D. Weatherhead, Psychology, Religion and Healing, New York 1951.
169 D. Gelpi, Pentecostalism: a theological viewpoint, Paranus 1971, p. 154.
170 Cfr. J. Fichter, I carismatici cattolici. Ricerca sociologica, tr. it., Brescia 1976, p. 152 s.
171 R. Laurentin, op. cit., p. 121.
172 Il tema della guarigione interiore (o della rilevanza della fede per l’equilibrio e la guarigione) è stato trattato da teologi di indirizzo esistenzialista, in particolare P. Tillich.
173 La guarigione può essere considerata anche come un processo di restaurazione dell’unità della persona, che domanda interventi differenziati. “La guarigione si produce quando tutte le condizioni sono realizzate. Ci sono condizioni fisiche che solo il medico è atto a conoscere e a suscitare. Ci sono anche condizioni di ordine emozionale che possono essere rese presenti da quelli che sono formati in psicoterapia; e finalmente la guarigione richiede condizioni di natura spirituale, che non possono essere pienamente viste e facilitate che da quelli che sono formati e sperimentati nella viva tradizione della chiesa cristiana. Tutti questi uomini, insieme, possono costituire un'équipe utilissima per il servizio del Signore”. M. Kelsey, Healing and Christianity, New York 1973, p. 359.
174 L’esicasmo deriva dal greco “hesychia”, cioè: silenzio, pace dell’unione con Dio. Sulla pratica della “preghiera di Gesù”, una delle più care alla spiritualità orientale, russa in particolare, si veda: “Un monaco della chiesa orientale”: La preghiera di Gesù. Genesi, sviluppo e pratica nella tradizione bizantino-slava, tr. it., Brescia 1964.
175 La documentazione è fornita da S. Tugwell, Le corps dans la prière, in La vie spirituelle, 56 (1974), pp. 879-887.
176 Si veda, in questo senso, G. Moroni, Il corpo e la preghiera, Bologna, 1976. Il libretto presenta esercizi pratici individuali e collettivi per una ricerca delle condizioni corporee e mentali per accogliere la preghiera. Suo presupposto è che tutto ciò che viene vissuto dalla persona nella sfera più intima viene recepito a livello fisico e che, viceversa, il corpo impone la sua presenza a ogni manifestazione, anche la più spirituale.
177 Tra le opere più qualificate sullo Zen, cfr. A. Watts, La via dello Zen, tr. it., Milano 1959; D.T. Suzuki, Zen Buddhism, New York 1956. Bibliografia esauriente in Enciclopedia delle Religioni, vol. VI, Firenze 1970, pp. 354-356.
178 Tale è il giudizio di Th. Roszak, La nascita di una controcultura, cit., pp. 149-154.
179 W. Dürckheim, Alltag als Übung, Berna-Stoccarda, 1962; Id., Hara. Die Erdmitte des Menschen, Weilheim 1964; Id., Zen und Wir, Weilheim 1961; Enomya-Lasalle, Zen, Weg zur Erleuchtung, Vienna 1960; Id., Zen-Buddhismus, Colonia 1966; Id., Zen-Meditationen für Christen, Weilhheim 1969. Sui rapporti tra Zen e cristianesimo, cfr. anche: H. Dumoulin, Dialogo con il Buddismo Zen, in Concilium, 3 (1967/9), pp. 167-185; W. Johnston, Dialogo con lo Zen, in Concilium, 5 (1969), pp. 1829-1839; T. Merton, Mystics and Zen masters, Nuova York 1967; D.T. Suzuki, Mysticism, Cristian and Buddhist, Londra e Nuova York 1957.
180 Cfr. H. Waldenfels, Meditazione: est e ovest, tr. it., Brescia 1977.
181 B. Staehelin, Essere o avere. Diario metafisico, tr. it., Roma 1966.
182 Questo quadro corrisponde, grosso modo, alla personalità che il sociologo G. Simmel attribuiva all’abitante delle grandi città (Die Grosstadt, tr. it. in G. Martinotti, Città e analisi sociologica, Padova 1968, p. 275ss.). La tensione data dalla lotta per l’affermazione della propria individualità rispetto al prevalere della cultura di massa si esprime nella tendenza a concentrarsi “al culmine”. La vita metropolitana presuppone una consapevolezza eccezionale, favorita dalla intensificazione delle stimolazioni nervose interne ed esterne, e una predominanza dell’intellettualità. E il raziocinio, osserva Simmel, “risiede nel livello più superficiale, trasparente e cosciente della psiche”. Un’analisi aggiornata della psicologia dell’abitante delle grandi città è quella dovuta a W. Hellpach, L’uomo della metropoli, tr. it., Milano 1960. Come caratteristiche psichiche principali sono indicate: la rapidità e la fretta; la vigilanza sensoria (necessaria per una reazione rapida e precisa alle esigenze della vita urbana); l’indifferenza emotiva.
183 A.M. Besnard, Tu m’as façonné un corp, in La vie spirituelle, 56 (1974), p. 815.
184 Oltre all’indispensabile guida di un maestro, si può fare ricorso a guide e manuali, che già cominciano ad essere numerosi. Ci limitiamo a segnalare: K. Tillmann, Guida alla meditazione, tr. it., Brescia 1975 e gli articoli, già citati, di A. Goettlieb in Temps et paroles.
185 K. Durckheim, Hara. Die Erdmitte des Menschen, cit.
186 Una fonte esauriente di notizie sullo hara è il libro di Dürckheim dedicato all’argomento. Lo hara stesso vi è così definito: “Il possesso di quella disposizione generale dell’uomo che lo mette in grado di aprirsi alle forze e all’unità della vita originaria e di mostrarle nel dominare, dare un senso e portare a compimento la propria vita. Ciò che si oppone più tenacemente all’acquisizione della forza dal centro è il restare attaccato all’io, il quale con la propria ostinazione disturba la nascita di un vero potere. Solo quando si riesce a escludere l’intrusione dell’io si produce la prestazione perfetta, in quanto frutto di una maturazione interna. La ragione non è più necessaria, la volontà tace, il cuore è diventato silenzioso: con felice sicurezza l’uomo agisce senza il proprio intervento”.
187 Vedere l’accurata analisi fenomenologica del sorgere della percezione dualistica (il corpo come oggetto) dal predualismo originario fatta da J. Sarano, Significato del corpo, tr. it., Roma 1975, pp. 47-61. Sarano non tralascia di mettere in luce il significato e la funzione del corpo-oggetto, presupposto per l’intervento terapeutico, per l’etica e l’ascesi.
188 H. Bossu - C. Chalaouier, L’expression corporelle, Paris 1974, p. 27.
189 Cfr. J. Salk, La sopravvivenza dei più saggi, tr. it., Roma 1977.
190 Un’eco di quell’obbligo deontologico si può forse trovare nell’art. 32 del nuovo Codice di Deontologia Medica (1978): “Il medico che, abusando della sua posizione professionale, si comporti in modo scorretto, commette grave infrazione disciplinare, indipendentemente dalle eventuali responsabilità civili e penali nelle quali egli può essere incorso”.
191 A. Ch. Kinsey, Sessual Behavior in the Human Male, Philadelphia 1948, pp. 23-31.
192 W.H. Masters - V.E. Johnson, Human Sexual Response, New York 1966, id., Human Sexual Inadeguacy, New York 1970.
193 J. Money - H. Musaph, Sessologia, tr. it., Roma 1968, 3 voll.
194 J. Wolpe, The practice of Behavior Therapy, Elmsford 1969.
195 W.H. Masters - V.E. Johnson, Human Sexual Inadeguacy, New York 1970.
196 E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo, Milano, 1971, p. 214.
197 P. Teilhard De Chardin, Le milieu divin, Paris, 1957, p. 85, 97.
198 Ibidem.
199 D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Milano, 1969, pp. 258-260.
200 L. Lochet, Au services des malades: l'Union Catholique des malades, La vie spirituelle, 83, (1950), pp. 55-72.
201 Guzman Del Val, El valor apostolico del sufrimiento, Roma, 1963.
202 K. Barth, Dogmatigue, cit., p. 39.
203 F. Pastorelli, Servitude et grandeur de la maladie, Paris, 1967, p. 173.
204 G. Gilleman, Il primato della carità in teologia morale, Brescia, 1959, p. 311.
205 Sulla mitologia del cancro, cfr. S. Sontag, Malattia come metafora, Torino 1979.
206 L.V. Thomas, Antropologia della morte, Milano 1976.
207 Cfr. J. Ziegler, I vivi e la morte, Milano 1978.
208 Segnaliamo le principali, tradotte in italiano: Ph. Ariès, Storia della morte in Occidente, Milano 1978; L’uomo e la morte dal medioevo ad oggi, Bari, 1980.
209 Così B. Groethuysen, Le origini dello spirito borghese in Francia, I, La Chiesa e la borghesia, Torino 1964.
210 Cfr. A. Toynbee, Man’s concern with death, London 1960.
211 “Si tratta di uno di quei periodi che delineano un’incancellabile soglia cronologica: il momento nel quale il male, la contronatura, la morte, in breve tutto il fondo nero della malattia, vengono alla luce; tutto ciò si rischiara e si sopprime a un tempo come la notte, nello spazio profondo, visibile e solido del corpo umano. Quel che era fondamentalmente invisibile s’offre d’improvviso alla chiarezza dello sguardo, in un movimento dell’apparenza così semplice, così immediata che pare la naturale ricompensa di un’esperienza meglio eseguita. Si ha l’impressione che, per la prima volta dopo millenni, i medici, liberi finalmente da teorie e chimere, abbiano acconsentito ad affrontare l’oggetto della loro esperienza di per se stesso e nella purezza di uno sguardo non prevenuto”: M. Foucault, Nascita della clinica, Torino 1969, p. 221.
212 Per una rassegna delle pubblicazioni più importanti, cfr. S. Spinsanti, “Psicologi incontro ai morenti”, in Medicina e Morale, 26 (1976), n. 1-2.
213 E. Kübler-Ross, La morte e il morire, Assisi 1976.
214 “È opinione diffusa che il medico, per quanto non possa deliberatamente disporre in alcun caso della vita di un’altra persona, abbia il dovere di fare il possibile per assicurare al suo paziente una morte dignitosa e senza dolore, anche quando sa che le misure adottate possono lievemente accelerare la fine”: O.M.S., La Salute e i diritti dell’uomo, Roma 1978, p. 52.
215 “L’uomo occidentale ha perso il diritto di presiedere all’atto del morire. La salute, cioè il potere di reagire autonomamente, è stata espropriata fino all'ultimo respiro. La morte tecnica ha prevalso sul morire. La morte meccanica ha vinto e distrutto tutte le altre morti”: I. Illich, Nemesi medica, Milano 1977, p. 223.