Gli animali nell’orizzonte della bioetica

Sandro Spinsanti

GLI ANIMALI NELL'ORIZZONTE DELLA BIOETICA. SOLIDARIETÀ E RESPONSABILITÀ FRA TUTTI I VIVENTI

in Gli animali e la Bibbia. I nostri minori fratelli, a cura di Piero Stefani

Biblia - Associazione Laica di Cultura Biblica, WWF - Fondo Mondiale per la Natura

Garamond, Roma 1994

pp. 77-86

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La storia di Titus

La vita di Titus è finita in uno dei più profondi gironi dell’inferno. All’inizio c’era invece un idilliaco paradiso terrestre: una foresta tropicale delle Filippine. Qualcuno potrebbe pensare che i simboli del paradiso e dell’inferno non siano appropriati per il Titus. Il quale non apparteneva al genere “homo sapiens”, bensì a quello delle scimmie.

Insieme ad altri sedici compagni Titus è stato catturato nella foresta ed inviato nell’istituto per la Ricerca Comportamentale di Silver Spring, nel Maryland (Stati Uniti). Le scimmie furono affidate a Edward Taub, uno psicologo che aveva programmato una ricerca, finanziata dal National Institute of Health (NIH), per studiare la rigenerazione dei nervi. La ricerca prevedeva la “deafferentazione” degli arti superiori degli animali. Il termine scientifico nascondeva una realtà ben poco poetica. Private della sensibilità, le scimmie mutilavano i loro arti e mangiavano le loro stesse dita.

Lasciati in un stato di totale trascuratezza ― da due anni nessun veterinario era entrato nell’ambiente in cui erano custoditi ― gli animali erano trattati da “materiale da laboratorio”: esseri viventi su cui condurre ricerche.

La loro vicenda ebbe una svolta spettacolare nel 1981. Alex Pacheco, un attivista del movimento per i diritti degli animali e co-fondadore del PETA (“People for the Ethical Treatment for Animals”), si fece assumere come volontario nel laboratorio dove Titus e i suoi compagni languivano e riuscì a raccogliere, di nascosto, una documentazione impressionante

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sulla condizione degli animali. Le foto e un film provocarono un forte shock sull’opinione pubblica. La polizia fu indotta a mettere sotto sequestro il laboratorio e a impadronirsi delle scimmie.

Seguì un processo, a seguito del quale il Dott. Taub fu condannato, secondo il codice del Maryland, per crudeltà verso gli animali. Gli esiti del processo, tuttavia, furono rovesciati in appello: il giudice stabilì che un ricercatore che lavorava su un progetto finanziato da governo federale non era soggetto alla legge anti-crudeltà di uno stato.

L’odissea delle diciassette scimmie, invece, era appena iniziata. L’Istituto di Silver Spring voleva trasferirne la proprietà al NIH, per liberarsene; quest’ultimo la rifiutava, adducendo il motivo che non aveva un protocollo di ricerca adeguato in cui utilizzare gli animali. Il PETA e la Lega Internazionale di Protezione di Primati premevano per avere in custodia le scimmie, con l’intenzione di condurle in una riserva per primati, ma si scontrarono con l’opposizione determinata di molte organizzazioni scientifiche.

Queste premevano perché fosse portato a termine l’esperimento originario di Taub, ovvero se ne avviasse un altro. La loro preoccupazione era che, se si fosse concesso a gruppi per la protezione degli animali di impadronirsene, si sarebbe stabilito un precedente che riconosceva a tali organizzazioni di poter accedere ai tribunali a favore di animali coinvolti nelle sperimentazioni. Anche l’Associazione degli industriali del farmaco e varie Associazioni mediche esprimevano le stesse riserve nei confronti degli attivisti per i diritti degli animali, considerati come terroristi con i quali non si doveva scendere a nessun compromesso, né concedere loro alcun credito.

E le scimmie? Rifiutate sia dall’istituto di Silver Spring che dal NIH, continuavano da anni a rimaner parcheggiate in piccole gabbie, in attesa di destinazione. Nel 1986 un gruppo consistente di membri del Congresso ― più di trecento deputati ― inoltrò una petizione al NIH, chiedendo che gli animali fossero trasferiti in una riserva. Il NIH rifiutò, difendendo il valore degli animali per la ricerca. Nel frattempo cinque scimmie furono trasferite nello zoo di San Diego e otto morirono. Le ultime quattro furono trattenute per conto del NIH in un centro per primati della Tulane University.

Nel gennaio 1990 si fece un esperimento su Billy, e subito dopo lo si uccise. La stessa sorte toccò, via via, alle altre scimmie. L’ultimo a soccombere fu Titus, nell’aprile del 1991: sottoposto a un’ultima batteria di esperimenti, fu poi messo a morte.

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Le scimmie di Silver Spring e la Bibbia

La storia di Titus ha qualche legame con il tema del convegno, dedicato agli animali e alla Bibbia? Un collegamento possibile sarebbe quello di interrogarsi sul rapporto tra le motivazioni dei protagonisti della vicenda e l’insieme del patrimonio di idee e valori trasmessi dalla Bibbia. In altre parole: coloro che si sono impegnati per la liberazione degli animali e quelli che invece si sono adoperati per utilizzare gli animali per la ricerca hanno un qualche legame per la Bibbia?

Esplicitamente, no: né gli attivisti della “animal liberation”, né la comunità degli scienziati hanno adottato argomentazioni religiose o si sono riferiti in qualche modo alla Bibbia. Ma non possiamo escludere coinvolgimenti più profondi con il mondo dei valori trasmessi dalla Bibbia. In particolare, è stato da tempo avviato un dibattito culturale sulla buona coscienza con cui molti si sentono autorizzati ad usare gli animali: nelle sperimentazioni scientifiche come in molti altri usi. L’atteggiamento nella Bibbia nei confronti degli animali sembra ad alcuni che abbia fornito un alibi per lo sfruttamento dei viventi non umani. La responsabilità della religione ebraica-cristiana nel dissesto ecologico è stato un tema caro a molta “controcultura” nata intorno al 1968.

L’attribuzione al giudeo-cristianesimo di una responsabilità morale per la dissacrazione della natura operata dal mondo occidentale è una teoria che ha un’ascendenza culturale di tutto rispetto. Max Weber ha parlato per primo della liberazione della natura dai suoi accenti sacrali ad opera della religione biblica come di un “disincanto”. Ciò avrebbe reso possibile l’approccio della natura con intento operativo, quale condizione preliminare assoluta per lo sviluppo della mentalità scientifica e della tecnica.

In epoca più recente, la teoria secondo cui l’origine del malessere ecologico vada ricercata nell’atteggiamento nei confronti della natura promosso dalla religione ebraico-cristiana è diventata quasi un luogo comune. Possiamo riferirci al saggio dello storico americano Lynn White, pubblicato nel 1967 ― Le radici storiche della nostra crisi ecologica ―, che metteva in risalto l'antropocentrismo proprio della visione biblica del posto dell’uomo nell’universo. La dottrina della creazione, che pone l’uomo al vertice gerarchico dei viventi, sembra giustificare, secondo questa tesi cara agli ambienti radicali e della “controcultura”, la degradazione della natura e lo sfruttamento degli animali.

Con ben altro equipaggiamento intellettuale ha ripreso il tema più di recente il teologo tedesco Eugen Drewermann nella monografia Der tödliche Fortschritt. Von der Zerstörung der Erde und des Menschen im Erde des Christentums, Regensburg 1981 (Il progresso mortale. La distruzione

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della terra e dell’uomo come conseguenza del cristianesimo). Lo studioso mette sotto accusa l’estraniamento della realtà religiosa dalle energie inconsce della natura umana. L’ostilità delle religioni istituzionalizzate nei confronti dei viventi è fatta derivare dall’angoscia che consegue a questa rimozione. L’uomo lacerato in se stesso dall’angoscia non può che essere distruttivo verso i propri fratelli, le piante e gli animali, e bellicoso verso i propri simili.

Adottando griglie interpretative di questo genere, potremmo forse trovare un filo rosso che lega la tranquilla coscienza dei ricercatori che usano gli animali e delle strutture scientifiche che li supportano con le legittimazioni che discendono dalla Bibbia.

Un altro collegamento indiretto tra la storia delle scimmie di Silver Spring e la Bibbia potrebbe essere quello che si riferisce alla Bibbia come al “Grande Codice” della cultura occidentale. La definizione, divulgata dal critico letterario Northrop Frye, ci ha aperto gli occhi sul modello biblico presente in una quantità di narrazioni della nostra tradizione. Potrebbe essere un compito interessante studiare quanto il forte impatto che la vicenda delle diciassette scimmie ha avuto sulla opinione pubblica americana dipenda dal fatto che è modellata su archetipi biblici: la loro peregrinazione ricorda l’esodo; l’intera vicenda ha un sapore sacrificale, con gli animali nel ruolo di vittime designate da sacrificare sull’altare della scienza; i tribunali dimostrano lo stesso indifferente opportunismo di quello di Pilato...

Ma invece di collegare Titus e i suoi compagni alla Bibbia attraverso percorsi che potrebbero interessare gli storici delle idee e i semiologi, preferisco affrontare la pista offerta dalla bioetica contemporanea. È un cammino forse meno diretto, ma non meno istruttivo.

Biosfera, bioetica, etica della vita animale

La bioetica, quale nuova disciplina nata sull’onda dei recenti progressi della medicina e delle scienze biologiche, è per lo più identificata presso il grande pubblico con la funzione di controllo che ad essa si attribuisce. Ci si aspetta che essa sappia vigilare e prevenire i possibili esiti disumanizzanti del progresso bio-medico e della tecnologia applicata alla vita. Si è soliti correlare la bioetica con pratiche quali fecondazione in vitro, ingegneria genetica, prolungamento artificiale della vita, trattamenti sperimentali. Una descrizione della bioetica cosi concepita è sicuramente appropriata, ma parziale. Anche altri compiti spettano alla bioetica. Se l’etica è la dottrina dei doveri, la bioetica si può definire

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come l’elaborazione dei doveri morali dell’uomo che nasce da quell’ampliamento della coscienza collegato al concetto di biosfera.

Piante e animali sono entrati nella nostra coscienza. È un avvenimento di grande importanza per la crescita spirituale dell’umanità, uno di quei gradini che segnano un salto di qualità. Parliamo della presenza della natura vivente alla coscienza nel duplice significato di questa parola: come qualcosa di cui ci si accorge, e come una realtà che crea un obbligo morale, cioè verso cui ci si sente obbligati.

L’elaborazione di una dottrina dei doveri è avvenuta sempre intorno all’uomo come persona. L’uomo si considera “signore e padrone della natura” (Cartesio); la regola fondamentale dell’etica razionalista stabilita da Kant (trattare l’altro come un fine, non come un mezzo) si applicava solo a quell’“altro” in cui veniva riconosciuto carattere umano, non ai viventi in genere.

Contro quest’etica, che pretende di considerare come irrilevanti gli altri viventi non umani, si erge, come un duro atto di accusa, l’affermazione di Albert Schweitzer: “Un’etica che si occupa solo degli esseri umani è disumana”. Oggi sentiamo il bisogno di far posto agli animali e alle piante nei nostri sistemi etici e di rivedere, di conseguenza, comportamenti che negli orientamenti etici del passato venivano considerati come indifferenti, o addirittura lodevoli. L’uso degli animali nella sperimentazione è uno dei casi più problematici, dove il vecchio e il nuovo sono destinati a scontrarsi.

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Etica e pathos

Probabilmente sono in pochi oggi a sostenere posizioni radicali, che negano agli animali qualsiasi rilevanza etica. Come punto di riferimento estremo, possiamo considerare il posto che il filosofo razionalista Spinoza attribuisce agli animali nella sua Ethica: “La legge che proibisce di ammazzare gli animali è fondata piuttosto sopra una vana superstizione e una femminea compassione, anziché sulla sana ragione. Il dettame della ragione di ricercare il nostro utile prescrive, bensì, di stringere rapporti di amicizia con gli uomini, ma non coi bruti o con le cose la cui natura è diversa dalla natura umana... E tuttavia io non nego che i bruti sentano, ma nego che per questa ragione non sia lecito provvedere alla nostra utilità o servirci di essi a nostro piacere, e trattarli come meglio ci conviene, giacché essi non si accordano per natura con noi, e i loro affetti sono per natura diversi dagli affetti umani”. È chiaro che Titus e i suoi compagni di sventura potrebbero trovare ben poca protezione presso scienziati che si ispirassero a filosofie di questa impostazione.

Si va diffondendo un consenso sul fatto che il dibattito sul comportamento da tenere con gli animali deve essere sottratto alle divagazioni salottiere e alle contrapposizioni regolate più dal “athos” che dalla ragione. Se ne deve parlare nella sede più appropriata, che è quella della riflessione filosofica. Tuttavia il compito filosofico si dimostra deludente per chi cercasse orientamenti condivisi su larga base. I filosofi morali sono lontani dall’aver raggiunto un consenso sostanziale su questioni fondamentali, a cominciare da quella relativa allo statuto morale degli animali.

A un’analisi filosofica accurata, la nozione di statuto morale rivela due significati: uno debole, nel senso di avere rilevanza per la vita morale, e uno forte, vale a dire riconoscere che gli animali sono portatori di diritti. Nella prima accezione l’accordo tra gli studiosi sembra più facile da raggiungere: le concezioni più estreme, che hanno razionalizzato il potere indiscriminato dell’uomo sugli animali ricorrendo a costrutti di tipo spiritualista (negando cioè l’anima immortale agli animali) o di tipo razionalista (riservando la ragione in esclusiva all’uomo), non hanno più corso.

Nessuna teoria etica è disposta ad avallare un comportamento insensato o deliberatamente crudele nei confronti degli animali, con argomenti tratti dall’uno o dall’altro arsenale ideologico. Tuttavia, a un certo punto il consenso si infrange: in caso di conflitto di interessi, alcuni sono più propensi a concedere all’uomo un ragionevole uso degli animali. Quando la vita umana può essere migliorata e la sofferenza dell’uomo

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diminuita mediante l’uso appropriato di creature non umane, molti continuano ancora a votare per l’uomo.

È una via che invece non sono disposti a seguire i filosofi che riconoscono agli animali uno statuto morale in senso forte e parlano, di conseguenza, di diritti degli animali. Alcuni studiosi per promuovere la causa degli animali seguono una via cognitiva, trovando un forte alleato in Charles Darwin, il quale ha più volte asserito che non si riscontra alcuna fondamentale differenza tra l’uomo e i mammiferi superiori nelle loro facoltà mentali: non appare lecito, quindi, discriminare gli animali in quanto mancanti della ragione. La maggior parte dei filosofi, tuttavia, argomenta con categorie proprie della filosofia utilitarista ― secondo la quale le azioni sono moralmente giuste nella misura in cui tendono a produrre la più grande felicità per il più grande numero ― e fonda la protezione da accordare agli animali sulla loro capacità di sentire dolore.

Secondo questi filosofi, per stabilire i confini della comunità morale bisogna riferirsi a una base più ampia di quella costruita su misura per l’essere umano adulto, razionale, sano, pienamente funzionante. Se utilizziamo non solo la razionalità, ma anche facoltà come l’empatia e la compassione, dovremmo riconoscere che la condizione sufficiente per far parte della comunità morale è quella di essere un soggetto vivente; e questa è una condizione che gli animali condividono con l’uomo. Le tesi più estreme in questa direzione sono quelle sostenute dal filosofo australiano Peter Singer nel libro Animal Liberation: è immorale concedere meno considerazione alla sofferenza di un animale di quella che diamo a una sofferenza simile di un essere umano.

Le vie tracciate dalla riflessione filosofica devono confrontarsi, oltre che con la valutazione delle argomentazioni addotte, anche con un dato di fatto che molti filosofi tendono a ignorare: il giudizio morale relativo alle nostre azioni non dipende solo da una valutazione razionale, ma anche da sentimenti e interessi. Ciò vale anche per i comportamenti umani nei confronti degli animali.

Un’illustrazione convincente è fornita da una ricerca condotta in un laboratorio da uno psicologo americano, Herold Herzog, “sullo statuto morale dei topi”. Le affermazioni massimalistiche dei filosofi sui diritti degli animali si scontrano con un fatto: come aveva già scoperto Orwell ne La fattoria degli animali, alcuni animali sono “più uguali degli altri”! Inevitabilmente, noi facciamo una distinzione tra parassiti, animali nocivi e animali da compagnia, e modelliamo i nostri comportamenti su tali categorie. Nel laboratorio studiato da Herzog risultava che, conformemente alla nostra tendenza ad assegnare ruoli ed etichette, i topi venivano suddivisi secondo una triplice tipologia: quelli “buoni”, sui quali

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erano condotti gli esperimenti, venivano trattati secondo le norme “umanitarie” previste dai regolamenti federali americani: quelli “cattivi” (per lo più topi fuggiti dalle colture, che minacciavano di inquinare, e quindi rendere inservibili per le ricerche, quelli “buoni”) erano destinati a essere catturati in modo crudele, facendoli invischiare su tavole rivestite di pece; e infine topi “da mangime”, allevati appositamente per nutrire serpenti dello stesso laboratorio. La conclusione dello studio è che la psicologia, meglio della filosofia, ci permette di capire come gli esseri umani arrivino alle decisioni morali, in quanto i giudizi etici sono inestricabilmente intrecciati in una matassa fatta di emozioni, logica e interessi. Il dibattito sull’uso degli animali nella ricerca, perciò, non potrà essere risolto in modo soddisfacente né ricorrendo unicamente alla logica, né facendo appello alle emozioni.

Il discorso, così controverso, sullo statuto morale degli animali e sui loro presunti “diritti” non è l’unica via per discutere i problemi morali della sperimentazione animale, ma solo una via tra le altre. Il fatto che il dibattito filosofico sia ancora così tentennante su questa nuova provincia dei suoi interessi non ci autorizza a congelare, nel frattempo, la ricerca di procedure più corrette ed esigenti nel trattamento degli animali sui quali vengono condotte sperimentazioni. In tale direzione spinge la regola delle tre R, alla quale cercano di attenersi gli sperimentatori. Si tratta, rispettivamente, di Restriction (limitazione del numero degli animali impiegati), Refinement (miglioramento delle metodologie, con particolare riguardo a risparmiare dolore agli animali) e Replacement (sostituzione con altri modelli biologici o con modelli computerizzati).

La ricerca di un consenso su concrete regole procedurali, pur rimanendo aperte fondamentali questioni dì etica sostantiva, esprime efficacemente l’aspetto pragmatico della bioetica contemporanea, intesa come un momento cruciale dell’etica civile.

Bioetica e religione

Il comportamento verso gli animali non può essere assunto; da solo, come criterio di eticità. Non basta proclamare e difendere i diritti degli animali per collocarsi nell’ambito dei valori che definiscono la “buona” vita. Un’illustrazione impressionante della dissociazione possibile tra l’amore verso gli animali e l’etica è offerta dal romanzo di fantascienza Cacciatore di androidi, di Philip Dick. Gli androidi in questione sono dei “doppi dell’uomo”: anche se costruiti, hanno le sembianze di esseri umani; e come uomini pensano e provano emozioni. Quando questi perfetti automi si ribellano alla soggezione dell’uomo, devono essere

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uccisi; o piuttosto “ritirati”, come si esprime in linguaggio eufemistico chi si dedica alla loro caccia.

Nel mondo supertecnologico che ha fatto seguito a un’ipotetica terza guerra mondiale, a carattere nucleare, gli animali sono quasi del tutto scomparsi. Per questo sono oggetto di cure e quasi di culto; possederne almeno uno ― se non è vero, almeno artificiale ― e accudirlo, è più che uno “status symbol”: è un imperativo sociale e un segno di moralità. Chi non ha un animale vero è guardato con disprezzo: “Sai com’è la gente ― commenta Dick Deckard, il cacciatore di androidi ― e come giudichi immorale e anti-empatico non prendersi cura di un animale. Cioè, non è un crimine, come lo era dopo la Fine della Guerra del Mondo, ma questa impressione è rimasta nella gente”.

Nella giornata in cui il protagonista ha ritirato tre androidi ― cioè li ha uccisi a sangue freddo ― qualcosa non ha funzionato. Per riconquistare la fiducia in se stesso, per ritrovare la fiducia nelle sue capacità, investe i guadagni della caccia agli androidi nell’acquisto di una capra. E la giornata di sangue si può concludere in una contemplazione estasiata, insieme alla moglie, di un animale vero.

L’amore degli animali in sinergia con l’aggressività verso gli uomini è più che una trovata di un romanzo che distilla neri umori: è una combinazione che ci capita sovente di riscontrare nella realtà. E che ci richiama alla necessità di correlare, anche nel comportamento morale, la parte con il tutto. O con il Tutto.

La prospettiva del tutto è quella della religione. La religione a cui qui ci riferiamo non è direttamente ed esclusivamente quella che si esprime nelle istituzioni religiose. La bioetica, in quanto comportamento responsabile che nasce dalla coscienza dell’uomo di appartenere a quella realtà più grande di sé che è la biosfera, offre un percorso privilegiato per quest’etica che si fonda su una concezione sacrale della vita come un Tutto a cui si partecipa. Possiamo lasciarci guidare, come uno dei percorsi possibili, dalla riflessione etica di Albert Schweitzer.

Il suo punto di partenza è rigidamente filosofico. Nel suo progetto di fondare meta-eticamente l’etica, non si accontenta né del fondamento posto da Kant, né di quello di Cartesio. Il dato più immediato della coscienza umana non è, a suo avviso, il “Cogito ergo sum”, bensì la percezione della vita: “Io sono vita che vuol vivere, circondata da vita che vuol vivere”. L’essenza dell’uomo e del mondo è l’aspirazione della vita a mantenersi, e inoltre a svilupparsi, a propagarsi, a espandersi.

L’intuizione della volontà universale di vivere richiede però un giudizio di valore: il culto istintivo della vita conduce, da solo, alle peggiori prevaricazioni. “L’affermazione del mondo e della vita in sé ― afferma Schweitzer ― non può produrre che una civiltà imperfetta e incompleta.

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Soltanto spiritualizzandosi e diventando etica produce una volontà di progresso capace di distinguere il principale dall’accessorio e di tendere verso una civiltà che non consiste solo nell’acquisizione della scienza e della tecnica, ma si sforza anzitutto di far progredire l’individuo e l’umanità nella dimensione etica e spirituale”.

La fondazione dell’etica che rispetta ineludibili esigenze di affermare la vita e di introdurre in essa un giudizio di valore è riassumibile, secondo Schweitzer, nell’orientare il proprio comportamento secondo “il rispetto della vita”. L’imperativo categorico che fonda l’etica può essere formulato come: “Agisci in modo da favorire la vita”. I criteri etici per valutare i comportamenti devono essere ricondotti ai principi fondamentali: è bene ciò che protegge e incrementa la vita; è male ciò che la distrugge e la danneggia.

Il termine che esprime il rispetto ― Ehrfurcht ― nell’espressione originale tedesca ha un senso più forte di quello che abbia nella nostra lingua. È impastato di timore reverenziale che nasce di fronte alla rivelazione del sacro (tremendum); esprime partecipazione vissuta ed esperienza di natura mistica della vita alla quale si partecipa (fascinosum); implica non solo un rispetto timido e per così dire passivo della vita, ma un atteggiamento attivo che si manifesta nell’impegno per promuoverla; comporta le limitazioni necessarie, che hanno il nome di abnegazione e sacrificio. Quell’etica nel rispetto della vita, in una parola, che trova la migliore esegesi nell’esistenza stessa del medico Albert Schweitzer.