- Antropologia cristiana
- L'etica cristiana della malattia
- Il linguaggio del corpo nella comunicazione rituale
- Gli animali nell'orizzonte della bioetica
- Gesù psicoterapeuta
- I concetti fondamentali della teologia spirituale
- Artista
- Martire
- Utopia
- Revisione di vita
- Modelli spirituali
- Quel filo imprevedibile
- Chiesa ubriaca o chiesa ispirata?
- I compagni scomodi dell'uomo-massa
- La chiesa anno zero: i primi tre giorni
- Gli stati di vita: vecchie e nuove prospettive
- Bioetica per la promozione della vita
- In cammino oltre il senso di colpa
- In cammino oltre il senso di colpa - conclusione
- La fede guarisce?
- Spiritualità nella malattia
- Irruzione di Dio
- Oltre il dualismo soma-psiche
- Psicologia del pellegrinaggio
- Proposta di lettura «transazionale» del vangelo
- Una nuova concezione dell'assistenza spirituale
- Digiunare oggi: come e perchè
Sandro Spinsanti
MODELLI SPIRITUALI
in Nuovo dizionario di spiritualità
Ed. Paoline, Roma 1973
pp. 1001-1030
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SOMMARIO
Introduzione
I. Funzione del modello nel progetto spirituale del cristiano
1. L'uso dei modelli nella cultura contemporanea
a. Epistemologia e modelli
b. Etica e modelli
c. Psicosociologia del modello eroico
2. Verso una teologia della vita
a. L'attenzione al vissuto storico
b. Biografia come teologia
II. Modelli spirituali
1. Charles de Foucauld: l'imitazione di Cristo di un "fratello universale"
2. Madeleine Delbrel: santità per la gente delle strade
3. Martin Luther King: un credente con un sogno
4. P. Teilhard de Chardin: una passione cristiana per il "fenomeno umano"
5. Dietrich Bonhoeffer: essere cristiani in un mondo adulto
I. FUNZIONE DEL MODELLO NEL PROGETTO SPIRITUALE DEL CRISTIANO
- 1. L'uso dei modelli nella cultura contemporanea
È convinzione generale che la nostra sia un'epoca di transizione culturale. Ad ogni latitudine del globo avvengono trasformazioni epocali. Le culture tradizionali e sacrali dell'Asia e dell'Africa assimilano velocemente la tecnologia occidentale; morso il frutto, si trovano fuori del paradiso terrestre del mito e del tempo ciclico, inserite nel corso imprevedibile e angoscioso della storia. La nostra stessa cultura occidentale ha perso la fiducia in se stessa, si dilania nell'autocritica, è angustiata da rimorsi di coscienza. Non è più il tempo delle costruzioni ideologiche chiuse e onnicomprensive. Si va a tentoni. Su questo sfondo si comprende l'attenzione rinnovata ai modelli che emerge nei campi più diversi della cultura. Riferiamo qui di seguito alcune delle riflessioni più significative che hanno contribuito a ridefinire il ruolo che spetta ai modelli nel sapere e nella vita morale. La sommaria rassegna ci mostrerà come il nostro progetto di proporre alcuni modelli di spiritualità contemporanea sia inserito organicamente in una delle esigenze più sentite della cultura del nostro tempo.
a. Epistemologia e modelli ― Le varie discipline del sapere, nonostante le loro necessarie differenze, hanno un tratto comune: fanno uso di modelli. Tutte: le scienze dell'uomo come le scienze della natura. Anche la teologia — quel sapere particolare che si fonda sulla rivelazione — fa uso di modelli. È il motivo per cui consideriamo con particolare interesse
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un discorso epistemologico centrato sull'uso dei modelli. Questo tipo di approccio è stato tematizzato soprattutto da I.T. Ramsey 1 il ben noto filosofo e teologo del linguaggio. La sua teoria epistemologica dei modelli ci invita a superare l'idea ingenua secondo la quale i modelli a cui si fa ricorso in sede scientifica sarebbero delle descrizioni pittografiche dirette, una specie di rappresentazioni in miniatura o ingrandimenti fotografici della realtà considerata. Ciò non è vero — se vogliamo considerare i campi estremi di applicazione — né in fisica, né in teologia: né quando la luce è descritta, così come è stato fatto, come ondulazioni in un etere invisibile, né quando le realtà del mistero cristiano sono presentate in termini antropologici, quasi fossero rappresentazioni su scala umana e visibile di ciò che è divino e invisibile. Il funzionamento del modello nel discorso scientifico, qualunque sia l'oggetto di questo discorso, è più articolato. I modelli, come le metafore, nascono dal "mistero". È il mistero stesso che si dischiude in un'intuizione; il modello si riferisce ad esso, senza avere però la pretesa di riprodurlo o descriverlo. Noi passiamo la vita nel cercare di gettar luce sempre più fedelmente sul mistero da cui il modello prende origine. Di qui la pluralità di modelli, la loro relativa breve durata nell'uso scientifico, la reciproca complementarietà. Il modello non traduce in maniera esaustiva il significato cosmico del "mistero"; tra il modello e ciò che lo sguardo dell'intelletto coglie in esso esiste un salto logico irriducibile.
In una teoria epistemologica di questa ampia portata anche la teologia può legittimamente pretendere un posto. Similmente alle altre discipline, il discorso teologico fa uso di modelli. Non si trova in una posizione logica superiore rispetto alle scienze naturali, alla sociologia o alla psicologia; non può dettare le sue conclusioni alle altre scienze. Tutte le varie forme di sapere, infatti, si riferiscono al "mistero", e la coscienza di fare un discorso mediato da modelli preserva anche la teologia dalla pretesa di imporre i suoi assiomi in modo dittatoriale. L'unica funzione specifica, che la teologia può e deve reclamare, è quella di essere il guardiano e il portavoce dell'intuizione e del mistero; il suo compito primario è quello di tener desta l'attenzione delle altre discipline alle esigenze del mistero che le fonda, di sensibilizzarle a quel mistero che ogni disciplina cerca a modo suo di comprendere. «Le altre discipline saranno giudicate primariamente dalla qualità della loro articolazione; la teologia sarà giudicata primariamente dalla sua capacità di indicare il mistero. Ma ogni disciplina mescola comprensione e mistero; ciò significa che ci aspetteremo di trovare in ogni disciplina parole e frasi che testimoniano intuizione, così come modelli che assicurano la possibilità di esprimere il mistero» 2.
Una riflessione epistemologica, per quanto sia necessariamente obbligata a muoversi in un piano astratto e formale, non equivale a un gioco di concetti rarefatti. Essa è stimolata dal maggior problema che conosca l'umanesimo nella nostra società del benessere: quello di scoprire nuove occasioni in cui possa dischiudersi il "mistero". Il ruolo che la riflessione religiosa si propone non contraddice quello della vera scienza; essa vuol stimolare la visione, ricordarci il mistero. Ma il mistero rimane inaccessibile. Il pensiero non può fotografarlo, il linguaggio non può riprodurlo. Ad esso ci si avvicina solo mediante
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l'uso di modelli. Questa prospettiva mette fine all'altezzosi squalifica del discorso teologico da parte di una scienza positivista, che si pretende l'unica forma di sapere sicuro. La teoria epistemologica dei modelli sblocca questa situazione di stallo. Essa ci rende avvertiti che ogni forma di sapere umano, quello scientifico come quello umanistico, è un uso articolato di modelli. Ciò lo relativizza e al tempo stesso lo aggancia alle profondità del mistero. Nel nostro sforzo per vivere nel modo migliore che possiamo i modelli ci destinano ad essere costantemente circondati da incertezze, sia teologiche che scientifiche. Alle incertezze si può far fronte solo mediante il ricorso alla verifica costante.
Nel modo di verificare i modelli la teologia e le scienze divergono. Nella teologia, al contrario che nella scienza, il modello non è usato per generare deduzioni che possono essere o non essere sperimentalmente verificate. Il modello teologico non può confermare o falsificare la teoria che è sulle nostre labbra. Esso funziona in un modo che vorremmo paragonare al modo in cui si provano le scarpe. Abbiamo una particolare dottrina o, ancor più, un modello concreto di esistenza cristiana; come una scarpa di nostro gusto, esso ci sembra rispondere ai nostri bisogni empirici. Solo una prova più accurata mostrerà se la scarpa stringe, se è permeabile all'acqua, oppure se permette una comoda deambulazione. Il misurar le scarpe più che una prova tecnica è un'attività che esige una certa finezza di spirito; richiede la capacità di commisurare i propri bisogni e le prestazioni dell'oggetto, gli svantaggi che conviene tollerare e le funzionalità a cui non si può rinunciare. Un'arte ben più raffinata è quella che la teologia è chiamata ad esercitare quando si mette alla ricerca dei modelli linguistici ed etici per avvicinarsi al mistero che annuncia. Ma anche qui l'ultima parola non può essere detta finché il modello non è stato "provato". La teoria epistemologica dei modelli e del loro riferimento al "mistero" ci incoraggia in tal senso. Il metodo di prova empirica non squalifica la teologia dal punto di vista epistemologico. Perciò l'audacia dei credenti nell'uso dei modelli, sia in campo dottrinale che in campo morale, non può risultare che accresciuta.
b. Etica e modelli ― L'uso di modelli investe in pieno il campo etico. Con queste considerazioni entriamo già nella problematica teoretica che deriva dalla scelta di alcuni modelli spirituali. Prendiamo come paradigma il progetto filosofico che, a primo avviso, appare il più alieno alla tematizzazione dei modelli etici, vale a dire la critica del linguaggio metafisico ed etico fatta da L. Wittgenstein. La sua posizione è stata interpretata, come un'irruzione di neo-positivismo sulla scena filosofica della nostra cultura, impantanata in un'insolubile crisi del linguaggio. Si è spesso ripetuto che il suo Tractatus logico-philosophicus è una delle opere più importanti del pensiero contemporaneo, ma solo per ridurre il suo progetto a un banale rifiuto di ogni affermazione che non possa essere verificata empiricamente («Ciò di cui non si può parlare, si deve tacere») 3.
La critica del linguaggio impostata da Wittgenstein può avere ben altri esiti che la riduzione all'assurdo di ogni proposizione di tenore metafisico, religioso, etico e poetico 4. È vero che la sua avventura filosofica prende avvio da una rimessa in discussione della validità dell'uso del linguaggio per descrivere il mondo. Il linguaggio sembrava essersi scollato dai fatti
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descritti. In particolare Wittgenstein ha messo in discussione la validità del procedimento che porta a usare lo stesso linguaggio per connettere fatti e proposizioni e allo stesso tempo per convalidare criticamente le relazioni intercorrenti tra linguaggio e mondo: ciò assomiglia al tentativo di arrampicarsi su una scala senza sostegni sorreggendola al contempo. La possibilità di connettere fatti e proposizioni può mostrarsi, e quindi essere vista; ma non c'è maniera né di dirla, né di provarla.
Wittgenstein intendeva costruire una critica generale del linguaggio che mostrasse sia che la logica e la scienza hanno un ruolo fondamentale nel comune linguaggio descrittivo (linguaggio con cui produciamo una rappresentazione del mondo analoga ai modelli matematici dei fenomeni fisici), sia che i problemi circa l'«etica, il valore e il significato della vita», i quali vanno oltre i limiti del linguaggio descrittivo, possono tutt'al più diventare oggetto di una visione mistica esprimibile solo mediante comunicazioni "indirette". I neopositivisti hanno sfruttato la distinzione per contestare ogni validità al secondo tipo di discorso. Non era però questa l'intenzione di Wittgenstein. Secondo l'interpretazione fornita dal suo amico Paul Engelmann, che ha corrisposto col filosofo al tempo dell'elaborazione del Tractatus, egli intendeva esattamente il contrario di ciò che hanno compreso poi i neopositivisti. Il positivismo sostiene che ciò che conta nella vita è ciò di cui possiamo parlare in modo scientifico; Wittgenstein invece credeva appassionatamente che ciò che conta davvero nella vita è proprio quello di cui, dal suo punto di vista, si deve tacere.
Il progetto del filosofo viennese era quello di separare ciò che è etico dalla sfera del discorso razionale. Il significato del mondo sta fuori del fattuale; nella sua sfera, fatta di valori e di significati, vi sono solo paradossi e poesia. Naturalmente egli non vuol affermare che la moralità è opposta alla ragione, ma soltanto che la sua fondazione è altrove. L'etica non è una scienza. La sua verità non può essere dimostrata, ma solo mostrata. In pratica questo mostrare prende la forma di testimonianza. Per esprimere il significato della vita umana, la verità morale, le cose più importanti della vita, bisogna ricorrere ad altro che al linguaggio della vita quotidiana e della scienza. Per l'uomo buono l'etica è un modo di vivere, non un sistema di proposizioni. Una simile concezione dell'etica ci induce ad attribuire una rilevanza singolare al fatto che Wittgenstein stesso, finita la redazione del Tractatus, abbia abbandonato la vita accademica e il mondo borghese di Vienna in cui era cresciuto per andare a fare il maestro elementare in paesini sperduti delle Alpi austriache. Questa decisione di vita diventa un momento ermeneutico fondamentale che dischiude il significato della sua opera filosofica 5.
P. Engelmann ha sintetizzato la posizione di Wittgenstein nell'affermazione che il suo linguaggio è quello della «fede non espressa in parole». La prospettiva è ricca di sviluppi: «Tale atteggiamento, allorché sarà adottato da altri uomini della giusta statura, sarà la fonte da cui scaturiranno nuove forme di società, forme che non necessiteranno di comunicazione verbale, perché saranno vissute e in tal modo rese manifeste. Nel futuro gli ideali non saranno comunicati per mezzo di tentativi atti a descriverli (il che non può che operare un'azione di distorsione) ma da esempi di un'appropriata condotta di vita.
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E queste vite esemplari saranno ili enorme valore educativo; non ci saranno dottrine espresse in parole che potranno sostituirle» 6.
Queste parole esplicitano uno dei presupposti teoretici che ci guidano nel presentare alcuni modelli di spiritualità per il nostro tempo. Abbiamo piena coscienza del valore pedagogico che tali modelli assumono nel contesto culturale d'oggi. La vita vissuta, più che le parole, può esprimere l'inesprimibile, vale a dire la qualità umana della vita. Ciò resta vero anche quando consideriamo esistenze che possono essere comprese solo nello Spirito di Cristo.
Una dottrina etica è un appello alla comprensione; una vita esemplare all'imitazione. L'imitazione, rettamente intesa, ha un suo posto e una sua funzione nella vita morale. Spesso è stata diffamata come decisione etica inferiore, indegna di un uomo moralmente adulto. Grazie ad alcuni filosofi moderni, la sua qualità etica può essere rivalutata. Particolare importanza rivestono a questo riguardo le analisi fenomenologiche che Max Scheler ha dedicato al processo etico dell'imitazione. Egli ha distinto il capo dal modello. Il capo agisce per via d'autorità e di comando; la sua influenza si esercita mediante l'obbedienza. Il concetto di modello, invece, dice tutt'altra cosa. Il "modello", nel senso profondo della parola, implica sempre un'idea di valore. Agisce per via d'esempio o mediante la forza che promana dalla sua personalità. Non impone il valore; questo piuttosto diventa vivo e attraente attraverso il modello. Quelli che lo seguono reagiscono alla sua influenza mediante un atteggiamento proprio che è l'imitazione (Nachfolge). Quest'ultima non va intesa nel senso di copia, di riproduzione materiale (Nachahmung). I capi non muovono che la nostra volontà; i modelli strutturano il nostro stesso essere. Scheler definisce il modello come «il valore incarnato in una persona, una figura ideale che è continuamente presente all'anima dell'individuo o del gruppo, così che questa prende a poco a poco i suoi tratti e si trasforma in essa: il suo essere, la sua vita, i suoi atti, coscientemente o incoscientemente, si regolano su di essa, sia che il soggetto abbia a felicitarsi di seguire il suo modello, sia che abbia a rimproverarsi di non imitarlo» 7.
Anche se Scheler conosce la fedeltà riflessa e cosciente verso un modello, la sua analisi si sposta soprattutto su quella specie di fedeltà "vitale", che si imprime misteriosamente nell'anima, pur sfuggendo alla percezione distinta, e magari alla coscienza, di colui che essa anima. «La persona (o il gruppo) che segue un modello non ha bisogno di conoscerlo in maniera cosciente e di sapere che essa lo ha per modello e che, giorno dopo giorno, forma il proprio essere sul suo, modella la propria personalità sulla sua. Arriverò anche fino ad affermare che molto raramente essa lo conosce come un ideale di cui sarebbe capace di definire il contenuto positivo e che essa lo conosce tanto meno quanto più la sua azione formatrice è più potente su di sé» 8.
Il "discepolo", in ogni caso, non obbedisce a una forza di suggestione che emanerebbe da un modello; e neppure lo copia. La sua condotta cambia in quanto il modello esercita su di lui un'"attrazione" (Zug), la quale, sviluppandosi e precisandosi, diventa amore 9. Questo amore non concerne questo o quell'aspetto o atto del modello, ma il centro stesso di tutto il suo essere, la sua essenza spirituale, alla quale arriviamo così a partecipare. Sotto
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questa forma la relazione di fedeltà è atta a suscitare nel discepolo una trasformazione morale, una conversione del suo spirito, un rinnovamento del suo essere che né l'obbedienza, né il rispetto di norme astratte potrebbero produrre. L'origine e lo stimolo efficace al progresso morale bisogna cercarlo nell'influenza di persone concrete, dal destino esemplare, e non in regole puramente formali di portata universale.
Alla stessa conclusione giungeva anche Bergson, quando opponeva la morale chiusa, fondata sulla generalità imperativa di formule impersonali, e la morale aperta, la quale s'incarna in una personalità privilegiata che diventa un esempio: «Perché i santi hanno imitatori; e perché i grandi uomini di bene hanno trascinato dietro a sé delle folle? Non domandano niente, e purtuttavia ottengono. Non hanno bisogno di esortare; non hanno che da esistere; la loro esistenza è un appello» 10.
Da questi filosofi che hanno propugnato un'etica personalista accettiamo le perorazione a favore del modello nella vita morale. Allo stesso tempo impariamo a distanziarci da un'imitazione pedissequa e letterale, che porterebbe a spegnere l'esistenza morale autentica in una serie di tipi fissi. I modelli presentano una certa composizione di valori in una prospettiva storica che, per quanto recente, non si identifica mai con la nostra. Possono servirci da ispirazione, da segni indicatori del cammino; ma non devono sostituire lo sforzo morale creativo richiesto ad ognuno.
c. Psicosociologia del modello eroico ― Un'ulteriore articolazione del discorso ci permetterà di precisare in che senso la cultura attuale autorizza il riferimento a modelli spirituali. Essa ci invita a definire il nostro progetto differenziando il modello spirituale dal modello eroico. Non si tratta di rivisitare la terra degli eroi e degli ideali eroici. Noi viviamo in un'epoca che, a differenza delle precedenti, vuol essere anti-eroica 11. Quando un insieme di valori diventa così carico di vitalità, che la gente vuol vivere di esso e morire per esso, nascono figure eroiche. Gli eroi accompagnano necessariamente un sistema di valori e di pensiero che è stato abbracciato da una comunità. Le motivazioni eroiche cambiano col tempo. Possono derivare dal senso della persona, o dall'idea nazionale, o dallo zelo religioso; così Achille cede il posto a Enea, per venir soppiantato da Parsifal. Sempre comunque l'eroe e il sistema di pensiero nel quale è incastonato stanno in una relazione di complementarietà: il primo è l'aspetto attivo del secondo. Valori ed idee, che non danno origine ad eroi, rimangono astratti esercizi mentali; eroi non integrati in un sistema di valori e di idee assomigliano ai vacui abitanti dei fumetti.
Nell'infanzia della cultura umana gli eroi rispondevano al bisogno psicologico di sicurezza, a quello di guida politica e sociale, al bisogno morale di tendere alla perfezione in pensieri ed azioni. La nostra cultura sembra essersi estraniata dal mondo eroico. Abbiamo demitizzato la letteratura sacra con la nostra nuova capacità di leggere e comprendere i testi antichi; abbiamo deromanticizzato le grandi personalità del passato con la nostra comprensione dei motivi oscuri che soggiacciono al comportamento umano. L'approccio psicoanalitico negli studi storici ha portato a un sofisticato smascheramento dei proclamati ideali e motivazioni dei grandi uomini del passato. È diventato di moda disprezzare le"buone ragioni" offerte come
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spiegazione del comportamento umano e ci si è scaltriti nella ricerca delle "vere ragioni" nascoste dietro ad esse. Nel vocabolario di queste scienze riduttive non c'è più posto per termini come "grande" o "piccolo" in riferimento alle personalità individuali, tutte esposte a un sospetto metodico. Uno degli aspetti più vistosi di questo umore antieroico è il crescente disincanto nei confronti dei leaders della vita politica nazionale.
Una critica a fondo dell'idea tradizionale di eroe è apparsa nella concezione dell'anti-eroe di tipo esistenzialista. Essa è distinta dai prototipi di eroi negativi come Lucifero o Prometeo per il fatto che deriva da un'esperienza di confusione e d'insuccesso, che è un elemento costitutivo della condizione umana dei tempi moderni. Una giustificazione filosofica estesa dell'anti-eroismo si trova negli scritti di J.-P. Sartre. Il suo intellettuale è condannato all'insuccesso dalla sua stessa lucidità. Perché un tale eroe è necessariamente conscio di sé, è incapace di perdere se stesso buttandosi a corpo morto nell'impegno di un'azione. Quanto più intensamente dà se stesso agli altri, tanto più completamente è solo, prigioniero del suo ego privato. È la sua tragedia, sostiene Sartre 12.
Più che ogni altra forma d'arte il romanzo è servito a riflettere la frattura dell'antico ordine delle cose. Testimoniando il sorgere dell'epoca moderna, ha disegnato per noi un nuovo modello di realtà. Ne è risultato un quadro della realtà così lontano dal mondo dei nostri padri, che la loro tradizionale idea di eroe non è più concepibile come possibilità artistica. All'Odissea di Omero fa riscontro l'Ulisse di Joyce. Leopold Bloom, la cui giornata è scandita dalle funzioni fisiologiche più umili, fa da contraltare all'eroe omerico. Bloom è l'ultimo eroe di oggi; l'aureola di nobiltà che lo circonda è quella della vita ordinaria. È la vita ordinaria, in tutta la sua mondana consistenza, il re e l'eroe di oggi. Tutto dà a credere che, per lungo tempo a venire, nessun eroe sarà più nostro compagno di viaggio.
Ci piaccia o no, dobbiamo tener conto di questa situazione quando ci proponiamo di presentare delle avventure spirituali personali come modelli. Sulla nostra cultura soffia un vento antieroico che minaccia naufragi. Sempre più numerosi sono coloro che sottopongono al vaglio di un'analisi accurata le figure emergenti del nostro tempo prima di accettarle come straordinarie. Troppe tra di esse si rivelano il prodotto dei fabbricanti d'immagini. In passato molto facilmente sono stati adottati eroi; spesso siamo stati disillusi. Ora siamo più cauti. Una cosa è certa: una figura spirituale che oggi pretenda udienza deve evitare di presentarsi con il cliché dell'eroe. Neppure la versione ecclesiastica dell'eroe, cioè il santo, puro nelle motivazioni e sovrumano nell'esercizio della virtù, gode accesso presso gli scettici figli della nostra epoca. Perciò un modello spirituale, così come la critica del sapere e le esigenze dell'etica lo richiedono, non vuol essere una versione aggiornata dell'eroe.
La seconda parte di questa trattazione dei presupposti metodologici del nostro progetto intende tracciare in positivo le caratteristiche di un modello spirituale dal punto di vista della teologia.
2 . Verso una teologia della vita
a. L'attenzione al vissuto storico ― Tra le numerose richieste di un rinnovamento teologico che faccia fronte alla crisi attuale un'istanza originale è quella
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che auspica il ritorno a una dimensione narrativa del far teologia 13. La proposta può apparirci ovvia, qualora si consideri che i testi su cui si fonda il cristianesimo sono delle narrazioni. Gesù di Nazaret ci si presenta prevalentemente come una persona narrata; i discepoli compaiono in veste di persone che ascoltano e trasmettono questi racconti; il cristianesimo è strutturato come comunità narrante.
Ben presto, tuttavia, il cristianesimo perse la sua innocenza narrativa. Nel mondo ellenistico in cui esso si inserì, già da tempo il narrare (il mythos) era subordinato al ragionare (il logos). La teologia ha svolto la funzione di tramutare, nel modo più celere e completo possibile, le storie tramandate in non-storie, in sistema speculativo di nozioni. Nell'epoca moderna il divorzio tra sistema teologico ed esperienza religiosa, tra dogmatica e mistica, è andato radicalizzandosi. La biografia religiosa, cioè l'articolarsi della storia personale vissuta dinanzi a Dio, si è allontanata sempre più da ciò che la teologia scientifica ha riconosciuto come suo compito. Quest'ultima, erigendo a sistema il suo disdegno di un contatto con la vita, si è mutata in una dottrina che scambia l'atrofizzazione per oggettività scientifica.
Una perorazione a favore del narrare rischia di cadere oggi nell'indifferenza. Non solo le scienze argomentative, ma anche quelle storiche disdegnano sempre più il narrare. Nella società contemporanea sembra che, al di là della sbrigativa trasmissione di notizie, non ci sia più posto per il racconto. Critici della cultura di profonda intuizione, come Walter Benjamin e Th. W. Adorno, hanno diagnosticato la fine del narrare. Eppure la teologia, se vuol essere un vero servizio al messaggio cristiano, non può ripudiare pusillanimemente il narrare. Il teologo J.B. Metz ha proposto una rivalutazione teologica del racconto ricorrendo alla categoria del "ricordo pericoloso". È una deformazione riservare il potenziale narrativo cristiano ai bambini ingenui; esso ha in realtà effetti critici e liberatori: «Narrano i "piccoli" e gli oppressi; ma questi non raccontano soltanto storie che li inducono continuamente a celebrare la propria oppressione e stato di minorità, ma anche storie pericolose, miranti alla libertà... La forza critico-liberante di queste storie non si può provare a priori o ricostruire; bisogna che ci si imbatta in esse, le si ascolti e possibilmente le si ripeta. Ma non esistono forse anche nella nostra epoca cosiddetta post-narrativa "narratori" delle più diverse specie, che fanno capire ciò che le storie possono essere: e appunto, non soltanto creazioni artistiche, produzioni qualsiasi, private, bensì racconti con effetti stimolanti sulla società, in certa misura critico-sociali, quindi "storie pericolose"?» 14.
Una teologia che, privilegiando il narrare, riuscisse a riconciliare dogmatica e storia vissuta, diventerebbe estremamente significativa per il cristiano medio. Perché è proprio il vissuto storico del popolo, l'esperienza religiosa quotidiana dei credenti che si troverebbe rispecchiata nel racconto di vite singolari. Una teologia siffatta sarebbe tanto più rilevante in quanto viviamo in una società in cui i possibili modelli di vita appaiono come prefabbricati, dotati di un marchio stereotipo, che corrode le anime con la stanchezza della loro identità o con la noia della ripetizione in serie.
Sarebbe impreciso affermare che questa dimensione narrativa.
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centrata sul vissuto individuale, sia stata completamente bandita dalla prassi ecclesiale. La teologia i cattolica, in polemica più o meno diretta con quella protestante, ha sempre sottolineato che l'eredità cristiana è portata dalla tradizione vivente, la quale si esprime nella vita stessa dei cristiani, in particolare dei santi. La venerazione dei santi ha prodotto tanto le numerosissime biografie di tipo devozionale, quanto il lavoro scientifico dei Bollandisti. Ma questa attività si è svolta in un terreno autonomo, senza integrarsi nella teologia vera e propria. Il lavoro teologico è stato dedicato a continuare la neoscolastica di origine tomista, ovvero a investigare quei problemi teologici speciali creati dall'epoca moderna. I teologi professionali non si sono occupati dei santi in modo tematico.
Tra i teologi di rilievo spiccano solo due eccezioni. La prima è costituita da Romano Guardini. In tutta la sua opera — come dichiara nell'introduzione a Libertà grazia destino — egli ha tentato di raggiungere «uno sguardo d'insieme che abbracciasse l'esistenza cristiana nella sua complessità», così come lo possedeva il pensiero cristiano primitivo. Il suo modello ideale era Agostino, il quale «non distingue metodicamente fra filosofia e teologia, e poi tra metafisica e psicologia nella filosofia, e di nuovo tra teologia dogmatica e dottrina pratica della vita nell'ambito della teologia, ma, partendo dall'esistenza cristiana nel suo complesso, ferma la sua meditazione su questo complesso e sulla molteplicità dei suoi contenuti» 15. Per un tale progetto teologico il concreto del vissuto storico dei cristiani eminenti è un terreno di elezione. Guardini ha affrontato esplicitamente la portata teologica della vita dei cristiani in un volume, Il santo nel nostro mondo, progettato come introduzione a una serie di vite di santi. Nei santi egli vede dei modelli per nuovi stili di esistenze cristiane; essi aprono sentieri che altri possono seguire. Guardini auspica «un nuovo genere di santi», che possa incarnare la santità di questa generazione. La via non è oggi quella del distacco e dell'ascetismo; si deve compiere mediante un abbandono obbediente alle direttive di Dio così come queste sono mediate dalla situazione secolare nella quale uno si trova. La via del santo non sarà perciò straordinaria, e nessuno potrà identificare facilmente un santo moderno.
Il vissuto storico ha un posto ancora più organico nella visione teologica di Hans Urs von Balthasar. Nella sua opera di maggior impegno, Herrlichkeit, egli si è proposto di dar corpo a un'"estetica teologica", vale a dire a una contemplazione del Dio della rivelazione cristiana, non in quanto comunica la verità o in quanto si mostra benevolo verso l'uomo, bensì in quanto si avvicina all'uomo per manifestare se stesso «nell'eterno splendore del suo amore trinitario» 16. In altri termini, una contemplazione di Dio alla luce non delle tradizionali categorie del "vero" e del "buono", bensì di quella del "bello". Tutto ciò che è bello e splendido al mondo è l'epifania, lo splendore dei principi d'essere potenti e nascosti che mediante la rivelazione di Dio in Cristo emergono in una figura espressiva.
L'estetica teologica ha il compito di dare alle proposizioni astratte il colore e la pienezza propri della storia. Perciò il teologo svizzero, dopo aver considerato nel primo tomo della sua opera il sole divino in se stesso, nel secondo si volge ai raggi che esso proietta sull'umanità. Fa sfilare perciò
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sotto i nostri occhi tutta una serie di teologi cristiani e di personalità spirituali eccezionali, scelte in ragione della loro importanza storica. La pluralità delle loro visioni cristiane del mondo mostra la gloria della rivelazione divina nella diversità delle sue manifestazioni. È come lo scindersi della luce bianca nella molteplicità dei colori al passare attraverso il diamante. Le testimonianze di vita e di dottrina di teologi, di laici e di "spirituali" vengono semplicemente giustapposte, nella coscienza dell'impossibilità di ridurre a sistema la molteplicità delle contemplazioni storiche di Dio nella sua bellezza. Agostino viene presentato accanto a Dante, Giovanni della Croce accanto a Péguy. Nel complesso von Balthasar rivolge un'attenzione più accurata ai laici che ai teologi di scuola. E a ragione: dai laici è sorta spesso un'opposizione contro le angustie della teologia cristiana ridotta a formazione pastorale, a specializzazione, a routine accademica. Con gli occhi fissi sulla storia del mondo e sul presente, cristiani di eccezione sono stati sorgente di creatività per la vita cristiana più che qualsiasi sistema teologico. A questo apporto originale nella comprensione della bellezza del volto umano di Dio l'opera di von Balthasar vuol rendere omaggio.
La menzione esplicita dell'opera dei due teologi valga a suggerire quale profitto può trarre la teologia dall'assumere come punto di partenza il vissuto concreto dei cristiani. Il fatto che questi tentativi teologici valgono come eccezioni sottolinea quanto sia urgente adottare un modo di far teologia in cui sia fatto il debito posto alla visione spirituale di alcuni cristiani esemplari.
b. Biografia come teologia ― Abbiamo prestato orecchio alle voci che da più parti reclamano un rinnovamento per la teologia a partire da una accresciuta attenzione al vissuto storico. È stato considerato anche qualche abbozzo di realizzazione in questo senso. Ora possiamo definire meglio il nostro progetto, precisando il suo scopo e il suo metodo. Per fissarlo in una frase: intendiamo investigare alcune vite in cui il principio direttivo della fede cristiana ha saputo creare, mediante una singolare coerenza di azione e di dottrina, una forma nuova di esistenza evangelica 17.
Le credenze cristiane non sono infatti "proposizioni" da catalogare e giudicare con criteri imposti da un riferimento esterno ed oggettivo, bensì convinzioni vive che danno forma a vite attuali e a comunità attuali. L'esame critico congruente con le credenze cristiane è dunque quello che comincia con l'attenzione alle vite vissute. Facciamo qui profitto delle istanze di ordine epistemologico ed etico che abbiamo accolto dalla cultura contemporanea.
Abbiamo notato che la scienza dipende da modelli, l'arte da forme astratte, la religione da immagini. Non intendiamo rigettare questi campi della conoscenza umana, bensì aprire la via alla piena manifestazione della visione che essi evocano. Il modello si apre sul mistero, cioè sulla vera cosa di cui è questione nella scienza, nell'arte e nella fede. Pur essendo il modello inadeguato ad esprimere la totalità del mistero, resta purtuttavia una via legittima — anzi, l'unica valida — verso di esso. Parlare veramente e fedelmente di Dio è parlare mediante modelli, immagini, analogie: non abbiamo altra scelta. La convalida della visione evocata dal discorso teologico dipende in parte dalla qualità della vita che traduce e incarna questa stessa visione. Le vite che portano un'immagine recano testimonianza alla visione
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che esse rappresentano. Per questo la teologia non può prescindere dal materiale biografico. La teologia è sostanziata di biografia. Volgendosi a queste vite di credenti, la teologia trova la via per riformare se stessa, per rendere credibile il suo discorso — "mollando" ciò che non può "dimostrare" —, per accrescere la fedeltà alla visione originaria e l'adeguamento alla nostra epoca.
Questo procedimento si differenzia da quello con cui la chiesa, nel suo magistero ufficiale, propone autorevolmente dei santi canonizzati come concreto esempio di vita cristiana per una determinata epoca o per alcune categorie di persone. La nostra ricerca di modelli si porta verso quelle personalità singolari che, nel nostro tempo, hanno vissuto l'essenziale del cristianesimo in modo creativo diventando così spontaneamente punti di riferimento por numerosi altri credenti in ricerca. Nella comunità cristiana appaiono infatti di tanto in tanto delle vite singolari o impressionanti, vite di persone che danno corpo alle convinzioni della comunità in un modo originale; che condividono la visione della comunità, ma con un nuovo orizzonte e una nuova forza; che mostrano lo stile della vita cristiana della comunità, ma con differenze significative.
L'impatto di queste vite dischiude, amplia e forse corregge la visione spirituale della comunità, operando come stimolo contagioso o come attrazione nel senso di Max Weber. Soprattutto risveglia altre convinzioni della comunità, circa il suo modo di intendere Dio, la sua concezione dell'uomo, il suo apprezzamento della terra e dell'attività umana.
La vita di queste personalità significative, con la sua attrazione e bellezza, può fornire elementi ai pensatori cristiani, realizzando così l'auspicata fecondazione della teologia ad opera del vissuto concreto. Anzi, si può vedere uno dei compiti specifici della teologia precisamente nell'impegno ad abbordare questo tipo di riflessione. Sia il magistero che la teologia, dunque, possono e devono occuparsi della vita dei cristiani esemplari: il primo per canonizzare i santi ufficiali, la seconda per elaborare una riflessione sul vissuto concreto della fede. Ma dal punto di vista che è il nostro la presentazione di modelli spirituali svolge una funzione che si differenzia sia da quella autoritativa del magistero che da quella dottrinale della teologia. Essa si propone di rendere sensibile allo sguardo interiore la sintesi vitale del messaggio cristiano realizzata da alcuni credenti del nostro tempo. Nell'esperienza cristiana la parte connessa alla rappresentazione visuale è particolarmente importante. Basti pensare al posto che occupa la visione interiore negli Esercizi spirituali di s. Ignazio e l' ↗ immagine nella pittura sacra, in quanto supporto della meditazione e rappresentazione d'uno sguardo interiore 18. Il postulato teologico che fonda il primato dello sguardo è l'incarnazione: Dio si è fatto uomo, quindi visibile. Anche la biografia degli uomini che si situano nella sequela dell'unica immagine adeguata, Gesù di Nazaret, può essere colta dallo sguardo dei credenti come una sua trasparenza. Più precisamente, siamo autorizzati a considerare la vita di questi cristiani eccezionali come una parte della vita del Cristo, il risorto che effonde il suo Spirito ed anima la comunità dei discepoli attraverso i secoli. Essi sono in Cristo; il Cristo è in loro (cf Gal 1,22; Rm 8,10). Perché la vita del Cristo non può essere detta senza l'intero NT, senza l'intera storia del
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"movimento" che ha preso origine dal vangelo, senza la vita dei suoi seguaci nel corso dei secoli.
L'attenzione privilegiata all'aspetto visuale di questi modelli spirituali ci suggerisce di evidenziare soprattutto le immagini dominanti nelle vite che presentiamo. La convergenza di tali immagini costituisce la visione spirituale omogenea, che caratterizza una persona. I nostri profili non saranno perciò delle biografie nel senso tradizionale della parola; e neppure delle esplorazioni psico-biografiche sul tipo di quella che Erik Erikson ha dedicato a Martin Lutero. Ci applicheremo piuttosto a mettere in rilievo la visione dominante di questi credenti, quella che ha governato la loro vita e l'ha unificata in un tutto significativo per i contemporanei.
Ciò che ci interesserà non saranno dunque le virtù personali — a differenza dell'agiografia classica —; e neppure la consistenza teologica del loro vissuto — compito di un'auspicata "teologia della vita" —. L'elemento dottrinale nella vita di questi modelli spirituali non è primario: è la loro vita che attira. Possiamo filtrare ed eventualmente erigere a sistema la loro visione spirituale. Ma se il mondo dottrinale di questi testimoni ci attira è perché è stato dapprima incarnato nella loro vita e può esserlo di nuovo nella vita di altri. Quando penetriamo nel loro universo interiore non incontriamo solo delle proposizioni che appagano intellettualmente, bensì riflessi del mistero di cui quegli uomini hanno vissuto. Cercheremo dunque di tratteggiare un'immagine globale, bella per lo sguardo spirituale, che visualizzi una possibilità autentica per chi voglia vivere con fedeltà e creatività il vangelo oggi.
Questo tipo di considerazione tende a coinvolgere. Entriamo in un movimento che ci porta dalle vite che esaminiamo alla nostra stessa vita; gli esaminatori diventano esaminati. Questi "modelli" spirituali diventano per noi significativi nella misura in cui poniamo loro le nostre questioni sulla sequela di Cristo in quanto figli della nostra epoca. Essi ci interpellano. Non vogliono essere né esaminati, né copiati: vogliono essere piuttosto uno stimolo a una nuova creatività nella vita spirituale.
II. MODELLI SPIRITUALI
1. Charles De Foucauld: l'imitazione di Cristo di un "fratello universale"
Basta appena evocare il suo nome per scatenare una serie di associazioni mentali: fascino sempre nuovo della vita contemplativa; fioritura di vocazioni religiose tra uomini e donne che ambiscono di condividere l'esistenza dei più umili come "piccolo fratello" o "piccola sorella"; riscoperta della missione cristiana a partire dalla silenziosa presenza di servizio. La stella di Charles de Foucauld ha sorpreso gli osservatori del firmamento spirituale per la sua traiettoria assolutamente imprevedibile. Niente, durante la sua vita, faceva presagire il "successo" strepitoso che avrebbe fatto di lui una delle figure più rappresentative della spiritualità cristiana del nostro secolo. Personalmente, egli ha perseguito un ideale di nascondimento, che l'ha portato a rinchiudersi, volta a volta, in trappe, in conventi di clausura, in eremi nel deserto. L'unica opera vagheggiata e ripetutamente tentata — la fondazione di comunità religiose che vivessero nello stile di "piccole fraternità" — è caduta nel vuoto durante la sua vita (1858-1916); si sarebbe realizzata soltanto vent'anni dopo la sua morte.
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La sua vita spirituale si è svolta in varie tappe, che egli ha però tempre vissuto da outsider delle istituzioni ecclesiastiche tradizionali. Entra in un primo momento in una trappa per santificarsi osservando la regola cistercense; ma ben presto l'abbandona per esplorare vie nuove, attratto — all'apparenza — da quella misteriosa vertigine che porta certi animali a preferire i sentieri che si affacciano sulle voragini. Abbandona la dignità dello stato monastico per andare a fare il domestico di un convento di Clarisse a Nazaret; si trasferisce poi a Beni Abbès, in Algeria, a testimoniare Cristo tra i musulmani, ma al di fuori del quadro della missione di tipo coloniale; si ritira poi a Tamanrasset, nel centro del Sahara, per condividere la vita dei poverissimi Tuareg, anzi per diventare uno di loro. Monaco senza convento, sacerdote senza comunità, missionario senza appoggio del soldato e del mercante: Charles, "fratello universale", sembra aver avuto il dono di creare forme atipiche di vita cristiana, che si staccano su quelle omologate del suo tempo. É proprio questa sua creatività che affascina i credenti di oggi. La sensibilità contemporanea ama sottolineare che la vita spirituale è ricerca, più che ricalco passivo di moduli collaudati. La fedeltà, in campo etico e spirituale, è qualcosa di più che un'ancora gettata una volta per tutte nel passato: essa è al tempo stesso una molla tesa verso un futuro senza volto. Nella vita di Charles de Foucauld la fedeltà ha mostrato che la stabilità non è contraria alla novità, alla continuità, alla creatività. Le forme molteplici che assume il suo progetto di vita si lasciano ricondurre agevolmente all'unità sintetizzandosi in un'immagine unica, la più antica e la più plastica della storia della spiritualità cristiana: l'imitazione di Cristo.
La vita nello Spirito di Charles de Foucauld sembra rispondere, al massimo grado, alle esigenze di una spiritualità dell'imitazione nella sua espressione più lineare. Già all'epoca della sua conversione era stato colpito da una frase dell'abbé Huvelin, colui che resterà per tutta la vita il suo padre spirituale: «Gesù Cristo ha talmente preso l'ultimo posto che nessuno glielo può rapire». Questa parola diventerà la cometa dietro cui si snoda la sua vita. Da quando i credenti musulmani ed ebrei, incontrati casualmente, avevano aperto nella sua vita di raffinato epicureo uno spiraglio di inquietudine religiosa, era stato preso nella spirale dell'assoluto: «Appena credetti che c'è un Dio, compresi che non potevo fare altrimenti che vivere solo per lui». La conversione al cristianesimo gli indica poi in Gesù di Nazaret la via per accedere al Dio inaccessibile; da quel momento non avrà altra cura che quella di cercare l'ultimo posto tra gli uomini del suo tempo, perché solo là potrà essere vicino al Cristo, dando corpo così all'aspirazione a vivere solo per Dio.
Cercare l'ultimo posto e condividerlo col Cristo per essere totalmente di Dio: questa è l'idea che unifica tutta la vita di colui che ha voluto chiamarsi "Charles di Gesù". Ma gli uomini dello Spirito più che di idee si nutrono di immagini. L'immagine dominante nell'universo di Charles de Foucauld è stata: Gesù carpentiere a Nazaret. Altri sono stati attratti da Gesù maestro e profeta del regno, o terapeuta benefico, o uomo dei dolori. Charles de Foucauld ha privilegiato il Gesù che salva il mondo come oscuro falegname di un remoto paese della disprezzata Galilea.
Ritroviamo questa immagine ad ogni
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latitudine della sua ricerca spirituale. In particolare in quel momento che può essere considerato come il tornante decisivo della sua avventura cristiana: l'abbandono della vita cistercense per avventurarsi nell'inesplorato. Scriveva in quel periodo: «Ho sete di condurre la vita che cerco da sette anni (che ho inutilmente cercato alla trappa), che ho intravista e indovinata camminando per le strade di Nazaret, già calpestate dai piedi di Nostro Signore, povero artigiano nascosto nell'abiezione e nell'oscurità». Il suo cammino si definisce come una sequela del Gesù nascosto di Nazaret: «Vedo chiaramente che la volontà di Dio è che io lo segua in una perfetta conformità alla sua vita».
Charles de Foucauld non ha teorizzato nessuna via spirituale nuova. Se, di fatto, ha innovato, nelle sue intenzioni tuttavia non rileviamo altro che un progetto essenziale e monolitico: imitare il Cristo. Il miglior riflesso della sua ricerca è dato dall'opuscoletto in cui ha raccolto alcuni testi evangelici sotto il titolo Il Modello unico. Il titolo stesso e l'esergo («Il servitore non è più grande del suo Maestro; è perfetto se è simile al suo Maestro... Seguitemi!») riassumono tutta la sua "dottrina" spirituale. Per il resto l'opuscolo non contiene che le parole di Gesù — su se stesso, sul Padre, sullo Spirito, sulla nostra vocazione —, mescolate agli esempi che egli ha dato. Charles traccia il ritratto del Gesù che lo ha sedotto; questa immagine, contemplata e ritoccata con amore instancabile, è diventata vivente tramite la sua propria vita.
Nei suoi scritti il tema sinfonico dell'imitazione ritorna costantemente, quasi sènza variazioni. Scriveva, ad esempio, ad una religiosa: «Il mezzo più semplice e migliore per unirci al cuore del nostro Sposo è di fare, dire, pensare tutto con lui e come lui, tenendosi alla sua presenza e imitandolo... Qualunque cosa uno faccia, dica, pensi, dirsi: come faceva, diceva, pensava egli in simile circostanza, che cosa farebbe, direbbe, penserebbe al mio posto? Gesù stesso ha indicato ai suoi apostoli questo metodo così semplice d'unione con lui e di perfezione: "Venite e vedete" ... Venite, cioè "Seguitemi, venite con me, seguite i miei passi, imitatemi, fate come me"; vedete, cioè "Guardatemi, tenetevi alla mia presenza, contemplatemi"... Presenza di Dio, di Gesù, e imitazione di Gesù: qui si trova tutta la perfezione».
Con le parole e con la pratica Charles de Foucauld si è situato inequivocabilmente in quel filone di spiritualità cristiana che può essere sommariamente designato come "imitazione di Cristo". Esso è collegato organicamente con lo sviluppo della devozione all'umanità del Cristo, di origine medioevale. Il movimento francescano è stato la sua culla e Francesco d'Assisi il suo frutto ineguagliato 19. Benché il verbo "imitare" non si ritrovi letteralmente nel vangelo, i cristiani hanno compreso che l'invito a "seguire" Gesù significava un appello a imitarlo.
L'equazione tra sequela e imitazione è stata stabilita per la prima volta da Agostino («Quid est enim sequi nisi imitari?») Soltanto con la riforma protestante si assiste ad una rimessa in discussione della dottrina dell'imitazione. Alla predicazione di Cristo-modello Lutero ha opposto la predicazione di Cristo-salvatore. Non si tratta di un'insignificante rotazione di termini: nel sottofondo è riconoscibile la dottrina della giustificazione mediante la sola fede. Pur ammettendo che il Cristo è allo stesso tempo "dono" ed "esempio", i riformatori hanno
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privilegiato il primo aspetto, al fine di impedire che l'imitazione diventasse un tentativo orgoglioso dell'uomo di acquistare meriti e di salvarsi in forza di essi. All'imitazione di Cristo (Nachahmung) hanno opposto la sequela (Nachfolge), concepita come risposta, nella fede e nell'obbedienza, alla chiamata del Cristo.
La critica luterana ha a suo favore delle buone ragioni. Non si può imitare il Cristo come un essere umano. Lo sforzo del credente di assomigliare al suo Maestro si sviluppa nel campo della grazia e non in quello dell'impegno volontaristico; è perciò più opera dello Spirito che dell'ascetismo. L'imitazione spirituale cristiana ha inoltre delle caratteristiche peculiari: è sacramentale, oltre che morale (nelle lettere di s. Paolo è esplicitato il valore imitativo dei sacramenti del battesimo e dell'eucaristia); è ecclesiale, oltre che individuale (solo la chiesa possiede l'immagine integrale e autentica del Cristo-modello; ed è la chiesa che garantisce la fedeltà e la validità della nostra imitazione del Cristo). Charles de Foucauld offre con la sua vita la prova che l'imitazione letterale non coincide col letteralismo. Sulla scia di Francesco e di altri numerosi cristiani nel corso dei secoli, egli ha cercato di raggiungere, attraverso la lettera che uccide, lo Spirito che salva. Questi è anche lo Spirito che «fa nuove tutte le cose». Perché un'imitazione che tenda ad interiorizzare lo Spirito di Cristo è fonte di novità.
L'imitazione di Gesù Cristo resta un'esigenza costante della vita cristiana, dal momento che questa si struttura come una ↗ "sequela" 20. Il carisma di Charles de Foucauld sembra essere quello di ricordare a noi, che percorriamo il secolo che egli ha inaugurato, questa verità essenziale. Forse è proprio necessario che, in ogni epoca, sorgano degli uomini che praticano un tipo d'imitazione letterale più accentuata per richiamare gli altri cristiani a ciò che costituisce il nucleo specificante e irrinunciabile di ogni vita cristiana.
Charles di Gesù, "fratello universale", è morto in modo sorprendentemente simile a quello del Cristo. Tradito da uno dei suoi, ha subito una morte violenta ad opera di alcuni rivoltosi. Egli stesso, nel suo ardore di imitazione, aveva desiderato il martirio come modo migliore per consumare l'estrema rassomiglianza col Cristo. Così è morto. Semplice coincidenza? Oppure sigillo di Dio alla vita di colui a cui era affidata la missione di rendere visibile per il XX secolo che la forma essenziale per la vita cristiana è quella che gli ha dato, una volta per tutte, Gesù di Nazaret?
2. Madeleine Delbrel: santità per la gente delle strade
Padre J Loew, il cui nome è legato alla pionieristica attività missionaria in ambiente operaio, ha definito Madeleine Delbrel come «una donna preparata da Dio per trent'anni a farci vivere il postconcilio». Effettivamente, benché la sua attività si sia svolta in decenni precedenti il Vat II — è morta nel 1964, all'età di sessant'anni —, Madeleine Delbrel ha cominciato ad essere conosciuta da gruppi sempre più vasti di cristiani solo in seguito all'ondata di rinnovamento successiva al concilio. La sua popolarità, tuttavia, non è ancora tale che possa dispensarci dall'offrire qualche essenziale cenno biografico.
Figlia di un funzionario delle ferrovie francesi, ebbe una giovinezza brillante, ravvivata dall'arte, dalla poesia (a 22 anni otteneva un premio per un volume di poesie), dallo studio della filosofia. L'ambiente influì negativamente
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sulla sua vita religiosa; perse la fede. Scriveva allora: «Dio è morto; viva la morte». Poi, un giorno, si è ripetuto l'evento della via di Damasco; a sua detta, «una conversione violenta fece seguito a una ricerca religiosa ragionevole». La donna nuova che emergeva dalla prova dell'incredulità era ormai segnata da tratti inconfondibili che l'accompagneranno per tutta la vita. H.U. von Balthasar ha descritto il suo carattere e quello dei suoi scritti mediante coppie di paradossi: profonda serietà e humor sorridente, infantile "sapersi in Dio" ed esatta, realistica analisi dell'ambiente sociale e psicologico, ecclesialità fin nel midollo delle ossa e completa libertà dai clichés ecclesiastici. Solo la qualità della sua preghiera le permise di assumere queste contraddizioni in un'opera di vita unitaria.
Madeleine si sentì afferrata per sempre e si diede a Dio senza riserve. Ma invece di consacrarsi a lui in un Carmelo, come aveva pensato in un primo tempo, decise di vivere in mezzo al mondo il duplice amore di Dio e del prossimo. Nel cuore delle masse; e non per un ripiegamento rassegnato, ma nella piena coscienza delle possibilità spirituali offerte dalla situazione mondana.
In un saggio, che è stato assunto come titolo per una raccolta postuma dei suoi scritti, ha sviluppato la spiritualità di coloro che si riconoscono figli della città. Lo ha intitolato: Noi delle strade:
«C'è gente che Dio prende e mette da parte.
Ma ce n'è altra che egli lascia nella moltitudine, che non "ritira dal mondo".
È gente che fa un lavoro ordinario, che ha una famiglia ordinaria, che vive un'ordinaria vita da celibe. Gente che ha malattie ordinarie, e lutti ordinari. È gente dalla vita ordinaria. Gente che s'incontra in una qualsiasi strada.
Costoro amano il loro uscio che si apre sulla via, come i loro fratelli invisibili al mondo amano la porta che si è rinchiusa definitivamente sopra di essi.
Noialtri, gente della strada, crediamo con tutte le nostre forze che questa strada, che questo mondo dove Dio ci ha messi è per noi il luogo della nostra santità».
Madeleine ha attribuito ai cristiani audaci del nostro tempo la possibilità di trovare nel fitto della vita cittadina ciò che gli eremiti cercano nel deserto e i religiosi dentro le mura dei conventi: la contemplazione amorosa del loro Signore. Ha rivendicato la libertà di vivere gomito a gomito con gli uomini e le donne nostri contemporanei nella fiducia che ciò non si volgerà a discapito dell'amore:
«Noi delle strade siamo certissimi di poter amare Dio sin quando avrà voglia di essere amato da noi... Ciascun atto docile ci fa ricevere pienamente Dio e dare pienamente Dio in una grande libertà di spirito. Allora la vita è una festa».
La santità da gente delle strade che Madeleine si è proposta di vivere ha avuto delle coordinate geografiche ben precise. Lasciando la sua famiglia e il suo ambiente, munita di un diploma di assistente sociale, è andata a stabilirsi a Ivry, un sobborgo operaio di Parigi. Vi resterà per più di trent'anni, fino alla sua morte. In questo angolo di città imparò a conoscere la condizione operaia e la realtà marxista, qui prese coscienza dell'urgenza missionaria. Ivry, diceva Madeleine alla fine della propria vita, fu la sua scuola di fede applicata. Ella stessa descrisse la sua esperienza in un libro dal titolo programmatico: Città marxista, terra di missione.
Nella città comunista degli anni '30
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scopriva una situazione di conflitto acuto: i cristiani si comportavano come una minoranza autoctona che subisce un invasore: i sacerdoti e i cattolici notori erano salutati per le strade con sassi e insulti; tra i bambini si ingaggiavano vere battaglie nei caseggiati e nelle scuole. La popolazione sembrava divisa tra cattolici e comunisti; da ogni nuovo arrivato si pretendeva che dichiarasse la propria appartenenza e prendesse posizione negli schieramenti precostituiti.
I cristiani che vivevano a Ivry mostravano di essersi abituati alla situazione. Madeleine invece non l'accettò. Osservando la sua "città marxista" con occhi non di parte, rilevò che tra cattolici e comunisti la separazione ufficialmente sbandierata copriva una trama di relazioni inevitabili; la religione vivente e l'ideologia militante volevano la rottura, ma la rottura totale non esisteva perché era impossibile. Nella densa trama di questo tessuto di relazioni umane si insediò Madeleine. Trovò spontaneo assumere il posto che si era assegnata con la decisione di fare della strada il suo convento. Il suo lavoro di assistente sociale, che svolse con passione e competenza, la destinava inoltre alla partecipazione piena alla vita della città.
Il quartiere diventava la base missionaria di Madeleine. Missione è altra cosa che quel proselitismo che costituisce una tentazione per tutti i gruppi di impronta ideologica, quindi tanto per i cristiani quanto per i comunisti. Madeleine descrisse con acume la seduzione comunista, le sue attrattive reali, l'abnegazione eroica dei suoi militanti, la loro lotta sincera contro l'ingiustizia. È comprensibile che, del tutto onestamente, questi uomini abbiano sperato di "convertire" Madeleine, che essi sapevano in accordo così profondo con ciò che essi stessi pensavano «sul mondo scandaloso in cui ci troviamo a vivere insieme e l'efficacia che esigerebbe la soppressione del suo scandalo».
Neppure per un minuto ella pensò di «barattare Dio» o di «mollare Cristo anche d'un capello»; delle proprie disposizioni più profonde ha testimoniato Madeleine stessa: «Sono stata e resto abbagliata da Dio. Mi era, come mi resta, impossibile mettere su una stessa bilancia Dio da una parte, dall'altra tutti i beni del mondo, che sia per me o per tutta l'umanità». Ma avendo stabilito un vero incontro con i marxisti, ispirati dall'ateismo, sulla base dell'identica lotta per la stessa giustizia umana, Madeleine veniva a trovarsi nel conflitto più tipico in cui si dibattono tanti cristiani nostri contemporanei.
Nel libro già menzionato Città marxista, terra di missione M. Delbrel affronta senza ambiguità la questione che si pone ai credenti: «Per resistere al rischio marxista e per dare una risposta apostolica, appare necessario ritrovare nella fede i motivi di ogni vita missionaria, i due comandamenti del Cristo, inseparabili e simili, ma dei quali il secondo non è così grande che per il fatto che è la conseguenza del primo. Del rischio marxista io non penso che gli ordinamenti o le discipline bastino a difendercene. Le sue tentazioni sono troppo intime a certe inquietudini, la sua sottilezza trasferisce troppo abilmente aspirazioni umane e incompleti, ma dolorosi, bisogni evangelici... Quanto a noi, dobbiamo forse sapere che, giunta a un tale assoluto, la negazione atea, che sia marxista o no, può essere abbordata da molte strade, ma che il suo incontro non può essere "provato" che su un solo terreno che gli sia proprio:
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la roccia stessa della nostra fede».
La fede vissuta in ambiente ateo è continuamente ricondotta dalle negazioni e dagli interrogativi dei non credenti a ciò che è fondamentale nella vita cristiana. In considerazione di questo richiamo alla coerenza Madeleine ha potuto affermare che l'ambiente ateo è una circostanza favorevole per la propria conversione. Nella sua propria vita la concentrazione sull'essenziale si è espressa nel riferimento costante ai "due comandamenti", uniti e interdipendenti, e al vangelo come regola di vita. Ad esso domandava una semplificazione di tutto l'essere, un rifiuto di tutte le acquisizioni anteriori per entrare in un tipo di povertà che rende atti a ogni sorta di incontri. Al vangelo Madeleine ritorna senza stancarsi per cercare di conformarvi la propria vita; lo considera come l'unico statuto del gruppo di vita comune di cui fa parte e di cui è l'animatrice; lo legge e lo rilegge, lo ricopia, lo annota, lo scruta per obbedire a tutti i suoi consigli e per denunciare nella sua vita tutto ciò che potrebbe infrangere la rassomiglianza con Gesù Cristo. Il suo ideale è «il vangelo letto come si mangia il pane».
Il cristiano che è di casa nella città — marxista o no, ma in ogni caso atea — si trova perciò stesso in una situazione missionaria. La missione, secondo una sua definizione, è il «contatto dell'amore di Dio e del rifiuto del mondo. Il cristiano è attraversato dall'uno e dall'altro, che in lui si incontrano. Egli non può non soffrire come di una tentazione vivente. Ma questa prova è la partecipazione alla prova apostolica della chiesa; la chiesa è armata per superarla; la chiesa ha la forza che può resistere e trionfare».
Negli anni '40 la chiesa francese fu attraversata da un brivido. Scoperse, secondo il titolo di un libro celebre, di essere diventata "paese di missione"; il card. Suhard fondava la Missione di Parigi. Madeleine, da parte sua, non cedette agli allarmismi; ella credeva fermamente che la classe operaia porta in sé la missione come una donna che non sappia di essere nelle doglie del parto e che non comprenda nulla del proprio travaglio, paralizzando così in sé il corpo che vuol nascere. Riconoscere il proprio stato significa per la chiesa dare inizio alla nuova missione, quella che avviene nelle strade della città. Madeleine ha salutato in modo lirico il suo sorgere:
«In ogni tempo lo Spirito ha sospinto nel deserto coloro che amano.
Missionari senza battello, attanagliati dallo stesso amore, lo stesso Spirito ci sospinge verso altri deserti.
Dalla sua duna di sabbia il missionario in bianco vede la distesa delle terre non battezzate.
Dall'alto di una grande scalinata di métro, missionari in giacca o in impermeabile, vediamo di gradino in gradino, nell'ora in cui c'è più folla, una distesa di teste, distesa che freme aspettando l'apertura dei cancelli. Cappelli, baschi, berretti, capelli di tutte le tinte. Centinaia di teste: centinaia di anime. Noi, lì in alto.
E più in alto, e dappertutto, Dio».
Inserita nell'équipe di vita comune — l'équipe di cui ella ha riscoperto con parecchio anticipo rispetto al movimento comunitario successivo al concilio il valore umano ed apostolico — Madeleine ha vissuto in prima persona la nuova stagione missionaria della chiesa. L'ha scoperta proprio là dove altri avevano diagnosticato il fallimento definitivo dell'avventura del vangelo. P. Loew
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ha fissato in un'immagine il senso del suo passaggio in mezzo a noi, un'immagine che sarebbe piaciuta a colei a cui è applicata: «Madeleine era attentissima ai segni della Provvidenza: ne vedo volentieri uno nel nome che portava e nella santa che era la sua patrona. Al mattino di pasqua le sante donne trovarono la tomba vuota: gli apostoli, avvertiti, vengono e ripartono. Ma Maria Maddalena non accetta questo vuoto, non accetta la scomparsa del suo Signore: rimane presso la tomba, si china, guarda, non si decide, e finalmente, per prima, rivede il Cristo. Così Madeleine, di fronte alle negazioni dell'ateismo, cerca più profondamente, si affida alle parole del Cristo, e fin quando la risposta infinitamente più bella non le sia data, non abbandona ciò che sembra essere la tomba vuota».
La pazienza contemplativa di Madeleine, insieme alla sua solidarietà operosa con i poveri, ha operato lo stesso miracolo compiuto dall'occhio di un vecchio pontefice, che ha saputo riconoscere la primavera là dove altri denunciavano i grigiori dell'inverno.
3. Martin Luther King: un credente con un sogno
Il pastore battista Martin Luther King è diventato una delle figure emblematiche del nostro tempo. Le sue lotte non violente per l'integrazione razziale dei negri negli U.S.A., il premio Nobel per la pace e la morte violenta in quel drammatico 1968 — per tanti versi un anno di grande svolta nella civilizzazione che andiamo costruendo — gli hanno guadagnato una indiscussa popolarità. Le simpatie hanno dato origine a una specie di "beatificazione" di stampo popolare. Ma per quanto riguarda la comprensione della sua opera e della sua persona l'unanimità è lontana dall'essersi imposta. Tra tutte le interpretazioni quella che lo associa a John Kennedy è forse la più deformante. King si è ben guardato, infatti, dal definire il proprio compito in termini eroici, come invece sembra essersi compiaciuto di fare l'assassinato presidente. «Le grandi crisi producono grandi uomini», aveva scritto Kennedy da giovane; e, una volta assunto il potere, mostrò di avere nelle grandi crisi la sicurezza dell'uomo che si sa scelto dalla insondabile decisione di Dio a «pagare ogni prezzo, portare ogni fardello» per difendere i baluardi della libertà. Niente invece fu più estraneo a M. Luther King che il cliché eroico.
Altri interpreti hanno voluto vedere nella parabola del pastore King puramente e semplicemente un fallimento; egli, per di più, non si sarebbe neppure accorto che provocava egli stesso i disordini che deplorava. Un'altra tesi meno radicale propende per la tragedia: King sarebbe stato un oratore dotato e un politico con potere sulle folle, handicappato però dalla mancanza di abilità nell'organizzazione e dall'ignoranza delle realtà politiche. Un'ulteriore interpretazione preferisce considerare King esclusivamente come un leader razziale, un altro nella lunga serie di ragguardevoli figli d'Africa che hanno condotto il loro popolo sulla via tortuosa che dalla schiavitù conduce alla rinascita nei diritti umani; King sarebbe così essenzialmente il campione della "negritudine" dei negri d'America.
Ogni interpretazione riduttiva è seducente; dà l'illusione di capire facendo economia di sforzi. Ma una comprensione vera non si ha se non si coglie il nucleo generatore delle parole e dei gesti di una persona. Ora, nel caso di M. Luther King, se vogliamo capirlo nella sua propria prospettiva non
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possiamo prescindere dalla sua personale religiosità. La quale, a sua volta, non era qualcosa di generico, bensì quella forma particolare di cristianesimo coltivato dalle comunità battiste negre del profondo sud americano.
King ha indubbiamente introdotto elementi nuovi in tale religiosità. Così, spostando l'accento dal sermone consolatorio del predicatore all'azione di massa nonviolenta, ha dotato di una nuova dimensione il cristianesimo sociale americano, tradizionalmente preoccupato di miglioramenti sociali ma rinunciatario nei confronti delle istituzioni oppressive. Tuttavia il terreno che produsse la sua azione fu, come per i suoi antenati, quello della sua chiesa e la sua sorgente di energia la preghiera. Senza cessare di operare, senza diminuire il suo realismo, a tempo e fuori tempo, King pregò. La sua preghiera fu il dialogo intimo dell'uomo cosciente che la sua risorsa ultima è Dio, non se stesso — tanto meno l'azione politica che conduce —. Dalla sua chiesa King derivò inoltre il bagaglio di immagini bibliche e di reminiscenze sacre che pullulano in tutti i suoi discorsi e i suoi scritti. Non si tratta di puri espedienti oratori. Il cristianesimo negro è impregnato fino all'osso dell'esodo e dei suoi simboli. King ha imparato dai suoi padri, quelli che per secoli hanno composto e cantato gli spirituals, a interpretare la situazione presente e il ruolo del leader per mezzo della bibbia. In armonia con la più pura tradizione biblica, egli si sentiva depositario di un "sogno" destinato a tutto il popolo oppresso; egli doveva conservarlo e trasmetterlo agli sfiduciati e ai disillusi.
Di questo sogno parlò esplicitamente nel memorabile discorso tenuto sui gradini del memoriale di Lincoln a Washington nel 1963, l'anno della grande marcia per ottenere l'approvazione del Congresso al progetto di legge presentato da Kennedy sulla parità dei diritti civili:
«Ho ancora un sogno... Ho il sogno che un giorno questa nazione sorgerà, vivrà il vero significato del suo credo: abbiamo ritenute ovvie queste verità, che tutti gli uomini sono creati uguali. Ho il sogno che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli degli antichi schiavi e i figli degli antichi schiavisti saranno capaci di sedere insieme alla tavola della fratellanza. Ho il sogno che un giorno anche lo stato del Mississipi, uno stato soffocante per l'afa dell'oppressione, sarà trasformato in un'oasi di pace e di giustizia. Ho il sogno che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per il contenuto del loro carattere.
Ho un sogno...».
Gli stessi toni ritroviamo nell'altro famoso discorso tenuto nel marzo 1968 a Menphis, dove King si era recato per portare aiuto ai negri raccoglitori di immondizie che avevano organizzato uno sciopero cittadino. La violenza, l'antico nemico, logorava la compattezza del movimento. Reagendo allo scoraggiamento dell'ora, King evocò un altro testamento della sua visione: «Sono stato in cima alla montagna... Egli mi ha concesso di salire sulla montagna. E ho guardato al di là e ho visto la terra promessa». Se il discorso precedente mutua accenti del profeta Isaia, qui domina l'immagine di Mosè: anch'egli ritiene di aver visto la terra promessa solo dall'alto di una montagna e di dover animare il suo popolo a proseguire la marcia, prima che la pallottola assassina, pochi giorni più tardi, troncasse il suo andare ma non la sua speranza.
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Come pastore, come leader, come uomo di fede egli viete il suo compito nell'animare il suo popolo a far fronte ai sogni infranti senza lasciar avvizzire la speranza. La frustrazione dei negri d'America era quella di aver sognato a lungo la libertà e di essere ancora confinati nell'opprimente prigione della segregazione e dell'oppressione. In un mondo in cui le più elevate speranze non si realizzano, si reagisce abitualmente con l'amarezza, con la rinunzia o col fatalismo. La tentazione tipica dei negri, che vedevano allontanarsi la prospettiva di un rapido cambiamento della loro situazione, era la violenza. Contro di essa, nelle forme spontanee o in quelle organizzate del Black Power o dei Black Panthers, King tentò fino all'ultimo di opporsi. Alla folla negra tumultuante raccoltasi davanti alla sua casa di Montgomery, distrutta da un attentato, il pastore gridava:
«Se avete armi, riportatele a casa; se non le avete, non cercate di procurarvele. Non possiamo risolvere il problema con la violenza della ritorsione. Dobbiamo far fronte alla violenza con la non-violenza... Gesù proclamava: "Amate i vostri nemici; benedite coloro che vi offendono; pregate per coloro che vi perseguitano". Questo è ciò con cui noi dobbiamo vivere».
King era convinto che la capacità umana di affrontare in maniera costruttiva i sogni infranti è determinata, in ultima analisi, dalla fede nel Dio di Gesù Cristo. La fede cristiana ci rende possibile accettare nobilmente ciò che non può essere mutato; affrontare delusioni e dolore con equilibrio interiore, assorbire la frustrazione senza abbandonare l'apertura alla speranza. Rimanendo attaccati ad una speranza infinita, è possibile accettare una delusione finita.
Egli derivava questa sensibilità per le possibilità consolatrici e animatrici della religione dal cristianesimo battista che aveva ereditato. Ma allo stesso tempo era cosciente dei pericoli di tale religiosità. Essa era servita spesso come evasione dal triste quotidiano, come consolazione in forma compensatoria, facendo in tal modo il gioco degli oppressori e consolidando lo sfruttamento. La speranza che egli voleva mantener desta nel suo popolo non doveva servire da oppio. Ciò avviene quando l'uomo crede che la sua fede religiosa lo dispensi dall'azione per cambiare la propria situazione temporale. La fede biblica di King conosce sia il ruolo dell'uomo che il ruolo di Dio nella storia, tenuti insieme da una tensione produttiva. Se egli avesse enfatizzato solo l'etica umanistica della liberazione, sarebbe stato un militante negro in più, deciso a prendere oggi la rivincita per le ingiustizie di ieri; se avesse parlato solo del piano di redenzione di Dio, sarebbe caduto nella religiosità di tipo compensatorio. Ma per King l'uomo deve agire, così come Dio sta agendo. Egli ha affermato che il paradosso cristiano è credibile solo se preso nella sua interezza: «Dio-con-l'uomo». Una sola metà suona falso; le due metà insieme producono invece la vera visione del piano di Dio e il significato della storia degli uomini.
M. Luther King appartenne a quei cristiani per i quali il vangelo non si riduce a un'ispirazione ideale, bensì struttura anche gli interventi volti a rovesciare le situazioni di ingiustizia. L'azione sociale intrapresa a Montgomery e condotta poi su vasta scala nel territorio americano aveva le sue radici nel discorso della montagna. King ha indubbiamente un debito nei confronti di Gandhi e della sua dottrina della resistenza passiva; egli stesso lo ha riconosciuto
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apertamente. Il concetto di satyagraha (satya è verità che equivale ad amore e graha è forza; satyagraha perciò significa verità-forza, o amore-forza) del Mahatma lo ha illuminato sul potere dell'amore, sulla non-violenza come arma a disposizione di un popolo oppresso nella sua lotta per la libertà. Ma se Gandhi forniva il metodo, era Cristo che forniva lo spirito e i motivi. Nell'esortazione evangelica a porgere-l'altra-guancia e ad amare-i-propri-nemici egli vide una mano potente tesa al nemico per farlo uscire dalla sua alienazione. Per King era il cuore del vangelo credere che l'amore può realmente cambiare una situazione umana di inimicizia in qualcosa di completamente differente. Questo amore è una volontà inflessibile di incontro, un non voler lasciare solo l'altro, in preda all'odio che lo perde. «Ricordatevelo — ha detto di lui sua moglie Coretta — come un uomo che ha rifiutato di perdere la fede nella redenzione finale dell'umanità». Da discepolo di Gesù ha creduto che l'unica forza capace di operare la redenzione è l'amore, anche quando il male prende la forma di conflitti sociali e razziali.
M. Luther King ha impersonato la forma di fede cristiana che consiste nel portare in sé un sogno e nel risvegliarlo in coloro nei quali si è estinto. È un sogno che ricorda vecchi racconti, detti molto tempo fa, di un Dio che non abbandonò il suo popolo nel suo cammino terreno, bensì camminò davanti ad esso notte e giorno per un esodo di liberazione; camminò facendo miracoli, ma anche portando la croce. Un sogno la cui interpretazione domandava una voce per gridare, piedi saldi per marciare e un'anima per pregare. M. Luther King ha offerto se stesso al sogno finché è caduto sotto la violenza, ma continuando a gridare, a marciare e a pregare anche al di là di essa.
4. Teilhard de Chardin: una passione cristiana per il "fenomeno umano"
Il nome di Teilhard de Chardin è giunto a conoscenza del grande pubblico in un contesto che ha contribuito ad aureolarlo di scandalo. È stato presentato come il religioso in contrasto con i propri superiori, allontanato dall'insegnamento all'Institut Catholique di Parigi, esiliato in missioni scientifiche in Cina, i cui scritti, pubblicati solo dopo la morte avvenuta nel 1955, non avevano mai ottenuto il "nulla osta" dell'autorità ecclesiastica: in una parola, il "gesuita proibito", come lo presentava in Italia un libro d'effetto. Le difficoltà con le autorità ecclesiastiche furono reali; eppure niente di più tendenzioso che presentare la vita di Teilhard de Chardin sotto il segno della disubbidienza. Non solo perché, di fatto, non ruppe mai i legami con il suo ordine religioso e con la chiesa; ma soprattutto perché proprio la fedeltà costituisce la porta di accesso al mistero della sua personalità interiore e al significato della sua opera. Egli visse un tipo di fedeltà esigente, quella cioè che rifiuta di ridursi a una sottomissione esterna, o anche di ragione, ma tale da risultare in pratica un dimissionare dal proprio compito. «Avrei l'impressione di tradire l'intero universo, se abbandonassi il posto assegnatomi»: da questo saldo perseverare nasceva la sua ricerca. A lui era chiesto ciò che costituisce il tormento e la ricchezza delle grandi vite, cioè la fedeltà simultanea a valori che appaiono contraddittori; per poter iungere, attraverso il crogiolo di una fedeltà sofferta, a una sintesi più alta.
In uno scritto ha così formulato la duplice fedeltà che sottende la sua vita e la comprensione che
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aveva della propria missione: «Ovunque sulla terra, in questo momento, fluttuano, a uno stato di sensibilizzazione mutua estrema, l'amore di Dio e la fede nel Mondo: le due componenti essenziali dell'Ultraumano. Queste due componenti non sono generalmente abbastanza forti, tutt'e due insieme, per combinarsi l'una con l'altra, nello stesso soggetto. In me, per puro caso (temperamento, educazione, ambiente...), trovandosi favorevole la proporzione dell'una e dell'altra, la fusione si ò operata spontaneamente, — troppo debole ancora per propagarsi esplosivamente, ma sufficiente tuttavia per stabilire che la reazione è possibile e che, un giorno o l'altro, la catena si stabilirà».
Con queste parole Teilhard alludeva all'alchimia prodigiosa operatasi nella sua vita: l'unione della sua consacrazione religiosa — che domandava un'adesione a Dio di tutta l'intelligenza e di tutte le facoltà, in un amore senza divisione — con un amore appassionato alla terra. Nella sua prima infanzia questo aveva preso talvolta l'aspetto di un'adorazione quasi pagana della terra; egli era affascinato da quella specie di assoluto racchiuso nel cosmo materiale con le sue dimensioni e la sua durata enormi e le sue leggi che dominano il tempo. Più tardi la mistica della terra assunse la forma severa, ma non meno appassionata, del sapere organizzato intorno alla geologia e alla paleontologia. Il compito scientifico lo accaparrò sempre di più; prese parte a esplorazioni destinate a segnare una pagina della comprensione che l'uomo ha di se stesso (come la scoperta del sinantropo); la collaborazione e l'amicizia con scienziati di ogni convinzione, situati negli avamposti del sapere e della ricerca, gli fecero conoscere il fascino che esercita la scienza su coloro che dedicano la vita al suo servizio.
Frequentando gli uomini di scienza Teilhard assimilò personalmente l'approccio antropologico e l'istanza etica degli scienziati. Le loro opzioni filosofico-religiose possono essere differenti; tutti però si riconoscono in una visione dell'uomo a partire dall'aspetto biologico-genetico della sua realtà: quello che Teilhard chiamerà, nella sua opera principale, «il fenomeno umano». Da questo interesse appassionato per l'uomo nasce una nuova etica. Scoperte le meraviglie insolite della propria avventura sulla terra, bisogna che l'uomo se ne innamori e la difenda dalle minacce nuove. Perché l'avventura stessa, dal punto di vista biologico-ecologico, è fragile. La presenza degli uomini sul pianeta può mutarsi in un' "epidemia" di parassiti che si diffondono a un tasso superesponenziale, preparando così la propria distruzione.
Gli uomini di scienza avvertono che l'umanità è giunta a un crocevia. La singolare forma dello spirito umano, in cui l'intelligenza libera e cosciente ha scavalcato gli istinti geneticamente trasmessi, crea nuove responsabilità. L'evoluzione è giunta a un punto di non ritorno in cui. per la prima volta, abbiamo davanti a noi minacce mortali, che potrebbero far abortire il progetto-uomo, ma forse anche i mezzi per allontanarle. Ciò desta negli scienziati il senso di un'urgenza, il cui momento etico essenziale è l'impegno a garantire l'evoluzione del fenomeno umano: disegno prioritario, unico, centrale, verso il quale devono tendere tutte le energie.
Dal suo punto di vista Teilhard de Chardin traduceva quest'urgenza nel bisogno di una nuova spiritualità. Per lui, discepolo di
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Cristo e tenuto nel solco della tradizione ecclesiale da fedeltà ben precise, alle quali non rinunciò mai malgrado le difficoltà e gli attriti, non poteva trattarsi che di spiritualità cristiana. La feconda spiritualità dei cristiani di sempre; la quale, accogliendo l'invito al compito urgente che deriva dall'autocomprensione scientifica dell'uomo, si dimostra capace di creare nuove risposte a problemi inediti.
Teilhard univa in sé una vita religiosa convinta a una partecipazione attiva alla più terrestre delle scienze della terra. La tensione delle due fedeltà si era risolta nella sua propria vita in una crescita di calore spirituale fino a un punto di ignizione mistica. Era convinto che il dono che aveva ricevuto comportasse una missione. Sentiva di avere una parola da dire a tutti i credenti la cui vita è consacrata a un compito terreno. La condensò in un libro, scritto durante il soggiorno in Cina, nell'inverno 1926-1927, in una pausa dal lavoro di esplorazione scientifica. Era conscio che il breve saggio rifletteva l'intuizione fondamentale che ispirò tutta la sua vita. Tentò invano di farlo pubblicare. Apparso anch'esso dopo la sua morte, L'ambiente divino si è rivelato un buon compagno di . viaggio per molti cristiani aperti alle voci della terra, timorosi di falsarsi o di diminuirsi restando sulla linea del vangelo. Ad essi Teilhard, comunicando la sua visione interiore, ha voluto «provare, con una specie di verifica tangibile, che questa inquietudine è vana, perché il cristianesimo più tradizionale, quello del Battesimo, della Croce e dell'Eucaristia, è suscettibile di una traduzione in cui passa il meglio delle aspirazioni proprie del nostro tempo». Questo proposito potrebbe far pensare a un'opera apologetica. Teilhard intese piuttosto tracciare le grandi linee di quella spiritualità che era la propria, affidando ad essa il compito di dissipare i timori dei cristiani che sentono il loro impegno terrestre in conflitto con la sequela di Cristo.
Il libro è dedicato «a coloro che amano il mondo». L'espressione è quanto meno sorprendente, se pensiamo a quelle affermazioni evangeliche che dichiarano inconciliabili la sequela del Cristo e l'attaccamento al mondo, e soprattutto a tutta una tradizione ascetica che, Imitazione di Cristo in testa, predica il distacco, la mortificazione e la rinuncia. Ma con la sua dedica Teilhard non si rivolge a coloro che si abbandonano a un vitalismo che canonizza tutte le passioni che scaturiscono dai recessi oscuri della natura. I suoi interlocutori sono piuttosto coloro che vivono, secondo un'altra sua parola, «votati alle forze positive del mondo», come egli stesso è vissuto.
L'amore del mondo di cui qui è questione non è quello contemplativo. Da sempre i credenti hanno affermato di vedere Dio, nascosto e avvolto dal mondo. Qui invece si tratta dell'amore di coloro che non si propongono la contemplazione pura, bensì il dominio della natura e delle sue forze ai fini di garantire un avvenire al fenomeno umano. È ben vero che le attività umane sono legate a passività; perfino quando agiamo con la maggiore spontaneità e vigore siamo in parte condotti dalle cose che crediamo di dominare. Noi ci riceviamo più di quanto ci facciamo. Queste passività non sono senza significato per la crescita umana. Esse costituiscono una delle due mani con cui Dio ci abbraccia. Il cristiano lo sa: lo ha imparato dalla fecondità della croce di Cristo; se lo è sentito ripetere senza posa dall'ascetica tradizionale. Tuttavia
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Teilhard ritiene che oggi sia necessario parlare al cristiano soprattutto dell'altra mano di Dio, quella dell'anione. Col favore dell'azione e tramite l'estensione totale di essa il divino cerca di entrare nella nostra vita. Nell'azione aderiamo alla potenza creatrice di Dio, ne diventiamo, più che lo strumento, il suo prolungamento vivente. Lo sforzo umano è così divinizzato. Il lavoro umano, anche una qualsiasi opera profana volta a umanizzare la terra, è una collaborazione con Dio che costruisce il corpo del suo Figlio attraverso il corso della storia. «In virtù della Creazione e, più ancora, dell'Incarnazione, niente è profano quaggiù, per chi sa vedere». La santificazione dello sforzo umano porta Teilhard a prospettare una forma di santità che consiste nell'adempiere nel mondo il compito esatto a cui si è destinati. «Vediamo nella Chiesa ogni sorta di raggruppamenti i cui membri si dedicano alla pratica perfetta di tale o tal'altra virtù particolare: misericordia, distacco, splendore dei riti, missione, contemplazione. Perché non ci sarebbero anche degli uomini votati al compito di dare, con la loro vita, l'esempio della santificazione generale dello sforzo umano? — uomini il cui ideale religioso comune sarebbe quello di dare la loro completa esplicitazione cosciente alle possibilità o esigenze divine che nasconde qualsiasi occupazione terrestre?».
Se una sfumatura apologetica era presente nel pensiero di Teilhard, si tratta di quell'apologetica legittima che consiste nell'avere una risposta per coloro che ci domandano «ragione della speranza che è in noi» (cf 1Pt 3,15). Egli riteneva che un'accettazione sincera e cordiale dell'azione facesse cadere la grande obiezione del nostro tempo contro il cristianesimo, cioè il sospetto che questa religione renda i suoi fedeli "inumani", portandoli non al di sopra dell'umanità, bensì al di fuori di essa. In quanto scienziato e credente, difende il cristianesimo dall'accusa di non credere nello sforzo umano. I cristiani non sono stanchi del genere umano; per essi, come per qualsiasi altro uomo, è una questione di vita o di morte che la terra riesca, anche nelle sue potenze le più naturali; per essi la riuscita del "fenomeno umano" significa, anzi, il coronamento dell'opera di Dio. Teilhard può dire, con la credibilità che gli deriva dalla sintesi operata con la sua stessa vita, a tutti coloro che "amano la terra": «In nome della nostra fede noi abbiamo il diritto e il dovere di appassionarci per le cose della Terra».
Il cristiano come lui lo vede è, allo stesso tempo, il più attaccato e il più distaccato degli uomini. Convinto, più che ogni altro "mondano", del valore e dell'interesse insondabili nascosti sotto le riuscite terrestri, non ricerca però che Dio, e Dio solo, attraverso la realtà delle creature.
L'umanità attraversa una crisi di crescita. Oscuramente prende coscienza di ciò che le manca. La fede mette sulla bocca di Teilhard il nome dell'astro che il mondo attende: non può essere altri che il Cristo in cui speriamo. La fede tuttavia non gli ha fatto abbandonare la considerazione del fenomeno umano dal punto di vista del suo farsi, in quanto evoluzione che, attraversata la soglia dell'umanizzazione, gestisce se stessa. Egli ha creduto di avere una parola da dire ai credenti in Cristo nel nostro tempo: l'invito ad attendere aprendo tutte e due le braccia sul mondo: il braccio dell'azione e quello della contemplazione; il loro abbraccio non stringerà il vuoto, ma incontrerà l'abbraccio con cui Dio attira
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a sé la sua creazione che si sta facendo.
5. Dietrich Bonhoeffer: esser cristiano in un mondo adulto
Un timido, aristocratico teologo. Durante la sua vita conosciuto appena nella cerchia ristretta degli accademici e degli uomini di chiesa. Morto giovane, a 39 anni, giustiziato per aver cercato di opporsi al regime nazista associandosi ad altre poche coscienze libere. Durante la sua vita aveva pubblicato pochi libri, apprezzati dagli specialisti di teologia. Ma un libro in particolare doveva renderlo celebre. Pubblicato alcuni anni dopo la sua morte, raccoglieva le lettere con cui dal carcere aveva cercato di partecipare a un amico i pensieri che lo abitavano al tramonto della sua giornata terrena (aprile 1945). Il libro aveva avuto come titolo Resistenza e resa.
Una delle ragioni del fascino del pensiero di Bonhoeffer va cercata nelle formule incisive in cui erano espresse le sue intuizioni. Nessuna elaborazione sistematica, bensì brevi lampi di pensiero proiettati verso il futuro. Visioni profetiche o allucinazioni? Come in una statua incompiuta di Michelangelo, le forme abbozzate si staccano appena dalla massa, come sotto la minaccia costante di ricadere nell'informe.
La preoccupazione costante di Bonhoeffer negli ultimi mesi della sua vita di prigioniero era quella del divenire della fede cristiana in un mondo che in tutti i campi del sapere e dell'agire si è emancipato dalla religione. Il suo punto di partenza era costituito dall'osservazione che Dio è sempre più estromesso dal dominio di un mondo diventato adulto e dal dominio della nostra vita e della nostra conoscenza; l'uomo ha imparato a cavarsela da solo in tutte le questioni importanti senza ricorrere all'«ipotesi di lavoro: Dio». Questo atteggiamento di autonomia si presenta con caratteristiche di stabilità. Non si tratta di una crisi passeggera della nostra civiltà; Bonhoeffer lo diagnostica come il punto di arrivo di un processo secolare che ha portato successivamente il mondo moderno a bastare a se stesso nella scienza, nella vita sociale e politica, nell'arte, nella filosofia e nella morale.
Questa evoluzione interpreta se stessa come anticristiana. Nel teologo imprigionato si accende invece un'intuizione e una speranza che sa di sfida: che cioè la suddetta evoluzione del mondo verso la maggiore età sgombri il terreno da una falsa visione di Dio e apra la via verso il Dio della bibbia. Questi non è il Dio dei filosofi, che si impone alla ragione come l'onnipotente, bensì il Dio di Gesù Cristo, .che acquista potenza e spazio nel mondo per mezzo della sua impotenza. In un appunto quasi stenografico per un futuro saggio teologico scriveva: «Chi è Dio? Non, prima di tutto, fede generica in Dio, nell'onnipotenza di Dio e via dicendo. Questa non è autentica esperienza di Dio, ma un pezzo di mondo prolungato. Incontro con Gesù Cristo. Prendere coscienza che qui è avvenuto un rovesciamento di ogni essere umano, che Gesù "esiste solo per gli altri"». E in una lettera all'amico: «La conquista della maggiore età ci porta a un vero riconoscimento della nostra situazione davanti a Dio. Dio ci fa sapere che dobbiamo vivere come uomini che se la cavano senza Dio. Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona (Mr 15,34). Il Dio che ci fa vivere nel mondo senza l'ipotesi di lavoro Dio, è il Dio al cospetto del quale siamo ogni momento. Con e al cospetto di Dio noi viviamo senza Dio. Dio si lascia scacciare dal mondo, Dio è impotente e
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debole nel mondo e così e soltanto così rimane con noi e ci aiuta».
La moda della secolarizzazione si è impadronita di Bonhoeffer e ne ha fatto il proprio profeta. Alcuni si sono spinti fino a vedere in lui un precursore di quel momento patologico del pensiero teologico noto sotto il nome di "teologia della morte di Dio". Lo stato frammentario del progetto teologico di Bonhoeffer spiega la manipolazione a cui è stato soggetto il suo pensiero. Ma ai critici sarebbe stata risparmiata la peregrinazione per strade senza sbocco se avessero tenuto conto che ciò che Bonhoeffer aveva da comunicare, prima di essere un distillato di pensiero, era un libro scritto con la propria vita. In lui il pensatore era un tutt'uno con il credente; la sua vita stessa è la migliore esegesi del suo pensiero; la sua biografia è parte essenziale della sua teologia.
Con la sua vita il pastore e teologo Bonhoeffer ha parlato di Dio come e meglio che con i suoi libri. Un ufficiale inglese che l'aveva conosciuto nel campo di prigionia di Buchenwald ha testimoniato di lui: «Bonhoeffer era tutto umiltà e dolcezza; mi sembrava diffondere sempre un'atmosfera di felicità, di gioia, a proposito dei più piccoli avvenimenti della vita, così come di profonda gratitudine per il semplice fatto di essere vivo. Fu uno dei rarissimi uomini che ho incontrato, per il quale Dio era una realtà, e sempre vicina».
Ciò che ha visto dall'esterno l'occhio di un osservatore concorda con le affermazioni di Bonhoeffer che troviamo nei suoi scritti. Da questi ci risulta che lo scopo che perseguiva col suo progetto non era la resa del cristianesimo al mondo — neppure quella specie di resa onorevole che hanno pensato i teologi della secolarizzazione, con l'onore delle armi costituito dal riconoscimento che l'esistenza secolare è, in ultima analisi, il prodotto del cristianesimo stesso —. L'uomo che egli vagheggiava non era l'uomo unidimensionale, che risulta dall'esclusione di Dio dall'esistenza terrena, bensì un uomo dalle molte dimensioni armoniosamente sinfonizzate. Lo esprimeva in una lettera scritta tra un intervallo e l'altro dei bombardamenti che squassavano la prigione: «Mi capita continuamente di notare quanto siano pochi gli uomini capaci di ospitare in se stessi più cose nello stesso tempo: quando arrivano gli aerei, sono esclusivamente paura; quando c'è qualcosa di buono da mangiare, sono tutti ingordigia; quando un loro desiderio non è appagato, sono tutti disperazione; quando qualcosa va bene, non capiscono più niente. Costeggiano la pienezza della vita e l'integrità di un'esistenza propria senza incontrarla mai: l'oggettivo e il soggettivo, tutto si disgrega per loro in frammenti. L'opposto è il cristianesimo, che ci pone simultaneamente in molte e diverse situazioni esistenziali: noi alberghiamo, in un certo senso, in noi Dio e il mondo intero... È necessario strappare la gente dal suo modo di pensare a senso unico — in un certo senso come "preparazione" e "facilitazione" della fede — benché in realtà sia solo la fede che ci permette di vivere nella pluridimensionalità».
La causa che Bonhoeffer intendeva servire era quella della polifonia dell'esistenza. Non progettava di esiliare Dio per rivendicare alla vita dell'uomo il suo spessore terreno. Tra l'amore di Dio e l'amore umano — secondo un'altra sua immagine — esiste lo stesso rapporto che c'è tra un "cantus firmus" e le altre voci che formano il contrappunto. L'amore
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terreno è uno di questi temi contrappuntistici, del tutto autonomi e tuttavia correlati al canto fermo; l'amore di Dio non ne viene danneggiato o indebolito, ma piuttosto arricchito. Così per tutte le altre diverse voci della vita. È nella sequela di Gesù che ha imparato ad apprezzare le realtà umane senza considerarle in concorrenza con Dio: «Senza dubbio Gesù si è preso cura di esistenze al margine della società umana, prostitute, pubblicani; ma non soltanto di quelle, perché egli voleva prendersi cura dell'umanità in generale. Gesù non ha mai messo in discussione la salute, la forza, la felicità di un uomo per se stesse, né le ha mai considerate un frutto marcio; perché, altrimenti, avrebbe ridato la salute ai malati, la forza ai deboli? Gesù rivendica per sé e per il regno di Dio l'intera vita umana in tutte le sue manifestazioni».
Il progetto cristiano che Bonhoeffer perseguiva, quello che ha vissuto e di cui ha abbozzato poi la teorizzazione, si fonda sull'esperienza mistica di Dio come Signore di tutta la vita; non è riduttivo, bensì totalizzante. Per questo si è opposto così drasticamente a ogni forma di cristianesimo che, facendo buon viso all'estromissione di Dio dal mondo e dalla sfera pubblica della vita umana, si accontenta di riservargli ancora un posto nella sfera del "personale", dell'"intimo", del "privato". È una concezione di Dio che egli qualifica in modo sferzante come «Dio-tappabuchi». Ne attribuisce la responsabilità alla "religione"; per questo il suo progetto teologico viene per lo più qualificato come "cristianesimo areligioso". Per evitare equivoci sarebbe preferibile usare un'altra terminologia. Infatti l'atteggiamento che Bonhoeffer rimprovera alla "religione" in realtà è l'atteggiamento proprio dell'apologetica; egli intendeva promuovere un atteggiamento religioso autentico senza le ambiguità dell'apologetica. È chiaro, comunque, che Bonhoeffer rivendica a Dio il "cuore" dell'uomo, il quale in senso biblico non è l'interiorità, bensì l'uomo intero, come si trova davanti a Dio. «Io pretendo — esclamava con un'enfasi in cui trapela tutto il vigore della sua ricerca spirituale — che Dio non venga ficcato di contrabbando in qualche estremo e segreto ricettacolo, che si prenda molto semplicemente atto della maggiore età del mondo e dell'uomo, che non si "stronchi" l'uomo nella sua mondanità, ma lo si metta a confronto con Dio nelle sue posizioni più forti... La Parola di Dio non si allea con la ribellione della diffidenza, con la rivolta dal basso: essa regna».
Bonhoeffer non si è arreso all'immanenza dell'uomo moderno, così come non si è arreso al regime totalitario del nazismo. La sua fede in Dio, la sua esperienza di Dio erano così sovrane che si sentiva autorizzato ad accettare la sfida: «Il mondo maggiorenne è senza Dio e forse, proprio per questo, più vicino a Dio che il mondo non ancora diventato adulto». La sua esperienza mistica gli fa rivendicare a Dio il centro, senza per questo compromettere la densità delle realtà umane; la sua sequela di Gesù gli mostra come avviene la sintesi: nel vivere per gli altri. Questa è infatti la definizione del Cristo che egli preferiva: «l'uomo-per-gli-altri». Il rapporto con Dio possibile all'uomo dell'epoca secolare, e quindi la sua specifica esperienza del trascendente, consiste in quella nuova vita che nasce dall'«esistere-per-gli-altri». Il cristiano lo ha imparato da Gesù, modello unico anche del cristiano "adulto".
In una lettera scritta in occasione
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del battesimo di un proprio nipotino, per il quale si assumeva la responsabilità di padrino, Dietrich lasciava in eredità al figlioccio il sunto della propria esperienza evangelica. Gli confidava di esser convinto che il nostro esser cristiani si riduce oggi a due cose: «pregare e operare tra gli uomini secondo giustizia». Egli rinunciava alla parola; e ben presto la violenza di una dittatura terrena gliela avrebbe tolta per sempre. Lasciava alla propria vita, sostanziata di preghiera e di opere di giustizia, il compito di parlare del vangelo: non come l'archeologo parla del passato, bensì come l'artista interpreta creativamente un modello.
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Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa, Milano, Bompiani 1969; Sequela, Brescia, Queriniana 1971; Etica, Milano, Bompiani 1969; Sanctorum communio, Roma-Brescia, Herder-Morcelliana 1972.
NOTE
1 I.T. Ramsey, Models and Mystery, Londra 1964. È utile il riferimento anche ad altre opere di Ramsey più specificamente teologiche, in cui è sottolineato il ruolo del modello nel linguaggio religioso; per es., Religious Language, an Empirical Placing of Theological Phrases, New York 1963. Si occupa del modello dal punto di vista linguistico anche M. Blanck, Models and Metaphors: Studies in Language and Philosophy, Ithaca 1962.
2 I.T. Ramsey, Models and Mystery, cit., 61.
3 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, tr. it., Torino 1964, 82.
4 Ci rifacciamo alla revisione del pensiero di Wittgenstein attuata di recente da alcuni studiosi delle sue opere più attenti e più problematici. Cf A. Janik-S. Toulmin, Wittgenstein's Vienna, Londra 1973. In Italia questa rilettura di W. è stata divulgata soprattutto da D. Antiseri in numerosi scritti.
5 Cf W.W. Bartle, Wittgenstein maestro di scuola elementare, tr. it., Roma 1974.
6 P. Engelmann, Lettere di Ludwig Wittgenstein con Ricordi, tr. it., Firenze 1970, 107.
7 M. Scheler, Vorbilder und Führer in Schriften aus dem Nachlass, I., Berlino 1933, 27.
8 Ivi.
9 Cf M. Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, Halle 1916.
10 H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion, Parigi 1932, 29-30.
11 La problematica dell'idea di eroismo e della figura dell'eroe nel mondo contemporaneo è stata fatta oggetto del seminario annuale con cui l'Enciclopedia Britannica promuove lo studio dei grandi problemi ideologici attuali. Il resoconto con i vari contributi si trova nella pubblicazione The Great Ideas Today, 1973. Segnaliamo in particolare l'articolo di C. Potok, Heroes for an Ordinary World, 71-76.
12 Cf V. Bombert, Sartre: The Intellectual as "Impossible" Hero, in V. Bombert (ed.), The Hero in Literature, Greenwich, Conn. 1969, 239-265.
13 Cf H. Weinrich, Teologia narrativa, in Con 1973/5, 66-79; J.B. Metz, Teologia come biografia. Una tesi e un paradigma, in Con 1976/5, 76-87.
14 J.B. Metz, Breve apologia del narrare, in Con 1973/5, 88.
15 R. Guardini, Libertà grazia destino, tr. it., Brescia 1968, 7.
16 Herrlichkeit è attualmente in corso di pubblicazione in italiano. La cura G. Ruggieri per conto della Jaca Book. Il primo volume ha per titolo: La percezione della forma, Milano 1975. Il secondo tomo tedesco, che si occupa delle manifestazioni della Gloria Dei mediante modelli storici concreti, è stato pubblicato in due volumi; rispettivamente: Stili ecclesiastici e Stili laicali.
17 Alcuni teologi statunitensi, muovendo da posizioni etiche centrate sul "carattere" individuale e sul suo influsso sulla comunità, hanno portato contributi originali a quella che potremmo chiamare la "teologia della vita". Ci riferiamo soprattutto alla scuola di H. Richard Niebuhr. Le opere più significative sono quelle di J. Gustafson, Christian Ethics and the Community, Philadetphia 1971; S. Hauerwas, Character and the Christian Life: A Study in Theological Ethics, San Antonio 1974; e soprattutto J.W. Mc Clendon, Biography as Theology: How Life Stories can Remake today's Theology, New York 1974, che abbiamo seguito più da vicino.
18 Cf le pertinenti osservazioni di C.H. Roquet su Yeronimus Bosch in quanto pittore religioso nell'articolo a lui dedicato nell'Encyclopaedia Universalis, III, 1971, 447-452 La sua opera è presentata come l'analogo pittorico dell'esperienza mistica, costituita da una serie di "sguardi" che si elevano e si epurano fino all'invisibile.
19 I contemporanei di s. Francesco gli hanno dato spontaneamente il nome di "imitatore del Cristo". Pio XI si è fatto eco di una tradizione costante quando ha affermato: «Sembra che non sia esistito nessuno in cui l'immagine e la forma di vita di Cristo Signore furono più somiglianti e brillarono in modo più luminoso che in Francesco. Così colui che chiamava se stesso l'araldo del Gran Re è stato giustamente chiamato un "altro Cristo"» (Enciclica Rite expiatis, del 1926).
20 Su questo tema una parola valida per i cristiani di qualsiasi confessione è stata detta dal teologo luterano D. Bonhoeffer con la sua opera Sequela, tr. it., Brescia 1971.