Chiesa ubriaca o chiesa ispirata?

Sandro Spinsanti

CHIESA "UBRIACA" O CHIESA ISPIRATA?

Riflessioni sul tempo di Pentecoste

Edizioni Paoline, Torino 1976

pp. 131

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INDICE

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   5    Chiesa «ubriaca» o chiesa ispirata?

   9    I - LO SPIRITO È FESTA

   9        Cristiani alla scoperta della Pentecoste

 12        Lingue di fuoco a Pittsburg

 16        Una preghiera per tutto l’uomo

 21        Acconsentire alla festa

 24        Bambini senza infantilismo

 29        Una «festa di folli» per il nostro tempo

 33        Una fede che guarisce

 38        Molti doni un solo Spirito

 42        Le beatitudini di quelli che attendono

 47    II - LO SPIRITO È INCONTRO

 47        La chiesa sulla soglia del cenacolo

 50        Pentecoste: una Babele alla rovescia

 54        L’esodo della chiesa dalla «cristianità»

 61        Il dialogo: una nuova tattica per una vecchia strategia?

 67        Un «tu» per l’incontro

 73        Il mondo, un «tu» per la chiesa

 77        L’incontro e i frutti dello Spirito

 80        L’incontro fatto istituzione: la comunità

 89    III - LO SPIRITO È RECIPROCITÀ

 89        Un rimescolamento di carte

 95        Le missioni in svendita

101       Carismi in libertà per una nuova missione

107       Una struttura per la reciprocità

111       I giovani: un’interpellazione del futuro

116       Versione maschile, versione femminile

121       La chiesa dei cinque continenti

128       «Il mio Spirito... su ogni carne»

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Un'opera d'arte non è mai finita: Anche dopo che il pittore ha dato l'ultimo tocco di pennello al quadro e il poeta ha limato le parole del suo poema, la loro opera rimane aperta. Quando incontra spiriti ricettivi, fosse pure a distanza di secoli, essa continua ad essere modificata dal'interpretazione.

La stessa cosa il credente può dire delle opere di Dio. Non sono mai finite del tutto, pronte per essere sigillate ed archiviate. La creazione continua. Il sesto giorno quello dell'homo faber, è contemporaneo al settimo, quello del riposo dell'Artista della creazione. Anche la settimana della redenzione è ben lungi dall'essere finita. È cominciata la settimana nuova, il cui primo giorno ha albeggiato sul sepolcro vuoto del Cristo risorto. Ma il sabato dell'antioca settimana dura ancora. C'è chi assassina, chi deruba, chi si impicca e chi

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impazzisce: perché oggi è sabato. Ma c’è chi spera, chi asciuga lacrime, chi trasforma strutture ingiuste: perché la domenica è già cominciata.

Nell’organismo umano il segno della vita è il respiro. Violento come uno sbuffo di collera o tenero come un sospiro, il soffio esprime la vita. Anche la creatura di Dio — quella grande, l’umanità intera, o quella più piccola, il popolo scelto come strumento della salvezza — ha il suo soffio, lo Spirito. L’immaginazione religiosa degli Ebrei se lo rappresentava come un alito di respiro insufflato quasi mediante una respirazione artificiale. Di qui alle speculazioni dell’idealismo sullo "Spirito del mondo" il cammino è lungo. E la parola ha sofferto d’usura come una moneta passata per troppe mani.

Prima di riutilizzare la parola "spirito" bisognerebbe avete l’audacia di immergerla in un bagno di realismo terreno. Un sacerdote brasiliano domandava a una vecchietta analfabeta, abitante di una squallida favela destinata al sottoproletariato, che cosa sapesse lei dello Spirito Santo. Gli rispose: «Non so dirti chi è, ma so cosa fa. Vedi, nella nostra favela c’è un enorme mucchio di immondizie che raccoglie i rifiuti di tutta la città. Sotto c’è sempre un fuoco acceso che consuma lentamente

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le immondizie. E se una bocca di tiraggio si chiude, il fuoco non si spegne, ma ne crea un’altra. Così agisce lo Spirito Santo nel mondo». Tutte le immondizie del sabato bruciate dal fuoco della domenica: un’immagine poco convenzionale ma appropriata del mistero della continua Pentecoste che rinnova la chiesa.

La chiesa vive per il soffio dello Spirito: lo crede e lo sperimenta. Oggi ne parla anche. Se in passato ci si è potuti lamentare che lo Spirito Santo fosse il grande dimenticato, oggi non è più così. Il problema ai nostri giorni è piuttosto quello di vagliare i tanti discorsi che si fanno sullo Spirito. Di fronte alla tendenza ovvia che ogni movimento nella chiesa cerchi di accaparrarsi lo Spirito per giustificare le proprie scelte, bisogna ricordare che lo Spirito di cui parliamo in quanto cristiani non è senza nome e senza volto. Non è solo lo Spirito "Santo", espressione di un Dio che abita una luce inaccessibile; è anche lo Spirito di Gesù, uomo tra gli uomini. Lo Spirito perciò è specificato dal Vangelo, dalle beatitudini, dalla croce. La conformità allo spirito di Gesù resta la grande regola del discernimento degli spiriti.

I fenomeni dello Spirito sono soggetti alla ambiguità. Lo è stata anche la presenza umana

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e tangibile di Gesù, tanto da fare di lui il «segno di contraddizione» per eccellenza (cf. Lc 2,34). L’irruzione dello Spirito, già dalla prima Pentecoste, ha dato adito a interpretazioni divergenti. È sembrato addirittura che quegli uomini che parlavano con tanto ardore fossero ubriachi (cf. At 2,15). Pietro quella mattina ha preso la parola per lanciare nel mondo la sua prima enciclica con cui interpretare autorevolmente il fenomeno. Ma prima ancora di giustificarsi agli occhi di quelli che stanno a guardare, la chiesa deve per proprio conto interrogarsi sulla qualità dei soffi di vita che si manifestano nel suo organismo. Per distinguere quello che viene da Dio da quello che è solo contraffazione dello Spirito essa possiede un solo criterio: sa come soffiava la vita di Dio nel corpo umano di Gesù. Anche oggi dunque la chiesa si sente spinta a confrontare i complessi fenomeni che l’agitano con quanto Dio ha fatto nel Cristo. Se potrà dire che ciò che la spinge a pregare, a dialogare, ad evangelizzare è ciò che era vivo e continua ad essere vivo dell’opera di Gesù, allora la sua giustificazione sarà credibile: non siamo ubriachi, ma pieni di Spirito. Pentecoste vorrà dire allora che il capolavoro di Dio è un’opera mai finita in continua rielaborazione un vero work in progress.

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I

LO SPIRITO È FESTA

«Vieni, Santo Spirito,

manda a noi dal cielo

un raggio della tua luce.

Vieni, padre dei poveri,

vieni, datore dei doni,

vieni, luce dei cuori»

(Messa del giorno di Pentecoste,

Sequenza dopo la seconda lettura)

Cristiani alla scoperta della Pentecoste

Non è esagerato dire che fino ad un passato molto recente il nome "pentecoste" suonava piuttosto vuoto anche all’orecchio dei cristiani praticanti. Erano magari informati che il termine vuol dire, in greco, "cinquantesimo" (giorno); alla scuola di catechismo avevano imparato ad associare la pentecoste alla venuta dello Spirito Santo sugli apostoli, cinquanta giorni dopo la pasqua; ed era stato insegnato

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loro che lo Spirito continua a sostenere e illuminare la gerarchia della chiesa. Ma chi tra i fedeli poteva sentirsi direttamente interpellato dalla pentecoste?

Rapidamente la situazione sta cambiando. Nel 1975 la festa della pentecoste ha avuto una celebrazione del tutto singolare. Una folla pittoresca di circa 12.000 persone, provenienti da ogni parte del mondo ma specialmente dall’America, si è riunita per tre giorni presso le catacombe di san Callisto a Roma. Hanno gridato innumerevoli alleluia, hanno cantato, hanno pregato con le mani levate. La stampa è stata costretta ad accorgersi di loro. «Festival dello Spirito Santo», titolava un giornale; il grande pubblico faceva conoscenza con nomi astrusi: "carismatismo", "pentecostalismo cattolico"; informazioni più o meno attendibili venivano fatte circolare: «Sono un milione i carismatici cattolici», affermava una rivista.

I lettori meno attenti avranno confuso l’assemblea romana di pentecoste con le riunioni massicce dei Testimoni di Geova per i battesimi collettivi. I fedeli cattolici invece non possono non essersi accorti che l’assemblea pentecostale si è conclusa nella basilica di S. Pietro, alla presenza di Paolo VI. Il papa ha benedetto e incoraggiato i convenuti, salutando

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l’avvenimento con le parole più lusinghiere: «È una fortuna che ci sia oggi una generazione di giovani che gridano al mondo la grandezza di Dio e della Pentecoste... Oggi o si vive con devozione profetica, con energia, con gioia la propria fede, o la si perde».

Chi passava presso la folla vivace raccolta presso le catacombe di S. Callisto vedeva ovunque la stessa scena: gente dal volto straordinariamente sereno, come trasfigurato da una gioia infantile, che sembrava non avere altro scopo che quello di lodare il Signore. Forse poteva venirgli in mente quella pagina terribile di Nietzsche. Quando il suo Zaratustra discese dalla montagna per predicare alla umanità, incontrò nella foresta un santo eremita che lo invitò a restare nella solitudine invece di recarsi nella città degli uomini. Quando Zaratustra chiese all’eremita in che modo trascorresse il suo tempo nella solitudine, questi rispose: «Compongo canzoni e le canto; e quando scrivo canzoni rido, piango e brontolo; così io lodo veramente Dio». Zaratustra rifiutò l’offerta del vecchio e continuò il suo viaggio; ma rimasto solo disse tra sé: «È possibile! Questo santone nella foresta non ha ancora sentito che Dio è morto» 1.

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Dal tempo di Nietzsche le persone convinte che Dio è morto sono sensibilmente aumentate. A costoro le assemblee salmodianti degli entusiasti devono fare l’effetto di un registratore con musica da ballo rimasto acceso dopo che tutti gli invitati sono partiti. Per i credenti invece, sia coloro che da questa musica si sentono attratti come quanti istintivamente rifuggono da forme espressive di tipo emozionale, è tempo di interrogarsi sulla Pentecoste. I fautori del risveglio spirituale non pretendono di avere il monopolio della Pentecoste. Nel loro congresso di Roma l’hanno detto con tutta chiarezza. La loro esperienza tuttavia è tale che provoca a domandarsi se non esiste qualche aspetto del dono di Cristo alla sua chiesa che col tempo si è sclerotizzato e che ora i pentecostali ripropongono con accentuazioni provocatorie. L’approvazione ufficiale che hanno ricevuto dalle gerarchie ecclesiastiche — da singoli vescovi, da conferenze episcopali e dal papa stesso — rende inevitabile un confronto con questa nuova espressione della fede cristiana trasmessa dalla tradizione.

Lingue di fuoco a Pittsburg

E anzitutto: chi sono i pentecostali cattolici? Il loro sviluppo è tanto recente che a mala

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pena si può parlare di storia: il movimento ha preso forma e consistenza sotto i nostri occhi. La cronaca parla, per la precisione, di una prima cellula nata sul suolo americano, nell’università cattolica dello Spirito Santo a Pittsburg nella Pennsylvania. Era l’autunno di dieci anni fa, nel 1966. Un gruppo ristretto di professori e studenti si riunisce per riflettere sulla validità della loro vita di fede. Sono angosciati dal grigiore della propria testimonianza; mancano di quel dinamismo che dovrebbe trascinare i discepoli del Cristo risorto. Pregano per alcune settimane. Stimolati quindi dalla lettura del libro La croce e il pugnale, che racconta la vita del pastore David Wilkerson e l’efficacia del suo apostolato tra i gangsters e i drogati di New York, sono indotti a leggere tutta la bibbia, dedicando una particolare attenzione a quanto vi viene detto circa il battesimo nello Spirito. Scoprono così lo Spirito Santo come fonte della vita cristiana personale e come ispirazione di un’azione apostolica dagli effetti sconvolgenti. Contemporaneamente leggono il libro di J.E. Sherrill Essi parlano altre lingue, che descrive il rinnovamento pentecostale americano.

Questo movimento è sorto all’inizio del secolo. Un gruppo di fedeli, riflettendo sul passo di Atti 2,4 («Sicché tutti furono ripieni di

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Spirito Santo e incominciarono a parlare lingue diverse secondo che lo Spirito Santo dava ad essi di esprimersi»), era giunto alla conclusione che il segno certo del battesimo nello Spirito è il parlare in lingue. Gli inizi del movimento furono contrassegnati da manifestazioni vistose: conversioni clamorose; guarigioni, profezie e glossalia (cioè il cosiddetto "parlare in lingue"). Se nei primi tempi i pentecostali caddero facilmente negli eccessi tipici delle sètte, in seguito mostrarono la tendenza ad allinearsi alle chiese stabilite e furono da queste accettati. Inseriti nelle chiese episcopaliane, luterane, presbiteriane e metodiste, contribuirono in maniera rilevante al loro rinnovamento spirituale.

La svolta dei pentecostali di origine settaria aveva avuto luogo negli anni '50-60. Il gruppetto di cattolici di Pittsburg incontrava perciò un pentecostalismo che si era liberato dall'inclinazione settaria, disposto a restare nelle chiese storiche e ad animarle dall’interno. Pur adottando ciò che era tipico del pentecostalismo — l’imposizione delle mani per il battesimo nello Spirito, la preghiera in lingue, le guarigioni carismatiche — non intesero affatto porsi al di fuori della chiesa cattolica.

La cellula iniziale crebbe con una rapidità imprevedibile. Nell’aprile 1967 si tenne il primo

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congresso del movimento pentecostale cattolico, presenti circa cento persone. Da allora i gruppi carismatici di preghiera si diffondono un po’ dappertutto. Ogni gruppo è composto da 10 a 500 membri. Nel 1972 si contavano ancora 350 gruppi; oggi non è più possibile avere dati statistici aggiornati. Dall’America il movimento passa in Europa, trovando nel Belgio un terreno particolarmente recettivo e nel card. Suenens un apostolo entusiasta. Il terzo congresso internazionale, tenutosi a Roma nella pentecoste del 1975, non è (per ora) che l’ultima tappa di un’avanzata trionfale di cui non si intravvede la fine 2.

Il successo non è, di per sé, un criterio di validità. La storia della chiesa può enumerare una quantità di esplosioni spirituali analoghe che in breve si sono rivelate ciarlatanerie raffinate o ingenuità patetiche. La rapida diffusione è piuttosto l’indice che il movimento risponde ad alcune esigenze del nostro tempo. Resistendo all’impulso istintivo ad accettarlo o rifiutarlo in blocco, a seconda delle inclinazioni personali, cerchiamo piuttosto di esaminare quali sono le esigenze che il rinnovamento pentecostale soddisfa. Queste ci forniranno

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la chiave per capire la causa del successo; allo stesso tempo ci indicheranno anche quali sono le strade che la chiesa intera deve percorrere se vuol annunciare la pentecoste al mondo d’oggi.

Una preghiera per tutto l'uomo

Il primo motivo di sorpresa è la persistenza di un desiderio di esperienza spirituale in una civiltà proclamata affrettatamente come del tutto secolarizzata. Le chiese si vuotano e il rumore delle macchine copre il brusio degli angeli. Eppure ecco che sorge un movimento travolgente che, senza inibizioni, parla un linguaggio esplicitamente religioso, in forme che si credeva destinate ormai alla curiosità degli etnologi. Prudenza vuole che le chiese tradizionali non si rallegrino troppo in fretta. La spiritualità che si esprime in questo rinnovamento è di un tipo particolare, che non rientra negli schemi nei quali esse sono abituate. La differenza si rivela già nel modo di pregare — il movimento carismatico, del resto, si considera essenzialmente un movimento che suscita gruppi di preghiera —. È una preghiera festosa, libera, spontanea, immersa permanentemente

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in un’atmosfera di lode. Niente di costrittivo, di prefissato. Ognuno può partecipare intonando un inno, proponendo l’ascolto di un passo biblico, comunicando una esperienza o un’intuizione sulla vita cristiana. Si glorifica Dio in libertà, ciascuno con le proprie parole e con i sentimenti spontanei. Parole lontane dalla precisione e sublimità di quelle fissate nei libri liturgici, ma col vantaggio di rendere un suono di autenticità. La parola fiorisce in canto, matura in gesto. Il più semplice e il più comune è quello delle mani aperte o levate, a significare una resa incondizionata allo Spirito; oppure mani battute per sottolineare un ritmo. Tutto il corpo è convocato a pregare. Come dice un poeta cinese, «nella gioia l’uomo pronuncia parole. Queste parole non basteranno, allora egli le prolunga; le parole prolungate non basteranno, allora le modula; le parole modulate non basteranno. Allora, senza che egli neppure lo avverta, le sue mani fanno gesti e i suoi piedi si muovono». Sembra che la piccola comunità in preghiera si faccia incontro con anima e corpo a un Dio che viene danzando.

Un aspetto singolare di questa preghiera, destinato a catturare l’attenzione di quanti si accostano da semplici curiosi, è il "parlare in lingue". Anche questa forma di preghiera intende

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restaurare qualcosa che era vivo nella comunità cristiana delle origini. Non bisogna confondere la glossalia con quel miracolo che, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli, sarebbe avvenuto il mattino di pentecoste: gli apostoli annunciavano il Vangelo e ognuno lo intendeva nella propria lingua. Invece il fenomeno della glossolalia — un carisma che sembra sia stato abbastanza frequente agli inizi della chiesa (cf. At 2,4; 10,46; 11,5; 19,6; 1Cor 12-14) — consisteva in una specie di parlare estatico, senza parole intelligibili, ma come un accavallarsi di suoni zampillanti da una fonte troppo piena, o come il mormorio indistinto di una cantilena dolce e sommessa. I carismatici di oggi lo definiscono come un balbettio, come l’estasi di un bambino per un grande spettacolo, come un grido del proprio essere che cerca nuove e più adeguate espressioni. Non necessariamente il parlare in lingue è di natura estatica; ma di certo esso traduce un’emozione profonda, che porta al di là del linguaggio e della coscienza concettuali. Quando prende la forma di una melodia orientaleggiante o di una nenia armoniosa unisce al suo significato religioso anche una certa qualità estetica.

Della preghiera in lingue l’essenziale è quello che metteva già in rilievo S. Paolo: «Chi

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parla in lingue non parla agli uomini, ma a Dio; di fatto nessuno lo capisce, perché, mosso dallo Spirito, proferisce parole misteriose» (1Cor 14,2). Il parlare a Dio, più che il parlare di Dio, è il tratto caratteristico del rinnovamento spirituale, anche se si vuol prescindere dallo sconcertante fenomeno della glossolalia. L’"alleluia" e il "gloria a te, Signore" è il centro della vita del gruppo, in cui Gesù è sentito presente e interpellante.

Bisogna riconoscere che nessuna delle chiese storiche può offrire nella sua liturgia qualcosa di analogo. Anche le chiese uscite dalla riforma, dopo una marcata rottura con i moduli tradizionali della liturgia cattolica, hanno trovato uno stile di celebrazione irrigidito in forme standardizzate. Da parte sua, la liturgia cattolica dopo la Controriforma ha mostrato la tendenza ad eliminare tutte le forme discordi dal modello unico, anche quelle consacrate da secoli di tradizione. La famosa controversia dei riti, legata all’evangelizzazione della Cina, si chiudeva con l’obbligo di una centralizzazione e di una uniformizzazione totali. La preghiera latina prescritta dal messale era uguale per tutti, da Roma a Pechino. La riforma liturgica del concilio Vaticano II ha rotto l’incantesimo. La preghiera ufficiale della chiesa ha ripreso a riflettere la liturgia degli

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uomini celebrata sulla terra, oltre che quella degli angeli in cielo. Ha assunto le lingue vive, si è resa più malleabile. Ma per quanti è ancora un abito preconfezionato, che non si adatta ad esprimere la vita?

La preghiera resta un momento costitutivo della vita di qualsiasi chiesa cristiana, dal momento che l’esperienza di secoli ha stabilito un legame necessario tra la fede, l’etica e la liturgia. Anche nel presente contesto di rivoluzione culturale non si tratta di ridurre il cristianesimo alla sola ricerca del senso dell’esistenza: il senso deve essere praticato; e neppure di ridurre la pratica cristiana al solo impegno etico e sociale a servizio dell’uomo: il dono di Dio deve essere accolto nella celebrazione riconoscente. Ma la celebrazione stessa deve prendere sul serio tutto ciò che tocca l’uomo: il suo corpo e il suo agire così come il suo spirito e le sue aspirazioni; le sue relazioni e le sue solidarietà così come la sua intimità personale e i suoi progetti individuali; le sue feste e le sue danze quanto il suo lavoro e le sue monotonie quotidiane.

Con la riforma liturgica la preghiera ufficiale della chiesa ha cominciato a trasformarsi. Ora deve sentirsi spinta a cambiamenti ancora più radicali. Se vuol aggregare coloro che si sentono mortificati da una preghiera stereotipata

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non può accontentarsi di cambiar pelle, ma deve subire la metamorfosi da bruco a farfalla.

Acconsentire alla festa

Molti cristiani sentono oggi non tanto il bisogno di un "aggiornamento" della chiesa, quanto la nostalgia del discorso della montagna. Vorrebbero che il Vangelo tornasse a suonare come "buona novella", così come gli prescrive la sua etimologia. Polemizzando contro la riduzione del cristianesimo a una morale o a un’ideologia, fanno notare che gli angeli la notte di Natale non hanno annunciato ai pastori "un grande problema", e "nuovi e più ardui doveri", bensì una «lieta notizia, per loro e per tutto il popolo» (cf. Lc 2,10).

Le voci profetiche più ascoltate del nostro tempo esprimono la necessità di lasciare uno spazio al bisogno di festa insito in ogni uomo. Frère Roger, il priore di Taizé, lo ha colto nelle migliaia di giovani che affluiscono a quello sperduto monastero della Borgogna per la preghiera e gli incontri fraterni:

«Se la festa scomparisse dal mondo degli uomini... Se, un bel mattino, ci svegliassimo in una società ben organizzata, funzionale,

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soddisfatta, ma svuotata di ogni spontaneità...

Se la preghiera dei cristiani diventasse un discorso tutto cerebrale, secolarizzato al punto da annullare il senso del mistero, della poesia, senza più nessuno spazio possibile per la preghiera del corpo, per l’intuizione, per l’affettività...

Se la coscienza oppressa dei cristiani rifiutasse una felicità offerta da Colui che, sul monte delle beatitudini, sette volte dichiara 'beati’...

Se quelli dell’emisfero sud, sfiatati nell’attivismo, non trovassero più quella sorgente a cui attingere lo spirito di festa: una festa ancora viva nel più profondo dell’uomo dei continenti del sud...

Se la festa si cancellasse dal corpo di Cristo, la chiesa, ci sarebbe ancora sulla terra un luogo di comunione per tutta l’umanità?» 3.

I giovani che hanno riconosciuto nell’esperienza spirituale di Taizé una risposta alle loro aspirazioni, nel proclamare il loro concilio mettevano l’accento in primo luogo sulla festa: «Il Cristo risorto viene ad animare una festa nell’intimo dell’uomo».

È stato notato che sono soprattutto le sètte e i gruppi periferici nel cristianesimo che

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enfatizzano la gioia. Questa diventa il motivo dominante della loro vita religiosa. Il sottrarsi al controllo dottrinale e morale delle autorità ecclesiastiche ufficiali è sentito come una liberazione che offre l’opportunità di aprirsi incondizionatamente alla gioia del vangelo. Questo tipo di cristiano non è saturo di dottrina, bensì ripieno di una festa fermentante. Mentre la "grande chiesa" si richiama al decalogo e ai peccati, egli si rifà al discorso della montagna e alle beatitudini. Nel sentire rivolta a lui, individualmente, la parola di consolazione che Gesù indirizza agli «affaticati e stanchi», si libera da ogni ansia e senso di colpa. E riesce anche a trasmettere, con sorprendente efficacia, la festa che lo libera.

La gioia evangelica è una caratteristica innegabile dei gruppi marginali; tuttavia sarebbe arbitrario rivendicarla loro in esclusiva. La chiesa in quanto tale è fondata sulla festa, non meno che sulla fede di Pietro. Se essa perde la gioia e il potere di comunicarla non perde qualcosa di accidentale, bensì ciò che costituisce la sua ragion d’essere. Quel che rimane può essere una società di beneficenza, un’accademia di intellettuali o il prolungamento di un partito politico; in ogni caso, una chiesa deviata dal suo fine essenziale.

Non è forse da considerare un segno dei

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tempi il fatto che uno degli ultimi documenti di Paolo VI, l’esortazione apostolica Gaudete in Domino, abbia per oggetto la gioia? Questa è l’eco della Pentecoste nel cuore dei credenti: «La gioia pasquale non è solo quella di una trasfigurazione possibile: essa è quella della presenza nuova del Cristo risorto, che largisce ai suoi lo Spirito Santo affinché esso rimanga con loro... È lo Spirito di Pentecoste che porta oggi moltissimi discepoli di Cristo sulle vie della preghiera, nell’allegrezza di una lode filiale».

Bambini senza infantilismo

Talvolta si sente rimproverare a coloro che vivono queste forme di esaltazione spirituale, miranti all’autoliberazione, di non essere, in fondo, che degli individualisti alla ricerca del proprio comfort spirituale. Ciò può accadere. Ma là dove la liberazione è arrivata fino al punto da dare il gusto della libertà, essa introduce nell’universo del singolo un dinamismo che lo porta al di là di ogni gretto individualismo. La sua libertà diventa la più netta contestazione di tutte le strutture oppressive. E anche la più efficace. Alle armi possono essere opposte altre armi, all’astuzia altre astuzie:

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ma niente può fronteggiare la libertà. Un uomo libero come san Francesco d’Assisi, che fonda la sua felicità sulle beatitudini e se ne ride di quella che dipende dai valori di borsa, non può essere dominato da nessuno, perché non teme né la vita né la morte.

La libertà sembra essere di casa tra gli adepti del rinnovamento spirituale. Una sensazione nuova travolge il carismatico. Trapela dalle testimonianze di coloro che affermano: «Mi sono sentito libero per la prima volta nella vita»; oppure: «Avrei sempre voluto dire e fare la tal cosa, ma non mi sembrava possibile». Quando questo stato d’animo non è un fuoco di paglia si traduce in un atteggiamento di anticonformismo sociale senza che la persona senta il peso della disapprovazione. È chiaro infatti che i modi espressivi dei carismatici, tanto individuali che comunitari, suonano "strani" nella nostra società, non corrispondono ai modelli recepiti di comportamento religioso. Le loro espressioni potrebbero sembrare una sfida puramente gratuita e provocatoria al conformismo sociale. Esse sono invece figlie della libertà. Ed è proprio questa loro libertà che fa risaltare, per contrasto, la schiavitù indolore a cui i rapporti sociali convenzionali assoggettano l’individuo. Essa denuncia quel conformismo che fa assumere

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una maschera di ferro di fronte all’altro essere umano, che induce a celare i sentimenti, che riduce il rapporto interpersonale entro modelli stereotipati. Colui che prega liberamente nel suo gruppo prova invece il sentimento esaltante di essere accettato dall’altro per quello che è. Il gruppo inoltre assicura un sostegno psicologico anche al di fuori dei momenti della preghiera. In esso si sviluppa una solidarietà umana disinteressata, che permette di abbassare le difese inconsciamente erette da ognuno contro tutti.

Il senso di accettazione incondizionata è stato descritto dallo psicologo Erich Fromm come il punto di partenza di un’evoluzione affettiva equilibrata. Solo chi ha provato da bambino di essere amato per se stesso è sulla via buona per apprendere la difficile "arte di amare". Se il gruppo assicura questa accettazione, non sorprende che in seno al movimento carismatico emergano con tanta frequenza espressioni di infanzia felice: ci si sente bambini, liberi, sicuri, fiduciosi, centrati sull’oggi, disinibiti.

Spirito d’infanzia non equivale a infantilismo. Quest’ultimo è una degenerazione e una caricatura dell’esperienza psicologica dell’infanzia, la quale, in quanto tale, non è relegata ai primi anni di vita, ma accompagna l’uomo

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per tutta la sua esistenza. Esiste in noi un puer aeternus che non deve essere soffocato, se non si vuol squilibrare l’intera costruzione della personalità. Se vogliamo riconoscere il puer aeternus sotto la scorza dell’adulto, andiamo a cercarlo nella preghiera e nell’abbandono amoroso, i due momenti in cui gli è concesso di spalancare sul mondo i suoi occhi stupiti.

Di questo puer Gesù è l’immagine più parlante. In lui il fanciullo è tanto grande, quanto è grande il Padre a cui sì riferisce. Lo chiama con un nome che combina insieme tenerezza e intimità: Abbà, il vezzeggiativo con cui i bambini ebrei si rivolgevano al loro genitore. Tutto quel complesso sistema teologico che sarà sviluppato nei primi secoli della chiesa a forza di dogmi e definizioni conciliari e che porterà a confessare in Gesù il Verbo incarnato del Padre, è sostenuto agli inizi da quella fragile parola: Abbà. È quella parola il segreto della tua vita, che fa di lui tanto l’uomo delle beatitudini quanto l’uomo dei dolori («Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito»: Lc 24,46).

Il riferimento all’infanzia entra esplicitamente nel comportamento morale che Gesù propone ai suoi discepoli: «Chiamò un bambino, lo mise in mezzo ad essi e disse: In verità

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vi dico, se non ritornate allo stato di fanciulli, non potrete entrare nel regno dei cieli» (Mt 18,2s).

La spiritualità filiale non è riservata a qualcuno in particolare ma è donata a tutta la chiesa. S. Paolo lo ha spiegato ai Romani nel passo della lettera che sviluppa i vari aspetti della vita del cristiano nello Spirito: «Tutti quelli che anima lo Spirito di Dio sono figli di Dio. Voi dunque non avete ricevuto uno spirito di schiavi per ricadere nel timore; voi avete ricevuto uno spirito di figli adottivi che ci fa gridare: Abbà! Padre! Lo Spirito in persona si unisce al nostro spirito per attestare che noi siamo figli di Dio» (Rm 8,14-16).

"Bambini di Dio" non sono perciò solo i seguaci di alcuni movimenti spirituali particolari. Lo sono tutti coloro che credono, dal momento che ciò che Paolo declina non è altro che la struttura essenziale della fede. Quelli che riscoprono lo spirito d’infanzia mediante l’esperienza dei gruppi di preghiera dovrebbero ricordare alla chiesa intera che essa non può essere chiesa di pentecoste se favorisce il timore e l’asservimento, se non comunica ai fedeli la certezza liberante di essere sostenuti da braccia che sanno cos’è la misericordia.

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Una "festa di folli" per il nostro tempo

L’efficacia della preghiera praticata dai gruppi di rinnovamento spirituale non finisce qui. Essa non limita i suoi effetti al senso euforico della festa e al superamento dei rapporti umani convenzionali. La preghiera può giungere fino a sottrarre alla repressione di una società unidimensionale colui che le dà spazio nella propria vita. Da questo punto di vista il rinnovamento pentecostale mostra un certo legame con quel vasto movimento, emerso con maggior chiarezza negli anni ’60, di contestazione della civilizzazione tecnologica e massificata propria dell’Occidente. I pentecostali hanno dunque una parentela con il maggio francese del ’68, con la fioritura hippy, con la cultura psichedelica. Per quanto differenti siano le vie seguite, è possibile individuare un minimo comune denominatore nel rifiuto dei modelli imposti e nella rivendicazione di uno spazio per la fantasia, la creatività, la festa, il gioco, la gratuità: in breve, per tutti i valori ritenuti superflui ai fini della produzione e del consumo.

La contestazione ha assunto per lo più una colorazione politica ed ha adottato le strategie adeguate. Ma all’inizio si è vestita piuttosto con l’abito dell’arlecchino che con la divisa

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del guerrigliero, ha preferito gli sberleffi del clown alle arringhe del politico. Il bisogno di una forma di cultura che prendesse sul serio il compito di cambiare il mondo, ma che sapesse anche celebrare la vita, era sentito da molti. Il teologo americano Harvey Cox se ne è reso interprete col suo libro sulla Festa dei folli 4.

Lo spunto di partenza è costituito da una festa diffusa nel medioevo, durante la quale avveniva una giocosa inversione di ruoli. I chierici minori andavano in giro vestiti con gli abiti dei loro superiori; gli studenti scimmiottavano i professori; i rituali della chiesa e della corte venivano parodiati. Una festa così concepita conteneva in sé una forte carica di critica sociale. Smascherava le pretese del potere, facendolo apparire meno fondato su un ordine divino e più soggetto al variare del caso. In tal modo il rango sociale si rivela arbitrario e si intravvede la possibilità di un cambio radicale. Questo genere di critica è appunto dell’ordine di opposizione al potere che gli americani chiamano "radicale" e che noi europei preferiamo chiamare "anarchico".

Cox suppone un’analogia tra la situazione medioevale e quella attuale. Oggi il potere

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non è più gestito in nome di Dio, ma appare ugualmente inattaccabile. Si rende quindi necessaria una critica che provenga dallo stesso spirito che ha dato origine alla "festa dei folli". In una società orientata al successo e al danaro, abbiamo bisogno di una rinascita di feste chiaramente improduttive e di celebrazioni che esprimano questo spirito. La nostra epoca ha messo in quarantena la parodia e ha separato la politica dall'immaginazione. Perciò abbiamo bisogno di riscoprire, nel nostro linguaggio culturale, quello che c’era di giusto e di valido nella "festa dei folli".

Sullo sfondo del saggio del teologo americano si indovina come modello ideale una figura che realizzi quella fusione di "santo e rivoluzionario" che, secondo Ignazio Silone, è necessaria per salvare il nostro mondo da se stesso. Essa ha insieme i tratti di S. Francesco e di Karl Marx: sa affermare la vita, pur nutrendo in cuore un sogno di sovvertimento generale del mondo; e sa impiegare tutte le energie razionali e volitive per la rivoluzione sociale, pur accarezzando l’utopia di un mondo in cui il lavoro diventi una specie di gioco.

Se mettiamo i carismatici in rapporto con la "festa dei folli", vagheggiata per il nostro tempo da Cox, non è per individuare in essi i giullari anarchici di oggi. I loro "alleluia"

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non si intonano bene col "Mistero buffo". Ma questo quadro di riferimento ci sembra utile per capire un aspetto dei gruppi di rinnovamento spirituale che lascia molto perplessi: il loro disimpegno politico. È vero che l’uno o l’altro dei membri può essere impegnato nell’azione politica. Ma ciò avviene a titolo personale; il gruppo di preghiera in quanto tale ruota in orbite che evitano accuratamente quelle della politica.

L’astensione politica non destina certo i gruppi pentecostali a riscuotere l’approvazione di movimenti come "Cristiani per il socialismo". Conosciamo fin troppo la diversa polarizzazione sull’esperienza mistica e sull’impegno politico che segna una netta demarcazione all’interno delle chiese. Ma è proprio questa contrapposizione frontale che bisogna cercar di superare. Una via può essere quella di allargare la nozione di efficacia politica. Anche colui che vive come se il mondo nuovo per il quale si sta combattendo fosse già compiuto ha un’incidenza politica: la sua vita è una profezia concreta. I teologi la chiamano, tecnicamente, "liberazione prolettica". La sua presenza provoca uno shock benefico, apre orizzonti imprevisti. Di fronte al rivoluzionario che pensa di non potersi concedere il lusso della preghiera prima di aver messo ordine

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nel mondo, l’orante afferma concretamente la realizzazione anticipata di un ordine sociale non alienato.

I cristiani che lottano non devono contestare lo Spirito a quelli che pregano. Lo Spirito è stato dato a tutta la chiesa, che esprime la sua fedeltà tanto nella lotta quanto nella contemplazione. Sarà opportuno però che i cristiani che si sentono più interpellati dalla preghiera carismatica non dimentichino che il criterio finale per il discernimento dello Spirito è stato già dato: «Ebbi fame...» (cf. Mt 25,35ss.). La profezia che la chiesa propone al mondo deve superare l’unidimensionalità della sfera interiore. Se la rivoluzione cristiana comincia dal cambiamento del cuore, tende però à una nuova prassi sociale. È vera profezia attuata dallo Spirito di Cristo quella che si estende oltre l’ambito puramente culturale, fino all’azione profetica nell’ambito ecclesiale e socio-politico. Se il Regno dei cieli non è per coloro che si limitano a dire: «Signore!, Signore!», sarà negato anche a coloro che gridano solo: «Spirito!, Spirito!».

Una fede che guarisce

Forse nessun aspetto dell’esperienza carismatica si pone in antitesi più diretta col mondo

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moderno quanto la pratica delle guarigioni mediante l’imposizione delle mani e la preghiera. La convinzione che la fede guarisca urta contro l’appiattimento antropologico portato dalla tecnologia. La medicina, diventata sapere tecnico di precisione ed efficacia strabilianti, è centrata sulla cura dell’organo malato, non dell’uomo come unità psico-fisica con radicamento sociale. I gruppi carismatici rifiutano questa visione fisicistica dell’uomo per contrapporle una spiritualista, secondo cui la vera guarigione dell’uomo comincia dall’interno per riflettersi sul corpo malato.

Il loro punto di riferimento è, ancora una volta, la comunità cristiana primitiva, delle cui pratiche terapeutiche carismatiche siamo abbondantemente informati. I primi cristiani, a loro volta, si appoggiavano sulla prassi stessa di Gesù e sulle sue parole: «Segni come questi accompagneranno coloro che crederanno: ...imporranno le mani ai malati e questi saranno guariti» (Mr 15,17s). I gruppi pentecostali hanno così riportato in luce la pratica della preghiera collettiva per la guarigione dei malati, accompagnata dall’imposizione delle mani, quasi un gesto di comunione cristiana attorno a chi soffre 5.

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La guarigione spirituale di cui parlano non va identificata con la guarigione miracolosa. Può esserlo, ma non necessariamente. Essa è piuttosto una guarigione in cui intervengono in maniera determinante le forze spirituali. La guarigione è considerata come un processo che inizia dall’intimo risanamento spirituale, vale a dire dall’esperienza di essere stati afferrati da Gesù e posti nella vita stessa della famiglia di Dio. Dalla certezza di questa presenza di salvezza nella propria esistenza rinnovata scaturisce una forza nuova per affrontare i mali della vita, presente e passata. Qualsiasi esperienza di rifiuto, oppressione, non-amore può essere guarita, comprese le ferite provocate dalle esperienze passate. I carismatici amano parlare della potenza terapeutica della pace di Gesù: quando la coscienza è piena d’amore, di gioia, di pace, di pazienza, di bontà, di benevolenza, di fede, di dolcezza, di padronanza di sé (cioè di quanto Paolo in Gal 5,22 chiama "frutti dello Spirito"), possiede una forza di guarigione contro ogni male, compresi quelli fisici.

Un ruolo decisivo gioca la comunità. Essa assicura un ambiente di amore e di sollecitudine in vista del sostegno del singolo. Allora la guarigione arriva al suo pieno sviluppo, fino ad essere cioè guarigione delle relazioni.

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Credendo in sé e negli altri, accettandosi e sentendosi accettato, il credente è motivato a sperare non solo in un semplice ristabilimento della salute, ma in una vita qualitativamente diversa.

La pratica della guarigione attraverso la preghiera della comunità apparirà meno strana qualora si consideri l’uomo nella reale unità psico-fisica-sociale della sua esistenza. Se già, come è stato osservato, il 50% di ogni psicoterapia consiste in un rapporto diretto e caloroso col paziente, come si può sottovalutare l’effetto psico-somatico di un’esperienza come quella che assicura il gruppo carismatico?

Del resto, la coscienza che la comunità cristiana racchiude, in forza della fede, una singolare forza terapeutica non era mai andata perduta nella chiesa. Ecco come lo esperimenta il teologo Paul Tillich:

«La fede non significa credenza in asserzioni per le quali non c’è alcuna evidenza. Non ha mai significato questo nella religiosità autentica e non bisognerebbe mai farne abusi in questo senso. Ma la fede significa che si è afferrati da una potenza che è più grande di noi, una potenza che ci scuote, ci sconvolge, ci trasforma e ci guarisce. L’abbandono a questa potenza è la fede. Quelli che Gesù ha potuto guarire, e può

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guarire, sono quelli che hanno realizzato c che realizzano questo abbandono di se stessi alla potenza di guarigione che è in lui. Gli hanno consegnato la loro persona, disgustati e disperati di se stessi, pieni di odio verso se stessi, e di conseguenza ostili verso tutti gli altri, pieni di timore davanti alla vita, carichi di sentimenti di colpevolezza, accusandosi e scusandosi da soli, fuggendo gli altri per trovare la solitudine, fuggendo se stessi con l’andare verso gli altri, cercando finalmente di sfuggire alle minacce dell’esistenza rifugiandosi nella sicurezza dolorosa e ingannevole della malattia mentale e fisica. In quanto tali si sono consegnati a Gesù, e questa resa è ciò che noi chiamiamo fede. Egli li ha rinviati a se stessi sani e salvi come nuove creature. E quando egli morì lasciò un gruppo di gente che, malgrado grandi ansietà e grandi desideri, debolezza e colpevolezza, aveva la certezza di essere guarita e che la potenza di guarigione che si trovava in mezzo ad essi era tanto grande da conquistare individui e nazioni nel mondo intero. Noi facciamo parte di questa gente se siamo stati afferrati dalla nuova realtà che è apparsa in lui. Abbiamo anche noi il suo potere di guarigione» 6.

Le parole liriche del teologo esistenzialista riescono a trasmetterci la visione di una chiesa

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che svolge un’eccezionale funzione terapeutica, dovuta non tanto a pratiche peregrine, quanto alla trasparenza con cui essa trasmette l’appello di Gesù alla fede e alla capacità di aggregazione che la comunità sviluppa. I pentecostali ricordano alla chiesa di pentecoste che essa è stata dotata di forze di guarigione che non deve tenere in quarantena. È piuttosto dubbio che la chiesa possa portare a termine la missione terapeutica che le è propria fornendo al sistema sanitario cliniche di lusso. Neppure le è richiesto di incoraggiare con la sua benedizione gli stregoni che ancora passeggiano tra i grattacieli. Essa sarà una chiesa che guarisce se diventa quello che deve essere: la casa di coloro che sono colpiti dal potere di emarginazione del male in tutte le sue forme. Allora essa sarà un riflesso autentico dello Spirito e offrirà ai malati, handicappati, anziani, ai sofferenti nel corpo e nello spirito quello spazio in cui sono possibili relazioni umane ravvicinate, accettazione, sostegno, conforto: ciò di cui l'uomo ha bisogno per riconciliarsi con la vita e voler guarire.

Molti doni, un solo Spirito

Abbiamo considerato diversi aspetti di quel vasto movimento conosciuto sotto il nome di

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pentecostalismo o rinnovamento spirituale. Da ogni lato ci è apparsa emergere una costante: i suoi elementi caratteristici non sono delle novità assolute nel cristianesimo, ma solo accentuazione di dimensioni ed esperienze che sono essenziali alla chiesa in quanto tale. Alcuni tratti del pentecostalismo cattolico dipendono indubbiamente dal particolare contesto geografico e culturale in cui il movimento è sorto. Ma non sarebbe dettato da saggezza giudicare sommariamente il movimento come "folklorismo americano" o come versione religiosa dell’hippismo. I valori che i suoi adepti cercano — gioia, spontaneità, creatività, festa, comunicazione intensa, comunità, guarigione totale — sono altrettante denunce di carenze nelle chiese istituzionali e sfide a lasciar agire lo Spirito di Cristo, nel quale la chiesa professa di credere.

Non è necessario essere un mago per scoprire che nella chiesa oggi è diffuso un senso di malessere, accompagnato da un conflitto interno più o meno esplicito. Ci sono naturalmente molte spiegazioni di ciò. Chi è abituato ad osservare i fenomeni culturali suggerirà che si tratta semplicemente di una forma di quella disaffezione più generale che investe ogni istituzione nella società. I teologi parleranno piuttosto di un conflitto tra due ecclesiologie,

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l’una espressa mediante le categorie del popolo di Dio e l’altra legata all’idea gerarchica e giuridica prodotta da epoche passate. Ovviamente, poi, c’è sempre a portata di mano la schematizzazione molto comoda di un’ostilità permanente tra "progressisti" e "conservatori".

Senza escludere l’apporto dei diversi tentativi di comprensione, non sarà inutile aggiungere un altro approccio, che consiste nel considerare il disagio nella chiesa come dettato anche da differenze nel modo come ci si immagina Dio, come se ne fa l’esperienza, come si articola l’esperienza a se stessi. In altre parole, una differenza di spiritualità. Esiste una spiritualità in cui l’esperienza di Dio avviene nella chiesa e attraverso di essa. La relazione con Dio — appello da parte sua e risposta da parte dell’uomo sia. col culto che con la vita morale e con la professione dottrinale di fede — si svolge nella cornice che la chiesa ha forgiato per il fedele. Questi in realtà sperimenta più la chiesa che Dio stesso; è la chiesa, alla quale egli si appoggia con fiducia, che gli fornisce le parole e gli atteggiamenti appropriati.

Un secondo tipo di spiritualità, che esercita un’attrazione sempre crescente, parte invece da un’esperienza autonoma di Dio. All’orizzonte

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del credente si affacciano solo le verità che servono a spiegare la propria esperienza e in cui arriva personalmente a credere. La sua morale riposa sull’idea che Dio è glorificato dal modo in cui egli usa i propri talenti. Accetta di essere secolarmente responsabile del mondo e degli altri uomini. Si sente chiamato a lottare in prima linea con quanti sono impegnati per la giustizia e per l’uomo. L’azione è il suo tempio e la sua liturgia.

Oggi emerge un terzo tipo di spiritualità, che possiamo chiamare carismatico, diffuso soprattutto dal movimento pentecostale. Coloro che vivono questo stile di risposta a Dio dichiarano di avere un senso di immediata presenza del Cristo risorto che solo lo Spirito può produrre. Il mezzo attraverso cui sperimentano Dio è quello di una preghiera fortemente emotiva fatta in gruppo. La chiesa occupa nella vita dei cristiani carismatici un posto diverso da quello che le attribuiscono i cristiani che vivono la spiritualità ecclesiocentrica del primo tipo. L’insegnamento della chiesa provvede loro i segnali di confine, che essi rispettano lealmente; ma personalmente sono così presi dal dramma che si svolge dentro questi confini che prestano appena attenzione ai segnali stessi. La loro esperienza di Dio è soprattutto esperienza del Cristo. Non del Cristo

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che è vissuto storicamente nel passato, ma che vive ora ed agisce nell’intimo mediante lo Spirito. È esperienza di un giogo che è leggero, di un compagno di cammino legatosi volontariamente all’uomo con legame indistruttibile di amore.

Spiritualità diverse, che fanno la chiesa più ricca. «C’è indubbiamente diversità di doni spirituali, ma uno solo è lo Spirito» (1Cor 12,4). Spiritualità da scegliere liberamente, perché nel regno dello Spirito la costrizione non ha diritto di cittadinanza. Modi diversi di esprimere la stessa festa interiore, senza fare violenza a se stessi, rispettando le legittime differenze di ogni persona. La gallina razzola per terra e l’anatra guazza nello stagno: eppure sono ambedue uccelli dello stesso cortile.

Le beatitudini di quelli che attendono

L’analisi del movimento pentecostale ci ha offerto l’opportunità di rivisitare la nostra chiesa, chiamata a lasciar agire quello Spirito che è inscritto nel suo codice genetico. Al termine delle nostre considerazioni ci si può domandare quale possa essere, in sintesi, il carisma dei carismatici di oggi. La loro esperienza spirituale evidenzia nella pentecoste l’iniziativa

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di Dio per colmare col suo dono l’uomo che lo aspetta e lo domanda. Lo Spirito, mandato dall’alto, incontra la creatura umana aperta a riceverlo. Questa proclamazione suona incredibile per l’uomo occidentale, che sembra aver smarrito la fede in una ricettività verso l’alto. Il suo futuro è chiuso, ha disimparato l’attesa. La perdita del trascendente ha gettato l’uomo in preda all’assurdo e minaccia di paralizzare la sua volontà.

Il drammaturgo Samuel Beckett ha visualizzato la situazione dell’uomo contemporaneo con la felice parabola dei due vagabondi, Vladimiro ed Estragone, che aspettano Godot. Il primo atto inizia con i due vagabondi che, ai piedi di un albero, in una strada di campagna, aspettano. Alla fine dell’atto apprendono che Godot, col quale credono di avere un appuntamento, non può venire, ma che verrà certamente l’indomani. Il secondo atto ripete esattamente lo stesso schema. Lo stesso ragazzo arriva e porta l’identico messaggio. Il primo atto termina così:

«Estragone: Beh, andiamo?

Vladimiro: Sì, andiamo

(Non si muovono)».

Il secondo atto termina con le stesse battute, solo dette dai personaggi in ordine inverso

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Non esiste più una vera attesa; ciò che viene chiamato con questo nome è solo un alibi che l’uomo crea a se stesso per non guardare in faccia alla propria situazione: «Non succede niente, non viene nessuno, nessuno se ne va, è terribile» 7.

A questo mondo senza più speranza, perché senza più attesa, il rinnovamento spirituale in atto vuol proporre una chiesa in stato di Pentecoste, cioè pronta alla sorpresa dello Spirito che introduce nell’orizzonte chiuso la novità. Questo sembra essere il suo carisma.

È giusto lasciare l’ultima parola al card. Suenens, che del rinnovamento spirituale si è fatto autorevole evangelista. Interrogato da un giornalista: «Perché lei è un uomo di speranza, malgrado la confusione nella quale ci troviamo oggi?», rispose con un suo atto di speranza:

«Perché credo

che Dio è nuovo ogni mattina,

che crea il mondo in questo preciso istante,

e non in un passato nebuloso, dimenticato.

Ciò mi obbliga ad essere pronto ogni istante all’incontro.

Poiché l’inatteso è la regola della [Provvidenza.

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Questo Dio 'inatteso' ci salva

e ci libera da ogni determinismo

e sventa i foschi pronostici dei sociologi.

Questo Dio inatteso è un Dio

che ama i suoi figli, gli uomini.

È questa la sorgente della mai speranza.

Sono un uomo di speranza non per ragioni umane

o per ottimismo naturale.

Ma semplicemente perché credo

che lo Spirito Santo è all’opera

nella chiesa e nel mondo, che questi lo sappia o no.

Sono un uomo di speranza perché credo

che lo Spirito Santo è per sempre lo Spirito creatore,

che dà ogni mattina, a chi lo accoglie,

una libertà nuova ed una provvista di gioia e di fiducia.

Sono un uomo di speranza perché so

che la storia della chiesa è una lunga storia,

tutta piena delle meraviglie dello Spirito Santo.

Pensate ai profeti e ai santi,

che in ore cruciali sono stati strumenti prodigiosi di grazie,

ed hanno proiettato sulla via un fascio luminoso.

Credo alle sorprese dello Spirito Santo.

Giovanni XXIII ne fu una.

Il Concilio pure.

Noi non ci aspettavamo né l’uno né l’altro.

Perché l’immaginazione di Dio

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e il suo amore sarebbero oggi esauriti?

Sperare è un dovere, non un lusso.

Sperare non è sognare, al contrario:

è il mezzo per trasformare un sogno in realtà.

Felici coloro che osano sognare

e che sono disposti a pagare il prezzo più alto

perché il sogno prenda corpo nella vita degli uomini» 8.

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II

LO SPIRITO È INCONTRO

«Lo Spirito del Signore ha riempito l’universo,

egli che tutto unisce,

conosce ogni linguaggio, alleluia».

(Messa del giorno di pentecoste, Antifona d’inizio)

La chiesa sulla soglia del cenacolo

Giulio Cesare era pienamente consapevole, se stiamo a quanto ha raccontato egli stesso in seguito, che varcando il Rubicone faceva un passo decisivo per gli sviluppi futuri della storia. Se volessimo drammatizzare la storia della chiesa, potremmo vedere nella soglia del cenacolo il suo Rubicone. E ci potremmo domandare retoricamente: Pietro, il pescatore di Galilea, era conscio di quale fosse la portata del passo con cui scavalcava quella soglia il mattino di pentecoste? Si rendeva conto che,

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rivolgendosi alla folla che si accalcava fuori di quella casa in cui sembravano capitare cose strane, stava decidendo l’avvenire di quell’embrione di comunità raccolto devotamente in casa?

Coloro che credevano in Gesù Messia, risorto da morte e presente ai suoi soprattutto al momento della mensa condivisa 9, erano soliti ritrovarsi nella «camera alta» della casa. Pregavano; e c’è da credere che lo facessero con un’esultanza che era "pentecostale" ante litteram: «Tutti d’un sol cuore erano assidui alla preghiera con alcune donne, tra cui Maria, madre di Gesù» (At 1,14). Pensavano alle cose interne della comunità. Così, ad esempio, avevano deciso di reintegrare il gruppo dei dodici eleggendo Mattia al posto di Giuda, che aveva defezionato. Devozione e ordine: potrebbero essere le caratteristiche anche di una sètta. E in realtà il discorsetto con cui Pietro propone l’elezione del nuovo apostolo è agli antipodi della mitezza evangelica; tradisce piuttosto la durezza spietata dei gruppi chiusi nei confronti del transfuga, che bisogna dipingere con un piede già nell’inferno, per evitare che il suo abbandono allontani coloro

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che restano. Lo Spirito aveva ben ragione di manifestarsi fin dal primo giorno come un vento impetuoso che spazza via ogni aria di chiuso...

discepoli di Gesù sono spinti fuori di casa. Fermiamoci ancora un momento a considerare quel passo oltre la soglia. Che tipo di rapporto stabilirà la comunità cristiana con gli altri uomini che stanno ad aspettare per strada? Annuncerà un’altra religione — naturalmente la vera! — in opposizione a tutte le altre? Ovvero trasmetterà un progetto di rifondazione della società, magari fatto di pace, di libertà, di amore, di perdono? Così esporrebbe un ulteriore sistema di princìpi che descrivono la realtà com’è — o, piuttosto, come dovrebbe essere —. In linguaggio moderno nói diamo a questi sistemi interpretativi del mondo il nome di ideologie.

Se i primi cristiani si fossero presentati in pubblico per proporre un’altra ideologia, la folla di allora, rafforzata idealmente da molti nostri contemporanei, li avrebbe invitati a restarsene piuttosto a casa. I modi avrebbero potuto essere più o meno urbani; ma la sostanza del discorso sarebbe stata questa: tra religione di stato e culti misterici, scuole filosofiche e gruppuscoli contestatori, sètte religiose e movimenti messianici, ne abbiamo già

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più che a sufficienza; ognuno presenta uno standard di verità a cui l’esperienza deve conformarsi; le ideologie soffocano la vita: non è di ideologie perfezionate che non abbiamo bisogno.

È vero che Pietro il giorno di Pentecoste farà anche un bel sermone, in cui è già riconoscibile tutta l’ossatura del dogma cristiano, e non mancherà di concludere con l’invito a convertirsi e a raggiungere la nuova comunità mediante il battesimo per salvarsi dalla presente generazione perversa (cf. At 2,14-40). Ma prima del discorso era avvenuto un fatto singolare, il ben noto miracolo di Pentecoste: «Questi uomini che parlano, non sono tutti Galilei? Come mai allora ciascuno di noi li capisce nella sua lingua materna?» (At 2,7-8). Per addentrarci nel significato della Pentecoste il miracolo delle lingue è un punto di partenza più decisivo del discorso e delle conversioni.

Pentecoste: una Babele alla rovescia

Se lasciamo briglia sciolta alla nostra curiosità e focalizziamo l’attenzione sul modo come può essersi svolta questa curiosa traduzione simultanea, passiamo accanto a quel che il racconto

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vuol dire. Esso è costruito deliberatamente sulla falsariga di quello relativo alla torre di Babele (cf. Gn 11,1-9). Nella Genesi quél racconto viene introdotto per illustrare la tesi teologica che il male invade il mondo in un modo che all’uomo pare inarrestabile. Apparso nel mondo con la colpa di Adamo ed Eva, ha continuato a dilagare contaminando tutte le forme della convivenza umana; sulla sua scia vediamo emergere fratricidi (Caino), vendette crudeli (Lamek), disordini sessuali (i figli di Dio e le figlie degli uomini). Da ultimo gli uomini si mettono a costruire una città.

La città nella bibbia è uno dei segni più chiari dell’ambivalenza di tutto ciò che riguarda l’uomo. Essa è per eccellenza l’opera dell’uomo, costruita da lui e per lui, trionfo della ragione che usa la tecnica a proprio servizio. Ma la città è allo stesso tempo il luogo della massima degradazione dell’uomo; è il regno del guadagno attraverso lo sfruttamento, è la casa della schiavitù. Nel racconto biblico la costruzione della torre finisce come in una gag da comica chapliniana: la comunicazione impazzisce. Tutti i telefoni squillano contemporaneamente ed è il block out. Il lavoro si paralizza. Gli ingegneri si disperdono, parlano ognuno tra sé e sé, in completo autismo.

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Nel piano redazionale dello scrittore che ha dato stesura definitiva al libro della Genesi la farsa di Babele veniva a concludere la sua introduzione. La vera "divina commedia" è per lui quella che comincia subito dopo, con la vocazione di Abramo. Nei primi 11 capitoli si limita a tracciare lo sfondo, usando tutti i colori della sua tavolozza, dal tragico al satirico, per situare l’intervento di Dio, la risposta divina al male. La risposta di Dio sarà una storia di uomini, che comincia appunto con Abramo. E che termina con Gesù di Nazareth, aggiungeranno i cristiani.

L’autore degli Atti degli Apostoli ha voluto esercitarsi anche lui nel genere farsesco. Ha ricreato, all’inverso, la situazione di Babele. Il suo racconto ha davvero un ritmo da amabile parodia: «Parti, Medi ed Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Pamfilia, d’Egitto e di quella parte della Libia che è vicino a Cirene, Romani che dimorano qui, Giudei e proseliti, Cretesi e Arabi, li sentiamo annunciare nella nostra lingua le meraviglie di Dio! Tutti erano stupefatti e si dicevano l’un l’altro, interdetti: Che cosa può essere questo? Altri dicevano burlandosi: Ma son pieni di vino dolce!» (At 2,9-13). Il tono leggermente burlesco del racconto non

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deve trarre in inganno; ciò che esso vuol affermare è nondimeno un annuncio di grande portata: la storia dell’incomprensione degli uomini è finita! È l’alba di un’età nuova. Il sortilegio che isolava gli uomini gli uni dagli altri è esorcizzato. Gli uomini possono parlarsi perché, pur usando linguaggi diversi, possono capirsi. Se possono parlarsi e capirsi, allora possono anche lavorare insieme. Possono mettere mano alla costruzione di una città che non sia una gabbia per belve, ma un riflesso dell’altra città, quella che raccoglie le benedizioni di Dio, la Gerusalemme celeste, la città della promessa.

Pietro farà poi il suo discorso, con cui inaugura l’annuncio da parte della comunità cristiana circa il Dio che ha parlato in Gesù. Questo annuncio sfugge al puro proclama ideologico proprio perché è innestato sull’esperienza sorprendente che gli uomini fanno allo stesso tempo, quella cioè di essere in grado di parlare tra loro, di poter costruire insieme una città in cui valga la pena vivere. Quel che la vita cristiana rende possibile è tanto nuovo sulla terra che lo scrittore sacro non può descriverlo direttamente. Si limita a suggerirlo in modo simbolico; per far questo si trova costretto ad attingere alla riserva delle immagini, dei miti antichi, dei raccolti evocativi

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che facevano parte del patrimonio culturale del suo popolo.

Pur coscienti dei limiti che rivelano in questo campo gli altri tipi di discorso, dobbiamo intraprendere lo sforzo di rendere intellegibile a noi stessi, figli di un’altra cultura, dove lo Spirito che soffia a pentecoste dirige la chiesa. Vogliamo cioè rapportare la pentecoste al nostro mondo di oggi, al nostro linguaggio, ai nostri miti e simboli, alle nostre speranze e angosce.

L’esodo della chiesa dalla "cristianità"

Nel nostro orizzonte quello che si avvicina di più al "miracolo del comprendersi" è il dialogo. Questa è una di quelle parole magiche che sembrano avere la virtù di spianare le fronti corrucciate. È stata la bandiera alzata dalla chiesa conciliare per significare la propria volontà di rinnovamento. Paolo VI ha dedicato al dialogo la prima enciclica del suo pontificato, l’Ecclesiam suam. Il dialogo come programma ha sostituito ben presto sulla bocca di tutti la precedente parola-chiave, l’"aggiornamento", mostratasi inadeguata ad esprimere la svolta avvenuta nella chiesa cattolica.

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Il dialogo traduceva meglio la comprensione della sua natura e del suo rapporto con il mondo che la chiesa aveva acquisito durante il "tempo forte" del concilio. L’euforia può aver fatto dimenticare che fino al passato più recente la nostra chiesa ha rifiutato il dialogo. Piuttosto che negare il fatto vai meglio cercar di capirne le ragioni. La resistenza al dialogo si può spiegare con la nostalgia di quel tipo di rapporto che la chiesa aveva instaurato con il mondo fino all’epoca moderna. Le vicende storiche avevano portato infatti le piccole comunità cristiane dei primi secoli, volontariamente marginali nel tessuto della società, a integrarsi sempre di più, fino a diventare l’ossatura stessa della civiltà occidentale. Era sorta così la "cristianità". In regime di cristianità la chiesa era in qualche modo coestensiva al mondo. Il potere politico era il suo braccio secolare, ovvero riceveva una ratificazione divina. Le istituzioni sociali, in particolare scuola e ospedali, erano gestite con criteri insieme sacri e profani: servivano al bene dei cittadini, ma di cittadini che si presupponeva ordinati alla chiesa.

Non si può compilare un certificato di morte della cristianità stabilendo il giorno preciso del trapasso. Si è soliti indicare nella rivoluzione francese il momento traumatico di rottura

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col passato. Lo stato moderno proclamava di non aver bisogno delle stampelle del potere che viene da Dio per poter camminare. Ghigliottinando il re e una quantità di ecclesiastici, oltre che i nobili, esso usciva con violenza dall’ordine antico.

La restaurazione è stato il tentativo di riportare in vita quel mondo. Con la moda delle parrucche e con il fuoco dei fucili. Ma i cadaveri imbalsamati non potevano governare. Quando ha capito che il suo sogno di restaurare la cristianità era chimerico, la chiesa del secolo scorso si è chiusa sdegnosamente nel ghetto. Ha dichiarato lo stato d’assedio ed ha alzato il ponte levatoio. Se lo abbassava era solo per far entrare i convertiti, non per uscire incontro al mondo. Più tardi, rendendosi conto che intorno le si stava facendo il deserto e che i suoi canti sapevano sempre più di liturgia funebre, ha cambiato tattica. Erano i tempi in cui si scopriva che la Francia, la figlia primogenita della chiesa, era diventata «paese di missione». La comunità cristiana ritrovava allora una carica vitale e ripartiva alla conquista del mondo con le armi duttili e raffinate dell’Azione cattolica. L’operaio doveva essere avvicinato dall’operaio, lo studente dallo studente. A ogni ambiente il suo movimento e a ogni movimento i suoi militanti. In

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questo esercito alla riconquista non mancavano neppure i franchi tiratori, costituiti dagli eroici preti operai. Le diverse tattiche erano in funzione dell’identica strategia: ricomporre l’unità tra chiesa e mondo.

Per tutto il tempo in cui la chiesa ha conservato la segreta nostalgia della cristianità il dialogo era impossibile. Come può la chiesa dialogare con un mondo che rifiuta la vocazione di diventare chiesa? Un mondo, per di più, che non si lascia sfuggire occasione per sottolineare la sua estraneità alla chiesa, per isolarla, per combatterla, con le leggi che discriminano o con le caricature dei giornali anticlericali. La chiesa userà piuttosto il dualismo tra i figli della luce e i figli delle tenebre del vangelo di Giovanni per contrapporre i buoni fedeli agli affiliati alle logge massoniche (quando non, addirittura, i frequentatori di piazza del Gesù a quelli di via delle Botteghe Oscure).

Il dialogo non era possibile con le altre religioni. La cristianità medioevale situava idealmente le religioni non cristiane ai confini del mondo, là dove finiva il cono di luce della civiltà cristiana. Al di fuori di esso esisteva solo superstizione. I credenti di altre religioni potevano essere in buona fede, ma la loro fede

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non era mai buona 10. E quando le crociate diventarono anacronistiche, furono sostituite con le missioni.

Neppure con i cristiani di altre chiese si poteva dialogare. In un certo senso, con loro ancor meno che con gli altri. Se si identificava la propria chiesa con quella una, santa, universale e apostolica voluta da Cristo, le altre apparivano anti-chiese: il loro riferimento al Cristo una pretesa sacrilega, la loro vita cristiana una scimmiottatura del vangelo, la loro missione un proselitismo concorrenziale.

Per difendersi e per aggredire fu elaborata una tecnica raffinata che era l’antitesi del dialogo: la polemica. Ogni chiesa ha avuto i suoi manuali di polemica contro le altre chiese, i cattolici contro i protestanti e i protestanti contro i cattolici, senza dimenticare che nel gioco erano inclusi anche gli ortodossi. La polemica confessionale combatte le tesi avversarie opponendo argomento ad argomento, testo biblico a testo biblico. Lo spirito che anima la polemica è la convinzione di stare seduto sul picco della verità, mentre l’altro si rotola nel fango dell’errore. Si vuol allora dimostrargli col ragionamento le sue contraddizioni, smascherare la sua malafede e obbligarlo

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ad abbandonare le sue posizioni. La polemica è una forma di guerra, come dice l’etimologia greca della parola. Essa non mira a distruggere fisicamente l’altro, ma a far crollare la sua costruzione ideologica; non vuol lasciar l’altro cadavere nella polvere del campo, ma portarlo nella propria caserma.

La chiesa cattolica ha conservato la diffidenza nei confronti del dialogo tra cristiani più a lungo delle altre chiese. Ha rifiutato di prender parte a tutti gli incontri organizzati dal movimento ecumenico fin dal suo sorgere, all’alba del nostro secolo 11. I pontificati di Benedetto XV, Pio XI e Pio XII sono scanditi da drastici non possumus verso ogni ecumenismo che non fosse quello propugnato dalla chiesa cattolica: il ritorno all’ovile romano. L’ultimo documento ufficiale prima del Concilio è l’istruzione del S. Ufficio sul movimento ecumenico del 1949; all’indomani della fondazione del Consiglio ecumenico delle Chiese ad Amsterdam. I fedeli cattolici venivano messi in guardia contro i pericoli dell’ecumenismo. Ai vescovi era fatto carico di vigilare affinché «col pretesto che si dovrebbe dare maggiore

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considerazione a quanto ci unisce che a quanto ci separa dagli acattolici, non venga favorito l’indifferentismo»; si deve evitare che, per spirito irenico, l’insegnamento cattolico venga troppo «conformato o accomodato con la dottrina dei dissidenti»; nell’esporre la dottrina della riforma e dei riformatori non siano così esagerati i difetti dei cattolici ed invece così dissimulate le colpe dei riformati; oppure messi così in evidenza gli elementi piuttosto accidentali, «che a stento si riesca a scorgere e a sentire ciò che soprattutto è essenziale, cioè la defezione dalla fede cattolica».

Questo linguaggio oggi ha il suono di una campana stonata. Ci sembra tanto estraneo alla nostra sensibilità che quasi dimentichiamo quanto sia in realtà prossimo a noi cronologicamente. Ma nel frattempo è avvenuto qualcosa di imprevedibile. Il vento di Pentecoste ancora una volta ha soffiato forte nel cenacolo in cui la chiesa si rinchiudeva. Ancora una volta essa ha rifatto il passo cruciale per superare la soglia e presentarsi a quelli che aspettano fuori. In questo momento di trapasso l’attesa è grande. È legittimo. Sarà il dialogo soltanto una tattica, per rifare però sostanzialmente lo stesso discorso? Sarà niente altro che una confezione più appetibile per vendere l’identico prodotto?

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Il dialogo: una nuova tattica per una vecchia strategia?

L’attuale congiuntura culturale non permette di ricorrere ulteriormente alle tattiche del passato. I cristiani, di diverse confessioni non possono più pensare di rifare guerre di religione (là dove ciò sembra avvenire, come in Irlanda, si tratta in realtà di conflitti sociali mascherati). Neppure la polemica sistematica è più concepibile in una società strutturata pluralisticamente. Tutte le chiese, anzi, tutte le religioni in generale, sono ugualmente minacciate dalla secolarizzazione. Non si tratta perciò solo di cercar di coesistere pacificamente, bensì di far fronte insieme al problema drammatico della sopravvivenza di segni del sacro nella nostra civilizzazione. I medesimi presupposti culturali rendono anacronistico l’atteggiamento di sdegnoso rifiuto o di concorrenza della chiesa nei confronti del mondo. L’umanità dell’uomo è così gravemente minacciata che si rende assolutamente improrogabile il fronte comune di tutte le varie forme di umanesimo, religioso o laico. Il dialogo, dunque, come forma normale di approccio tra sistemi religiosi e ideologici diversi, sembra aver preso il posto della guerra, calda o fredda che sia.

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È innegabile che il dialogo appartiene ai grandi temi, se non addirittura ai miti, della cultura contemporanea. Un filosofo è giunto a fare del principio dialogico un imperativo etico analogo all’imperativo categorico di Kant: «L’indiscutibile (ciò che non posso sottoporre alla discussione altrui) è il dover discutere» (G. Calogero). Ma prima che la chiesa si lasci prendere dall’euforia del dialogo è bene che ascolti le voci critiche che si fanno sentire all’interno della medesima cultura. L’accusa principale rivolta al dialogo è quella di creare un muro di falso ottimismo, che ottunde il senso della condizione umana.

I "maestri del sospetto" ci hanno fatto aprire gli occhi sull’abisso esistente tra il linguaggio e la realtà. Marx ha denunciato la differenza che esiste tra le relazioni sociali apparenti e la realtà sociale che esse nascondono. Non basta migliorare le relazioni, se queste servono solo a consolidare il rapporto reale di sfruttato e sfruttatore, o magari a rendere la schiavitù indolore. Se un datore di lavoro dice ad un operaio che egli opprime: «Ho simpatia per le tue idee», soggettivamente può ben credere a quello che dice, ma obiettivamente le sue parole sono un inganno e una mistificazione. Per quanto affermi la sua simpatia per l’operaio, resterà un suo nemico. Il dialogo

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è alienante se distoglie dalla lotta per il rovesciamento delle strutture oppressive.

Freud, da parte sua, ha insegnato a riconoscere che molto spesso il pensiero cosciente ed espresso e la realtà psichica che si cela dietro le parole pronunciate non coincidono. Espressioni di amore, a livello conscio, possono essere il travestimento che assume un profondo odio subconscio per evitare le censure del Super-io. Come possono dunque gli uomini dialogare, se si appoggiano sulle sabbie mobili della vita psichica inconscia?

Anche l’uomo della strada ha imparato a diffidare del linguaggio, a distinguere tra ciò che il linguaggio rivela e ciò che nasconde. Ha dovuto impararlo a proprie spese, per essere stata vittima tante volte dei superlativi del linguaggio pubblicitario e delle promesse vuote dei discorsi politici.

Lentamente, per la critica proveniente da versanti differenti, è maturata la convinzione che la comunicazione tra gli uomini è giunta ad un punto di rottura. Se si stacca il linguaggio dall’azione e non si osserva che questa, apparirà che le parole non hanno aggancio con la realtà. Talvolta lo scollamento è così evidente che si potrà forse arrivare a condividere il sentimento che ha descritto Camus nei confronti di alcuni esseri umani che trasudano disumanità:

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«In certe ore di lucidità, l’aspetto meccanico dei loro gesti, delle loro pantomine insignificanti, rende insulso tutto ciò che li circonda. Non riusciamo ad ascoltare ciò che dice un uomo al telefono dietro a una parete di vetro, ma possiamo solo osservare il suo gesticolare banale e insignificante. Ci si chiede perché è vivo. Questo malessere che si prova di fronte alla disumanità dell’uomo, questa incalcolabile delusione che si pervade quando ci troviamo innanzi all'immagine di ciò che siamo, questa "nausea", come la definisce uno scrittore contemporaneo, è l’Assurdo» 12.

Quello che è stato chiamato appunto il "teatro dell’assurdo" ha cercato di trasmettere, con una forte impressione di shock, una visione della realtà dominata dalla difficoltà di farsi capire. Eugène Ionesco ha portato all’estremo l’attacco contro il linguaggio della società, che non è altro che clichés, formule vuote, slogans. Nella sua commedia più nota, La cantatrice calva, mette in scena i luoghi comuni tratti da un libro di conversazione elementare in lingua straniera. Se li scambiano due coppie di sposi inglesi, gli Smith e i Martin. Il gioco con questi frammenti di frasi vuote e fossilizzate può sembrare una caricatura spinta fino

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al parossismo; in pratica viene ad essere una tragedia del linguaggio, in cui prende corpo la tragedia più grande dell’esistenza umana senza più scopo e senso. Vuol essere un grido contro il livellamento dell’individuo nella società, l’accettazione di slogans da parte delle masse, le idee pre-confezionate che progressivamente mutano le nostre società di massa in una collezione di automi diretti da una centrale. «Gli Smith ed i Martin — commenta lo stesso Ionesco — non sanno più parlare perché non sanno più pensare; non sanno più pensare perché non sanno più commuoversi, non hanno più passioni, non sanno più esistere; possono "divenire" chiunque, qualunque cosa, giacché non esistendo, sono gli altri, il mondo dell’impersonale... e sono intercambiabili» 13.

In questo mondo anestetizzato dal linguaggio anche i conflitti sono più apparenti che reali, dal momento che gli uomini sono murati nel loro soggettivismo, incatenati ad orbite destinate a non incontrarsi mai. «Se tu riempissi una nave di corpi umani tanto da farla scoppiare, la solitudine in essa sarebbe tanto grande da trasformarsi in ghiaccio...; il nostro isolamento è così grande che perfino il

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conflitto è impossibile», diceva B. Brecht in La giungla della città, uno dei suoi primi drammi.

I drammaturghi dell’assurdo si sono resi interpreti dell’esperienza dell’uomo contemporaneo di essere condannato alla solitudine, incapace di contatto con altri esseri umani. Il dialogo non ha allora neppure il carattere mistificatorio denunciato dalla critica sociale e da quella psicologica; è solo una pantomina in cui il lazzo confina con la smorfia tragica. Del resto, che dialogo potrebbe esistere tra gli uomini, se essi non sono che larve che si sfiorano appena nel breve arco di tempo che è loro concesso tra il muco della cellula fecondata e il verminaio del sepolcro?

Se raccogliamo queste voci non è per un proposito di screditare il dialogo, una conquista che vorremmo definitiva per la convivenza umana. Prendiamo in considerazione le critiche al dialogo perché vogliamo scoprire a quali condizioni esso è segno di un mondo nuovo, e non un astuto travestimento del mondo senza Spirito. Dai critici del dialogo ci lasciamo dire che non può essere un dialogo autentico quello che lascia l’uomo vittima dell’altro uomo, in balia dell’irrazionale, alla deriva in rapporto al senso dell’esistenza. Il dialogo deve essere unito alla guarigione dell’uomo e dei

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suoi rapporti sociali. Il parlare che si faceva a Babele non era dialogo. Se la chiesa entra in dialogo è perché crede che Babele è sconfitta. Ma non deve solo crederlo o dirlo: deve anche mostrarlo.

Queste annotazioni aiutano a precisare che senso abbia il dialogo promesso dalla chiesa. Se vuol rendere contemporanea la prima Pentecoste non può limitarsi ad essere una tattica aggiornata. Deve essere piuttosto una fondazione nuova della comunità, l’emergere di un nuovo tipo di umanità: quella che può capirsi perché sa costruire insieme la città e, inversamente, può costruire insieme la città perché sa capirsi.

Un "tu" per l’incontro

Il dialogo non è un modo educato di confrontare le ideologie, bensì ciò che capita nella storia a seguito dell’incontro concreto di un uomo con un altro uomo. Sarà bene non dimenticare, a questo proposito, che la chiesa cattolica è stata messa sulle vie del dialogo da un uomo, papa Giovanni. Egli non ha cominciato con l’elaborare a tavolino una dottrina sul dialogo, ma è stato un uomo di dialogo con tutta la sua vita, non rifiutandosi mai all'incontro

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con altri uomini. L’ecumenismo di papa Giovanni — è stato detto — era lui stesso. La paternità nei confronti di tanti cristiani, anche appartenenti ad altre chiese, non se l’è guadagnata con definizioni dogmatiche: semplicemente era padre. La sua figura ha potuto avere l’irradiamento che ha avuto perché è apparso come l’epifania di un’esistenza evangelica, di cui le beatitudini costituiscono il primo capitolo e i «frutti dello Spirito» l’ultimo. Così, mentre egli si proponeva solo di aprire una finestra per far entrare aria fresca nella chiesa, ha provocato una svolta epocale. Ha inaugurato uno stile di incontro che si riallaccia a quello che la chiesa ha già conosciuto nella sua prima Pentecoste.

La venerazione popolare gli ha ricamato attorno la nota aureola di "papa buono". Papa Giovanni si sarebbe schermito se l’espressione fosse stata intesa come un omaggio alla sua bontà naturale. Ma avrebbe accettato i segni di rispetto se in essi avesse visto una considerazione speciale per la vita evangelica. Ciò che egli ha inteso vivere, infatti, è nient’altro che la vita resa possibile dall’incontro personale col Cristo, che apre all’incontro con gli altri uomini. Nei racconti evangelici l’incontro con Gesù è sempre un nodo di alta tensione psicologica e narrativa. Lo sguardo che Gesù

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rivolge è insieme offerta d’amore e invito alla sequela, mediante una rottura completa con l’esistenza precedente. Il processo della conversione è drammatico: la persona che la vive ha l’impressione di venir distrutta dall’incontro con un "tu" che non si lascia afferrare se non da chi gli si arrende con amore. L’esistenza che ne deriva è una cosa nuova, indeducibile dalla precedente: «Se il chicco di frumento non cade in terra e non muore, resta solo; se muore, porta molto frutto» (Gv 12,24).

L’analogia più vicina alla conversione evangelica la troviamo nell’esperienza che è dato di vivere nel primo amore. È un incontro travolgente in cui il "me stesso", già formatosi e come tale riconosciuto nei rapporti sociali abituali, si perde a contatto con un imprevedibile "tu" per formare il "noi". Tutto quello a cui ha rinunciato accettando la disintegrazione della sintesi personale precedente gli viene restituito mediante un "io" più ricco, che non può più capirsi se non in rapporto al nuovo "noi"; le sue virtualità nascoste gli vengono rivelate; l’euforia esaltante rende possibile un’espansione spontanea della personalità che nessuna tensione puramente volitiva sarebbe mai in grado di produrre.

Un poeta ha creato un racconto che può essere letto anche come una parabola dell’esistenza

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evangelica aperta all’incontro: è Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry 14, lo scrittore che si è detto convinto che il solo vero lusso nella vita è quello di «creare dei legami». Col piccolo principe ci fa rivivere, situandolo nella cornice di una fiaba, un processo quotidiano e familiare: la crescita in umanità attraverso l’incontro. Il punto di partenza è costituito da un lato d’esperienza appunto quotidiana, quella cioè di uomini estranei e lontani gli uni dagli altri. Il racconto ci rappresenta ognuno su un pianeta, esposti all’abisso del vuoto attorno, ognuno con le sue occupazioni serie o farsesche, con le sue manie, ognuno prigioniero di se stesso. Non dipendendo che da se stessi, gli uomini si ingegnano autonomamente a dare senso e scopo alla vita. Ognuno sceglie lasciandosi guidare dalle proprie inclinazioni: il re sceglie il potere; il vanitoso opta per un ridicolo autoincensamento; un terzo si abbandona all’attività sfrenata, fine a se stessa; un altro si insedia nel mondo dei conti, cioè nella caccia al possesso; un altro ancora si aliena nello studio della natura. C’è anche chi, come il lanternaio, ha scelto di «obbedire alla consegna», trovando nel servizio la sua dignità; ma resta ugualmente solo

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perché si trova di fronte alla pura consegna, senza incontrare colui che dà la consegna. Ognuno si identifica con il compito che si è scelto o che gli è stato dato, e questo fa di loro delle "persone serie". Nessuna apertura per l’invisibile e l’imprevedibile, nessuno spazio sul proprio pianeta per un altro essere umano. Ognuno sta al centro del mondo e non può abbandonarsi al gioco casuale degli incontri.

Al piccolo principe, anche lui solo nel suo pianeta con la consegna di tenerlo in ordine, era stato inviato un "tu": la rosa. La sua risposta è goffa, inadeguata. Sa accudire ad essa, come prima ha imparato a estirpare le erbacce e a pulire il vulcano. Ma il servizio, il dovere, non sono sufficienti; ed egli si sente «troppo giovane per amarla». Le piccole astuzie della vanità di lei lo sconcertano. Di fronte alla difficoltà sceglie la fuga. «Sarà difficile persuadermi — dice R.M. Rilke — che la storia del figlio prodigo non sia la leggenda di colui che non voleva essere amato».

Durante la fuga una serie di avventure prepara il piccolo principe al ritorno a casa, maturandolo per l’incontro. Dapprima la visita agli asteroidi lo istruisce, scomponendogli in diverse immagini le situazione dell’uomo solo. Poi la visita alla terra, dove vuol «incontrare

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gli uomini». Non si illuda, lo ammaestra il serpente: si è soli nel deserto, ma si è soli anche tra gli uomini. Finalmente il punto culminante, che segna la svolta del racconto: l’incontro con la volpe. Due pianeti si toccano senza distruggersi, bensì arricchendosi reciprocamente. Ognuno dà e riceve; dopo l’incontro non saranno più gli stessi di prima. La volpe guadagna la fiducia verso l’altro essere, «conoscerà un passo che non la farà rintanare sotto terra»: è «addomesticata». Il piccolo principe guadagna un legame che lo libera dalla sua incapacità di aprirsi all’incontro e arriva così alla decisione di ritornare sul suo pianeta per vivere l’avventura della reciprocità dell’amore. All’ultimo appuntamento la volpe gli confida il segreto: «Non si vede bene che con il cuore; l’essenziale è invisibile agli occhi». E ancora: «Tu sei responsabile per la tua rosa: sei responsabile per sempre di ciò che hai addomesticato».

Nel suo cammino di ritorno il piccolo principe incontra l’aviatore caduto a sua volta nel deserto e sa risvegliare in lui l’infanzia, cioè lo sguardo del cuore per l’invisibile. Fragile ma invincibile, è pronto ormai per l’incontro con il "tu" che l’aspetta nel suo pianeta.

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Il mondo, un "tu" per la chiesa

Il ricorso alla poesia non intende essere una evasione. I veri poeti hanno il potere miracoloso di lavare il nostro sguardo per permetterci di vedere i colori della realtà che non riescono a filtrare attraverso le squame del quotidiano. Per quanto il salto possa apparire audace osiamo applicare alla chiesa intera l’avventura dell’incontro. Il grande rivoluzionamento avvenuto nella chiesa cattolica con papa Giovanni e il concilio non è tanto l’adozione del dialogo, quanto la disponibilità all’incontro. I cristiani hanno riscoperto che la vita e l’insegnamento di Gesù li sfida a muover fuori dal salotto buono che si sono scelti per dimora, in direzione del mondo: per esporsi all’interscambio con esso, senza alcuna chiara specificazione di dove questa crescita li condurrà. Si sentono chiamati a rinunziare alle sicurezze delle strutture del sistema ideologico-dottrinale per riacquistare un altro tratto dello spirito d’infanzia: quella temerarietà del bambino che non è mai così sicuro come nel pericolo.

La temerarietà della chiesa conciliare è consistita nel rinunciare a quell’equazione tra chiesa e mondo che era sorta in epoca di cristianità. L’identificazione aveva continuato a

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rimanere soggiacente alle nostalgie restaurative, alla mentalità di assedio, alle tattiche di concorrenza alla società civile («fare come e meglio degli altri»). Ora, rinunciando alla pretesa di annettersi il mondo e accettandolo nella sua alterità, la chiesa si trova di fronte un mondo come un "tu" che la sollecita all’incontro. La chiesa che — se così si può dire — è stata costruita persona dall’incontro col "tu" di Cristo, il suo primo e unico amore, ha conseguito la maturità necessaria per stabilire un rapporto interpersonale adulto con il mondo. Esso non le appare dunque come l’avversario con cui discutere utilizzando la tecnica più raffinata del dialogo, bensì come il partner con cui costruire un "noi" più grande.

Al documento conciliare dedicato alla missione della chiesa è stato dato il titolo: La chiesa nel mondo contemporaneo. Parlando di una chiesa nel mondo si voleva riconoscere l’alterità di questo. L’altro documento fondamentale, la Lumen gentium, che considera la chiesa in se stessa, utilizza una formula teologicamente più elaborata, definendo la chiesa «sacramento del mondo». Dunque la chiesa è "altra" dal mondo come il sacramento è "altro" rispetto a quello che significa, così come la cena eucaristica è "altra" rispetto all’ultima cena di Gesù e al banchetto della fine dei

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tempi. Il mondo perciò non è "altro" nel senso in cui le tenebre sono "altro" dalla luce, la carne dallo spirito o il mondo di quaggiù "altro" dal mondo di lassù. Questi dualismi, che troviamo nella bibbia stessa, valgono a separare ciò che viene da Dio da ciò che lo contrasta, non la chiesa dal mondo. Ciò che contrasta l’opera di Dio si può trovare tanto nella chiesa quanto nel mondo, mentre ciò che la favorisce può trovarsi nel mondo così come nella chiesa. Questo è il senso della dottrina dei "segni dei tempi", elaborata ugualmente dal concilio. La chiesa non va al mondo per portargli lo Spirito: ve lo trova già all’opera. Deve saperlo riconoscere e lasciarsene animare.

Una chiesa che si mette per la via dell’incontro del mondo come del suo "tu" ha un approccio diverso alle religioni non cristiane. Non le vede più come l’opera di Satana e le rivali che intralciano la propria missione. È condotta piuttosto a riconoscere che la loro istanza fondamentale non è diversa da quella della chiesa. Se la chiesa è chiamata ad essere il "sacramento del mondo", cioè colei che nel mondo tiene alta la fiamma del "sacro" perché il mondo non smarrisca il suo cammino, non può sentire come concorrenziale l’esperienza del sacro che le altre religioni permettono di

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fare. La fonte di questo "sacro" sarà naturalmente diversa, a seconda che si tratti di religioni storiche — che si riferiscono cioè a una "storia della salvezza" avvenuta in un determinato periodo storico, come è il caso del cristianesimo, del giudaismo e dell'islamismo— oppure di religioni naturali, in cui il sacro è identificato in esperienze della vita umana e del cosmo. Ciò non toglie che la causa di tutte le religioni sia comune: assicurare uno spazio per l’adorazione, senza la quale l’uomo avvizzisce.

Tanto meno una chiesa che si sente mandata all’incontro con il mondo può sentire fastidio per la presenza di altre chiese cristiane. La divisione tra i cristiani è certamente un’opera degli uomini contraria allo Spirito, il quale attraverso il movimento ecumenico ha destato il desiderio dell'unione e continua a sospingere la chiesa verso l’unità (cfr. il documento conciliare sull’ecumenismo). Ma mentre si riconosce l’aspetto di peccato e di scandalo costituito dalla divisione, non bisogna chiudere gli occhi sulla possibilità che Dio faccia servire la divisione stessa per effondere la sua grazia. Le divisioni hanno impoverito tutta la chiesa; ma è anche vero che le comunità sorte dalle divisioni hanno portato con sé qualcosa del patrimonio cristiano comune. Anche il cattolico

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perciò non può più negare agli altri raggruppamenti cristiani il carattere di chiesa. Se sono chiesa, sono anch’essi "sacramento del mondo".

La chiesa che va incontro al mondo ha coscienza di non andarci come la sposa che S. Paolo descriveva liricamente come «tutta splendente, senza macchia o ruga, santa e immacolata» (Ef 5,27). Essa si sente simile piuttosto alla "casta meretrice" di cui parlavano i padri della chiesa. Questa umile ammissione della propria realtà non costituisce un impedimento per la sua missione, dal momento che la missione della chiesa consiste non nel fare il mondo simile a sé, ma piuttosto nell’incontrare il mondo per costruire insieme la città in cui possa abitare l’uomo creatura dello Spirito.

L’incontro e i frutti dello Spirito

Nella lettera ai Galati S. Paolo ha descritto la trasformazione interiore che avviene nell’uomo il quale, all’impatto con la parola di Dio, entra nel regno della libertà e della carità cristiane. Lo Spirito lo porta a ripudiare le opere che sanno di morte, prodotte dall’uomo chiuso in se stesso, e fa maturare in lui i suoi

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frutti: «carità, gioia, pace, longanimità, spirito di servizio, bontà, fiducia negli altri, dolcezza, padronanza di sé» (Gal 5,22-23). Anche le varie forme d’incontro a cui oggi la chiesa è condotta dalla Pentecoste maturano frutti dello Spirito.

Il primo è una migliore conoscenza di sé e dell’altro. Istintivamente si rifugge dall’incontro perché esso sembra portare la morte delle proprie certezze, la distruzione di quanto dà sicurezza. Offrendo all’altro una mano sprovvista di guanto, ci si sente esposti, indifesi, vittime di ogni possibile arbitrio. Eppure proprio quando la chiesa accetta di andare, secondo il comando di Gesù, come agnello in mezzo ai lupi, rinunciando al braccio secolare e lasciando a casa i "sillabi" e l’aspersorio per gli esorcismi, trova veramente se stessa. L’incontro con l’altro — sia esso il fratello cristiano di un’altra chiesa, il credente di un’altra religione, o l’uomo che realizza la sua parabola di vita mondana — libererà la chiesa dall’inevitabile unilateralità dei propri punti di vista. L’abbandono dei propri giudizi previ, che spesso non sono che pregiudizi, permette di conoscere l’altro nella sua verità.

Non è forse un frutto dello Spirito quella gioia che invade i cristiani di chiese differenti, quando, dopo secoli di polemiche in cui non

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si parlava all’altro, ma si parlava dell’altro secondo il cliché di comodo ché se ne era fatto, scoprono di avere l’identica fede nel Cristo e l’identica missione nel mondo? Oppure quel senso di giovinezza e di leggerezza che sente la chiesa dopo aver accettato l’alterità del mondo? La chiesa si rende conto che non perde il suo senso se accetta come partner un mondo con una propria autonomia di fini e di mezzi; al contrario, ritrova la sua missione ingrandita di tutti i valori che il mondo ha maturato in secoli di storia. Il mondo, a sua volta, non si sente minacciato da una chiesa che ha rinunciato al sogno segreto di restaurare la cristianità; rifiuta una tutrice, ma non è detto che rifiuti un "sacramento".

Frutto dello Spirito nell’incontro è anche quel senso gioioso di crescita che afferra chi si lascia provocare dall’altro e lo accetta nella sua diversità. Una sintesi del passato dovrà essere abbandonata, ma l’orizzonte sarà più ampio. La nostra epoca può già indicare a dito alcuni cristiani che, aprendosi al mondo, non hanno perduto la fede cristiana della chiesa della tradizione, bensì l’hanno arricchita. Basti fare i nomi di Teilhard de Chardin, per l’incontro col mondo scientifico, e di Dietrich Bonhoeffer, per l’incontro col mondo secolare. E ambedue sono stati, nella loro vita cristiana,

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uomini che diffondevano attorno a sé lo spirito delle beatitudini. Tanti cristiani di oggi sono loro debitori di speranza. Da questi uomini, sereni cittadini del mondo e della chiesa, sono stati animati a mettersi alla scoperta del mistero nascosto in quelle parole di Gesù a Natanaele che rifiutava a priori l’incontro («Che cosa può venir fuori di buono da Nazareth?») e che dall’incontro è stato poi completamente trasformato: «Vedrai cose migliori di queste!» (Gv 1,50). Come la conversione evangelica, anche l’incontro esige la disponibilità a lasciarsi portare al di là dei confini conosciuti. È una prospettiva che può dar la vertigine; ma contro le vertigini il vangelo fornisce la parola delle beatitudini.

L’incontro fatto istituzione: la comunità

Quanto siamo venuti dicendo può aver creato l’impressione che vogliamo sfuggire alla situazione attuale del mondo per la tangente dell’utopia. È bene ricordare, a coloro che annunciano realtà totalmente nuove, che possono sfuggire alla pura declamazione retorica solo a condizione che restino agganciati realisticamente alla realtà vecchia. Ora, la realtà nella quale ci troviamo è quella di una società

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gravemente ammalata. È lacerata dalla divisione in classi sociali. Il fenomeno in casa nostra può essere più o meno ben camuffato. Ma basta guardare la situazione sociale attraverso la lente d’ingrandimento costituita dai paesi del Terzo mondo per renderci conto che siamo tutti presi dentro la lotta di classe che oppone sfruttati e sfruttatori. La nostra è una società di sciacalli, dominata com’è dalla legge della concorrenza — che avvantaggia il più forte —, dalla legge della domanda e dell’offerta — che in una società inegualitaria permette solo di razionare i poveri a vantaggio dei ricchi —, dalla legge del prestito ad interesse — mediante cui un individuo può arricchirsi all’infinito del lavoro altrui —. Le urla di dolore non sono proporzionali ai mali, perché la società è anestetizzata. Determinismi sociali sottili tolgono all’individuo la riflessione personale, la responsabilità, l’iniziativa. Folle enormi vengono condizionate da una pubblicità che le manipola. L’uomo non vive, ma è vissuto, preso in un sistema di decisioni che gli sono interamente imposte senza che neppure lo avverta.

Sempre più si afferma la convinzione che non è possibile uscire dalla situazione attuale mediante un riformismo qualsiasi. Bisogna creare un ordine umano nuovo. Non basta una

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rivolta, ci vuole una rivoluzione. Le rivolte fanno passare da uno squilibrio ad un altro; la rivoluzione ha l’ambizione di far superare lo squilibrio. Non si limita a far pendere il piatto della bilancia economica o politica dall’altra parte, ma crea una civiltà nuova che cambi tutti i rapporti, rendendo così possibili relazioni autentiche tra le persone.

La storia dell’umanità è fatta di molte rivolte ma di poche rivoluzioni. Il vangelo pretende di essere una di queste: una sovversione totale di ciò che aliena l’uomo. Annunciare oggi la Pentecoste vuol dire intervenire nel fitto di una ricerca di un ordine antropologico-sociale-spirituale nuovo. Non tutti gli spiriti critici sono caduti nella disperazione dell'assurdo; non tutti hanno optato per la pura anarchia. Esiste un movimento polarizzato sulla ricerca di una società in cui l’uomo possa esprimersi e dominare il suo destino. Esso si organizza per lo più intorno ad alcune idee-chiave, come "partecipazione", "autogestione", "comunità di base".

Questo movimento comunitario sembra canalizzare i bisogni più vivi del nostro tempo. Esso risponde alla necessità di ordine affettivo degli individui. Nella nostra civilizzazione gli uomini e le donne sono chiamati a far parte di gruppi monovalenti che non investono

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la persona nella sua interezza, ma solo una parte periferica del loro essere o un aspetto del loro agire. L’appartenenza a un gruppo affettivamente ricco, centrato su relazioni interpersonali gratificanti e stabili, è un’esigenza primaria per persone che non si sentono mai accettate per quello che sono. Nell’ambiente sempre più duro e freddo della città chi vuol salvare la propria affettività ha bisogno di trovare da qualche parte un ambiente caldo in cui potrà dare e ricevere, o piuttosto darsi e ricevere l’altro in uno scambio interpersonale. È questo uno dei motivi, abbiamo visto, che assicurano il successo ai gruppi di preghiera del rinnovamento pentecostale.

L’ambiente comunitario non risolve solo i problemi dell’individuo. Esso permette di dar corpo ad un’alternativa alla società dei consumi, tecnicizzata e centralizzata, nella quale ci troviamo a vivere e nella quale affondiamo sempre di più, giorno dopo giorno. La comunità contiene in sé le premesse per creare mentalità nuove. Questo è infatti il nodo del problema. Le strutture attuali della società modellano le mentalità nel senso dell’individualismo, del profitto, del primato della crescita economica. Il sistema si crea così i suoi fedeli servitori, dando loro la convinzione, per di più, di vivere "moralmente", per il fatto che

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vivono secondo i valori che regolano il sistema. Solo l’ambiente comunitario, formando mentalità nuove mediante altre strutture, può diventare il vivaio di embrioni di umanità nuova.

Il movimento comunitario è una delle caratteristiche salienti del nostro tempo. Famiglie, celibatari, giovani aspirano a superare il quadro di quell’ambiente spersonalizzante che impongono le strutture tradizionali. Vogliono evadere dalla fabbrica di "buoni cittadini", che si rivela sempre più come fabbrica di larve di uomini. Accettano il rischio del superamento della proprietà privata per vivere nell’interdipendenza collettiva. Cercano uno stile di convivenza che abolisca la ricerca competitiva del potere, del prestigio, del possesso. La limitazione dei bisogni, specialmente di quelli creati artificialmente dalla società dei consumi, rende possibile pensare a cambiare la qualità della vita.

In genere questi germi che spuntano ovunque sono troppo fragili per resistere a lungo nel gelo in cui vengono a trovarsi. Ma se la chiesa ha come compito quello di riconoscere i segni dei tempi, e per discernerli è stata dotata dello Spirito, non dovrà dedicare un’attenzione tutta particolare a questi fragili germogli?

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È lo Spirito di Gesù, infatti, che le fa riconoscere nella comunità l’incontro diventato istituzione. Il movimento comunitario in tutte le sue espressioni convoglia i valori che il cristianesimo proclama propri dell’esistenza evangelica. L’impegno per la comunità dovrà essere allora primario per la chiesa di oggi. Forse è il momento di ricordare che la maggior parte del tempo del suo ministero Gesù non l’ha passato ad elaborare un sistema dottrinale o a polemizzare con le gerarchie religiose del suo tempo, ma a formare una comunità di fratelli. La più piccola realizzazione nel campo comunitario varrà ad annunciare la buona novella più di tutti i discorsi e gli scritti.

Uno stimolo a un forte impegno in senso comunitario ci viene dalle chiese giovani e dinamiche del Terzo mondo. Raccogliamo solo una voce, quella del coraggioso don Leonidas Proaño, vescovo di una poverissima diocesi dell'America centrale. A chi gli domandava quali fossero le sue preoccupazioni dominanti come vescovo, rispondeva: «La promozione umana, l’evangelizzazione, la creazione di comunità di base», precisando che questi tre scopi devono essere perseguiti simultaneamente. Le comunità di base sono di fatto il fulcro

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della sua azione pastorale. Così le descrive in suo scritto recente 15:

«Un nucleo di persone capaci di conoscersi le une le altre e di conoscere l’ambiente che le circonda. Perché un nucleo di persone possa diventare un centro vitale, la prima condizione è che queste persone siano esse stesse vive. Noi uomini formiamo facilmente delle agglomerazioni ci agglomeriamo sul luogo in cui è capitato un incidente, oi agglomeriamo attorno all’oratore politico che offre al popolo la luna e le stelle; ci agglomeriamo in chiesa per sentire la messa; ci agglomeriamo per vivere in quartieri e villaggi; ma non ci conosciamo, e se ci conosciamo è solo di nome ed esteriormente. Un nucleo di persone comincia ad essere nucleo e comincia ad essere vitale quando inizia una conoscenza mutua, quando sono coltivate relazioni interpersonali capaci di creare un’amicizia autentica.

E perché un nucleo di persone sia il centro vitale e vitalizzante d’una comunità umana più larga, deve essere un nucleo aperto. La comunità ecclesiale di base è il nucleo di persone che la loro fede spinge a impegnarsi in una piccola circoscrizione geografica, in una cellula sociale elementare e di dimensioni ristrette: quartiere, villaggio, parrocchia.

Questo nucleo di cristiani, per la loro

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composizione pluralistica e per la fissione che è chiamata a compiere, è la concretizzazione in miniatura della chiesa. Questi cristiani vivono la loro fede nel Cristo totale, Capo e membra, in maniera tale che diventano un focolare di diffusione evangelica, il sale che dà sapore alla vita, la città costruita sulla montagna: la sua sola esistenza evangelizza. Ma una tale comunità diventa necessariamente missionaria, attivamente evangelizzatrice, radicalmente impegnata nella promozione integrale dell’uomo. Una tale comunità deve necessariamente essere feconda di ministeri: catechisti, insegnanti, proclamatori della Parola, musicisti, difensori della giustizia, amici dei poveri, diaconi e preti».

È esagerato pensare che una comunità di questo tipo non avrà bisogno di parlare della Pentecoste? Essa la mostrerà. Una tale comunità e l’epifania dell’incontro tra gli uomini reso possibile dallo Spirito di Gesù.

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III

LO SPIRITO È RECIPROCITÀ

«Oggi, o Dio, hai portato a compimento il mistero pasquale

e su coloro che hai reso figli di adozione in Cristo tuo Figlio

hai effuso lo Spirito Santo,

che agli albori della chiesa nascente

ha rivelato a tutti i popoli il mistero nascosto nei secoli,

e ha riunito i linguaggi della famiglia umana

nella professione dell’unica fede»

(Messa del giorno di Pentecoste, Prefazio)

Un rimescolamento di carte

Il giorno di Pentecoste il nucleo originario della comunità cristiana è stato battezzato chiesa missionaria. Questa affermazione non la ritroviamo tale e quale nel racconto degli Atti degli Apostoli. Ve la ricaviamo facilmente, però, se consideriamo gli artifizi letterari a cui ha fatto ricorso l’autore. Come protagonisti

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del miracolo delle lingue ha elencato i popoli più eterogenei, per indicare che il fatto cristiano riguardava «tutte le nazioni che sono sotto il cielo» (At 2,5). S. Luca ha disposto inoltre il piano dell’intero libro degli Atti in modo che fosse un’illustrazione delle parole di Gesù prima dell’ascensione: «Sarete miei testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e fino ai confini della terra» (At 1,8). Così la linea geografica, che nel suo vangelo saliva progressivamente dalla Galilea a Gerusalemme, dove Gesù aveva finito il suo viaggio, si allarga ora a centri concentrici da Gerusalemme fino alla mitica Roma, là dove al povero giudeo della Palestina sembrava davvero che il mondo diventasse senza confini.

Portare l’annuncio di Gesù nel mondo intero: il progetto aveva già in sé quanto basta per fargli attribuire il premio Nobel per la temerarietà. Ma una volta proposto, il buon senso si aspetterebbe quantomeno che il gruppo che tenta l’avventura parta ben equipaggiato: che si organizzi, che divida bene i compiti, che si strutturi con chiarezza. Una leggenda tardiva fiorita intorno al credo cosiddetto "apostolico" ha immaginato che i dodici apostoli si fossero riuniti a Gerusalemme per dividersi il mondo in dodici parti, partendo poi ognuno in una direzione diversa. Ecco, appunto

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ci si aspetterebbe qualcosa del genere: un programma, un ordine, una disciplina di gruppo.

Dobbiamo disilluderci: la chiesa non parte per la missione in acie ordinata come le coorti romane che conquistavano il mondo. Parte invece alla garibaldina. Inizia addirittura con un proclama anarchico. Così infatti suona la profezia di Gioele che Pietro cita nel suo discorso di Pentecoste. Dichiara venuto il tempo profetizzato in cui Dio avrebbe «diffuso il suo Spirito su ogni carne»:

«Allora i loro figli e le loro figlie profetizzeranno,

i loro giovani avranno visioni

e i loro vecchi dei sogni.

E io sui miei servi e sulle mie serve

diffonderò il mio Spirito» (At 2,17-18).

Gioele faceva riferimento alle diverse maniere di ricevere le rivelazioni divine conosciute alla sua epoca. Annunciava che nel tempo finale lo Spirito non sarebbe più stato concesso parsimoniosamente attraverso i canali sotto controllo delle autorità religiose, ma avrebbe investito tutto il popolo, sbocciando da ogni parte come una primavera incontenibile. Ne avrebbero beneficiato proprio i più destituiti di potere: i giovani tenuti ancora sotto tutela,

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i vecchi ormai fuori del gioco, gli schiavi e le schiave, il cui statuto civile era fratello di quello degli animali. Finché la profezia rimaneva una promessa non minacciava i sacerdoti del tempio e gli scribi della sinagoga. Ma ora Pietro ha l’aria di volerla prendere sul serio.

La prima cellula del nuovo popolo di Dio sorge sul principio sovvertitore dell’orine, che tutti sono ispirati. Questa concessione del titolo di ispirati è forse una specie di «todos caballeros» barocco, destinato solo a coltivare la presunzione boriosa ma a lasciare in pratica le cose come stanno? L’ipotesi è smentita da quanto conosciamo della comunità cristiana delle origini. Nella giovane comunità il dono a tutti dello Spirito appare come un reale sconvolgimento, sia a livello individuale che di rapporti di gruppo. Per quanto riguarda le persone, sembra che il dono dello Spirito tenda a sprigionare le energie represse, a lasciare finalmente in libertà il bambino, il santo, il poeta e il rivoluzionario che ognuno nasconde in sé. Nella comunità il rimescolamento delle carte introdotto col principio che tutti sono ispirati porta a una valorizzazione piena di ognuno. Il gruppo stesso riceve la sua struttura non da un’autorità sovrimposta, ma dal fatto che ognuno mette il proprio dono a servizio di tutti.

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Il risultato pratico di comunità fondate sul dono dello Spirito a tutti lo possiamo vedere allo specchio delle comunità paoline. In esse i doni dello Spirito si chiamavano, in lingua greca, "carismi". L’entusiasmo della nuova fede non finiva mai di rivelare quegli uomini é quelle donne a se stessi: chi si scopriva un mistico e pregava con fervore fino a forme estatiche; chi un uomo di saggezza e di cuore, e trovava parole sincere per consolare i fratelli; chi avvertiva di avere per gli ammalati una simpatia che diventava empatia e addirittura guarigione miracolosa; chi era toccato dalle parole della Scrittura e le sapeva spiegare agli altri; chi si accorgeva di avere troppi soldi, mentre attorno c’era chi non ne aveva a sufficienza; chi si rendeva conto che in casa sua c’era ancora posto per un orfano rimasto solo.

È vero che il troppo entusiasmo provocava anche qualche sfasatura. Paolo si vide costretto a intervenire con una lettera presso i cristiani di Corinto. I rimproveri maggiori vanno a coloro che si fanno sedurre dai fenomeni vistosi come la glossolalia, lasciando in ombra i doni non appariscenti, ma pur preziosi per la vita della comunità. A tutti ricorda che se c’è una gerarchia tra i carismi, non è quella della vistosità, bensì quella del servizio reso alla comunità. E per farlo capire anche ai più semplici

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porta il paragone ben conosciuto del corpo con le diverse membra. I disordini per "eccesso di vigore" sono piccola cosa. Paolo li corregge, ma senza mettere minimamente in dubbio il principio della comunità carismatica. Invita piuttosto i cristiani a individuare e a valorizzare tutti i carismi nella trama della vita quotidiana.

Qual è la funzione dei carismi nella comunità cristiana? Carisma è l’assolutamente inedito che appare nell'ordinario. L’incontro col "tu" del Cristo nella fede rivela al credente la propria vita come una ricchezza insospettata; l’amore lo spinge a mettere i suoi doni a servizio degli altri. Il carisma è dunque il dono dello Spirito che trasforma il rapporto dell’uomo e fa di ogni cristiano uno strumento di salvezza per l’altro.

Il dono dello Spirito a ognuno ci appare così intimamente relazionato con gli altri due aspetti della Pentecoste che abbiamo considerato precedentemente: la festa e l’incontro. In questa festa, lo Spirito è liberazione di potenzialità imprigionate; rendendo possibile l’incontro, lo Spirito fa cadere le barriere tra gli uomini. Essendo, in questi nostri ultimi tempi, riversato su tutti, lo stesso Spirito crea una reciprocità tra gli esseri umani. L’incontro

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rende possibile lo scambio, la festa lo fa desiderabile.

La Pentecoste inaugura la missione cristiana nel mondo presentando la comunità come il luogo della festa, dell’incontro e della reciprocità tra gli uomini. La missione non è un programma ideologico da realizzare, che domandi buoni cervelli per pensarlo, oratori abili per convincere e persone pratiche per organizzare. La missione cristiana avviene costruendo una casa in cui sia piacevole per tutti abitare. È la casa progettata dalla Sapienza di Dio, il cui piacere è di abitare tra i figli degli uomini (cfr. Pro 8,31).

Le missioni in svendita

Si può rilevare una corrispondenza sorprendente tra l’aspetto missionario della prima Pentecoste e la situazione della chiesa contemporanea. Oggi come allora la missione appare temeraria. Oggi come allora la chiesa si accinge all’evangelizzazione non serrando le fila, bensì riaffermando la propria autocomprensione come comunità carismatica. Oggi come allora la reciprocità appare come la condizione essenziale per la missione. Vediamo singolarmente queste corrispondenze.

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Dopo quasi venti secoli di cristianesimo la chiesa non è più, come alle origini, un uccello sul ramo. Ha fatto il nido nell’albero dell’umanità, e tanto grande da ospitare un terzo della popolazione mondiale. Ma il fatto nuovo è che questo albero ha cominciato a crescere a una velocità vertiginosa. La terra, che nel 1560 ospitava circa 500 milioni di esemplari della razza homo sapiens, nel 1850 poteva contarne già un miliardo e 170 milioni, nel 1950 due miliardi e mezzo e nell’anno 2000 si rallegrerà della presenza piuttosto numerosa di 6 miliardi e mezzo di esseri presumibilmente ancora umani. Attualmente la popolazione raddoppia tre volte in un secolo; aumenta di un miliardo ogni 12 anni.

Se la chiesa si lasciasse spaventare dalle cifre meriterebbe forse il rimprovero di Gesù agli apostoli come «uomini di poca fede». Ma c’è dell’altro. L’idea stessa di missione è in crisi. La parola "missione" — ancor più nella forma plurale: "missioni" — è diventata odiosa a coloro stessi che ne sono i destinatari. Le "missioni" evocano un passato recente della chiesa in cui i missionari erano implicati in solidarietà economiche e politiche che oscuravano l’invenzione evangelica. Il missionario viaggiava, per necessità, nella stessa nave col mercante e col soldato. Oppure, se

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il missionario precedeva, sembrava attirare gli affaristi e i conquistatori, che gli assicuravano poi l’alta protezione. Questi tre tipi di uomini si sono confusi coll’unico ritratto dell’europeo colonizzatore. E perché non si pensi che questa sia una pagina di storia definitivamente chiusa, si ricordino le recenti polemiche circa l’utilizzazione che la CIA americana è accusata di fare dell’attività dei missionari cristiani.

È chiaro che una certa forma di missione, che ha impegnato le energie delle chiese fino a un passato molto recente, è destinata a scomparire. Dalle chiese di missione bisognerà arrivare alla chiesa locale. Il punto di arrivo dovrà essere costituito da comunità autonome, capaci di creatività e di scambio da pari a pari con altre chiese.

Nessuno ha l’ingenuità di pensare che il passaggio dallo stato di dipendenza istituzionale, ideologica ed economica, alla condizione di comunità adulte possa avvenire in modo indolore. Sono da prevedere contrapposizioni dialettiche, conflitti, rotture. Dal mondo delle missioni si alzano voci che perorano una radicalizzazione del processo di transizione. Più o meno consciamente agisce, come modello ideale, il metodo cinese di rottura totale col mondo occidentale, sia in campo politico, che economico

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e culturale, in vista di uno sviluppo completamente autonomo.

Nella conferenza missionaria ecumenica di Bangkok, tenuta nel 1973, si è udita una proposta africana per una "moratoria missionaria". Questa dovrebbe consistere nel ritiro completo per qualche anno dell’aiuto in personale missionario o in denaro straniero, al fine di permettere alle chiese locali di assumere pienamente le loro responsabilità. La proposta mira a creare le condizioni per rendere possibile una decolonizzazione degli spiriti e la liberazione d’un pensiero e di una prassi creatrici. Con l’andare del tempo, infatti, le chiese che sono state oggetto di attività missionaria dall’esterno si sono condizionate allo straniero e a ciò che può offrire. Nell’intenzione di chi ha fatto la proposta della "moratoria missionaria" il ritiro completo e improvviso delle strutture missionarie importate dovrebbe costituire una frustata benefica per risvegliare energie in letargo.

Non minore sensazione ha suscitato, alcuni anni fa, la proposta di Ivan Illich e di 200 sacerdoti stranieri che lavoravano in Cile. In una lettera rimasta famosa questi si domandavano se la loro presenza non impedisse la nascita di una chiesa autenticamente sud-americana e se non stessero facendo, in definitiva,

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il gioco dell’imperialismo. Gli sviluppi successivi delle vicende cilene conferiscono a quelle parole un peso di tragedia incombente.

Al IV sinodo dei vescovi, tenutosi a Roma nell’autunno 1974, sono stati soprattutto i vescovi africani ad avanzare l’esigenza di una emancipazione a breve scadenza dalla tutela in cui le chiese africane si sentono tenute. Le giovani chiese hanno manifestato una nuova coscienza della loro identità, delle loro responsabilità e degli impedimenti che le paralizzano. «Ieri i missionari stranieri — dicono i più radicali — hanno cristianizzato l’Africa. Oggi i cristiani d’Africa devono africanizzare il cristianesimo».

Nel rifiuto della missione importata è implicito il rigetto della cultura dell’occidente, che parassita quelle autoctone. I missionari stranieri sono visti come teste di ponte dei modi di vita e di pensiero della loro civilizzazione, e in definitiva a servizio degli interessi materiali di questa. Agli occhi degli spiriti più critici del Terzo mondo la civilizzazione occidentale agisce utilizzando la tattica del cucù, il quale depone un suo uovo ben mimetizzato nel nido di un altro uccello; uscito dal guscio il cucù getta fuori del nido gli altri piccoli, per assicurarsi tutto il cibo e tutto il posto.

Le proposte di tipo radicale per trasformare

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il sistema missionario hanno, se non altro, l’effetto benefico di interpellare violentemente il cristianesimo occidentale, che troppo a lungo è restato cieco davanti agli aspetti negativi e alienanti della propria azione. Esse inoltre tendono a dar fiducia al dinamismo di un popolo e al suo spirito di creatività. Un aspetto negativo può essere invece lo smarrimento creato tra i fedeli che finora hanno sostenuto le missioni a prezzo di molti sacrifici, vedendo in esse la punta di diamante di una chiesa obbediente al comando di Cristo. Circa le missioni si va diffondendo uno stato d’animo di svendita per chiusura dell’esercizio. Il personale missionario invecchia e diminuisce. Le motivazioni si sfaldano. Ipotesi teologiche nuove (cristiani "anonimi", salvezza senza vangelo, umanizzazione uguale a evangelizzazione...) vengono percepite come alibi per dissimulare le dimissioni. Veramente oggi sembra che lo Spirito che lancia la chiesa per la via della missione la spinga a un’avventura senza prospettive 16.

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Carismi in libertà per una nuova missione

Non manca chi prende l’attuale situazione missionaria come pretesto per fare una predica alla chiesa d’oggi che si apre al mondo. C’è chi l’accusa di non osare più parlare di convertire il mondo a Dio perché non pensa più che a convertirsi al mondo. Qualcuno preferirebbe che si facesse fronte alla situazione serrando le fila, strutturando e organizzando meglio, mettendo in atto tecniche di maggiore efficacia. Ma non è stata questa la scelta del concilio Vaticano II. Esso ha risposto alla sfida di una missione tornata ad essere un progetto temerario mediante un altro rimescolamento di carte, che si riallaccia al discorso di Pietro sullo Spirito concesso a tutti.

I problemi della missione, tanto di quella oltre i confini come di quella all’interno della chiesa, non sono primari. La chiesa fa la missione a seconda della comprensione che ha di se stessa. È proprio questa autocomprensione che è cambiata. E il concilio ha ratificato il cambiamento. Si è lasciato guidare a cose audaci dallo Spirito di Pentecoste. La prima è stata quella di rompere con la tradizione teologica, stabilitasi nei secoli più recenti, secondo cui la chiesa va definita a partire dai vertici gerarchici. Il concilio ha dato il primato alla

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nozione di "popolo di Dio". Non ha voluto con ciò favorire una sterile contrapposizione dei laici ai pastori, bensì dare la precedenza a ciò che è comune a tutti i cristiani. I ministeri sono un servizio particolare all’interno del popolo di Dio, ma non l’unico servizio. Tutti nel popolo di Dio hanno ricevuto un dono e sono chiamati a metterlo a servizio dei fratelli. E a questo popolo tutto intero, dotato di differenti carismi, è affidata la missione evangelizzatrice.

Il recupero dello spazio per i carismi operato dal concilio non è avvenuto senza esitazioni e opposizioni. Alcuni preferivano pensare che i carismi fossero stati un’espressione contingente nella storia della chiesa, limitata alla comunità delle origini, una specie di supplenza temporanea delle forme di autorità gerarchica ancora non ben delineatesi; lo stato di chiesa carismatica sarebbe cessato al tramonto dei tempi apostolici. Costoro temevano che Spirito e carismi volessero dire, come è capitato talvolta, la porta aperta al disordine, al frazionamento particolaristico, all’anarchismo anticostituzionale. Dal lato opposto altri denunciavano il tradimento radicale della volontà di Cristo sulla sua chiesa costituito dalla volontà di trionfalismo, clericalismo e giuridismo,

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che il card. Suenens definiva «trinità diabolica».

La chiesa conciliare si è decisa infine per la fiducia allo Spirito Santo. Il termine "carismi" e i suoi equivalenti sono entrati abbondantemente nella redazione dei testi conciliari. Nella Lumen gentium vien detto che «lo Spirito guida la chiesa per tutta intera la verità, la istruisce e la guida con diversi doni gerarchici e carismatici» (n. 4). Al n. 12 è introdotta la distinzione fra doni straordinari e doni comuni, i quali si devono «accogliere con gratitudine e consolazione». E il decreto sull’apostolato dei laici: «Dall’aver ricevuto questi carismi, anche i più semplici, sorge per ogni credente il diritto e il dovere di esercitarli per il bene degli uomini» (n. 3). Ai vescovi, nel decreto loro riservato, è ricordato il compito di incrementare le espressioni carismatiche: «Devono scoprire con senso di fede i carismi, sia umili che eccelsi, che sotto molteplici forme sono concessi» (n. 9).

È superfluo allungare l’antologia dei testi conciliari relativi allo Spirito e ai suoi doni. La volontà del concilio è chiara: la chiesa ha deciso che la risposta pentecostale alla crisi in cui si trova la sua missione, anzi la sua presenza stessa nel mondo, è quella di liberare i carismi dalla quarantena. La definizione della

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chiesa come comunità carismatica ci impedisce di pensare che il concilio non abbia inteso far altro che mobilitare un maggior numero di effettivi a servizio della missione. È la modalità stessa della missione che cambia. La Pentecoste di oggi, come già quella delle origini, dà la parola ai senza voce. Coloro che non hanno potuto mai parlare perché senza potere, privati di istruzione, o emarginati, ora sono sciolti dal silenzio. Possono parlare con la lingua loro, e non con quella forgiata da altri; possono parlare con le parole e con le azioni, con la contemplazione e con la rivoluzione. E non già per tolleranza o in ossequio alle norme del dialogo, ma perché la chiesa ha bisogno di tutte queste voci insieme per parlare del Cristo.

Oggi si è piantata al centro della coscienza della chiesa la convinzione che la voce che annuncia il Vangelo non è un canto fermo, ma una polifonia. Da parte dei fratelli cristiani di altre chiese lo ricordava il pastore Philip Potter al IV sinodo dei vescovi (1974) citando la Riflessione teologica sull’evangelizzazione elaborata in seno al consiglio ecumenico delle chiese: «Non c’è una sola maniera di rendere testimonianza a Gesù Cristo. La chiesa ha reso testimonianza in differenti tempi, in differenti luoghi e in differenti maniere.

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Ciò ha la sua importanza. Ci sono infatti occasioni in cui si impone un’azione dinamica nella società; ce ne sono altre in cui una parola deve essere pronunciata; altre ancora in cui la testimonianza è resa mediante l’atteggiamento dei cristiani gli uni verso gli altri. Può accadere anche che la semplice presenza d’una comunità di culto o d’un uomo in preghiera costituisca la testimonianza. Queste differenti dimensioni della testimonianza resa all’unico Signore corrispondono sempre a una forma concreta dell’obbedienza della fede. Isolarle le une dalle altre è deformare il vangelo. Sono inestricabilmente legate e solo insieme danno la vera dimensione dell’evangelizzazione. Ciò che importa è che la parola redentrice di Dio sia annunciata e ricevuta».

Tutta la chiesa deve annunciare tutto il vangelo a tutto l’uomo. Questa formula, che traduce la maturazione dello spirito missionario in tutte le chiese, sconvolge la prassi abituale della missione. Non può più avvenire a senso unico. La parola di Dio che la chiesa annuncia è tanto ricca che soltanto la convergenza di tutti coloro che l’annunciano, di tutte le cose annunciate e di tutte le risposte vitali che essa suscita può farne un’ermeneutica che sia meno inadeguata. L’interpretazione totale del

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vangelo avverrà quando tutti gli uomini vi avranno posto mano.

Concretamente ciò domanda alla missione di prendere la via della reciprocità. È la reciprocità la riserva di forze missionarie della chiesa e il segreto della giovinezza del vangelo. Chi porta il vangelo se lo lascia allo stesso tempo annunciare da colui a cui lo annuncia. Gli anziani si lasciano dire il vangelo dai giovani a cui lo hanno trasmesso. Uomini e donne interpretano con la loro reciprocità sessuale la parola di Dio. Le culture, riflettendo il vangelo in modo diverso, lo scindono in un’iride di colori. L’emisfero nord e l’emisfero sud si scambiano il dono di una parola tagliente come una spada a due tagli per la liberazione degli uomini dalla schiavitù cui si assoggettano. La reciprocità domanda il superamento di ciò che la nega. Considereremo quattro forme di questa negazione, che portano nomi brutti come quelli di tumori: clericalismo, paternalismo, mascolinismo ed eurocentrismo. E infatti appartengono proprio alla famiglia dei tumori: tumori che introducono la metastasi nel corpo della comunità uscita dalla Pentecoste.

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Una struttura per la reciprocità

La reciprocità ha bisogno di appoggiarsi su una struttura di base. Questa sarà la comunità fraterna. È necessario però che prima si disintegri una certa forma di comunità gerarchico-clericale ed emergano strutture di comunione. Se domandassimo, come il profeta biblico: «Sentinella, che dici dell’aurora?», avremmo un quadro della situazione piuttosto fosco. L’osservatore ci racconterebbe delle molte contestazioni che si sono succedute all’interno della chiesa in questi ultimi anni: manifesti, prese di posizione contro norme o autorità stabilite, occupazioni di chiese; proteste contro la nomina di vescovi per via autoritaria, senza consultazione del popolo, o contro i poteri dei nunzi pontifici; proteste contro le destinazioni o le sospensioni a divinis di sacerdoti. La nostra sentinella — che può benissimo essere sostituita dalle pagine dei giornali d’informazione — ci parlerebbe della chiesa sotterranea, o di parrocchie fluttuanti, o di attività informali; di intercomunioni, malgrado le precise norme ecclesiastiche. Il fenomeno più preoccupante appare essere il distacco progressivo dalle strutture e dalle istituzioni, quasi un’emorragia silenziosa. La sociologia religiosa dovrà parlare ormai

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di un "terzo uomo", che non rientra né nella tipologia del conservatore, né in quella dei riformatore: è il cristiano indifferente all’istituzione. Le porte della casa e del giardino sono spalancate. Si entra, si esce. Non si sa più bene chi sia in casa, chi nel giardino, chi fuori.

Quanto avviene all’interno della chiesa ha di che turbare anche i meno affetti da angelismo. Non è tuttavia un motivo per credere che la causa della reciprocità sia perduta. Prima che si stabilisca una vera reciprocità è necessario talvolta che intervenga uno spostamento dialettico per interrompere la sopraffazione di una parte ad opera dell’altra. I contraccolpi sono dolorosi; ma sarebbe peggio se ci si accontentasse di riconciliazioni solo di facciata, a spese dei cambiamenti richiesti dalla reciprocità. Se prendiamo il caso della riconciliazione razziale, è chiaro che il negro non può accettare l’offerta di riconciliazione che gli fa il bianco tendendogli la mano mentre continua a tenergli un ginocchio sullo stomaco: prima il bianco deve levare il suo ginocchio, far rimettere il negro in piedi, e poi forse questi gli offrirà la mano per la riconciliazione.

Le forme di oppressione all’interno della chiesa non sono, ben inteso, così drammatiche. Tuttavia è innegabile che lo strapotere

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ecclesiastico-istituzionale per troppo tempo ha tenuto i laici in stato di minorità e di dipendenza, La "paternità" di alcuni aveva messo in ombra la fraternità di tutti. Le tensioni che viviamo oggi sono le doglie della nascita di una comunità fraterna. La reciprocità effettiva, che dovrebbe essere di Casa in una comunità che ha fatto l’esperienza dell’unico Spirito che suscita carismi diversi, non ha ancora preso stabile dimora nella chiesa. Certi rifiuti radicali delle forme attuali di potere non sanno riconoscere, al di là delle deficienze, la necessità di una funzione di autorità. A seguito di questa incomprensione, di mancanza di fiducia e di sostegno, il potere si irrigidisce, usando i mezzi repressivi a sua disposizione. Cerca appoggio nelle masse dei silenziosi passivi che richiedono un ordine garantito e la sicurezza.

Gli sforzi, ancora timidi, per uscire dalla falsa alternativa tra rottura della comunione e irrigidimento autoritario arriveranno un giorno a restaurare la necessaria armonia tra la vitalità comunitaria e un nuovo stile di organizzazione gerarchica. Il risveglio comunitario, del quale abbiamo già parlato, prepara una ristrutturazione della chiesa dalla base. In queste comunità la prassi cristiana non è più concepita come prassi clericale o come costruzione di uno spazio di chiesa, bensì come impegno

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nel mondo per realizzarvi un ordine di giustizia e di comunione in cui Dio abita. Solo la reciprocità vera tra i pastori e tutti i credenti della comunità cristiana può portare a quell’incontro con il mondo che è uno dei fondamentali appuntamenti a cui lo Spirito di Pentecoste invita oggi la chiesa. Perché questo avvenga il movimento comunitario deve sottrarsi alle ambiguità cui è soggetto, come ogni movimento. Qualora le comunità o gruppi di base fossero club omogenei e chiusi, in cui possono farsi udire solo le voci che cantano in coro, non sarebbe più un luogo di reciprocità. Diventerebbero piuttosto la caricatura dell’arca di Noè, in cui si rifugiano quelli che vogliono salvarsi dal diluvio. Ma il movimento comunitario trascende il più sovente il particolarismo; sviluppa capacità di accoglienza, di universalità. E ciascuno è arricchito dal dono degli altri. Il bisogno di comunione e comunicazione non fiorisce solo in iniziative spontanee. Anche a livello d’istituzione si sviluppano forme nuove, come i consigli parrocchiali, i consigli pastorali diocesani, le assemblee nazionali.

Tra i segni più appariscenti della Pentecoste dobbiamo salutare questa sete diffusa di vita comunitaria e la riappropriazione della chiesa da parte di un popolo che aveva finito

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per non essere troppo spesso che clientela del clero. Un riaggiustamento dovrà stabilirsi tra la vita cristiana che rinasce da una più piena valorizzazione di tutti i carismi e le istituzioni che stentano a integrarsi alla vita che sale. L’efficacia missionaria è promessa alla comunità cristiana in cui tutti possono esprimersi nella misura del proprio dono in una fioritura di nuovi ministeri, e possono viverlo in reciprocità con gli altri.

I giovani: un’interpellazione del futuro

La chiesa di Cristo deve evangelizzare non solo lo spazio ma anche il tempo. Essa è invita con la buona notizia alle nuove culture in gestazione, quelle che si stanno preparando in seno alle masse dei giovani. L’esplosione demografica ha portato infatti un fenomeno nuovo per l’umanità: i giovani costituiscono più della metà del genere umano.

Nel corso dell’ultimo decennio siamo stati testimoni della contestazione angosciata della gioventù. I giovani hanno giocato un ruolo determinante nel rimettere in discussione l’ingiustizia sociale e le strutture alienanti della nostra società nell’educazione, nel lavoro e nelle relazioni umane. Spesso la repressione li

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ha colpiti: brutale in alcuni paesi; col guanto di velluto in altri.

La ricerca della giustizia non è l’unico valore di cui la gioventù si è fatta portatrice. Più recentemente essa ha espresso la fame spirituale del nostro tempo. Molti giovani hanno cercato rifugio nell’esperienza mistica, magari con il contributo di spezie piccanti come le religioni orientali o la droga. L’anonimato e la "privatizzazione" della società li spinge talvolta a opzioni di tipo settario dettate dalla disperazione: non si può spiegare in altro modo l’adesione a raggruppamenti come quelli del "messia" coreano Moon, un fenomeno che ha preso piede in America e ora comincia a preoccupare anche l’Europa.

Come reagirà la chiesa all’emergere della marea dei giovani? Essa ha un passato paternalista, in cui un piccolo numero di uomini responsabili regnava su un popolo considerato alla stregua di bambini. I giovani erano visti esclusivamente come oggetto dell’evangelizzazione. Ma se la reciprocità è messa in atto anche nei loro confronti, le generazioni cristiane precedenti dovranno tenerli in conto di depositari di una parola nuova.

La chiesa può applicare a se stessa i saggi ammaestramenti che il "profeta" di Khalil Gibrane rivolge ai genitori:

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«I vostri figli non sono i vostri figli.

Sono i figli e le figlie del desiderio ardente che in se stessa ha la vita.

Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi,

e non vi appartengono benché viviate insieme.

Potete amarli, ma non costringerli ai vostri pensieri,

poiché essi hanno i loro pensieri.

Potete custodire i loro corpi, ma non le loro anime,

poiché abitano case future, che neppure in sogno potrete visitare.

Cercherete d’imitarli, ma non potrete farli simili a voi,

poiché la vita procede e non s’attarda su ieri.

Voi siete gli archi da cui i figli, le vostre frecce vive,

sono scoccati lontano.

L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero infinito,

e con la forza vi tende, affinché le sue frecce vadano rapide e lontane.

In gioia siate tesi nelle mani dell’Arciere;

poiché, come ama il volo della freccia,

così l’immobilità dell’arco» 17.

Il sinodo dei vescovi del 1974 nella dichiarazione

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finale invita la chiesa a lasciarsi interpellare dai giovani, in quanto portatori dell’avvenire. Sono i giovani che aiutano la chiesa intera a capire che il vangelo di cui essa è depositaria è meno un sapere del passato che un progetto orientato verso l’avvenire.

Se chiedessimo ancora alla nostra sentinella profetica che sta in vedetta se vede segni dell’aurora, non mancherebbe di indicarci buoni presagi. I giovani, allergici alle istituzioni, affluiscono in massa nei luoghi dove possono prendere la parola. Negli ultimi anni Taizé, sede della comunità monastica ecumenica animata da frère Roger Schutz, si è rivelato uno di tali luoghi di eccezione, in cui è data la parola a coloro che altrove ne vengono privati. Perché lotta e contemplazione siano fuse in una relazione dinamica e profetica, i giovani hanno deciso di indire un loro concilio. Dopo averlo preparato per quattro anni, ne hanno iniziato la celebrazione nel settembre 1974. In quell’occasione rivolgevano una «lettera al popolo di Dio», che possiamo considerare un programma di reciprocità vissuta in seno alla chiesa. Dicevano, tra l’altro:

«Quando i cristiani dei primi tempi si sono trovati di fronte ad una questione insolubile e stavano per dividersi, hanno deciso

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di riunirsi in concilio. Ce ne siamo ricordati a Pasqua 1970, quando cercavamo delle risposte per il nostro tempo. Ed abbiamo optato non per un dibattito sulle idee, non per qualche congresso, ma per un concilio dei giovani, cioè una realtà che riunisce giovani di tutti i paesi e che ci impegna senza ambiguità a causa del Cristo e dei Vangelo.

E oggi abbiamo una certezza: il Cristo risorto prepara il suo popolo a divenire ad un tempo popolo contemplativo, assetato di Dio; popolo di giustizia, che vive la lotta degli uomini e dei popoli sfruttati; popolo di comunione dove il non credente trova anch’egli un ruolo creativo.

Siamo parte integrante di questo popolo. Per questo gli indirizziamo questa lettera, per condividere con lui le inquietudini che sono in noi e le attese che ci divorano.

Chiesa, che dici del tuo avvenire?

Rinuncerai ai mezzi di potere, ai compromessi con i poteri politici e finanziari?

Abbandonerai i privilegi, rinuncerai a capitalizzare? Diventerai finalmente "comunità universale di condivisione", comunità alfine riconciliata, luogo di comunione e di amicizia per tutta l’umanità?

Chiesa, che dici del tuo avvenire?

Diventerai "popolo delle beatitudini", senza altra sicurezza che il Cristo, popolo povero, contemplativo, creatore di pace, portatore di gioia e di una festa liberatrice

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per gli uomini, al rischio di essere perseguitata per causa della giustizia?» 18.

Le domande dei giovani provocano un’ulteriore domanda: la gioventù, con i suoi entusiasmi, i suoi radicalismi, la sua capacità di dono, non potrebbe forse avere il carisma per riportare la chiesa alla incandescenza delle proprie origini?

Versione maschile, versione femminile

Le donne cominciano a far notizia nella chiesa. Dove non basta la contestazione, si aggiunge la provocazione: magari invadendo luoghi sacri e tirando uova. Certe reazioni violente sono indice di un malessere legato a una precedente repressione. Bisogna riconoscere che, di fatto, la posizione della donna nella chiesa è stata troppo a lungo la negazione più potente della reciprocità.

Nella chiesa le donne sembrano più profane dell’uomo. Nell’antichità cristiana esistevano ministeri femminili, malgrado che la cultura del tempo tenesse la donna in uno stato di minorità assoluta. A poco a poco sono stati

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però marginalizzati ed eliminati del tutto prima della fine del XII secolo. Del resto, gli uomini di chiesa potevano giustificare la loro diffidenza nei confronti dell’aiuto femminile con la dottrina di S. Tommaso d’Aquino, il quale aveva insegnato (Summa Theol. I,q.92, a.2) che «la donna è stata fatta per aiutare l’uomo, ma unicamente in vista della procreazione, perché per ogni altra cosa un uomo può essere meglio aiutato da un altro uomo che da una donna». Solo nel secolo scorso alcune chiese della riforma hanno reintrodotto il ministero femminile del diaconato e più tardi alcune anche quello del sacerdozio. Ma ancora recentemente la comunione anglicana nella conferenza di Lambeth, pur dichiarando di non avere per principio un’opposizione teologica all’ordinazione sacerdotale delle donne, rimandava alle calende greche ogni decisione pratica; e nella chiesa cattolica il IV sinodo dei vescovi (1974) faceva cadere con un no rotondo la questione degli ordini sacri alle donne.

Un lungo sospetto, proveniente dagli uomini di chiesa, ha circondato la donna in ambito cristiano. «Donna, tu sei la porta del diavolo — si indignava Tertulliano —. Hai persuaso colui che il diavolo non osava attaccare di fronte. È per causa tua che il Figlio

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di Dio ha dovuto morire: dovresti andare sempre vestita di lutto o di stracci». E S. Ambrogio: «Adamo è stato condotto al peccato da Eva, e non Eva da Adamo. Colui che la donna ha condotto al peccato, è giusto che lo riceva come sovrano». In tal modo l’oppressione dell’uomo sulla donna riceveva addirittura una ratificazione teologica. Il vescovo Giovanni, detto Crisostomo, cioè "bocca d’oro" per la sua eloquenza sulle cose di Dio, poteva con la stessa bocca affermare: «Tra tutte le bestie selvagge, non se ne trova una che sia più nociva delle donne». E il florilegio dell’antifemminismo di stampo ecclesiastico potrebbe continuare a lungo.

Non è tradimento della reciprocità solo il disprezza o la discriminazione della donna. Anche il metterla su un piedistallo inavvicinabile infrange la reciprocità. In questo senso ha agito il modello femminile ricalcato su una immagine artificiale della Vergine Maria. Si è parlato della donna — o piuttosto della "femminilità" — a partire da schematizzazioni teologiche mariane, piuttosto che dalle donne reali. Solo l’immagine ideale, — la vergine — o la funzione — la madre — sono state considerate significative dal punto di vista religioso. Il celibato dei sacerdoti e dei religiosi ha rafforzato inoltre l’inattitudine ecclesiastica a

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instaurare una partecipazione responsabile delle donne alla vita della chiesa, salvo nello spazio chiuso dei circoli femminili.

Gli eccessi del femminismo di oggi non devono spaventare. Sono gli strappi necessari per sbloccare l’immobilismo. Il futuro ci promette un’epoca di reale reciprocità tra uomini e donne. È, oltre tutto, una questione di sopravvivenza umana: a tutte le altre guerre già esistenti non se ne potrebbe aggiungere un’altra basata sul sesso. La reciprocità vissuta tra uomini e donne porterà a una rifondazione dell’umanesimo. Lo prefigurava già Simone de Beauvoir nel libro con cui, rompendo la congiura del silenzio della cultura maschile, ha portato alla ribalta il problema della donna nella nostra civilizzazione:

«Liberare la donna è rifiutare di chiuderla nei rapporti che essa sostiene con l’uomo, ma non negarli; per quanto si ponga per sé, ella continuerà nondimeno ad esistere anche per lui: riconoscendosi mutuamente come soggetto, ciascuno rimarrà tuttavia per l’altro un altro: la reciprocità delle loro relazioni non sopprimerà i miracoli che genera la divisione degli esseri umani in due categorie separate: il desiderio, il possesso, l’amore, il sogno, l’avventura; e le parole che ci commuovono: dare, conquistare, unirsi conserveranno il loro senso; al contrario, è

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proprio quando sarà abolita la schiavitù di una metà dell’umanità e di tutto il sistema d’ipocrisia che implica, che la "sezione" dell’umanità rivelerà il suo autentico significato e la coppia umana troverà la sua vera figura» 19.

Se la reciprocità tra uomini e donne porterà a una rifondazione della convivenza umana, non sarà allo stesso tempo l’inaugurazione di un nuovo stile di comunità cristiana? In occasione del IV sinodo episcopale il card. Tarancón affermava con forza: «Il mascolinismo della cultura civile e religiosa volge alla fine. Dobbiamo convocare le donne per costruire il popolo di Dio». Il giorno in cui questo, che è ancora soltanto un proposito generoso, diventerà realtà, conosceremo un riflesso del tutto originale del vangelo.

Certo il vangelo ha sempre prodotto miracoli di esistenza cristiana tanto tra gli uomini quanto tra le donne: Francesco d’Assisi è figlio dello stesso vangelo che Chiara; da sempre la lode del creatore è stata cantata sia da "fratello focu" che da "sorella acqua". Ma quel che di nuovo ci apporta la cultura che sta sorgendo è la reciprocità tra uomo e donna, il comprendersi in essenziale correlazione e corresponsabilità.

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A vino nuovo, otri nuovi. E col vino nuovo, missione nuova. Il vangelo, portato insieme dall’uomo e dalla donna, recherà speranza là dove una metà dell’umanità rivolge la sua aggressività e le sue frustrazioni contro l’altra metà.

La chiesa dei cinque continenti

Nell’immaginazione popolare la missione è legata alla figura biancovestita dell’europeo generoso che intraprende un cammino pieno di pericoli per portare la parola di Dio, insieme alle medicine ai libri di scuola, a popolazioni rimaste fuori dalla spirale evolutiva della civilizzazione. Il missionario viaggia, ma il suo è un viaggio singolare. Non assomiglia a quello di Ulisse, che viaggia per conoscere e per crescere in umanità, preparandosi così al compito sovrumano di far giustizia in casa propria; non è simile neppure al viaggio di Enea, che lascia una città in rovina per andare a fondare una nuova civiltà. Il viaggio del missionario classico richiama piuttosto la Navigazione di S. Brandano, quel simpatico racconto così popolare nel medioevo, in cui il monaco irlandese Brandano e i suoi confratelli vengono rappresentati in un viaggio fantastico in un

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paese di favola: al termine del viaggio la compagnia di monaci si ritrova al punto di partenza ed è come se non essa avesse viaggiato, ma il mondo irreale avesse piuttosto sfilato davanti alla comunità che continuava il suo salmodiare regolare, in un gioco di immenso caleidoscopio.

Il missionario non si arricchisce, dall’incontro con altre culture se non in meriti personali per i sacrifici che affronta. La missione si svolge a senso unico. Il mondo è ritenuto ruotare intorno al perno costituito dall’Europa e dalla sua cultura. Il cristianesimo, sviluppatosi storicamente sul suolo europeo, esporta il messaggio di Gesù in confezioni-regalo. E il pacchetto è così ben confezionato — ogni ricciolo del nastrino è costato magari secoli di dispute... — che chi lo riceve non osa neppure pensare di disfarlo. «La chiesa qui — diceva recentemente un teologo africano — è diventata come un bambino che non ha nome e mangia il cibo già masticato dalla bocca della madre. Ciò non può durare. La situazione della missione cristiana sta infatti cambiando rapidamente. E non solo per il rifiuto dell’eurocentrismo e della missione a senso unico che abbiamo descritto in precedenza. All’interno stesso della chiesa sta avvenendo una trasformazione di mentalità. Volendo esprimerla in

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parabola, si potrebbe modificare così quella evangelica del seminatore e della parola di Dio: «Uscì il seminatore a seminare la parola. Una parte cadde sopra l’Africa, un’altra sopra l’America; una parte cadde sopra il nord dell’emisfero, un’altra sopra il sud... Il seminatore dotò le diverse parole di un dinamismo di comunione e di reciprocità. Ora le parole seminate si cercano per formare insieme una frase. Allora porteranno frutto: al trenta, al sessanta, al cento per uno».

Un segno del cambiamento del modo di sentire la missione è stato il IV sinodo dei vescovi. Esso è iniziato con un rapporto sulle «cinque parti del mondo», per individuare le forme proprie e irriducibili di esperienza cristiana che vive ogni continente. Si prendeva così atto che le chiese esistono come comunità locale, con una personalità culturale propria; esse non devono essere ridotte a modello unico, con la tecnica famigerata di Procuste e del suo letto, bensì portate a compimento ognuna secondo la diversità che gli è propria.

Se ogni continente sviluppa la riflessione teologica utilizzando il proprio patrimonio culturale, in reciprocità con la riflessione degli altri, il mistero del Cristo non ne risulterà contratto, bensì ampliato. Non si può negare alla comprensione teologica del cristianesimo

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sviluppata dall’Europa profondità e originalità. La teologia europea ha pensato la pasqua di Gesù come appello di fede rivolto alla persona individuale e come proposta di salvezza. I suoi meriti confinano però con i limiti. La lettura del vangelo che ha fatto l’Europa tende all'intimismo e al privatistico. Nei vangeli si cerca la quiete, nella fede la pace dell’anima o un senso all’esistenza. Il pensiero tende inoltre a rimanere confinato nel salotto teologico e non raramente viene elaborato con categorie astratte. È un difetto che si riscontra anche nelle teologie innovatrici. Moltmann, per esempio, ha potuto scrivere la sua ammirevole Teologia della speranza senza menzionare una sola delle speranze concrete che polarizzarono il mondo d’oggi.

Non è così in Africa. L’africano negro ha una concezione dinamica e globale dell’essere vivente, che sottende tutta la sua esperienza e perfino la sua logica. Più che lo spirito critico, è la mistica il contrassegno dell’anima africana. Senghor ha individuato in questa caratteristica la peculiarità della "negritudine": «Se la ragione bianca è analitica mediante utilizzazione, la ragione nègra è intuitiva mediante partecipazione». Nell’esperienza religiosa africana il legame con Dio si stabilisce in seno a una solidarietà costituita dai viventi,

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dagli antenati morti e dalla posterità, nel quadro di un’unità vissuta, d’una comunione dell’uomo con la natura intera.

Anche la teologia dell’America latina è differente da quella europea. Se la teologia europea ha interpretato la pasqua come salvezza, quella latino-americana ha sviluppato una visione originale della pasqua come liberazione; se la chiesa in Europa ha messo l’accento sulla persona dell’individuo, in America del sud lo ha posto nella persona politica del popolo. I due accenti non si escludono e non si annullano, bensì reciprocamente si correggono, si regolano e si completano. Se una pasqua esclusivamente individuale, senza dimensione politica, si converte in una pasqua individualista, intimista, pietista e, in fondo, abbastanza egoista, al contrario una pasqua esclusivamente politica, senza radici contemplative, è una pasqua attivista e col tempo diventa ideologica e totalitaria.

Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio fedele alla sua promessa, ci appare vigilante sulla chiesa, affinché questa non cada in un’unilateralità che farebbe abortire la pasqua del Cristo o la farebbe recuperare dal mondo. Lo Spirito è stato posto di sentinella. Egli spinge le diverse esperienze di chiesa e il modo di esprimerle alla reciprocità.

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La reciprocità con le comunità cristiane situate nell’area geografica del sottosviluppo può diventare estrèmamente esigente per i cristiani dell’area euro-americana. Non possiamo forse accettare, nella nostra civilizzazione caratterizzata da un’evacuazione della trascendenza, un annuncio cristiano come viene fatto in culture in cui la religione resta la stoffa della vita. Dobbiamo venir a capo da soli dei problemi che ci causa il nostro umanesimo immanentista. Ma possiamo ben lasciarci provocare dall’emisfero sud a rileggere la storia alla luce dello schema dominatori-dominati. Questo modo di lettura è prevalente presso i popoli del Terzo mondo. Essi sono meglio situati per vedere i limiti e la relatività del mondo occidentale di considerare lo sviluppo culturale. Ai loro occhi siamo noi, il popolo euro-americano, uno dei più illetterati e ignoranti della terra, perché non ci rendiamo conto della nostra posizione reale nel mondo, in quanto dominatori e oppressori, sfruttatori e ladri.

Negli ultimi anni si è molto parlato, all’interno dei popoli detentori delle chiavi dello sviluppo, di diffusione di pratiche e tecniche di progresso in seno ai popoli poveri. Seguendo Paulo Freire è stata presa in considerazione la possibilità di una «pedagogia degli oppressi».

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Tali iniziative sono valide e necessarie. Ma affinché non servano solo a tranquillizzare la coscienza di quella parte dell'umanità che sfrutta l’altra, bisogna che ogni pedagogia degli oppressi sia accompagnata da una pedagogia rivolta agli oppressori, per renderli consci delle loro responsabilità collettive. I popoli euro-americani devono arrivare a rendersi conto della natura ingiusta dell’ordine mondiale attuale e del potere esercitato nel mondo dalle grandi società e dai loro governi. Devono prendere coscienza che sono vissuti a spese degli altri e che continuano a farlo. Le "terre di missione" non potrebbero essere oggi anzitutto l’area geografica delle grandi potenze, luogo di potere economico e centro dell’imperialismo, terra caduta sotto il potere degli idoli?

La missione, che nel recente passato coloniale e neo-coloniale ha percorso il cammino dal nord al sud, ora deve invertire la marcia. Lavorare perché le energie dette "missionarie" si spostino verso compiti di trasformazione delle società industrializzate è operare per l’instaurazione d’una società più egualitaria e fraterna. È la prima testimonianza che aspettano le chiese giovani del Terzo mondo da parte dei cristiani dell’emisfero nord. Finché questo cambiamento non avrà avuto luogo a livello

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di rapporti internazionali, gli abitanti dell’emisfero sud saranno scettici nei confronti dell’aiuto e della cooperazione. E saranno scettici anche nei confronti di una missione cristiana fatta in nome dello Spirito, ma senza quel frutto dello Spirito che si chiama reciprocità.

«Il mio Spirito... su ogni carne»

C’è stato un tempo in cui lo Spirito camminava sulla terra

perché lo Spirito aveva un corpo d’uomo

perché lo Spirito era un corpo d’uomo.

Lo Spirito lanciava sguardi d’amore e di rabbia

lo Spirito accarezzava e si faceva accarezzare

lo Spirito spezzava il pane per insegnare a condividere

lo Spirito sfiorava con la mano per cacciare le malattie del corpo e le tristezze dell’animo

lo Spirito frustava i mercanti del tempio. Perché era un corpo lo Spirito si è contorto sulla croce

perché era un corpo lo Spirito ha ritrovato un corpo.

«Né su questa montagna, né a Gerusalemme, donna. Ma i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità. Verrà un tempo.

E il tempo è questo».

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Lo Spirito è la bocca

che getta parole come ponti

che sa dire "ti perdono" e "ti amo"

che sa dire "no" agli uomini vampiri di altri uomini.

Lo Spirito è l’occhio tornato bambino

che annega in onde di dolcezza

quando si abbandona al gioco dell’ape e del fiore

nel dare e nel ricevere.

Lo Spirito è la mano aperta sull’altra mano

disarmata, impotente

eppur dotata della potenza più sovrumana

che è quella di crear legami.

In punta di piedi sulla terra

sulla nostra maledetta-benedetta terra

con gli animali nostri parenti

con le piante nostre balie silenziose

con le pietre nostro ultimo letto

noi, strana famiglia anormale nella natura,

sfioriamo il cielo con un dito.

È primavera: e lo sappiamo.

E vogliamo che sia primavera.

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[quarta di copertina]

I TEMPI FORTI

Se in passato ci si è potuti lamentare che lo spirito santo fosse il grande dimenticato, oggi non è più così. il problema ai nostri giorni è piuttosto quello di vagliare i tanti discorsi che si fanno sullo Spirito. L'irruzione dello Spirito, già dalla prima pentecoste, ha dato adito a interpretazioni divergenti. È sembrato addirittura che quegli uomini che parlavano con tanto ardore fossero ubriachi (cfr. At 2,15). Pietro, quella mattina, prese la parola per lanciare al mondo la sua prima enciclica e interpretare autorevolmente il fenomeno. Anche la chiesa deve per proprio conto interrogarsi sulla qualità dei soffi di vita che spirano nel suo organismo. Risveglio carismatico, rinnovamento comunitario, rilancio della missione: sono tre fenomeni di rilievo nella chiesa dei nostri giorni. Se la speranza ci autorizza a considerarli come segni di presenza dello Spirito che vuole renderci contemporanei della prima pentecoste, la fede, sempre esigente con la verità, c'invita al discernimento, secondo il criterio paolino «Tutto vagliare e ritenere ciò che è vero». «Lo Spirito è festa»; «Lo Spirito è incontro»; «Lo Spirito è reciprocità»: con questi tre slogan Sandro Spinsanti c'invita a discernere lo Spirito dell'odierna pentecoste della chiesa.

NOTE

1 F. Nietzsche, Così parlò Zaratustra, tr. it., Milano 1973, p. 5.

2 Gli inizi del pentecostalismo cattolico sono raccontati dai protagonisti in K.D. Ranaghan, Il ritorno dello Spirito, tr. it., Milano 1973.

3 R. Schultz, La tua festa non abbia fine, trad. it., Brescia 1972, pp. 11-12.

4 H. Cox, La festa dei folli, tr. it., Milano 1971.

5 Cfr. F. Mac Nutt, Il carisma delle guarigioni, tr. it., Alba, Edizioni Paoline (previsto per il 1977).

6 P. TillichThe New Being, New York 1955, pp. 38-39.

7 S. Beckett, Aspettando Godot, in Teatro, tr. it., Torino 1967.

8 L.J. Suenens, Lo Spirito Santo nostra speranza, Alba, Edizioni Paoline 1975, pp. 11-12.

9 Cfr. S. Spinsanti, La mensa, in La chiesa anno zero: i primi tre giorni. Riflessioni sul triduo pasquale, Bari, Edizioni Paoline 1976, pp. 67-93.

10 Cfr. P. Rossano, Il problema teologico delle religioni, Catania, Edizioni Paoline 1975, pp. 10-13.

11 Cfr. G. Pattara, Ecumenismo, in Dizionario enciclopedico di teologia dogmatica, diretto da G. Barbaglio, S. Dianich e C. Vagaggini, Alba, Edizioni Paoline, (in corso di stampa), pp. 349-370.

12 A. Camus, Le mythe de Sisyphe, Parigi 1942, p. 29.

13 E. Ionesco, Note e contronote, tr. it., Torino 1965, p. 174.

14 A. de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, tr. it., Milano, Bompiani 1969.

15 L. Proaño, Pour une Eglise libératrice, Parigi 1973, pp. 171-174.

16 Su questi ed altri problemi missionari può essere utile la lettura di W. Bühlmann, La terza chiesa alle porte, tr. it., Alba, Edizioni Paoline 1976.

17 K. Gibrane, Il profeta, Milano 1976, p. 17.

18 Taizé: il concilio dei giovani, perché?, Brescia 1975, pp. 101-104.

19 S. De Beauvoir, Le deuxième sexe, vol. II, Parigi 1949, p. 576.

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