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Sandro Spinsanti
IL LINGUAGGIO DEL CORPO NELLA COMUNICAZIONE RITUALE
in Comunicazione e ritualità. La celebrazione liturgica alla verifica delle leggi della comunicazione
Edizioni Messaggero, Padova, 1988
pp. 303-311
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1. LA LITURGIA SUL MODELLO DELLA COMUNICAZIONE ANGELICA
Esclusi i giovanissimi, non vi è sacerdote anziano o di mezz'età che non ricordi la cura scrupolosa con cui i cerimonieri e i responsabili della formazione istruivano i neo-diaconi sul modo di celebrare la messa. Nessuna parte del corpo, nessun gesto sfuggiva a una minuziosa standardizzazione: come dovevano essere tenute le mani, a che altezza e in che postura; inchini e genuflessioni, esattamente misurati per evitare sia il troppo che il troppo poco; anche il tono della voce e le diverse sfumature con cui dovevano essere pronunciate le parole prescritte venivano minuziosamente regolati. Il giovane celebrante veniva in definitiva addestrato a uno stile di celebrazione che realizzava un tipico modello di "comunicazione paradossale": doveva pronunciare, infatti, la frase culminante del rito ― "ecco il mio corpo" ― in modo che il proprio corpo, ingabbiato dentro la stereotipia cerimoniale, non comparisse affatto. Non solo in quanto presidente della celebrazione fatta in nome di Cristo e per la comunità era privato di ogni rilevanza storica e personale, ma perfino il suo corpo, con cui realizzava la celebrazione, veniva ridotto all'invisibilità.
Perché questo «ecco il mio corpo», detto per il tramite di uno "non-corpo"? Una prima indicazione di senso la troviamo riferendoci alla funzione comunicativa del gesto stereotipato.
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Questo manifesta tutta la potenzialità nelle situazioni in cui si vuol evitare la comunicazione interpersonale. Si pensi ― «si parva licet componere magnis!» ― a ciò che avviene in una sfilata di moda. Gli atteggiamenti delle presentatrici di moda si riducono alla concatenazione di gesti congelati, stereotipati, eleganti ma impersonali. È il ruolo stesso di indossatrice che comporta una personalizzazione, allo scopo di favorire l'identificazione della donna con il vestito che indossa: è questo, e non l'indossatrice, che deve imprimersi nella memoria dello spettatore. La funzione del gesto stereotipato è qui chiaramente quella di distogliere l'attenzione dalla comunicazione interpersonale, a vantaggio di quella funzionale. L'analogia vale soltanto nella misura in cui ci permette di cogliere il funzionamento della stereotipia nella comunicazione sociale. Quando si passa dalla presentazione di un prodotto a una celebrazione liturgica ben altri sono, ovviamente, i significati in causa. La spersonalizzazione del ministro del culto è finalizzata alla comunicazione del mistero. Tutto il disciplinamento del corpo promosso dalla Chiesa (anche altre agenzie sociali lo realizzano, con esiti molto più vistosi di quelli della Chiesa: si pensi all'esercito, per esempio...!) mira a uno scopo di trascendimento dell'esperienza mondana. La finalità della liturgia è precisamente quella della "koinonia" con la realtà divina. Ora, il linguaggio del corpo, se rapportato a questo fine, pur essendo l'unico di cui in quanto esseri umani possiamo disporre, si rivela come clamorosamente inadeguato, o quanto meno come gravido di malintesi e di fraintendimenti.
Una riflessione esemplare su questa funzione del corpo fu elaborata dalla scolastica. Questa considerò la comunicazione umana come limitata, imperfetta e decaduta, rispetto alla potenza del verbo adamitico e soprattutto nei confronti della comunicazione angelica. Grazie a quest'ultima, dei puri spiriti comunicano immediatamente, senza segno sensibile, neppure spirituale: gli angeli dischiudono se stessi gli uni agli altri mediante la translucidità. Il corpo umano è opaco; il pensiero fatica ad aprirsi la strada attraverso la parola. L'angelo invece
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non ha corpo: è pura voce senza corpo i. Nella sua immaterialità, la voce angelica realizza la comunicazione più efficace: mentre la voce dell'angelo dell'annunciazione informa la Vergine del disegno divino, il Figlio di Dio viene modellato nel suo corpo ii. La stereotipia dei gesti del culto ha la funzione di supplire alle carenze del corpo umano nella «communicatio in sacris», rendendo la comunicazione liturgica meno dissimile da quella angelica.
2. COSCIENZA RELIGIOSA DI SÉ E RIFIUTO DEL CORPO
Quale reazione possiamo aspettarci da un ministro del culto, che un rigido cerimoniale priva della propria libera espressività corporea? Non escludiamo il disagio e l'imbarazzo; soprattutto se questa negazione del corpo viene messa in correlazione con un più generale atteggiamento negativo verso il corpo attribuito al cristianesimo. Un giudizio così sommario non rende giustizia alla verità storica e va indubbiamente sfumato iii. Resta tuttavia difficilmente contestabile che lo spessore corporeo che la fede mostra nei Vangeli e nella pratica messianica di Gesù non è più riscontrabile nella cristianità successiva, più o meno "ellenizzata". È soprattutto l'inquietante corporeità di Gesù, unico e inconfondibile nel suo tempo e nel
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suo ambiente iv, che è stata ben presto neutralizzata dai modelli culturali ― siano essi patriarcali, matriarcali o androgini ― con cui è stata successivamente interpretata.
L'ideale di acorporeità, o addirittura di negazione del corpo, può tuttavia creare anche una sottile gratificazione in colui che lo fa proprio. La fede, quella cristiana in particolare, è in grado di fornire un solido appoggio alla denegazione di una parte di sé, nel processo generale di sublimazione. Infatti il cristianesimo fornisce un sistema che iscrive il soggetto in una totalità perfettamente inglobante, con un'origine e una conclusione oltre i limiti temporali della storia. L'identificazione inoltre avviene sotto il segno dell'ideale: amato da Dio con amore infinito, il credente è chiamato a partecipare all'immagine perfetta di Dio, che è il Figlio. L'identificazione, infine, dotata di un carattere prescrittivo: tutto ciò che il credente deve fare, pensare ed essere è prescritto da una tradizione che lo avvolge e lo precede.
L'adesione al mondo dischiuso dalla fede può essere talmente appagante per la coscienza di sé narcisistica, da diventare il punto di appoggio di una denegazione che rende il soggetto estraneo a tutta una parte di se stesso: il corpo, in questo caso, con l'insieme pulsionale che lo correda. Nella misura in cui ciò avviene, il cristianesimo realizza una figura particolare di quell'allontanamento dal corpo che contraddistingue la civilizzazione occidentale nel suo insieme. Un distanziamento che nei casi estremi ha prodotto una vera e propria alienazione. Il corpo, con la sua genuina molteplicità di sensi, passioni e desideri, è stato fatto oggetto, nella cultura laica non meno che in quella religiosa, di una gabbia di contenzione costituita da proibizioni e comandamenti. Attraverso una catena di misure repressive, il corpo è stato reso uno stupido" servitore muto".
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L'ideale proposto più di frequente era quello di una testa fredda e di un cuore caldo, mentre il ventre ― vale a dire, la dimensione corporeo/viscerale dell'uomo ― era completamente dimenticato, o tenuto in uno stato di soggiogamento, di cui l'"uomo spirituale" menava vanto. È proprio questo modello che è venuto a cadere, sotto la spinta di vari movimenti rivendicanti una "riappropriazione del corpo" v. Non solo il celebrante, ma anche i partecipanti a un rito rischiano oggi, in clima di ritorno al corpo, di sentire come frustranti le ridotte possibilità di comunicazione conseguenti alla subalternità del corpo.
3. RITUALITÀ E INCONSCIO
Alcune delle concezioni più in voga della riappropriazione del corpo, oltre a essere spesso culturalmente ingenue, perché ignorano l'ambivalenza del fenomeno, rischiano un appiattimento del corpo, a danno di una delle lezioni più feconde della psicanalisi. Questa ha reso possibile, infatti, un altro sguardo sul corpo. I sintomi, letti in profondità, si sono rivelati segni di una saggezza strategica che denuncia il contrasto susseguente alla separazione del corpo e dello spirito.
Una delle vie più feconde di introspezione è stata la traccia fornita proprio dal rito, o piuttosto dai rituali o cerimoniali che si trovano spesso nella vita di persone affette da nevrosi ossessiva. Questa parte della teorizzazione psicanalitica è nota anche al di là dell'ambito clinico, perché è stata sviluppata all'estremo da Freud stesso nei suoi saggi relativi al significato psicanalitico della religione (specialmente Totem e tabù, 1912 e Mosè e il monoteismo, 1934). Il rito religioso è considerato da Freud, al pari dei cerimoniali patologici, come un sintomo;
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esso sarebbe l'equivalente socializzato dei rituali ossessivi mediante i quali il nevrotico cerca di scongiurare l'angoscia provocata dalle sue pulsioni represse.
La debolezza teorica di questi sviluppi del pensiero freudiano ha fatto cadere in discredito le dottrine psicoanalitiche sul significato psicodinamico del rito. Né oggi si trova chi sia disposto a scendere in loro difesa. Tuttavia un punto essenziale va ritenuto, per non buttar via il bambino con l'acqua sporca: la ritualità ci fa affacciare sull'orlo dell'abisso dell'inconscio.
Un decisivo impulso a valorizzare questa possibilità del corpo è venuto da quei movimenti della psicologia contemporanea che si aprono sulla dimensione umanistica e transpersonale vi. La via era stata già aperta dalle scienze antropologiche. Ad esse si deve lo studio di quelli che potremmo chiamare «stati somatici trascendentali», ovvero del ruolo del corpo nelle esperienze umane di trascendenza. Tutte le culture assumono stati somatici di qualità particolare, che espandono la coscienza vii. I più spettacolari sono la trance e l'estasi; ma possono anche avvenire nel quadro della vita quotidiana, ed essere indotti con l'ausilio di bevande, droghe o digiuni; oppure con
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la meditazione, che si avvale di tecniche di respirazione coltivate soprattutto dalla tradizione dell'Oriente. Secondo Maslow, tali esperienze sono parte integrante della potenzialità del corpo umano e costituiscono delle "peak-experiences" viii. Attraverso di esse il corpo conosce la vertigine dell'assoluto.
Nell'ambito di una religione rivelata, come è il cristianesimo, e che sottolinea con tutto il vigore possibile la trascendenza del divino, può sembrare shockante parlare di vicinanza o lontananza di Dio in rapporto con tecniche corporee, o affermare che in fondo agli stati mistici di coscienza unitiva ci sono tecniche del corpo. Una condanna troppo radicale di queste espressioni di religiosità naturale porterebbe a un isolamento controproducente per i valori spirituali, i quali, senza essere monopolio delle religioni organizzate, si radicano in esperienze che sono comuni a tutti. Il rito religioso acquista un profondo rilievo, se considerato su questo sfondo: sullo sfondo, cioè, dell'"inconscio superiore" ix, sede della creatività e della realizzazione delle possibilità religiose dell'essere umano, invece che sullo sfondo dell'inconscio pulsionale o inferiore; come ha fatto la psicoanalisi freudiana.
4. CORPO E COMUNICAZIONE
Il tradizionale interesse per lo studio del comportamento di comunicazione verbale, considerato con fierezza come caratteristica peculiare dell'Homo sapiens, ha visto scalfito il suo monopolio da un crescente espandersi della ricerca scientifica
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sulla comunicazione non verbale. L'antropologia sembra quasi aver preso le distanze da un approccio esclusivamente "logocentrico" dell'essere umano. Questo aveva portato a minimizzare le risorse espressive del corpo, a vantaggio della parola, ma a danno delle possibilità espressive globali x.
Le scienze antropologiche dell'Occidente oggi tendono a spostare la loro attenzione sui movimenti, gesti, posture ed espressioni del corpo fisico. E non solo con quella curiosità etnografica che faceva studiare il corpo dei primitivi ― la nudità, la danza, il tatuaggio ― per ricondurre le diversità inquietanti registrate in altre culture entro i limiti della razionalità occidentale. Se il "logocentrismo" è visto come causa di alienazione, il "somatocentrismo" è considerato, al contrario, come un aiuto a tornare all'umano nella sua integralità (la «body experience» come «self experience»). È ancora troppo presto per celebrare la fine della monocultura della parola, che affligge l'Occidente. Ma abbiamo almeno cominciato a renderci conto che l'eccessiva dipendenza dal linguaggio verbale, la cui caratteristica essenziale è l'arbitrarietà, ha portato all'atrofia le risorse di comunicazione: siamo diventati ciechi e sordi ai potenti simboli espressivi del corpo. Ridare al linguaggio del corpo la priorità rispetto a quello verbale nell'espressione individuale e nella comunicazione sociale equivale a una rivoluzione antropologica. Ed è una rivoluzione che va fatta non come una fuga in avanti, ma piuttosto con un recupero di ciò che la cultura occidentale ha lasciato per strada nel suo cammino.
Attraverso il corpo, che è lo strumento plastico e sensibile della comunicazione non verbale, possiamo talvolta capire di più di quanto sappiamo attraverso i processi cognitivi che ci vengono insegnati nel corso del processo di inculturazione. È una comunicazione diretta, che può essere chiamata un "corpo a corpo". Le scienze antropologiche ritrovano così un'indicazione
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già formulata dai filosofi che hanno condotto una riflessione sul corpo a partire da un approccio fenomenologico-esistenziale xi. Il corpo ― notava M. Merleau-Ponty ― ci unisce a quella «chair commune», che non ha inizio con noi, ma che troviamo già là prima di diventare capaci di consapevolezza. La vita è precedente a noi, e da essa emergiamo. Il nostro corpo si isola da questa grandezza collettiva, da questa «chair commune» (possiamo riferirei ad essa considerandola, con uno sguardo sempre più ampio, come l'«umanità», o come il regno del "bios", o come il "kosmos"). Benché il corpo ci separi come individui dal fiume della vita, allo stesso tempo ci unisce organicamente ad esso. Il corpo è confine, vale a dire contemporaneamente realtà che ci separa e ci unisce al tutto.
Questa prospettiva antropologica consente di dare tutto il dovuto rilievo alla ritualità, comunque essa si esprima, nell'ambito del sacro come in quello profano. Il rituale è una forma di comunicazione a mediazione corporea, che si presenta come una forma di compromesso tra la distanza-separazione e l'intimità. In esso si esprime tanto il bisogno quanto la paura del contatto. Solo l'intimità che si realizza nella comunicazione interpersonale permette una partecipazione alla «chair commune» senza che i confini che ci individuano siano aboliti. Come sostitutivo e surrogato dell'intimità, facciamo ricorso ai rituali. Ad essi spetta un posto discreto ma non insignificante nella gamma delle nostre possibilità espressive e comunicative. Se il rito si affaccia, da una parte, sull'abisso dell'inconscio e ci fa provare la vertigine dell'assoluto, dall'altra, sul piano interpersonale, ci avvicina alla comunione tra gli esseri.
i Cf. A. Guy, Donner corps à la voix, «Esprit», 62 (1982) (numero monografico dedicato a Le corps ... entre illusions et savoirs), p. 200-205. A questa luce va considerata tutta la tradizione iconografica che attribuiva agli angeli la musica strumentale. Lo strumento musicale illustra la concezione "strumentale" del corpo, che la scolastica ha assunto dall'aristotelismo. Attribuito all'angelo, lo strumento musicale diventa il simbolo più felice di questi esseri senza corpo, che sono tuttavia dei punti di trasmissione del messaggio.
ii La metafora del figlio generato dall'orecchio risale a una formula di sant'Agostino: «maritus sermo est et uxor auricula».
iii Un giudizio storico documentato si veda F. Bottomley, Attitudes to the body in western Christendom, London 1979.
iv Cf. l'esemplare trattazione della corporeità di Gesù ad opera di H. Wolff, Gesù, la maschilità esemplare. La figura di Gesù secondo la psicologia del profondo, trad. it., Brescia, Queriniana, 1979 (Nuovi saggi Queriniana, 40), con il ricorso agli strumenti offerti dalla psicologia dinamica di Jung.
v Per una rassegna di tali movimenti, cf. S. Spinsanti, Il corpo nella cultura contemporanea, Brescia, Queriniana, 1984 (Giornale di teologia, 148) e D. kamper-CH. wulf, Die Wiederkehr des Körpers, Frankfurt 1982.
vi Si veda U. voelker (a cura), Humanistische Psychologie, Weinheim-Basel 1980, specialmente il cap. Der Körper und die gesunde Persönlichkeit, p. 219-226. Una chiara presentazione della psicologia transpersonale è il volume di K. Wilber, Oltre i confini, trad. it., Assisi, Cittadella, 1985.
vii Questo uso del corpo per sperimentare la trascendenza non è che un caso particolare di una più vasta penetrazione della cultura nel corpo stesso: «Il corpo sociale esercita una pressione sul modo in cui il corpo fisico è percepito. L'esperienza fisica del corpo, sempre modificata dalle categorie sociali attraverso le quali esso è conosciuto, conferma un particolare modo di vedere la società. C'è un continuo scambio di significato tra questi due generi di esperienza corporea, sicché ognuno rafforza le categorie dell'altro», M. Douglas, Natural symbols: explorations in cosmology, London 1970, p. 65. Il corpo fisico come noi lo percepiamo è dunque un segmento della nostra «costruzione sociale della realtà». Ma malgrado la restrizione delle percezioni e dei processi cognitivi ad opera della società, attraverso il mio corpo talvolta capisco di più di quello che so attraverso la mia società.
viii Cf. A.H. Maslow, Religious, values, and peak-experiences, New York 1970.
ix La distinzione tra inconscio inferiore e super-inconscio, o inconscio superiore, teorizzata da Roberto Assagioli, è comunemente assunta nell'ambito della psicologia transpersonale, che vuol essere una «psicologia dell'altezza», oltre che del profondo: cf. R. Assagioll, Psicosintesi, Roma, Edizioni Mediterranee, 1977, p. 170 ss.
x Cf. J. Benthall-T. Polhemus, The body as a medium of expression, London 1975.
xi Una buona sintesi è Il corpo vissuto, un'antologia di scritti di M. Merleau-ponty, a cura di F. fergnani, Milano, Il Saggiatore, 1979.