Sandro Spinsanti
Verso una teologia sistematica del corpo
in Medicina e Morale
fasc. 1/1983, pp. 5-12
VERSO UNA TEOLOGIA SISTEMATICA DEL CORPO
La teologia esperienziale e il corpo vissuto
Tra le due modalità fondamentali di sperimentare il proprio corpo, quali le ha evidenziate la riflessioni filosofica che si ispira alla fenomenologia, l’ago della bussola teologica si dirige verso il polo del corpo vissuto. La fenomenologia ha dischiuso, in contrasto con le concezioni dominanti, l’esperienza della corporeità come una nuova terra di ricerca. Il corpo umano che è rilevante per l’antropologia teologica non è quello che consideriamo un «dato», alla stregua di un oggetto — il corpo originariamente percepito come il corpo di un altro, e solo secondariamente, per modalità derivata, trasferito al proprio —. Il corpo vissuto fenomenico è un elemento fondamentale dell’esperienza esistenziale immediata; appartiene alla sfera del sé, da cui non si può prendere le distanze; vi si intrecciano i concreti, «corporei» incontri con gli altri esseri umani e con il mondo, le vicende del divenire storico e quelle della comunità umana 1.
Questo stesso corpo fenomenico, luogo centrale della nostra esperienza umana, è percepito come rilevante per la teologia in quanto riflessione sul vissuto della fede. Un esempio di come la teologia spirituale, concepita erroneamente come polarità opposta al corpo, possa aprirsi ed essere fecondata dai valori della corporeità, è offerto dall’opera di Vladimir Truhlar. L’autore è ben referenziato: con i suoi venticinque anni di insegnamento all’università Gregoriana e le sue numerose pubblicazioni, Trulhar può essere considerato uno dei fondatori della teologia spirituale — o «mistagogia della vita cristiana» — a livello accademico. Truhlar, alla ricerca di un centro unificatore che desse coerenza tanto al metodo quanto al contenuto della teologia spirituale, lo ha individuato nel concetto di «esperienza dell’assoluto».
6
La via esperienziale indicata come nucleo germinale della vita spirituale non è di tipo irrazionalistico (come la categoria dell'Erlebnis nella fenomenologia della religione). Essa si situa piuttosto su un piano in cui l’antinomia «razionale — irrazionale» è inappropriata, in una situazione gnoseologica sui generis. Il sapere di cui è questione nella vita spirituale non è il «pensare» concettuale, né quella conoscenza della realtà che si acquisisce mediante la sperimentazione: è il sapere relazionato all’esperienza del proprio essere e dell’assoluto, comune a tutti gli uomini. Nella via esperienziale l’essere si «sente»: non mediante determinate percezioni sensitive, immaginative, concettuali; e neppure per il tramite della volontà e del sentimento (il Gefühl dei tedeschi, in quanto si oppone alla conoscenza). L’accesso all’essere passa al di sopra di tali categorie: è diretto, «acategoriale». Si perviene a questo contatto immediato con l’essere indirizzando l’attenzione non verso gli oggetti così come sono nell’uomo, ma verso ciò che li accompagna e in cui sono immersi, verso ciò che costituisce il loro orizzonte. Questa esperienza dell’essere accompagna ogni categoria dell’attività umana, benché come tale non possa mai essere afferrata con i concetti. È una possibilità dell’essere umano, anche se non si realizza per tutti e con frequenza. Si richiede che il centro personale dell’uomo si rivolga ad essa mediante una certa attenta apertura.
L’importanza del concetto di «esperienza» nella teologia spirituale si manifesta nelle sue conseguenze. La più importante è che tutta la teologia risulta ampliata nei suoi interessi e «centrata». La via esperienziale conduce, infatti, a un centro in cui tutto l’uomo è presente come nel punto di partenza della sua vita intera. Tutto è unificato: lo spirito, la psiche, l’immaginazione, i sensi. L’esperienza dell’assoluto si manifesta attraverso il corpo, si iscrive, in un certo senso, nella respirazione 2. La spiritualità, grazie a questa integrazione del corpo, perde il carattere rarefatto che il termine era solito evocare, per assumere la concretezza poliedrica della vita umana. Ciò è particolarmente
7
importante in un’epoca in cui, dopo l’ebbrezza dei miti del progresso e della macchina, ci stiamo ripiegando sul corpo per difendere quella fragile realtà che designiamo come «qualità umana».
La teologia può lasciar cadere la sua diffidenza nei confronti del corpo, nella misura in cui il senso vissuto del corpo umano è assunto all’interno dell'esperienza dell’assoluto. L’uomo, in quanto unità e totalità, nella sua esperienza dell’assoluto non percepisce se stesso solamente in quanto spirito, ma anche in quanto corpo; ovvero: percepisce il corpo all’interno della percezione del proprio essere. Il corpo stesso, pertanto, viene sentito come pervaso dall’esperienza dell’assoluto: «Il senso dell’assoluto permea la percezione della corporalità con quel ritmo, ordine, apertura, armonia, pace, scioltezza, distensione, lucidità, ecc., che gli sono propri; cerca di creare, partendo dalla corporalità, uno spazio che sia in armonia con la esperienza e in cui questa possa esprimersi e vivere... Quanto più l’uomo, nel suo corpo, si adegua al ritmo, alla scioltezza, alla lucidità del senso dell’assoluto, tanto più liberamente questo senso può vivere, espandersi, svilupparsi, esprimersi nella corporalità dell’uomo; tanto più questa corporalità diviene un «materiale» in cui si esprime il centro personale col suo assoluto; tanto più il corpo assume la sua funzione di manifestare e rivelare il nucleo personale, adeguato nella sua esistenza all’assoluto; tanto più le forme della vita corporale sono pervase dall’influsso del centro personale con la sua esperienza e si fanno perciò trasparenti verso il centro e il suo assoluto» 3. La teologia che riflette sull’esperienza spirituale non può avallare nessuna forma di disincarnazionismo e di ascesi impostata sul disprezzo o sull’indifferenza per il corpo. Quando si considera l’uomo nella sua profondità esistenziale, il corpo si identifica con l’essere umano in quanto concretizzato nell’orizzonte della corporeità. Come dimensioni dell'esperienza immediata, il corpo vissuto e lo spirito vissuto si sovrappongono fino a confondersi.
Gli studi esegetici sulla corporeità nell’antropologia paolina
La corporeità vissuta, con i suoi significati fenomenologici e ontologico-esistenziali, offre un prezioso aiuto per la comprensione
8
del Nuovo Testamento, e in particolare per la comprensione della teologia paolina. Un’importante stagione di studi esegetici ha permesso di ritrovare l’orizzonte ermeneutico originario di soma e sarx neotestamentari: non come componenti ontiche essenziali dell’uomo, bensì come dati fondamentali della condizione umana. Il soma, in particolare, significa la sfera della concretizzazione esistenziale, il luogo dell’incontro e della comunicazione, in cui la salvezza è raggiunta o mancata, il mezzo dell’acquisizione della fede o della soggezione al mondo. Uno studio di Robinson — il teologo anglicano diventato in seguito molto noto per aver proposto con Dio non è così una nuova immagine di Dio — ha divulgato per primo le acquisizioni dell’esegesi scientifica in merito alla antropologia paolina 4. Negli ultimi anni si sono succedute altre importanti ricerche di teologia biblica 5. Non si creda che gli esegeti pretendano, storicamente, di trovare negli scritti paolini risposte alle domande sul corpo e la corporeità che si pone l’uomo contemporaneo. La problematica di Paolo è esplicitamente «teologica», nel senso che è concentrata sul rapporto tra Dio e l’uomo dal punto di vista della giustificazione. Ciò che a Paolo interessa è l’apertura ultima nella quale l’uomo è costituito, proprio a partire dalla sua corporeità — l’uomo in quanto uomo dinanzi a Dio —; esula invece dalla sua prospettiva il corpo come fondamento della vitalità, oppure la corporeità propria dell’«homo faber», o quella che si esprime nella creazione artistica, nonché la corporeità armoniosa che è il fondamento del benessere psicofisico.
Nella somaticità Paolo individua il principio e il fondamento della singolarità personale. L’accentuazione dell’unità intrinseca dell’uomo comporta «un superamento e un distacco da ogni forma di dualismo, non solo da quello di tipo platonico, secondo il quale la unione di anima e corpo è accidentale, ma anche di quello aristotelico che, pur affermando l’unione sostanziale, resta ancora dominato dall’orientamento del mondo greco» 6. Benché la dottrina ellenica dell’immortalità dell’anima offrisse una soluzione al problema della morte,
9
Paolo non vi aderì; mantenne la sua concezione dialettica dell’uomo, portatore, nella mondanità del suo essere, di una destinazione ultramondana. Usando la filosofia esistenziale come strumento ermeneutico, R. Bultmann ha recuperato il senso paolino del soma come modalità esistenziale: non qualcosa che sta attaccato dall’esterno al vero «io» dell’uomo (magari identificato con l’« anima»), bensì la persona nella sua totalità, considerata nella sua concreta realtà. Secondo l’incisiva formulazione di Bultmann, «l’uomo non ha un soma, bensì è soma» 7. Di qui la possibilità di tradurre soma con «persona» o «personalità». L’uomo è «corpo» in quanto nello spazio — tempo di Gesù Cristo può rendere se stesso oggetto del proprio fare, o soggetto di un patire. La somaticità apre l’uomo all’intervento dello Spirito di Dio e quindi alla speranza sicura della salvezza; oppure lo espone alla minaccia di smarrimento, di perdizione nella sarx, come luogo simbolico in cui trionfa la potenza del peccato.
La concezione di Bultmann non ha riscosso l’adesione di tutti gli esegeti. Kàsemann, in particolare, ha accusato l’antropologia bultmaniana di sviare l’interpretazione del soma in Paolo verso la concezione greca, che vede nell’uomo un individuo chiuso in se stesso. A suo avviso, invece, quando Paolo parla di soma non si riferisce né esclusivamente, né principalmente alla personalità dell’individuo, bensì alla sua capacità di comunicazione e alla sua appartenenza al mondo 8. Qualunque siano le correzioni che una più attenta esegesi richiede di apportare, la corporeità dell’uomo, vista nell’orizzonte della rivelazione escatologica di Gesù Cristo, fonda la possibilità di essere provocati dal Vangelo e di essere un nuovo uomo, una nuova creatura. Il corpo non è, dunque, nella visione cristiana dell’uomo, il polo opposto dello spirito, bensì il luogo in cui il credente diventa «Spirito vivificante».
Le dimensioni di una teologia del corpo
Il terreno è ormai pronto perché la teologia sviluppi una visione organica e sistematica del significato del corpo per l’uomo nel dialogo della salvezza cristiana. Un autorevole impulso in tal senso viene da
10
Giovanni Paolo II, il quale nella sua catechesi settimanale al popolo cristiano che si reca alle udienze ha arditamente posto una riflessione teologica sul corpo, come sviluppo di un commento alla Genesi 9. Non mancano abbozzi di una teologia del corpo presso alcuni teologi 10. È possibile evidenziare almeno le linee portanti di quel disegno.
Il corpo situa l’uomo di fronte a Dio nella dimensione della creaturalità. Mediante il corpo l’uomo partecipa alla finitezza del mondo. Pur dominando la natura, rimane dipendente da essa: ha bisogni fisici che devono essere soddisfatti, è continuamente minacciato, vulnerabile, esposto alla sofferenza, alle malattie e all’invecchia- mento, destinato alla morte. La somaticità, in quanto caducità della materia, può diventare, se illuminata dal messaggio della creazione, il luogo in cui l’uomo sperimenta il proprio essere come dono. La limitazione intrinseca alla materia di cui è costituito il corpo è il fondamento, inoltre, della vita sociale, in quanto l’essere umano può vivere solo in una comunità di interscambio.
Alla dimensione della creaturalità l’uomo partecipa non solo passivamente con quello che subisce, ma anche attivamente. Ricevendo il corpo, riceve al tempo stesso la capacità e il comandamento di «fare» il proprio corpo. Il corpo — natura, in altri termini, è destinato a diventare corpo — cultura. Ciò implica il compito di correggere gli sbagli possibili della natura e integrare le sue insufficienze; comporta soprattutto il compito di utilizzare «tutto» il corpo, sviluppando le potenzialità implicite (compresa quella dimensione corporea che non conosciamo, di cui si occupa la parapsicologia).
Il corpo vissuto si organizza intorno ai sensi, intesi come le porte attraverso cui la persona è in comunione con il mondo. La dimensione della sensorialità lascia intravedere quasi un’ontologia diversa, che privilegia l’accoglienza rispetto all’autosufficienza dell’essere. La recipienza del corpo ha una diretta rilevanza teologica, in quanto fonda la dimensione religiosa della vita. Quando si atrofizza la sensorialità, non ne risente solo la facoltà umana di scoprire e creare la bellezza
11
come risposta alla caducità del mondo, bensì anche quella capacità di trovare un significato ulteriore al mondo, che è l’essenza stessa della religiosità. Perché il mondo di Dio non è colto con un ragionamento; piuttosto, come insegnano i mistici, visto - udito - toccato - odorato con tutti i sensi; il Regno dei cieli è accolto con l’accoglienza uterina propria della sessualità femminile; e in esso si penetra con l’intrusività propria della genitalità maschile.
Una terza dimensione del corpo di rilevanza teologica è la storicità. Il corpo cambia e di tutte le trasformazioni conserva una memoria, distinta dalla memoria logica e da quella emozionale. Il corpo cambia: e non solo perché soggetto, in quanto natura, alla caducità, ma anche perché incontra altri corpi. Tra tutti i corpi che sono passati sulla terra nessuno ha influenzato la storia dell’umanità quanto il corpo di Gesù. È quanto annunciano la fede cristiana, confessando che Gesù è diventato, attraverso il mistero pasquale, «Spirito vivificante», e la riflessione teologica, parlando della risurrezione come nuova concezione. L’attenzione alla dimensione corporea che interessa il cristiano non è quella impastata di nostalgie regressive. L’invito di Gesù a tornare bambini è una specie di «invito in avanti». Il corpo promesso a chi si apre al Vangelo è l’icone del nuovo uomo che esce dal sepolcro. E la nuova forma, in cui l’uomo è creato, è la croce.
1 Cfr B. Thum. K. Hörmann, «Leib», in Lexikon der christlichen Moral, Innsbruck-Wien 1976, 964-971.
2 Si veda il capitolo dedicato all’integrazione del corpo in V. Truhlar, Concetti fondamentali di teologia spirituale, Brescia 1971 p. 72: «Bisogna inserire anche il corpo nella ricerca della via esperienziale, mettere anch’esso nell’impegno generale dell’uomo intero, affinché non sia un ostacolo, ma piuttosto un elemento che porta all’esperienza e che si unisce armonicamente nella percezione del proprio essere e dell’essere assoluto, nonché nell’estensione di questa percezione e di questo senso, in tutti i campi della vita umana... All’interno della realtà umana anche il corpo viene percepito e come penetrato del senso dell’assoluto (Dio)». La seconda edizione dell’opera di Truhlar, Brescia, 1982, è preceduta da un saggio di S. Spinsanti, che discute i vantaggi di un approccio esistenziale — concreto — corporeo della vita spirituale.
3 V. Truhlar, Lessico di spiritualità, Brescia 1975, p. 141.
4 J.A.T. Robinson: Il corpo. Studio sulla teologia di san Paolo, Torino 1967.
5 Citiamo, tra le più importanti: E. Schroten, Kerker of Tempel? Over te zin van de lichamelijkheid, Rotterdam 1970; K.A. Bauer, Leiblichkeit. Das Ende aller Werke Gottes, Gütersloh 1971; S. Heine, Leibhafter Glaube. Ein Beitrag zur Verständnis der theologischen Konzeption des Paulus, Wien 1976; G. Bof, Una antropologia cristiana nelle lettere di S. Paolo, Brescia 1976.
6 G. Bof, Una antropologia cristiana..., cit., p. 95.
7 R. Bultmann, Theologie des Neuen Testamentes, Tübingen 1958, pag. 195.
8 E. Kaesemann, Prospettive paoline, Brescia 1972.
9 La catechesi del mercoledì sul corpo è raccolta in un volume dal titolo Teologia del corpo (ed. Paoline, collana «Magistero») Roma 1982.
10 Le suggestioni più feconde per un organico ripensamento teologico della corporeità sono venute da J.B. Metz: Corporeità in Dizionario Teologico, 1, Brescia 1966, 331-339; Caro cardo salutis, Brescia 1968; Zur Metaphysik der menschlichen Leiblichkeit, in Arzt und Christ (1958) 78-84.