
Sandro Spinsanti
IL CORPO NELLA CULTURA CONTEMPORANEA
Queriniana, Brescia 1983
pp. 168
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INTRODUZIONE
IL CORPO, TRA CULTO E CULTURA
Una porta a due battenti si apre sul modo di vivere che contraddistingue la seconda metà del sec. XX: il primo battente è lo sviluppo della tecnologia, il secondo il ritorno al corpo. Il corpo trionfa nelle arti e nel costume. L’Occidente dell’epoca industriale avanzata, perse le tradizionali fedi religiose e laiche, defluiti gli entusiasmi ideologici, sembra aver trovato un’unità ecumenica nel culto del corpo. Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti. La cura del corpo non appartiene più solo ai privilegiati: la pressione esercitata dai mezzi di comunicazione di massa l’ha fatta straripare anche negli altri ceti sociali. Cosmetici e diete, jogging e club ginnici, maratone e sports non competitivi: la nostra civilizzazione offre l’immagine di un felice ripiegamento sul corpo alla ricerca della perfetta ‘forma’ fisica. L’entusiasmo delle folle di fronte ai bronzi di Riace non sarebbe spiegabile se il corpo non occupasse un posto cosi centrale nel nostro universo simbolico. Finita l’epoca della vergogna del corpo, ci sembra di esser pronti per una seconda giovinezza, con ai piedi le ali di una nuova mitologia. I giornali e le riviste che parlano del corpo — medicina, sport, amore e sessualità — aumentano le loro tirature. Le scuole di danza e di ballo segnano il ‘tutto esaurito’. I laboratori teatrali continuano ad esplorare tutte le possibilità espressive del corpo: il gesto, la mimica, i suoni. Il legame tra pubblicità e corpo umano sembra impermeabile a qualsiasi scrupolo moralistico: Sua Maestà il Corpo, associato a prodotti di ogni genere, trionfa sul piccolo come sul grande schermo, sui rotocalchi come sui pannelli stradali.
Se il fenomeno è sotto gli occhi di tutti, la sua interpretazione è tutt'altro che univoca. La nostra civilizzazione si è veramente ‘riappropriata del corpo’, come pretendeva uno degli
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slogans più ripetuti del ’68? oppure l’emergenza del corpo è un fenomeno illusorio (da paragonare al fenomeno dell’‘arto fantasma’, conosciuto in neurologia: mai la percezione di un arto è tanto forte e dolorosa, come dopo la sua amputazione!)? L’innamoramento collettivo per il corpo è solo un aspetto della società consumista, da attribuire alla ben nota astuzia del capitale, oppure segna una svolta epocale, che nasce dalla crisi del consumismo e della cultura acquisitiva, in un trionfo neo-poveristico che indietreggia su ciò che più sicuramente possediamo, cioè il corpo? La ricerca del benessere psicofisico è finalizzata ad attribuire illusoriamente al corpo quel ruolo centrale, che gli viene invece sistematicamente negato dalla violenza quotidiana? La rivolta dionisiaca introduce nella rivoluzione del corpo, quale ultima rivoluzione, oppure fa accedere all’epoca in cui trionfa un narcisismo involutivo e una politica della consolazione?
Il nostro saggio si propone di offrire una rassegna dei più importanti problemi antropologici ed etici relativi al corpo, così come sono presenti nei dibattiti culturali contemporanei, alla ricerca di snodi teoretici e pratici in armonia con la visione cristiana dell’uomo. Si articola in tre parti. Ci metteremo dapprima a seguire le disparate piste che, dai più diversi ambiti di esperienza, ricondurranno allo stesso centro: il corpo come luogo di interrogativi fondamentali sull’uomo. Nella seconda parte esploreremo il patrimonio storico della saggezza cristiana nell’atteggiamento verso il corpo, alla ricerca dei valori permanenti. Affronteremo, infine, alcuni problemi selezionati relativi ai modi pratici di vivere il corpo, lasciando emergere orientamenti normativi che tengano conto delle acquisizioni antropologiche e teologiche sul corpo. Sono altrettanti capitoli di quel sapere che un germanista chiamerebbe praktische Theologie. Oppure bisognerà chiamarlo ‘sapienza’, tout court. Non meno della sapienza — la stella polare dei filosofi e dei mistici — è necessario oggi, dopo che il corpo è lentamente scivolato al centro dell’ansia, per abitarlo senza infelicità.
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FIGURE DEL CORPO ALLA RICERCA DI SE STESSO
Sono nato una seconda volta
quando la mia anima e il mio corpo
si amarono e si unirono in matrimonio
(Kalhil Gibran)
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capitolo primo
IL CORPO COME UTOPIA POLITICA
1. Il corpo a controcultura
Il movimento è stato identificato e studiato in tutti i suoi risvolti; ha già ricevuto le sue brave etichette, per essere catalogato al posto giusto nei libri di storia. Sembra che alla fine, tra le tante, abbia prevalso la qualifica, di sapore nietzscheano, di ‘rivolta dionisiaca’; a buon diritto, perché nessun vate della cultura contemporanea ha protestato più forte di Nietzsche contro la soggezione dei sensi e della sensualità a modelli culturali mutilanti e ha rivendicato con più vigore i diritti del corpo 1. Già imbalsamato, dunque, il movimento, assunto nell’universo rarefatto dei miti, finito nella rigidità delle cose morte? oppure qualcosa si muove ancora?
Il termine ‘movimento’, per indicare l’aspirazione a nuovi rapporti sociali sulla base di un diverso rapporto col corpo, è appropriato in senso letterale, oltre che metaforico. Uno dei primi segni della nuova stagione del corpo è stato il rock, che metteva in movimento i giovani corpi, risvegliava nelle membra irrigidite dalla repressione di una società tendente all’efficienza e al profitto la pulsante energia animale, col ritmo martellante rianimava le passioni; e mentre Elvis Presley incitava
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let go - let go - let go - let go..., la musica portava i giovani gli uni verso gli altri, in un progetto di nuova socialità 2. In nuce c’era già tutto: la contestazione, la riabilitazione del corpo, e i giovani come protagonisti 3. Era l’epoca degli hippies, con la loro inventiva disarmante e fantasiosa; e la beat-generation si sradicava dall’humus spirituale dell’Occidente per esplorare le vie di un Oriente — indù, tibetano, e soprattutto buddista zen — riscoperto come tradizione di una spiritualità non ostile al corpo.
La protesta si è estesa in un baleno in tutto il ‘villaggio’ occidentale. La posta in gioco era una nuova cultura del corpo: provocatoriamente, i capelli lunghi sono stati scelti come bandiera del movimento. Secondo la formula incisiva di Roger Garaudy, dapprima è stato il corpo che ha opposto un rifiuto, lo spirito lo ha poi seguito sulla via della ribellione. Era una rivolta contro l’educazione autoritaria, in nome della fedeltà al ‘Bambino’, quale riserva di natura incontaminata. Si mirava alla delegittimazione e alla destrutturazione del mondo della mutilazione corporea, proponendo in alternativa le creazioni di àmbiti che facilitassero il contatto intersoggettivo (le famigerate comuni, in cui il benpensante vedeva solo abolizione dei tabù sessuali e promiscuità, esprimevano soprattutto il bisogno della tenerezza, mediante la vicinanza corporea) e il contatto interoggettivo (il nuovo rapporto con la natura promosso dal movimento ecologico). L’obiettivo era posto in alto: si mirava alla trasformazione della società stessa, grazie a un ambiente che favorisse la ‘vita’, cioè rapporti con il mondo e con gli uomini non più soggetti alla repressione. Il corpo, trasformato
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da strumento di lavoro in organo di piacere, sarebbe stato il profeta per condurre ciò che restava dell’umanità, dopo il diluvio dell’epoca borghese-capitalista, nella nuova terra promessa. In attesa della palingenesi, le controculture producevano intanto un fuoco d’artificio di nuove esperienze e modi espressivi, in cui prendeva forma un alternativo umanesimo del corpo. «La rivalutazione di antiche pratiche artigianali e l’instaurarsi di rapporti umani non convenzionali, gli esperimenti coraggiosi compiuti nella organizzazione di comunità deliberatamente fondate, le esperienze di vita tribale, i nuovi stili e colori nell’abbigliamento, un desiderio di allegria percepibile anche nei suoni, il profumo stuzzicante dell’incenso e dei fiori, i riti organizzati prendendo a spunto forze e cicli cosmici reali o presunti, tutti questi aspetti della controcultura, per quanto insignificanti e goffi, costituiscono dei tentativi di ricatturare i valori antichi e duraturi che la civiltà industriale è in procinto di distruggere» 4.
Le controculture del corpo hanno prodotto risultati permanenti? La carica provocatoria e innovativa contenuta nel ‘contro’ è stata prontamente riassorbita dalla civiltà consumistica. Tutto ciò che veniva rivendicato come modo alternativo di vivere ha invaso il mercato, sotto forma di consumo. Tuttavia la ventata delle controculture, anche se non ha avuto gli esiti rivoluzionari che si riproponeva, non è passata senza conseguenze.
Secondo l’analisi sociologica di Sabino Acquaviva, la rivendicazione dei diritti del corpo ha capovolto l’immagine della cultura: nella società da cui usciamo le norme erano sopra, e il corpo sotto; oggi tende invece ad accadere il contrario: è l’esperienza di noi stessi che costituisce, almeno nei desideri, l’immagine del mondo e i significati dell’esistenza. Quel che è rimasto dell’esperienza politica del ’68 può essere individuato
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nel capovolgimento del rapporto tra noi, le nostre esperienze affettive e il nostro corpo: «la radicale diversità rispetto al passato — e dunque la fine di una civiltà — è anzitutto nell’esperienza fisica, e quindi radicale, profonda, di qualche cosa di diverso: è l’esperienza profonda del nostro essere fisicamente che si trasforma, è il senso del rifiuto e dell’accettazione, del disgusto e della gioia, di essere noi stessi, che assume dimensioni diverse» 5.
Sbandierando lo slogan ‘il personale è politico’, si pensava a una rivoluzione politica e sociale che implicasse anche le strutture economiche. La rivoluzione non c’è stata, mentre il sovvertimento della dimensione personale, cioè dell’organizzazione della propria vita, ha avuto luogo.
Lo spostamento del baricentro ha portato al rifiuto di valori in contrasto con la propria corporeità. Quando il corpo diventa il referente principale, è impossibile vivere le certezze dell’ideologia. Pensando dal basso, i valori diventano precari e i significati ultimi sommamente incerti. Il corpo non può promuovere verità da possedere definitivamente, ma solo il primato della individualità.
2. La filosofia neo-marxista del corpo
Gli schemi ideologici tradizionali si sono dimostrati insufficienti per render conto della nuova realtà, che si poneva come alternativa alla società capitalista. Il declino della cultura marxista non va attribuito solo alla delusione per le esperienze del socialismo reale, bensì a una flessione registrata nel suo stesso cardine ideologico, che proponeva il primato della specie sull’individuo. È proprio questa proposta antropologica di fondo che è crollata. Le culture alternative hanno aiutato a capire che questo è il punto critico: il desiderio dell’esperienza corporea esprime la rivendicazione del primato dell’individuo sulla specie.
La critica neo-marxista è stata indotta a considerare il legame
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intrinseco tra la sottomissione della natura esterna e l’annullamento del corpo. Il meccanismo che ha prodotto l’alienazione del lavoro è lo stesso che ha portato al silenzio del corpo nella nostra civilizzazione, soggiogando e distruggendo anche la natura intima dell’uomo. La via della liberazione non è solo quella del cambiamento dei rapporti di produzione; è anche quella che passa per il corpo, permettendogli di ritrovare il suo linguaggio, la sua sensualità, il suo significato umano. Quale esempio di riflessione neo-marxista, maturata alla luce del movimento della controcultura, può essere considerata l’opera dello storico Rudolf zur Lippe 6. Ha tematizzato il parallelismo tra il dominio dell’uomo sulla natura e quello esercitato sul suo proprio corpo. È un dominio organizzato socialmente: il modo in cui avviene e le conseguenze nella natura e per l’uomo sono differenti nelle diverse società e nelle diverse condizioni di vita offerte dalla natura. Lippe dipende nella sua analisi dal pensiero della scuola di Francoforte. Ma, a differenza del suo maestro Adorno, non considera la storia (capitalistica) dell’annullamento del corpo come un processo che si sviluppa linearmente, tendendo al basso, quasi che un unico processo di civilizzazione nemico del corpo conducesse dai tempi omerici al presente. Più dialetticamente, individua anche all’interno della storia dell’Occidente momenti in cui la libertà attraverso il corpo sembra sia stata una possibilità concretamente vissuta. La liberazione del corpo e attraverso il corpo ha avuto una grande stagione, per esempio, all’epoca del nuovo capitalismo commerciale, che prendeva parte esso stesso alla produzione. Studiando la danza nel primo Rinascimento, Lippe giunge alla conclusione che — almeno per un breve tempo e per un ristretto strato aristocratico — è stato possibile vivere di fatto la libertà attraverso il corpo.
Non a caso Lippe ha scelto di attribuire un valore emblematico a un momento dell’arte europea della danza. La danza
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rappresenta, infatti, la più importante disciplina dell’educazione corporea impartita dalla società e simbolizza il rapporto della società con la physis dell’uomo. Il fenomeno della danza artistica — studiato da Lippe nell’èra del capitalismo commerciale nelle corti dell’Italia settentrionale — può sembrare marginale nella discussione sullo stato presente del dominio esercitato tanto sulla natura che sul corpo dell’uomo. Eppure anche un altro pensatore neo-marxista, il filosofo Roger Garaudy, ha trovato nella danza la cifra per capire la portata del movimento della controcultura giovanile: «Che cosa succederebbe se, invece di costruire solamente la nostra vita, avessimo la follia o la saggezza di danzarla? Questa è forse una delle questioni più importanti che pone oggi la gioventù nella sua contestazione dei fini stessi del mondo che noi le trasmettiamo» 7. La filosofia sociale neo-marxista rifiuta di adottare la posizione della rigida ortodossia comunista, la quale riduce tutto il problema del corpo e del desiderio a una manifestazione piccolo-borghese, discorso ‘sovrastrutturale’, e quindi reazionario, dell’arsenale ideologico della borghesia decadente. Nel rifiuto di rimandare la danza... a domani — vale a dire: a stabilire nuovi rapporti col corpo solo quando saranno stati risolti i problemi della produzione e della giustizia — è contenuto il progetto di una politica del corpo che ha un esplicito valore di contestazione delle strutture entro le quali il corpo viene rinchiuso ideologicamente o programmaticamente. Equivale a una battaglia per la sopravvivenza dell’uomo, in un mondo in cui la carne e lo spirito vengono sistematicamente calpestati.
Il movimento di contestazione ha scelto come maîtres à penser quei pensatori radicali che hanno demistificato l’umanesimo del corpo inalberato dalla civiltà tecnologica, mettendo a nudo l’alienazione che cresce con i consumi di massa 8. Su tutti ha prevalso Herbert Marcuse, il filosofo che ha dato voce a un’originale sintesi di istanze neo-freudiane e neo-marxiste. Ha insegnato a diffidare dalla liberalità nei confronti delle pulsioni istintuali di cui fa mostra la società industriale avanzata.
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In realtà la libido è controllata come un valore commerciale. La scarica sessuale è permessa solo perché, ristabilito l’equilibrio della personalità, l’uomo possa investire di nuovo le sue energie nella produzione. Lui stesso sarà il consumatore forzato di ciò che è prodotto al di là dei bisogni: ad allettarlo al consumismo penserà l’erotismo pubblicitario, che a sua volta si serve disinvoltamente del corpo. ‘Desublimazione repressiva’ della sessualità, ha chiamato questo processo H. Marcuse.
Le articolazioni del pensiero di Marcuse sono estremamente complesse 9. Ma la generazione giovanile, che ne ha fatto la propria bandiera per la battaglia di destabilizzazione istituzionale del ’68, ne aveva individuato e valorizzato il pilone portante: il problema chiave dell’‘alienazione’ ha assunto oggi un significato diverso da quello che è stato tradizionalmente indicato dal marxismo. La dialettica della liberazione non passa per la lotta di classe, ma per il corpo umano. Esso è un eterno campo di battaglia dove si combatte la lotta degli istinti, antecedente a quella delle classi sociali. La ‘logica del dominio’, che prevale nelle lotte di classe, si innesta su una alienazione più fondamentale che riguarda l’uomo nella sua vita psichica e nel suo rapporto con la natura. L’alienazione è il risultato di profondi e segreti atti repressivi che non saranno eliminati da un semplice rimescolamento delle strutture istituzionali della nostra società. La liberazione individuale, come diverso progetto di vita a partire dal rapporto col corpo che intrattiene colui che se lo è riappropriato, e che ha permesso al corpo di essere tutto ciò che esso può essere 10, è il presupposto per una liberazione intesa come costruzione di una società diversa.
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3. Il corpo vissuto: la lezione della fenomenologia
L’utopia politica di una nuova civiltà del corpo, che esplodeva con la contestazione giovanile, traeva la linfa, oltre che da una rilettura di Marx e di Freud, anche da quella svolta nel pensiero contemporaneo che ha avuto luogo con la fenomenologia. Il ritorno all’immediatezza del corpo non è che una figura particolare del ‘ritorno alle cose stesse’. La nozione di ‘corpo vissuto’, distinta dalla nozione di corpo-oggetto, si è affacciata per la prima volta nella storia del pensiero con Schopenhauer. A lui si deve la teorizzazione di una duplice conoscenza del corpo: una che lo considera dall’esterno, come oggetto tra gli oggetti, e l’altra invece dall’interno, anziché come oggetto di fronte al soggetto. La prima, che nel linguaggio di Schopenhauer corrisponde alla ‘rappresentazione’, ci parla del corpo nel modo in cui è stato concettualizzato dalla biologia, dall’anatomia, dalla fisiologia. Il secondo tipo di conoscenza è relazionato al corpo come atto motorio, come bisogno, come tensione, ed è manifestazione diretta della ‘volontà’. Proprio questa esperienza del corpo, intimamente saputo come moto, desiderio e impulso, è una chiave per penetrare al di là della facciata del reale.
La lingua tedesca è uno strumento linguistico appropriato per rilevare la distinzione tra le due concezioni del corpo, in quanto dispone di due termini distinti: Körper e Leib. Mentre Körper indica il corpo reso oggetto di una conoscenza fattuale, Leib designa il corpo vissuto: non una cosa tra le altre, bensì l’origine del rapporto con il proprio mondo 11.
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La nuova riflessione antropologica sul corpo si situa alla confluenza di diverse spinte, che hanno portato a superare la visione ottocentesca, riduttiva e semplificatrice, che concepiva il corpo come un fascio di meccanismi. Un apporto decisivo è venuto dalla psicanalisi. Partendo dalla scoperta della ‘conversione organica’, veniva alla luce la capacità del corpo di significare contenuti psichici rimossi. Veniva inferto così un colpo decisivo alla tradizionale dicotomia anima-corpo: la vita umana poteva essere intesa come corporeo-spirituale da cima a fondo. Dopo Freud conosciamo meglio la realtà incarnata dello spirito e il senso spirituale del corpo.
Anche la Gestaltpsychologie ha avuto la sua parte di merito nel far maturare la nuova stagione di riflessione filosofica sul corpo. Il suo contributo è consistito nella conoscenza della percezione. Questa non avviene secondo lo schema additivoaggregativo, ma ha piuttosto carattere di globalità. Le cose vissute si offrono d’emblée, con la loro tonalità qualitativo-emotiva e sensuale. Noi percepiamo il mondo non attraverso i canali indipendenti dei sensi, bensì con il nostro essere totale.
L’apporto decisivo a una nuova comprensione del corpo nell’esperienza vissuta è venuto dalla filosofia esistenzialista. Nell’analisi dell’esistenza svolta da Heidegger in Sein und Zeit c’è, in realtà, una lacuna. L’Esserci è descritto come aperto al mondo, al quale inerisce nel duplice senso di prendersi cura (degli esseri intramondani, in quanto ‘utilizzabili’) e dell'aver cura (degli Altri). Tuttavia Heidegger ha lasciato inesplorato quanto questa struttura dell’Esserci dipenda dalla corporeità. La sua analisi suppone come già risolti i problemi del corpo e della percezione. Non così, invece, in Sartre. Il suo L’être et le néant ha sostanzialmente colmato la lacuna. Il corpo, nella sua analisi, non è solo qualcosa che possiedo; il corpo, che vivo in prima persona, sono io stesso: j’existe mon corps. Il corpo per sé, o corpo-soggetto, è un insieme di fatticità e di trascendimento; la corporeità è così inclusa nel moto del dépassement.
L’analisi sartriana è stata ulteriormente approfondita da Merleau-Ponty. Egli è andato oltre la contrapposizione di Sartre tra
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corpo oggettivo (o ‘per gli altri’) e corpo fenomenico (o ‘per me’), che in qualche modo non abolisce ancora completamente le polarità classiche del soggettivismo e dell’oggettivismo, della coscienza e della cosa. Nell’articolata riflessione di Merleau-Ponty sulla corporeità si intrecciano tutti i temi essenziali della nuova coscienza del corpo: l’apertura del soggetto al mondo in virtù del corpo che esso vive; l’inerenza della coscienza al proprio corpo; la concordanza tra la percezione che il mio corpo ha di se stesso e l’esperienza percettiva dell’oggetto esterno; la connessione tra Tesservi di un mondo percepito in comune e la compresenza dei soggetti (il corpo fonda la fenomenologia relazionistica di Merleau-Ponty). Per oltrepassare l’alternativa del per-sé e dell’in-sé, è necessario partire dalla struttura del comportamento. In questa esperienza il corpo proprio (nel senso di Leib, o corpo animato: la realtà psicofisica avente la particolarità di essere vissuta come ‘mia’) viene a formare un terzo genere tra il puro soggetto e l’oggetto. Questa esperienza vissuta del proprio corpo non ha nulla a che vedere col ‘pensiero del corpo’, o con l’‘idea del corpo’ che ci formiamo per riflessione attraverso la distinzione del soggetto e dell’oggetto. Il corpo vissuto non è solo il nostro modo di far attivamente presa sul mondo; è anche la nostra possibilità di esserne partecipi e di abitarlo: «Sia che si tratti del corpo altrui, sia che si tratti del mio, non ho altro modo di conoscere il corpo umano che viverlo, cioè assumere sul mio conto il dramma che mi attraversa e confondermi con esso» 12.
La riduzione, cosi caratteristica della filosofia contemporanea, del corpo a un comportamento — o a un modo d’essere vissuto — ha gettato una nuova luce sulla sfera di fenomeni in cui il corpo consiste. La riduzione non è un riduzionismo.
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Tutt’altro: il corpo è corpo, ma il corpo supera il corpo: è più di se stesso. È carico di un significato che ne fa una cifra della totalità della persona.
4. Il corpo narcisistico, dopo il corpo utopico?
Il ritorno all’immediatezza del corpo — nello sbandieramento policromo delle culture alternative e nella severa riflessione del pensiero fenomenologico — mobilita gli animi più di qualsiasi programma ideologico. Le pratiche corporee recenti, che contraddistinguono in modo così vistoso la fisionomia della nostra civilizzazione, realizzano un ritorno al corpo sui generis, non riconducibile totalmente agli indirizzi programmatici che abbiamo considerato. La categoria più esplicativa di ciò che si sta svolgendo sotto i nostri occhi sembra essere quella del ‘narcisismo’. Esso fornisce in misura crescente una figura della società post-moderna, perché intimamente legato ai dispositivi permeanti che nella nostra società muovono cose e persone. Secondo lo psico-sociologo C. Lasch, il concetto di narcisismo ci offre un ritratto sufficientemente esatto della personalità ‘liberata’ del nostro tempo. È come se stesse prendendo forma un nuovo stadio dell’individualismo 13.
Il tratto fondamentale di questo narcisismo è il ritorno su di sé. In questo ripiegamento vengono investite le energie altrimenti canalizzate nei trascendimenti di tipo politico o sociale. È un tuffo nell’interiorità, che sceglie di fare del corpo il solo ‘luogo dell’avventura’ 14. L’appoggiarsi alla coscienza corporea non fornisce solo una risorsa intima di durata e di certezza, ma è ricercato come via di liberazione: «Chiunque voi siate, se volete trasformarvi cominciate dal vostro corpo» 15. È come se le resistenze al cambiamento situate nell’inafferrabile
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inconscio diventassero finalmente disponibili a una presa corporea.
Ma è reale o illusoria tale riacquistata padronanza del corpo? e qual è il tipo di libertà promossa dal mito della salvezza attraverso il corpo? Il ritorno su di sé, all’immediatezza del corpo, è una figura sociale; le norme continuano ad esistere, anche se non sempre mostrano palesemente la loro natura nell’abile rivestimento. ‘Narcisismo diretto’, lo ha chiamato Baudrillard. Il narcisismo non è una forza egualitaria, che livella le differenze. Le avventure della coscienza corporea sono anche esse un modo per sottolineare le distanze 16. L’inflazione del corpo resta un fenomeno che coinvolge le classi medie, installate in un ‘io’ sempre più appropriato, ma senza poter sfuggire alle sollecitazioni di mode e interessi che hanno il loro centro altrove.
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capitolo secondo
NEL LABORATORIO DELLE SCIENZE ANTROPOLOGICHE
1. Questioni nuove sul corpo
Un’ondata di vivo interesse per il corpo ha investito quel settore di discipline scientifiche — psicologia, sociologia, linguistica, antropologia culturale, etologia — che sono designate nel loro insieme come ‘scienze dell’uomo’. Si direbbe che, dopo l’esplosione dell’interesse per le tecniche corporee esotiche, diventate cultura ‘alternativa’, il mondo accademico abbia fatto eco al nuovo culto, quasi religioso, del corpo col proporre, a sua volta, il culto dello studio degli aspetti psico-sociali del corpo. Gli intellettuali hanno scoperto il corpo come fenomeno fondatore di significati, avviando un’inversione della tendenza a privilegiare il linguaggio parlato o scritto, come porta di accesso alla comprensione del fenomeno umano. La cultura scientifica dell’Occidente, tradizionalmente ‘logocentrica’, sposta la sua attenzione sui movimenti, gesti, posture ed espressioni del corpo fisico. E non solo con quella curiosità etnografica che faceva studiare il corpo dei primitivi — la nudità, la danza, il tatuaggio — per ricondurre le diversità inquietanti registrate in altre culture entro i limiti della razionalità occidentale. Se il ‘logocentrismo’ è visto come causa di alienazione, il ‘somatocentrismo’ è considerato, al contrario, come un aiuto a tornare a se stessi (la body experience come self experience). In ogni cultura, inoltre, il corpo, nel suo aspetto di — secondo la felice espressione di M. Mauss — «primo e più naturale strumento dell’uomo», si rivela come il luogo. privilegiato per comprendere le interconnessioni dell’individuo con la realtà sociale 17. Studiare il corpo, nell’approccio
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integrato delle diverse scienze dell’uomo, equivale, in definitiva, a uno studio della realtà umana nella sua totalità.
La fine della mono-coltura della parola può essere ricondotta alla volontà di uscire dalla crisi della comunicazione che affligge l’Occidente. Stiamo cominciando a renderci conto che l’eccessiva dipendenza dal linguaggio verbale, la cui caratteristica essenziale è l’arbitrarietà, ha portato all’atrofia le nostre risorse di comunicazione: siamo diventati ciechi e sordi ai potenti simboli espressivi del corpo. Ridare al linguaggio del corpo la priorità rispetto a quello verbale nell’espressione individuale e nella comunicazione sociale equivale a una rivoluzione antropologica. Rompendo con le referenze direttamente filosofiche, le scienze umane hanno privilegiato il versante rappresentativo del corpo, facendone una riserva di segni. Ciò ha comportato l’allontanamento dalla metafisica e dagli orizzonti ontologici, l’elisione del soggetto e delle problematiche rapportate alla coscienza.
Una delle piste più seguite dagli studi antropologici è precisamente l’esplorazione delle possibilità comunicative del corpo. Ogni cultura parla mediante l’utilizzazione del tempo, dello spazio, e delle posizioni del corpo un proprio ‘linguaggio silenzioso’ (E. Hall). Alla disciplina che se ne occupa è stato dato il nome di prossemica, o scienza dello spazio personale. Essa ha attirato l’attenzione su elementi importanti della dinamica della comunicazione che non erano stati presi in considerazione dai linguisti: la distanza o vicinanza fisica mantenuta dagli individui, il calore del corpo che essi emanano, l’odore che percepiscono in situazioni sociali, l’andatura, il senso del
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tempo appropriato per comunicare in differenti situazioni. Un’altra disciplina, la cinesica, studia invece più specificamente il comportamento comunicativo del corpo, vale a dire quei messaggi codificati dalla cultura che inviamo mediante gesti (come le occhiate, l’aggrottare le sopracciglia, l’alzare le spalle, far segni con la mano, muovere la testa e le dita, cambiare postura e segni involontari come l’arrossire). La cinesica analizza il canale di comunicazione costituito dai movimenti del corpo, un canale differente da quello del linguaggio 18.
Un altro modello di ricerca scientifica sul corpo è quello di tipo sociologico. La questione di fondo che muove questo tipo di studi può essere ricondotta alla domanda: in che modo la società interviene nel modellare il corpo? Per lungo tempo il lavoro tecnico degli antropologi è ruotato intorno alla tesi di Darwin, formulata già in un’opera del 1873, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, circa l’universalità delle espressioni stesse. Darwin era spinto alla conclusione che le principali espressioni corporee esibite dall’uomo sono le stesse in tutto il mondo. L’universalità era spiegata mediante la trasmissione genetica. La tesi di Darwin sembra passata in eredità agli etologi del nostro tempo. Ne costituisce un esempio l’opera di D. Morris, L’uomo e i suoi gesti. Morris osserva l’uomo in modo che il suo comportamento gestuale lasci trasparire il proprio senso biologico: vale a dire, la sua funzione nella
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soddisfazione dei bisogni e, in ultima analisi, nel mantenimento della specie. Per l’etologo l'homo sapiens sapiens è un primate, un fenomeno biologico regolato da leggi biologiche, come ogni altra specie. L’inventario dei gesti umani — un’impresa ardua, perché come specie ‘gesticolante’ non abbiamo l’uguale nel regno animale! — è costantemente ricondotto dall’etologo al significato biologico dei gesti stessi 19.
Gli studiosi di orientamento sociologico sottolineano invece che le espressioni corporee sono apprese. Le ‘tecniche del corpo’ — come si è ormai soliti chiamarle al seguito di M. Mauss ― sono fenomeni sociali e culturali, non ‘naturali’ 20. Ogni genere di azione reca l’impronta dell’apprendimento: non solo quelle complicate, formalizzate e ritualizzate, ma anche ‘semplici’ attività corporee come la frequenza del battito delle ciglia. Più che interamente apprese dagli altri, le tecniche del corpo sono scoperte attraverso gli altri. La serie di atti, più o meno abituali, che osserviamo nella vita dell’individuo e nella storia della società, sono dei montaggi fisio-psico-sociologici. Mediante un processo educativo, per lo più inconscio
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e non riflesso, la materia grezza del corpo fisiologico viene trasformata in un artefatto: il corpo umano, dotato di un significato sociale. Il corpo dell’uomo è anche un corpo sociale. I membri di una particolare società condividono determinati atteggiamenti e modi di comprendere il corpo: come, ad esempio, le definizioni di corpo ‘sano’, o ‘bello’, o ‘erotico’. Il corpo fisico come noi lo percepiamo è un segmento della nostra «costruzione sociale della realtà»; corpo e società si influenzano reciprocamente 21.
2. Alla scuola del corpo
Gli studi antropologici sul corpo, pur seguendo modelli e metodi diversi, lasciano già intravvedere alcune acquisizioni sulle quali non è difficile trovare il consenso degli studiosi. La prima riguarda il ruolo che svolge il corpo nella convivenza umana. Superata la concezione contrattuale della società, ritroviamo i fondamenti biologici del vivere sociale nella capacità di condividere stati somatici. La società è un sistema di forze attive in cui ogni corpo è profondamente sensibile alle emozioni degli altri. La comunicazione che è alla base della società, prima ancora di quella verbale, è quella che consiste nel condividere gli stati somatici (in coppia o in gruppi più ampi). Per questo processo non è richiesto, in teoria, un linguaggio parlato, per quanto in pratica l’uso del linguaggio e le sue conseguenze cognitive siano parte integrante dell’esperienza degli esseri umani normali. Il linguaggio, in ogni caso, è uno strumento successivo ai sistemi comunicativi sensoriali; esso è solo una forma di comunicazione, che per di più può essere
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straordinariamente ambigua e imprecisa, specialmente quando descrive le emozioni.
Il valore fondamentale delle forme di interazione non verbale può essere considerato una seconda acquisizione delle scienze antropologiche. Non nel senso che l’ago della bilancia si sposti dalla cultura alla natura. Anzi, la vecchia dicotomia è considerata irrimediabilmente superata dalla ricerca antropologica: l’evoluzione dell’uomo con il sorgere della cultura non ha reciso il suo legame con la natura; la cultura è biologica, legata alla genetica, ma la sua realizzazione dipende dall’interazione sociale. Tuttavia attraverso il corpo, che è lo strumento plastico e sensibile della comunicazione non verbale, possiamo talvolta capire di più di quanto sappiamo attraverso i processi cognitivi che ci vengono insegnati nel corso del processo di acculturazione 22. È una comunicazione diretta, che può essere chiamata un ‘corpo a corpo’ (anche se non ha una ‘naturalità’ tale da poter prescindere da una qualche forma di insegnamento).
La comunicazione non verbale è il canale privilegiato delle emozioni e si riferisce a questioni di relazione tra sé e gli altri: amore, odio, rispetto, paura, dipendenza ecc. I sentimenti, espressi come movimenti corporei, sono la base nella vita psichica, nonché della vita sociale. Quando il discorso veicolato dalla comunicazione non verbale si falsifica, il rapporto interpersonale diventa patogeno. Lo si può verificare in tutte le situazioni in cui si instaura un conflitto tra le categorie basate sulla parola e l’informazione che viene dal corpo. Quando la mente è artificialmente separata dal corpo, o il pensiero è separato dalle emozioni e movimenti del corpo che lo generano, ambedue ne soffrono. Cercando di risalire al silenzio primordiale, rotto dall’azione corporea, le scienze antropologiche contribuiscono a dare una risposta a uno dei malesseri più profondi dell'Occidente moderno.
Una terza indicazione che possiamo ricavare dagli studi sul corpo condotti dalle scienze dell’uomo riguarda il suo ruolo nelle esperienze umane di trascendenza. Tutte le culture assumono
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stati somatici di qualità particolare, che espandono la coscienza. I più spettacolari sono la trance e l’estasi; ma possono anche avvenire nel quadro della vita quotidiana, ed essere indotti con l’ausilio di bevande, droghe o digiuni. Secondo Maslow, tali esperienze sono parte integrante del corpo umano e costituiscono delle peak-experiences 23.
Senza impegnarsi in valutazioni di ordine metafisico, l’antropologia rileva che tali vissuti, propri dell’esperienza religiosa, della musica e della danza, realizzano l’uomo al suo più alto livello. Il conseguimento della consonanza tra diversi ambiti di esistenza — fisica, psicologica, sociale e cosmica — è fonte di un appagamento che è la base naturale di ogni trascendimento. Solo quando armonizziamo le nostre acquisizioni culturali con le forze e le strutture del corpo e accettiamo le sue condizioni, la vita umana acquista la sua piena dimensione creativa.
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capitolo terzo
IL CORPO AL FEMMINILE
1. Donna, sei il tuo corpo!
La donna si riferisce al corpo in modo diverso dall’uomo. Nell’insieme di ruoli e compiti che costituiscono le attese sociali legate allo stereotipo femminile il rapporto col corpo è prioritario. Essere donna rimanda al corpo. A quello degli altri, anzitutto. È la donna che pensa alle necessità del corpo dei membri della famiglia: nutre, pulisce, veste i bambini; accudisce i vecchi; cura i malati. Tutte le necessità fisiche sono legate tacitamente alla donna, in particolare all’interno del nucleo familiare. Dietro la parola ‘famiglia’ si può leggere sempre una realtà molto prosaica: c’è una donna che si occupa dei bisogni del corpo di altre persone.
A differenza del maschio, la donna è tenuta a rivolgere una attenzione privilegiata al corpo proprio. Anche questo è un imperativo legato allo stereotipo sessuale. L’immaginario della nostra civilizzazione è modellato sul corpo della donna. L’industria pubblicitaria presenta a getto continuo immagini di donne, di donne bellissime. Il commercio della bellezza, che serve a facilitare la vendita dei prodotti, induce la donna a un confronto continuo del proprio corpo con il modello ideale. A ben vedere, il corpo-oggetto della donna è strettamente imparentato col corpo-macchina applicato alla catena di montaggio, come due varianti di uno stesso asservimento alienante. Ma mentre l’espropriazione del corpo sfruttato dal lavoro è stata più facile da individuare e da denunciare, l’espropriazione che si traveste da mitica esaltazione del corpo femminile ha raggiunto la consapevolezza della massa solo attraverso i colpi d’ariete del movimento femminista.
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Lo sfruttamento del corpo femminile nella pubblicità è solo l’aspetto più grossolano della prevaricazione maschile. Ci sono altre forme di corporeità opprimente, che sono state cucite addosso alla donna dalla cultura maschile dominante. Una di queste è la corporeità ‘malata’ attribuita alla donna. Il suo corpo appare come bisognoso di cure continue, dal momento che tutto ciò che in lei è fisiologico è supposto essere patologico. Tutta una serie di eventi che fanno parte della normale vita biologica e sociale femminile — mestruazioni, contraccezione, gravidanza, parto, allattamento, menopausa — sono diventati di competenza medica. Se la dipendenza e la passività nei confronti della scienza medica sono comuni tanto agli uomini che alle donne, il corpo della donna è assoggettato in modo molto più radicale alla corporazione medica. E i medici della donna sono per lo più uomini, circondati per giunta da pessima reputazione quanto a grossolanità e insensibilità. I ginecologi danno l’impressione talvolta di rivaleggiare tra di loro in malcelata ostilità verso il corpo della donna 24.
Non è solo in questo o quell’ambito particolare che la donna è riferita al corpo: è la donna in quanto donna, ovvero la femminilità, che si tende a definire interamente tramite la natura. Il dibattito sulla dialettica natura-cultura al fine di spiegare
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le differenze sessuali oggi è per molti versi superato. La moda ideologica di spiegare le differenze — e ancor più i preconcetti su di esse — mediante il comodo sistema di interpretazione fornito dalla ‘natura femminile’, ha ceduto alla moda di riferire tutto alla società, o alla cultura. Questa riduzione è una visione semplicistica delle cose: «non tutto è genetico, non tutto è ormonale, non tutto è ambientale, non tutto è sociale, non tutto è politico» 25. Se gli studiosi più riflessivi si guardano dal riferire il dismorfismo sessuale e la duplice polarità maschile e femminile a una sola causa, gli stereotipi sedimentati continuano invece a imperversare. La ‘natura della donna’, identificata con la sua biologia, è invocata per difendere e giustificare le disuguaglianze di status tra uomo e donna. Ci si riferisce a una ‘natura’ predeterminata e fissata una volta per tutte, che la donna tradirebbe ogni volta che si discosta dai modelli tradizionali di essere madre, moglie, figlia o sorella. La natura giustifica il posto delle donne nella società: compiti, ruoli, status, poteri. La condizione della donna è mascherata come ‘finalità della natura’; i riferimenti alla fisiologia femminile — corredati di rappresentazioni mitologiche e ideologiche ― dissimula gli aspetti economici e socio-culturali della condizione della donna, nonché i meccanismi di dominio. Quando il corpo della donna è presentato come il suo destino, le si nega lo specifico privilegio del genere umano, che è il divenire.
Il movimento femminista ha trovato una forte spinta interna nella categoria della ribellione. Per liberarsi dai sistemi di dominio e di sfruttamento era necessario sbarazzarsi delle teorie sulla donna fatte da uomini, e in primo luogo rompere con le ‘finalità della natura’. Rifiutato il corpo confezionatole dall’uomo, bisognava rifarsi un proprio corpo. ‘Riappropriarsi del corpo’, appunto, come declamava lo slogan più ripetuto degli anni ruggenti del movimento femminista.
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2. Riappropriamoci del corpo
‘Riappropriamoci del corpo’: uno slogan appartenente a quel grappolo di formulazioni incisive e battagliere che riassumevano il programma del movimento femminista. Altri erano più aggressivi — ‘il potere è maschio’, ‘l’utero è mio, me lo gestisco io’ —, altri ancora più carichi di utopica poesia — ‘il personale è politico’, woman is beautiful —; analogamente, però, agli altri slogans, la riappropriazione del corpo ha espresso l’effetto di frattura con l’ordine precedente, di cui aveva bisogno il femminismo per imporsi. I tabù non potevano essere oggetto di ragionevole contrattazione, ma andavano abbattuti a spallate.
L’opinione pubblica è rimasta colpita soprattutto dalle rivendicazioni riferite al diritto ad abortire. Le femministe hanno dato un contributo polemico e appassionato per la legalizzazione dell’interruzione volontaria della gravidanza. Ma il diritto all’aborto rivendicato dai gruppi storici del movimento non si identifica con i lugubri slogans e le azioni provocatorie delle ‘autonome’. L’aborto non può essere reclamato come diritto di libertà, senza affermare al tempo stesso che quello di abortire è un diritto triste, e che il vero problema delle donne è quello di non aver più bisogno di abortire. Il vero oggetto delle rivendicazioni delle donne è l’autodeterminazione, nel campo della sessualità come nella gestione del corpo in genere. Il movimento femminista si è fatto portavoce del senso di frustrazione e di rabbia di tante donne, private delle conoscenze necessarie per un rapporto consapevole col proprio corpo ed esposte a gestioni paternalistiche di' esso. Scoprire il proprio corpo, il suo linguaggio, le sue vere necessità, al di sotto di quelle indotte dalle manipolazioni pubblicitarie, è diventato un obiettivo prioritario dell’emancipazione femminile.
Una formulazione incisiva del programma è fornita da Noi e il nostro corpo, un manuale scritto da un collettivo di donne di Boston 26. ‘Scritto dalle donne per le donne’, precisa il sottotitolo.
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Le autrici parlano dell’effetto liberante che può avere una diversa educazione del corpo. Essa comunica consapevolezza ed energia, che cambiano la vita. La conoscenza del proprio corpo ha infatti una risonanza psicologica immediata. Come l’ignoranza, la paura e l’insicurezza dell’identità fisica bloccano le energie, così la presa di coscienza mette in grado di raggiungere la completezza umana: «Immaginate una donna che cerchi di fare un lavoro o di avere un rapporto paritetico e soddisfacente con altre persone, ma intanto si sente fisicamente debole, perché non ha mai tentato di essere forte; esaurisce tutta la sua energia cercando di cambiare faccia, figura, capelli, odore, cercando di uniformarsi a qualche modello ideale stabilito dalle riviste, dai films, dalla televisione; si sente disorientata e si vergogna del sangue mestruale che ogni mese fluisce da qualche oscuro recesso del suo corpo; sente i processi interni al suo corpo come un mistero che viene a galla solo come fastidio (una gravidanza non voluta o un cancro cervicale); non capisce o non le piace il sesso e concentra le sue energie sessuali in romantiche fantasie senza scopo, pervertendo e facendo cattivo uso della sua potenziale energia perché è stata educata a negarla. Se impariamo a capire, ad accettare, a essere responsabili della nostra identità fisica, possiamo liberarci da alcune di queste preoccupazioni e possiamo cominciare a fare uso delle nostre energie disinibite. L’immagine che noi abbiamo di noi stesse avrà una base più solida, saremo migliori come amiche e come amanti, come persone; avremo più fiducia in noi, più autonomia, più forza, saremo più complete». Anche questa nuova coscienza di benessere e di autorealizzazione a partire da un rapporto armonioso col proprio corpo è implicita nello slogan ‘donna è bello’.
L’autogestione del corpo e della salute comporta un rapporto diverso con la medicina. La ribellione alla medicina accademica è avvenuta sotto il simbolo della strega, la protagonista dell’irrazionale femminile 27. ‘Le streghe son tornate’: uno slogan
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rivolto meno a intimidire che a ventilare la speranza di una riemergenza del represso. La strega va inserita nel revival dell’esoterico e di arti alternative femminili. Tra di queste l’arte di guarire in forza dei poteri terapeutici della natura, con le sue erbe e i suoi prodotti ricchi di qualità medicamentose. Probabilmente è una forzatura storica ritenere che le ‘streghe’ fossero le detentrici di quelle conoscenze, e che sulla loro pelle sia stata operata una raffinata manovra di potere: alle streghe il rogo, e agli stregoni il potere medico. Il simbolo della strega, cionondimeno, ha espresso efficacemente l’anelito a una cura del corpo che non sia espressione della sottomissione violenta e depredatoria della natura propria della cultura tecnologica.
Sul piano dei fatti le trasformazioni possono essere meno vistose di quelle proposte dai programmi utopici, ma non per questo meno importanti. Sta sorgendo una medicina per la donna, che rispetta molto di più la donna. Le ex-streghette si stanno ora magari specializzando in ginecologia e diffondono la pratica del self-help, o autovisita ginecologica.
L’umanizzazione del parto è un altro capitolo della rivoluzione culturale che sta avvenendo nel campo della salute della donna. Le donne non vogliono più essere oggetti passivi durante quello che è uno dei momenti più importanti della loro vita. L’‘interventismo’ medico ha trasformato la nascita in una specie di intervento chirurgico: parti cesarei inutili, fleboclisi con un ormone per accelerare le contrazioni, ultrasuoni dannosi per ascoltare il battito del feto... Mettere al mondo un bambino è equiparato a un fatto patologico, a una ‘malattia’. Anche se il ricupero del ‘parto naturale’, allo stato attuale della medicalizzazione della nostra vita quotidiana, non è più possibile, molto può essere fatto, e comincia ad essere fatto 28, sotto la spinta delle rivendicazioni femminili, che considerano un parto ‘riuscito’ non solo quando il bambino viene al mondo vivo e integro, ma quando sono presi in considerazione gli aspetti affettivo-relazionali di quel vissuto.
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3. Per una differenza senza disuguaglianze
La riappropriazione del corpo porta le donne a combattere battaglie ancor più decisive che l’umanizzazione della medicina ginecologica. Per vivere con gioia il corpo è necessario qualche cosa che assomigli a una rivoluzione culturale. La mancanza di informazione sul funzionamento del corpo, il disattendere le sue ‘ragioni’, non sono che un aspetto di quel complesso di comportamenti e valori che costituiscono l’ideologia patriarcale. Per giustificare l’egemonia maschile il comportamento femminile è stato presentato come finalizzato alla maternità. La funzione riproduttiva è servita a giustificare, anzi a mascherare agli occhi stessi delle interessate, l’oppressione culturale. Le donne sono state in larga misura confezionate artificialmente dall’uomo 29. La donna è un fatto di natura, ma la femminilità è un fenomeno sociale. Secondo l’immagine efficace di Jean Rostand, il fatto di aver giocato con la bambola o con i soldatini di piombo è altrettanto importante nella storia dell’individuo quanto la presenza del cromosoma X o Y.
Per condizionamento culturale la donna ha vissuto il suo corpo come il luogo in cui si realizzava una fondamentale espropriazione. La sua sessualità è stata «vissuta per conto di terzi, mai fine a se stessa» 30. Il potenziale di gioia e di piacere del corpo è stato esorcizzato mediante una serie di tabù, che hanno portato la donna a guardare la propria realtà somatica come a qualche cosa di estraneo. Il corpo della donna nella cultura patriarcale è stato uno strumento di procreazione in mano all’uomo. E non sono mancati miti, religiosi e profani, forgiati
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per giustificare, come sovrastruttura ideologica, il ruolo di dipendenza della donna 31.
Il programma delle avanguardie femministe, di comprendere la donna a partire dal suo corpo riconquistato, non ha niente a che vedere con la corporeità femminile come la intende il sessismo dilagante. Perché la definizione della donna a partire dal corpo non si tramuti in un boomerang pericoloso per la donna stessa, è necessario che la riappropriazione del corpo avvenga contestualmente a tutte le altre dimensioni del processo di liberazione.
La prospettiva della ‘liberazione’ amplia quella della ‘emancipazione’ femminile, così come è stata tradizionalmente intesa e promossa dal movimento operaio. Il raggiungimento dell’uguaglianza dei sessi è stato uno dei fini dell’umanesimo marxista, da quando Engels nell'Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato ha denunciato la famiglia moderna in quanto fondata sulla schiavitù domestica della donna, aperta o mascherata. L’integrazione delle donne nel mondo della produzione era finalizzata anche alla loro emancipazione dalla schiavitù domestica.
Per un lungo periodo la proposta politica e culturale del movimento operaio si è limitata a scalzare le ostilità della cultura borghese nei confronti dell’inserimento della donna nel mondo del lavoro; lottava perché le venisse riconosciuto il diritto ad essere produttrice, oltre che riproduttrice. Sembrava che bastasse assicurare alla donna il lavoro, perché si creassero le condizioni sufficienti a garantirle la piena valorizzazione in quanto persona umana 32. Il lavoro, con la conseguente autonomia
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economica e sociale, non è che un aspetto del processo di liberazione che conduce la donna alla libertà 33. Il movimento femminista, attaccando il tradizionale rapporto uomo-donna, ha riproposto la questione femminile in termini nuovi: come problema personale e politico, culturale e biologico insieme. Lo sfruttamento della donna non è mai soltanto economico. La società patriarcale ha fatto un uso repressivo della funzione riproduttiva, e quindi del corpo femminile. Per questo la liberazione della donna è oggi un cammino che passa attraverso il superamento dei tabù che le vietano la conoscenza del proprio corpo e coartano la sua libertà personale 34.
Tuttavia l’obiettivo finale della riappropriazione del corpo trascende il semplice vissuto corporeo, per tendere alla creazione di nuovi modelli culturali per i rispettivi ruoli maschile e femminile. La donna, che ha usato il corpo per compiacere l’uomo secondo le regole del gioco stabilite dall’uomo stesso, si sta dando oggi il permesso di scoprire le potenzialità inedite della sua esistenza corporea. Il cambiamento della mentalità in atto, sedimentata dai pregiudizi e dalle giustificazioni ideologiche, non avviene senza conflitti. C’è una forte spinta a creare
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una cultura femminile separatista, in polemica opposizione a quella maschile. La donna ha bisogno di un’educazione nuova nei confronti del corpo, della sessualità e della maternità, non meno di quanto l’uomo abbia bisogno di una rieducazione nei confronti della donna. Ma se si prende il cammino dell’espressione esasperata delle diversità, si rischia che l’unicità della persona umana venga offuscata.
Sembra difficile dare spazio alle differenze, senza che queste si traducano in disuguaglianze. Forse il linguaggio più efficace per esprimere la composizione del conflitto resta quello religioso: «L’umanità nuova non nascerà che allorquando la fedeltà al mondo presente e la tensione verso il mondo a venire saranno armonizzate mediante l’incontro uomo-donna. Riconciliati, ritroveranno allora l’umanità primeva («‘uomo-donna’ li creò») e saranno immagine di Dio trascendenza-immanenza, di Dio Parola di Padre-Tenerezza di Madre» 35. Per gli uomini e le donne di oggi non è possibile ancora vedere, ma solo sperare questo tempo nuovo, che fa rivivere il tempo delle origini: il tempo dell’alleanza.
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capitolo quarto
PSICOTERAPIA CON IL CORPO
1. Nostalgia di una clinica umanistica
‘Psicoterapia con il corpo’ è un’espressione che suona paradossale. Anche altre dizioni — come ‘a base corporea’ o ‘a mediazione corporea’ — possono forse attenuare il paradosso, ma non eliminarlo. Curare con il corpo e curare con la psiche sono, nella nostra cultura, due modalità a prima vista inconciliabili. È stato indubbiamente un progresso decisivo dell’arte clinica l’acquisizione del principio che si possa curare anche affezioni corporee mediante il trattamento psichico. La nuova provincia è stata acquisita alla medicina dalla psicoanalisi. A prezzo però di una rigida delimitazione delle competenze e dei metodi. Freud è stato intransigente nel non deflettere dalla via che aveva tracciato per la nuova disciplina. «Nel trattamento analitico non avviene altro che uno scambio di parole tra l’analizzato e il medico. Il paziente parla»: Introduzione alla psicoanalisi (1915-1917) (ed. it., vol. VIII, Torino 1976).
La psicoanalisi ha prodotto un rivoluzionamento nella clinica, introducendo la concezione della malattia come qualcosa che non deve essere semplicemente eliminato, ma come un prodotto del soggetto che domanda di essere interrogato perché lasci trapelare il suo senso. Tuttavia questa concezione è rimasta limitata alle somatizzazioni nevrotiche, senza trapassare nel resto della medicina organica. La prassi analitica ha sottolineato il più possibile la distanza dalla medicina ufficiale: luna usando come strumento terapeutico la parola, l’altra la mano (e i suoi prolungamenti: la tecnologia, i farmaci); l’una occupandosi della psiche, l’altra del corpo. La distanza dal corpo è così marcata nel setting analitico classico, che l’analizzato è sdraiato
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in modo da essere sottratto alla vista dell’analista: l’unico contatto è la parola. Nei diversi sviluppi che ha conosciuto la psicoanalisi, suo strumento fondamentale è restata la parola e la verbalizzazione degli affetti.
Durante la sua vita Freud ha resistito energicamente ai tentativi di dare più spazio al corpo nel trattamento psicoanalitico, ‘scomunicando’ i dissidenti, primo tra i quali Wilhelm Reich 36. Proprio dalle spinte periferiche del movimento psicoanalitico sono venuti, invece, gli impulsi più creativi alle terapie ,a base corporea, che costituiscono una delle novità più vistose dell’attuale panorama psicoterapeutico. Esse offrono i primi abbozzi di una riorientazione della clinica, verso un superamento della deleteria divisione tra campo psichico e campo organico, in nome di una terapia che per curare usi tanto la relazione, quanto il corpo. L’esplosione delle psicoterapie corporee è avvenuta quando queste aspirazioni si sono incontrate con la psicologia umanistica. Nell’ottica di questo indirizzo psicologico, che cerca di comprendere la persona nella sua totalità, il corpo è considerato in tutta la sua ricchezza antropologica: supporto ed espressione dello spirito, mezzo espressivo e comunicativo. L’ottimismo di fondo che attraversa tutto il movimento della psicologia umanistica si riflette nella concezione del corpo: si ha fiducia nell’organismo e nelle sue capacità autoregolative, nella saggezza del corpo 37. Si inizia una nuova
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rotta, lasciandosi guidare dall’intuizione che il corpo abbia delle ragioni che la mente non conosce... L’istituzione di Esalen, in California, è diventata il centro e il simbolo della rivoluzione culturale introdotta dalla psicologia umanistica, nella sua attenzione al presente, al corpo, alla sensorialità.
2. Le psicoterapie a mediazione corporea: una panoramica
Il corpo è dunque di scena in psicoterapia. La richiesta di mercato ha prodotto un pullulare di tecniche — non tutte con radici profonde — e soprattutto di terapeuti — alcuni improvvisati o autoproclamatisi tali —, che rischia di gettare il discredito su tutto il settore. È più che mai necessaria una opera di discernimento. Il primo passo sarà quello di una ricognizione delle diverse tecniche, per esaminare gli orientamenti teorici e di metodo 38.
Una distinzione fondamentale, più a finalità descrittiva che classificatoria, è quella tra metodi funzionali e metodi centrati sui conflitti. Gli approcci funzionali mirano a ristabilire il ‘giusto’ respiro, movimento o rilassamento. Non intendono portare alla luce i problemi biografici del paziente per analizzarli.
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Coloro che vogliono trovare un rimedio all’ansietà o a disturbi funzionali, evitando una rimessa in discussione del profondo, possono accedere a queste tecniche: hanno lo stesso effetto, senza le controindicazioni, di un tranquillante!
Vanno ricondotte ai metodi funzionali tutte le terapie di rilassamento. Esse hanno preceduto di diversi decenni tutte le altre psicoterapie a mediazione corporea; tuttavia è solo di recente che sono entrate tra i generi di largo consumo dell’uomo metropolitano, afflitto permanentemente dallo stress 39. Le terapie di rilassamento agiscono sul corpo per indurre uno stato di benessere psicofisico che controbilanci la tensione patologica. Non essendo possibile rilassarsi profondamente mediante una semplice decisione della volontà, bisogna utilizzare dei mezzi indiretti che passano per l’immaginazione. Praticamente tutte le tecniche di rilassamento attuali sono uscite da due scuole, formatesi quasi contemporaneamente: il training autogeno di Schultz in Germania e il rilassamento progressivo di Jacobson negli Stati Uniti. Schultz, partendo da esperienze ipnotiche, iniziò domandandosi che cosa sarebbe successo se le sensazioni fisiche descritte dai soggetti ipnotizzati (calore e pesantezza negli arti, calma delle attività cardiaca e respiratoria, sensazione di caldo a livello dell’addome e di fresco sulla fronte) fossero state comunicate a un soggetto sveglio con un linguaggio a formule, calmo e penetrante. Lo stésso stato di rilassai mento psico-fisico dell’ipnosi sarebbe stato trasmesso a colui che pratica la ‘autodistensione concentrativa’. Praticamente si tratta dunque di un procedimento che assomiglia a un’autoipnosi. La sua efficacia terapeutica è ormai comprovata, coinè pure
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i benefici effetti sui soggetti sani, presso i quali favorisce la creatività.
Il rilassamento progressivo di Jacobson si proponeva di alleviare svariate malattie psicosomatiche e forme di tensione ansiosa per mezzo di un rilassamento muscolare progressivo e differenziale. Facendo prendere coscienza successivamente delle sensazioni cinestetiche corrispondenti ai diversi gruppi muscolari in stato di contrazione e di rilassamento, otteneva una rieducazione psicotonica del soggetto. La tecnica di Jacobson è stata valorizzata dai behavioristi anglosassoni. La sua forma più diffusa è oggi la ‘desensibilizzazione sistematica’ di Wolpe e Lazarus, applicata in particolare al trattamento delle fobie. La tecnica si fonda sul principio della reciprocità dell’inibizione. Vale a dire: se l’angoscia impedisce il rilassamento, questo, a sua volta, blocca l’angoscia. Il paziente viene dunque fatto rilassare; in questo stato gli vengono progressivamente presentate le sensazioni e le immagini che lo atterriscono, finché l’angoscia non è stata eliminata.
Al gruppo delle tecniche di rilassamento appartiene il biofeedback. Si tratta di un processo di allenamento che permette di modificare delle funzioni o degli avvenimenti fisiologici che abitualmente sono inconsci, involontari e automatici. Ci si serve di un apparecchio elettronico per misurare dei parametri psicofisiologici in modo preciso. Un avvertimento immediato (feedback) è dato al paziente a ogni cambiamento di risposta. In tal modo si arriva a modificare la pressione sanguigna, il ritmo cardiaco, la tensione muscolare, la temperatura cutanea, e anche la risposta all’elettroencefalogramma, producendo onde cerebrali alfa (che producono uno stato di maggiore attenzione verso il mondo interno, accompagnato da un senso di benessere) e onde teta (correlate alla creatività e a un accesso più facile all’inconscio).
Metodo funzionale è anche l’‘integrazione strutturale’, più nota come rolfing, dal nome della sua inventrice, Ida Rolf. Poche altre tecniche possono competere con il rolfing per la palma della rappresentatività nell’ambito delle psicoterapie a base corporea. Da quando Ida Rolf, ormai settuagenaria, è stata chiamata a praticare ad Esalen, negli anni ’60, la sua tecnica
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ha avuto il crisma dello Human Potential Movement e della psicologia umanistica; in breve tempo ha conosciuto una diffusione mondiale. La funzione che intende ristabilire nel modo ‘giusto’ è il portamento del corpo. Mediante manipolazioni rivolte al tessuto connettivo riorganizza sistematicamente il corpo, tendendo da una parte a disfare le contratture dovute ai diversi traumatismi, e dall’altra a tonificare le parti ipotoniche, corrispondenti a contrazioni più profonde. Il terapeuta del rolfing si limita a lavorare i tessuti connettivi, al fine di ristabilire il giusto bilanciamento, la coordinazione e la libertà di movimento. Il rolfing, analogamente alle altre tecniche funzionali, tende ad aumentare la consapevolezza del proprio corpo, che sopravviene quando si cessa di considerarlo come una macchina incomprensibile, da cui ci si aspetta solo che funzioni o di cui si subisce con sconcerto i capricci, che si presentano come malattia e dolore. Quando si abbandona questa concezione meccanicista, il corpo appare come una realtà molto flessibile, un campo di energia fluente che si può modificare, anche con interventi sulla sua struttura.
Una specie di intervento funzionale è anche il massaggio. Non parliamo qui del massaggio terapeutico, esercitato da massaggiatori professionisti e da kinesiterapeuti, ma piuttosto di quelle forme di massaggio chiamate ‘relazionale’ o ‘sensoriale’; oppure anche ‘californiano’, perché si è sviluppato, ancora una volta, a Esalen, in California. La funzione che intende ristabilire è quella del contatto fisico, forma primaria di comunicazione tra tutti gli animali. E anche l’uomo è animale, benché, man mano che una cultura diventa più ‘civilizzata’, tenda a perdere l’abitudine al contatto fisico. Si può parlare addirittura di una ‘fobia del contatto’, più marcata nelle aree metropolitane dell’emisfero nord. Il contatto corporeo è socialmente ammesso solo tra madre e figli, e tra adulti nell’intimità amorosa. In tutte le altre occasioni si carica fortemente di ansia. La paura del contatto può essere indiziata come la principale responsabile della diffusione dell’analfabetismo corporeo ed emozionale che affligge la nostra civilizzazione. Psicologi di gran valore (Bowlby, Spitz) hanno richiamato l’attenzione sui danni per la salute, tanto fisica quanto emotiva, che derivano dalle carenze di contatto, specialmente
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nelle primissime fasi dell’esistenza. Il ‘massaggio relazionale’ intende rispondere al bisogno di riapprendere i rudimenti della comunicazione corporea 40. Combina in modo semplice ma efficace il tatto con l’esperienza dell’essere in relazione interpersonale, senza quel violento coinvolgimento, con i rischi dell’intrusione nell’intimità, che è proprio del rapporto sessuale. Il massaggio sensoriale si sviluppa, dosando sapientemente permessi e proibizioni, mediante una serie di esercizi di riscoperta del proprio corpo e del corpo dell’altro. L’impegno a ricercare a ritrovare il corpo è così duro (e infatti viene chiamato ‘lavoro’), che ci si premunisce evitando l’interferenza del sesso.
Passiamo ora alle psicoterapie a base corporea centrate sui conflitti. A differenza di quelle che abbiamo chiamato ‘funzionali vogliono intervenire proprio sui nodi psichici che si presume siano la causa del disadattamento della persona. Le basi di questo approccio sono state gettate da Wilhelm Reich, con la sua concezione innovativa della psicoterapia. Incominciò a studiare e a trattare i pazienti come organismi integrati presso i quali il rapporto tra il corpo biologico e l’inconscio è turbato. Secondo la sua osservazione, i pazienti nevrotici si comportano come se fossero parzialmente morti; il normale funzionamento del corpo è bloccato, a diversi livelli. Nel suo lavoro psicoterapeutico non si accontentò di favorire il raggiungimento dell'insight, ma concentrò piuttosto la sua attenzione nelle tensioni muscolari del corpo. Teorizzò il disturbo psichico come un blocco del libero flusso energetico in determinate cerniere, che sono contemporaneamente muscolari e caratteriali 41. La ‘corazza caratteriale’
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immobilizza una grande quantità di energia e attua un blocco affettivo che impedisce il contatto con il nucleo biologico primario. Perciò la persona affetta da malattia psichica è sempre anche malata nel corpo: le fa difetto la spontaneità naturale, la gioia di vivere e la capacità di amare (la mancanza di ‘riflesso orgastico’ non si applica in W. Reich solo al settore della sessualità, ma a tutte le espressioni vitali).
Malgrado la forte carica di originalità, Reich ha inciso relativamente poco nel rinnovamento della pratica psicoterapeutica. Egli infatti non ha saputo creare tecniche adeguate al suo nuovo approccio del corpo (la scuola di stretta osservanza reichiana, che qualifica la propria pratica come ‘vegetoterapia’, svolge un ruolo del tutto marginale nel panorama attuale di psicoterapie a base corporea). Il successo è arriso invece alla scuola neo-reichiana che fa capo ad Alexander Lowen, nota come ‘bioenergetica’ 42. Il fulcro teorico è costituito appunto dal concetto reichiano di ‘energia’, che fonde in sé la dimensione psichica e quella corporea dell’essere umano.
I sistemi di regolazione dell’energia costituiscono il caposaldo teorico della bioenergetica. Praticamente viene sviluppata la costatazione, di senso comune, che le emozioni hanno la capacità di mettere in moto o di paralizzare il corpo. Quando sopravviene un disturbo psichico ed emotivo, i processi meccanici che
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regolano il metabolismo dell’energia nel corpo (circolazione sanguigna, battito cardiaco, processi della digestione, respirazione, funzione sessuale) sono disturbati in maniera considerevole. Già abitualmente noi funzioniamo a un livello energetico inferiore alle nostre possibilità, perché tradiamo il nostro corpo. Anche per la bioenergetica il principale imputato è il ‘carattere’, inteso come modo abituale di comportarsi che utilizza l’energia in modo difensivo. Esso costituisce una specie di armatura che impedisce di avere rapporti aperti e flessibili con il mondo. La corazza muscolare ― i cui diversi segmenti sono in rapporto con i diversi caratteri — inibisce il flusso dell’energia e blocca la emozione. Le tensioni non espresse o represse nell’infanzia si trasformano in tensioni muscolari permanenti, che inibiscono i sentimenti. Quando, poi, la rigidità si patologizza in nevrosi, si forma un sistema di blocchi, che ha un immediato riscontro nel corpo. La persona nevrotica ha una motilità disturbata, poiché ha impoverito la gamma delle possibilità di movimento di cui è capace ogni bambino sano.
La bioenergetica ha sviluppato un insieme di tecniche atte a mettere in moto le energie delle persone, le cui forme di espressione sono state in qualche modo bloccate o disturbate. Intende in qualche modo sanare le cicatrici neurovegetative, riorientando l’energia biologica. Lo scopo della terapia è perciò quello di scoprire e di sciogliere la tensione muscolare, al fine di disgelare l’espressione e permettere una riutilizzazione dell’energia bloccata. Con la bioenergetica il tabù del contatto caratteristico della psicoanalisi è compiutamente superato; la psicoterapia stessa va ridefinita: essa è ormai lavoro con il corpo e con le emozioni.
L’analisi bioenergetica parte da un ascolto del corpo. In esso si è congelata la storia personale dell’individuo, e il corpo ne conserva una memoria infallibile. Per individuare i nodi di tensione sono state messe a punto alcune tecniche. Anzitutto la ‘lettura del corpo’ (body-reading). Consiste nell’osservare la statica dell’individuo, il suo equilibrio in piedi, il suo ancorarsi al suolo, i suoi gesti, il portamento, il modo di respirare, la posizione delle vertebre, il modo di occupare lo spazio, la
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voce e la mobilità del volto 43. Scoperte le zone di blocco muscolare ed energetico, una serie di esercizi — intensi, sempre a forte carica emotiva — favorisce la libera circolazione dell’energia. L’organismo viene messo sotto stress; nel passaggio dai movimenti volontari a quelli involontari spesso si producono vibrazioni e violente scariche motrici delle estremità. Con esercizi di portamento o di movimento — grounding, respirazione forzata, battere violentemente dei cuscini, gridare — si favorisce un contatto con i propri sentimenti e sensazioni rimosse, e si riproducono spesso ‘regressioni’ spettacolari che fanno riemergere traumi precoci che sono all’origine dell’atteggiamento di difesa divenuto tratto caratteriale. A tale allentamento della tensione la bioenergetica attribuisce un grande valore catartico. Diventare consapevole delle proprie tensioni, scoprirne le origini e sbloccare la propria energia vitale sono momenti interdipendenti di un unico processo terapeutico.
Una breve menzione va fatta anche della terapia della Gestalt, una delle innovazioni di maggior successo nell’ambito della psicoterapia umanistica. Il corpo costituisce la via privilegiata per quel radicamento nel ‘qui e ora’, che costituisce la condizione essenziale per ritrovare l’unità dell’essere. Nella spiegazione della nevrosi Perls si è allontanato non solo da Freud, ma anche da Reich. Le difficoltà psichiche e la nevrosi sono considerate come una ‘non-congruenza’, ovvero come una rottura della Gestalt e dell’unità dell’essere, come l’emergere di una forma sullo sfondo. La sofferenza affettiva è ricondotta a una ‘presenza non sufficiente’ nel qui e ora. La dissonanza tra l’espressione verbale e il linguaggio del corpo permette di riconoscere ciò che manca all’individuo: sono segnali delle parti mancanti, dei ‘buchi’ o lacune nella totalità integrata. Li forniscono soprattutto i movimenti involontari e incontrollati del
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corpo. Tuttavia anche Perls continua a condividere la stessa fiducia della bioenergetica nel ritorno al corpo come mezzo per mobilitare le risorse interiori e per favorire lo sviluppo del potenziale umano di ciascuno 44. Le emozioni forniscono l’energia di base, che mobilizza il sistema motorio. Il corpo è la porta di entrata e di uscita delle emozioni, la fonte di sensazioni che arricchisce la persona. La terapia mira ad accrescere la consapevolezza sensoriale (sensory awareness), e modifica la immagine mentale del corpo mediante l’uso di fantasie guidate.
3. Abbozzo di una teoria antropologica
Le psicoterapie a base corporea offrono una prassi molto differenziata, con un’inflazione di metodi e tecniche in proliferazione continua. Molti psicoterapeuti di questa tendenza sono inoltre allergici a una rigida teorizzazione dei loro procedimenti: niente di comparabile ai sistemi delle grandi scuole psicoanalitiche. Manca soprattutto una teoria scientifica che sia accettabile da tutti. Tuttavia già fin d’ora è possibile individuare i pilastri di quella che potrà essere in futuro una teoria antropologica.
Il fondamento delle psicoterapie a mediazione corporea è costituito dall’integrazione corpo-psiche nel processo di cambiamento. Reagendo alla negligenza del corpo in psicoterapia ― conseguenza della ripartizione ‘scientifica’ dell’uomo in corpo e psiche —, questi procedimenti psicoterapeutici evidenziano l’integrazione: corpo, psiche e spirito non rappresentano dimensioni indipendenti dell’esistenza umana, bensì aspetti funzionalmente uguali e importanti della persona. Senza rinunciare alle acquisizioni della psicoterapia classica, si vuol estendere la cura all’uomo intero.
Il corpo a cui si fa riferimento non è un prodotto della dissociazione dualistica — sia quella ingenua, che quella filosofica
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o ‘scientifica’ —, bensì il corpo fenomenico, quello in cui la persona si sperimenta nella sua totalità. L’evoluzione spettacolare delle nuove terapie è legata appunto all’esperienza del proprio corpo: sempre meno un oggetto da mostrare — magari come sintomo dolorante —, sempre più un universo da provare per sé, una fonte di sensazioni. Il corpo fenomenico — il corpo come soggetto — è un corpo che percepisce e agisce, sente e pensa, costituendo l’uomo intero. La body-experience, celebrata dalle psicoterapie a mediazione corporea, è self-experience. La strada che deve percorrere ognuno per possedersi, e quindi per avvicinarsi alla felicità, passa attraverso un corpo che si sente bene, che prova sensazioni gradevoli, che sa rilassarsi, che si muove spontaneamente. Il benessere corporeo e quello psichico e spirituale, nella loro correlazione, riflettono l’unità sostanziale dell’uomo.
Questo corpo fenomenico-personale è permeato di storia. Il corpo dell’uomo è storia incarnata. Le nuove terapie sono giunte alle stesse conclusioni della riflessione filosofica fenomenologico-esistenzialista; non però per via del ragionamento, bensì partendo dall’esperienza clinica. Questa mostra, infatti, che il cambiamento non avviene senza il corpo. «Al livello più profondo, il cambiamento coinvolge sempre il corpo. Un nuovo atteggiamento significa nuove percezioni, nuove emozioni, e un nuovo schema muscolare. Il cambiamento psicologico e quello fisiologico vanno di pari passo. Poiché i nostri traumi più profondi sono incisi nelle nostre viscere è nei nostri muscoli, per liberare noi stessi dobbiamo liberare i nostri corpi. Siano mente e spirito, sentimento e immaginazione. E benché il corpo parli, è sempre l’intera persona che dobbiamo ascoltare» 45.
Crescita e integrazione hanno bisogno di tempo. Ma non di un tempo qualsiasi. Esiste il tempo concitato dell’attività frenetica, che è già in sé un mediatore di nevrosi; oppure il tempo rallentato, o addirittura congelato, del disturbo psichico, in cui il trauma rimane eternamente presente. La maturità coincide con l’acquisizione del tempo fisiologico, quello che obbedisce al ritmo dell’intelligenza immanente del corpo. Secondo
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la teorizzazione di Perls, ciò significa il raggiungimento dell’auto-controllo, dopo aver superato l’etero-controllo (in cui va incluso anche quello che esercitiamo con l’intelligenza e la volontà, staccate dalle ragioni del corpo).
Contro ogni semplicismo, va ricordato che l’economia energetica del corpo è un meccanismo delicato. Ogni violenza che subisce si riflette in disturbi psicosomatici. Anche l’intervento terapeutico deve tener conto di tale delicatezza. Il superamento del tabù del contatto corporeo non giustifica gli interventi sconsiderati. Il contatto corporeo in psicoterapia può rivelarsi tanto utile quanto nocivo. Per distinguere tra l’uno e l’altro è necessario un discernimento sia terapeutico che etico.
Le psicoterapie a base corporea possono far sorgere, più delle altre forme di psicoterapia, degli interrogativi di natura etica. Il cliente si espone in una relativa nudità; il terapeuta lavora soprattutto con le sue mani, infrangendo la concezione culturale che riserva i contatti corporei, salvo poche eccezioni, all’intimità erotica; la relativa disinformazione su ciò che avviene nello studio degli psicoterapeuti e nei gruppi di psicoterapia lascia spazio per congetture, insinuazioni, sospetti. Le terapie a base corporea creano una possibilità di abuso quando sono sfruttate nell’interesse dei bisogni del terapeuta. Questi possono essere di due tipi: sessuali e sadici. A differenza dei primi, che attirano di più la fantasia, gli impulsi sadici sono meno vistosi: bisogna scoprirli dietro apparenti ‘incidenti’ nel lavoro psicoterapeutico. Le loro conseguenze possono essere ugualmente nocive per il paziente, che può ricavare da trattamenti violenti da parte del terapeuta danni fisici o ferite.
Questi metodi sono uno strumento potente, sia nel bene che nel male: il cliente deve esserne avvertito. Essendo il corpo un fattore essenziale nei più precoci sviluppi dell’io, che costituiscono la base della personalità, gli interventi sistematici sul corpo toccano meccanismi psichici delicatissimi. Gli interventi sul corpo possono andare sia nel senso di una labilizzazione, sia invece nel senso positivo di stabilizzazione e di crescita. Chi inizia una terapia a base corporea deve sapere che nel corso della terapia si esporrà e diventerà vulnerabile. L’oculatezza nello scegliere un terapeuta, di cui sia garantita
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la capacità e l’integrità, è ancora più urgente quando si tratta di queste terapie 46. Per il cristiano il proprio corpo è un tempio in cui abita Dio: è un compito prendersi cura che in questo tempio si entri con rispetto.
Infine bisognerà chiarire il rapporto tra le psicoterapie corporee (ovvero ‘lavoro sul corpo’) e il lavoro politico. Esiste un legame tra queste psicoterapie e la subcultura del cambiamento sociale. I rappresentanti di questa corrente terapeutica sono stati scoperti e portati al successo negli anni ’60 e ’70 dai giovani che militavano nell’ala culturale della rivoluzione. Ma sempre più la terapia sembra assumere il ruolo di rifugio per gli orfani della rivoluzione: coloro che nel recente passato si gettavano nel militantismo politico, entrano oggi in terapia. Il corpo diventa così il luogo alternativo della salvezza, la frontiera utopica del desiderio di redenzione.
L’euforia batte ancora il pieno; non è quindi il momento dei bilanci. Si può tuttavia ragionevolmente prevedere che un principio rimarrà definitivamente acquisito: per curare il disagio della civiltà, per aiutare l’individuo a realizzare il destino iscritto nella sua natura, non si può considerare il corpo come irrilevante: nel corpo si regge o cade l’umanità dell’uomo.
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capitolo quinto
CORPO MALATO-CORPO SANO: LE VIE DELLA TERAPIA
1. Contro la medicalizzazione del corpo
Satire nei confronti dei medici e attacchi polemici contro la medicina del proprio tempo sono sempre esistiti. Ai medici si è rimproverato, volta a volta, l’ignoranza, la sete di guadagno o di potere, l’allineamento con le classi privilegiate e la negligenza di quelle subalterne; della scienza medica ci si è potuti lamentare in quanto inefficiente a guarire a misura delle attese. La critica che risuona oggi contro la medicina ha qualcosa di inedito, e anche di paradossale: la si accusa di peccare non per ‘poco’, ma per ‘troppo di vigore’, non per scarsa efficacia, ma troppa efficienza; e ai medici di lasciarsi prendere da una cupido sanandi, i cui esiti si riversano contro l’utente dei servizi sanitari. La protesta si rivolge contro la medicina dei miracoli, che tiene con il fiato sospeso nell’attesa di sempre nuove realizzazioni prodigiose; contro la gestione sanitaria totalitaria di tutti i fatti del corpo; contro il ‘miraggio della salute’, quale illusoria ambizione di produrre industrialmente una ‘salute migliore’ 47. Più radicale di tutti, il sociologo Ivan Illich ha accusato la medicina moderna di essere la più grande minaccia per la salute dell’uomo. Prendiamo in considerazione queste contestazioni dell’imperialismo della medicina in quanto protestano contro un decurtamento antropologico e propongono una riflessione fondamentale sul concetto stesso di salute come fatto umano globale. La riappropriazione del corpo passa
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anche attraverso la riappropriazione della forza spirituale necessaria per essere in salute.
Una fatale deformazione del concetto stesso di salute avviene implicitamente quando la si concepisce come qualcosa che dipenda dalla cura di una corporazione professionale a ciò dedita. Durante le ultime generazioni il monopolio medico sulla cura della salute si è imposto, travolgendo le risorse naturali dell’individuo e gli espedienti terapeutici tradizionalmente trasmessi dalla cultura popolare. Più la società è progredita, più tende ad assomigliare a un grande utero plastico in cui l’individuo è preso in cura dai tecnici in camice bianco, dalla nascita (anzi, dal concepimento o anche prima, se si considerano il trattamento fetale e il consiglio eugenetico) alla morte. Nella architettura delle città l’ospedale ha sostituito la cattedrale come simbolo centrale della convivenza civile. La crescita a dismisura della macchina sanitaria ha agito, paradossalmente, non a favore della salute, ma contro di essa. La supermedicalizzazione sociale della vita ha paralizzato i meccanismi comunitari ed interiori che garantiscono la salute. La salute umana, infatti, è qualcosa di diverso dalla semplice assenza di fatti morbosi minacciami l’equilibrio di una struttura biologica. La salute è un compito; come tale la salute dell’uomo non è paragonabile all’equilibrio fisiologico degli animali. Essa è un’espressione culturale. Implica la capacità personale di far fronte alla vita in modo autonomo e responsabile. Quando l’organismo è diretto da altri, la salute, come potenziale umano, regredisce inevitabilmente.
Per Illich l’impresa medica è la causa maggiore del declino generale della salute, in quanto questa è diventata l’affare esclusivo di un’istituzione pianificata, incaricata di ‘produrla’ e ‘migliorarla’ indefinitamente. Il sistema medico espropria così le persone di ogni capacità di compiere con le loro forze una azione di autoregolazione dell’organismo. Questa gestione eteronoma ha un effetto tanto più deleterio, in quanto viene a paralizzare la sana capacità morale di reazione alla sofferenza, alla invalidità e alla morte. Illich chiama questo fenomeno ‘iatro-genesi culturale’, intendendo con ciò il danno inferto alla salute dalle professioni sanitarie in quanto distruggono la capacità
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potenziale dell’individuo di far fronte in modo personale ai fatti morbosi e la volontà di soffrire la propria condizione reale. Quando si giunge a far dipendere la vita dall’intervento tecnico dei medici, viene ridotta la capacità degli individui di reagire in forma autonoma alle loro tensioni interne e allo stress prodotto dall’ambiente. «La medicina organizzata professionalmente è venuta assumendo la funzione di un’impresa morale dispotica tutta tesa a propagare l’espansione industriale come una guerra contro ogni sofferenza. Ha così minato la capacità degli individui di far fronte alla propria realtà, di esprimere propri valori e di accettare il dolore e la menomazione inevitabili e spesso irrimediabili, la decadenza e la morte. Godere buona salute significa non soltanto riuscire a fronteggiare la realtà, ma anche gioire di questa riuscita, significa essere capaci di sentirsi vivi nel piacere e nel dolore; significa aver caro ma anche arrischiarsi di sopravvivere. La salute e la sofferenza come sensazioni vissute e consapevoli sono fenomeni propri degli uomini, che in ciò si distinguono dalla bestia» 48.
È dunque una fatale illusione credere che la salute possa essere prodotta come uno dei tanti beni di consumo che la società opulenta promette a tutti. Essa appartiene, per ricorrere alla terminologia di E. Fromm, alla modalità dell’ ‘essere’, non a quella dell’‘avere’. L’illusione del benessere sanitario garantito a ognuno è un aspetto del grande sogno della società industriale, in particolare della società consumistica che si è affermata a dimensione planetaria dopo la seconda guerra mondiale, di conseguire il paradiso nell’al di qua mediante la produzione e il consumo illimitato di beni (Fromm la chiama «la Grande Promessa di Progresso Illimitato»), Il fallimento della Grande Promessa, anche sotto l’aspetto sanitario, lascia l’uomo
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contemporaneo più vulnerabile nella sua salute, e per giunta espropriato ,del proprio corpo.
Questa affermazione può apparire paradossale, riferita ai grandi consumatori di cure mediche che siamo diventati. L’uomo d’oggi è morbosamente attento alla minima disfunzione del proprio corpo. Al più lieve disturbo è già nella sala d’attesa del medico. La pratica degli esami preventivi (screening sistematico della popolazione) lo fa assoggettare alla condotta del malato prima ancora di denunciare un qualsiasi malessere. La espropriazione del corpo passa proprio attraverso questi modelli di comportamento diffusi dalla prassi sanitaria moderna. Tra l’uomo e il suo corpo si è inserita la grande macchina della scienza. Il gergo scientifico sostituisce il parlare comune: il paziente non sa più parlare del suo corpo e del suo male. Il linguaggio diventa proprietà esclusiva del personale sanitario.
Il malato non capisce, per lo più, per quale malattia venga curato e a quale terapia è sottoposto. I professionisti della salute parlano ‘marziano’, e nessuno fa da interprete per il povero terrestre. Anzi, è auspicabile che il malato non interferisca, per non intralciare l’opera di chi si occupa della sua guarigione. Il paziente abdica a favore del medico, al quale attribuisce la capacità di capire il proprio corpo. Spesso non sospetta neppure che in questo modo si preclude la via più sicura per capire il linguaggio del corpo.
Riduce così il corpo a una macchina guasta, in cui solo il tecnico può mettere le mani con competenza. Il corpo, invece, è un organismo — il ‘suo’ corpo appunto — che parla un linguaggio sufficientemente chiaro. Ogni cultura tradizionale metteva in grado di capire il linguaggio del proprio corpo. Noi, i surmedicalizzati, sembriamo diventati ciechi e sordi riguardo ad esso. Trattiamo con brutalità la sua delicata struttura biologica, come se lo stress costante in cui siamo immersi fosse una condizione normale. Quando il corpo recalcitra, gli diamo, come a un asino caparbio, una frustata farmacologica. Il sovraconsumo dei farmaci è diventato una epidemia nella nostra società: un tranquillante per dormire e un energetico per essere in forma. Espropriati della gestione della propria salute, del corpo e del suo linguaggio, il ricorso all’automedicazione farmacologica
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pare essere diventato l’unico modo per sentirsi padroni del proprio corpo. Per l’uomo industrializzato «prendere un farmaco, non importa quale e per quale motivo, è un’ultima possibilità di affermare il proprio dominio su di sé, di manipolare lui stesso il proprio corpo anziché lasciarlo manipolare dagli altri. L’invasione farmaceutica lo porta alla medicazione, da parte sua o altrui, che riduce la sua capacità di padroneggiare un corpo di cui è ancora in grado di curarsi» 49.
La denuncia dell'impasse a cui la medicina tecnologica e l’assistenza sanitaria della società dei consumi ci hanno condotto non mira al catastrofismo. Vuol piuttosto arrestare l’epidemia iatrogena finché è possibile. L’aspetto positivo della denuncia è l’invito al ‘profano’ a rivendicare il controllo sulla propria salute e sul proprio corpo. Coloro che conservano una speranza nell’uomo danno fiducia alla sua coscienza, autodisciplina e risorse interiori. Rivolgono al singolo, che dall’istituzione sanitaria è spogliato di ogni capacità autonoma di affrontare le vicissitudini della propria vita fisica, l’invito a riappropriarsi del corpo per vivere l’avventura della salute. Ciò comprende un’azione politica per il diritto concreto di ognuno all’atto produttivo autonomo, grazie a un’ampia deprofessionalizzazione delle cure, all’accesso della gente alle conoscenze mediche necessarie per le malattie più correnti, al libero accesso a una farmacopea semplificata. Dal punto di vista antropologico, bisogna riaffermare ‘la salute come virtù’, per usare una formula incisiva di Illich. In quanto compito personale da assumere, essa domanda una responsabilità di fronte al dolore, alla malattia e alla morte. Questa è l’alternativa umanistica al culto quasi religioso che la medicina pretende dall’uomo dell’èra tecnologica.
2. Il corpo nelle pratiche mediche non ufficiali
La medicina ufficiale, quella che si insegna nelle università, ha sempre saputo che esisteva anche una medicina popolare,
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irriducibile ai princìpi della scienza. Non la combatteva: si limitava a tollerarla. Un giorno — sembravano dirsi i medici in camice bianco — il progresso raggiungerà anche quelle sacche di ignoranza e di superstizione, e i guaritori di vario genere non avranno più credito presso le persone illuminate. Vane speranze: le campagne sono spopolate e la cultura contadina disgregata, ma i guaritori, invece di scomparire, si sono trasferiti nelle città. Non reclutano i loro clienti solo tra i diseredati: persone di ogni ceto e livello culturale, deluse dalla medicina scientifica, sollecitano i loro servizi.
L’esistenza di una medicina parallela a quella scientifica è un dato di fatto che merita una considerazione più attenta di quella che gli è stata finora riservata. Da diversi anni si vanno conducendo ricerche presso le ultime popolazioni primitive, depositarie di conoscenze accumulate nel corso di millenni e che hanno consentito all’umanità di sopravvivere fino ad oggi. Di recente anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità si è pronunciata a favore di un ritorno all’impiego di piante medicinali e di rimedi tradizionali, nonché al ricorso all’attività dei guaritori, in particolare nei paesi del Terzo Mondo 50. Secondo l’oms «l’utilità della medicina tradizionale non ha bisogno di essere dimostrata; bisogna perciò promuoverla e sfruttarne più largamente le possibilità». La raccomandazione è rivolta in primo luogo ai paesi depressi. Per far fronte alla scarsità di medici e di mezzi finanziari, il Terzo Mondo dovrebbe prestare maggiore attenzione alla medicina tradizionale e ai guaritori locali attraverso programmi sanitari più adattati alle diverse condizioni economiche e sociali. L’invito a tornare al ricco bagaglio dell’esperienza ancestrale non è solo motivato dalla scarsità di mezzi e di personale, nonché dalla costosità della medicina occidentale. Sempre secondo il rapporto dell’oms, bisogna contrastare la tendenza di certi ambienti medici a vedere nella medicina tradizionale una pratica ormai in declino, senza alcun reale interesse, buona solo come surrogato per i paesi sottosviluppati. All’opposto, è il sistema sanitario
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tradizionale che la popolazione considera come proprio e accetta senza riserve. L’oms raccomanda piuttosto il dialogo tra i praticanti dei diversi sistemi, al fine di eliminare la diffidenza e instaurare il reciproco rispetto.
Non siamo forse preparati a questo ritorno della medicina primitiva o popolare, dopo anni di martellante esaltazione del ‘moderno’. L’autorevole rimessa in discussione del monopolio della medicina scientifica, in quei paesi in cui l’ordine simbolico e il sacro continuano a giocare un ruolo importante, ci sollecita a riflettere criticamente sulla nostra situazione in Occidente. Il fenomeno dell’interesse verso i guaritori domanda prima di tutto una discriminazione. Sotto lo stesso termine — in altre lingue si parla di healers, o Heilpraktiker, ovvero di medicine-men nelle culture primitive — si confondono spesso pratiche che poco hanno a che vedere tra di loro. La donna vecchia di campagna che conosce decotti e rimedi semimagici, la persona dotata di poteri paranormali nelle mani, i terapeuti che si richiamano a qualcuna delle innumerevoli medicine ‘parallele’ o ‘alternative’, il ciarlatano che cura teatralmente usando la suggestione, il guaritore religioso che opera guarigioni appellandosi alla fede, non hanno granché in comune. La confusione sembra voluta dall’istituzione medica, che tende in tal modo a gettare il discredito su tutti coloro che si dedicano all’esercizio illegale dell’arte di guarire. La medicina ufficiale, infatti, rivendica a sé il monopolio del diritto di intervento sul corpo.
Se i guaritori suscitano oggi un risveglio di interesse, non è solo per i limiti tecnologici del nostro modello medico, per le disfunzioni del servizio sanitario o per il caos che regna negli ospedali. La medicina parallela risponde ai bisogni che la medicina scientifica neppure avverte. La differenza tra la medicina scientifica e l’altra medicina è anzitutto epistemologica, essendo radicata nel processo mediante il quale si sono costituiti i rispettivi saperi sul corpo e la malattia. La medicina ufficiale si è organizzata come scienza mediante lo studio del corpo morto, ha raggiunto la sua maturità mediante l’anatomia patologica e ha perfezionato il suo statuto scientifico riconducendo la sua comprensione dei fenomeni vitali ai princìpi esplicativi
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offerti dalla biochimica e dalla biofisica 51. L’immagine dell’intervento medico che si fa il cliente è organicista: dal medico ci si aspetta che isoli la ‘causa’ della malattia, sciogliendo col suo sapere il nodo costituito dal sintomo, e che prescriva il giusto rimedio.
L’approccio della medicina scientifica ha una validità e una efficacia che non possono essere messe in discussione; e tuttavia esso è limitato. In tutte le operazioni mediche c’è un resto: il malato nella sua individualità personale. La terapeutica fornita dalla medicina alternativa è complementare a quella del medico ufficiale. Non solo come ricorso estremo, nei casi disperati, quando non si vuol lasciare nulla di intentato. Anche in situazioni meno drammatiche il guaritore offre qualcosa che il medico ufficiale non è in grado di fornire. Il baricentro di tale diversità può essere individuato nel rapporto specificamente diverso col corpo. I clienti della medicina alternativa aumentano perché essa non si interessa di malattie, ma di malati. Chi va dal guaritore non cerca solo la guarigione, ma anche la possibilità di comunicare, di confidarsi. La medicina popolare implica un altro modo di considerare il corpo e la guarigione; è più globalizzante, rimanda il malato a se stesso, nei suoi rapporti con la malattia. Si occupa del dolore, del non misurabile, dell’indicibile, di quelle vicissitudini esistenziali del corpo che la medicina scientifica esclude scrupolosamente dal rapporto medico-malato. Il guaritore si rivolge proprio a quel resto che sfugge al medico in camice bianco, in quanto assume il corpo come luogo di qualcosa d’altro rispetto a quei segni della morte reperiti dal medico di formazione scientifica. È il corpo del soggetto che lo interessa direttamente, in quanto luogo in cui la realtà biologica diventa sofferta storia personale. Il successo del guaritore è spesso legato all’efficacia simbolica che ha questo ‘altro sapere’ sul corpo.
I sistemi di guarigione non ufficiali favoriscono la ricerca, condotta più o meno confusamente, di un senso alla propria esistenza, il prendersi a carico globalmente, anima e corpo,
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dentro e fuori. Di qui la loro parentela stretta con il sacro e la religiosità 52.
I legami preferenziali della religione e della medicina popolare hanno radici storiche molto profonde. Per secoli, in tutte le società, il potere sul corpo era di pertinenza del sacro e la medicina esercitata dai sacerdoti, nei luoghi sacri. L’Occidente cristiano non ha reciso bruscamente questo legame. La guarigione del corpo è stata lungamente associata a quella delle anime. I monaci e i sacerdoti hanno svolto funzioni mediche 53. Un modello di medicina naturale e semplice, esercitata dal clero, è rimasto vivo nelle campagne fino all’inizio del XIX secolo. Anche oggi non pochi guaritori di fama sono reclutati tra i religiosi. Il sacerdote-guaritore, spesso in conflitto con le istituzioni ecclesiastiche e mediche, è un personaggio importante della medicina popolare. Fa parte dell’ambiente sociale dei contadini, parla il loro linguaggio. La sua medicina è perciò più vicina al loro corpo, alla loro sofferenza, offre più possibilità di dialogo rispetto a quella del medico ufficiale 54.
La religiosità popolare, che è concreta e concentrata sul corpo, ha mantenuto un rapporto privilegiato con le guarigioni che avvengono al di fuori dell’universo della medicina scientifica. Luoghi di pellegrinaggio, reliquie, santi guaritori, statue, acque di fonti benedette, medaglie, ceri: il cristianesimo popolare ha continuato nel tempo a celebrare le sue liturgie del corpo dolorante, del fragile essere umano alla ricerca della guarigione. L’atteggiamento della chiesa gerarchica verso la religiosità popolare è stato più illuminato di quello assunto dalla medicina scientifica nei confronti della sua antagonista non ufficiale. La condanna è caduta solo sui casi più macroscopici di superstizione. Altrimenti la strategia della chiesa cattolica
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è stata quella di assumere, purificare, incanalare le espressioni della religiosità popolare. Le ha riconosciuto il diritto di esprimersi col gesto — il pellegrinaggio individuale e collettivo, il bacio alla statua, il segnarsi con la reliquia —, ma vi ha aggiunto la gestualità sacramentale: confessione, comunione, sacramenti degli infermi. Anche l’eredità del paganesimo è stata accettata e ribattezzata: gli ex voto, che già ornavano i templi di Esculapio, sono diventati il segno del legame personale stabilito col Medico divino; i ceri, già lampade funerarie con cui i romani coprivano le tombe durante la settimana del culto degli antenati, danno concretezza alla preghiera, rinviano simbolicamente al corpo di colui che domanda. Solo i teologi della secolarizzazione auspicavano la fine di questa commistione della fede col sacro e annunciavano l’avvento di un ‘cristianesimo areligioso’. Ma anche loro, come i sacerdoti della scienza medica, sono costretti a rivedere certe analisi culturali troppo impregnate di trionfalismo razionalista, che restringevano le vie possibili della guarigione. Quanto ai rapporti tra la medicina ufficiale e le pratiche che le camminano accanto in veste di medicine parallele, è solo un pio desiderio pensare che essa possa imparare qualcosa da queste: il suo metodo la chiude irrimediabilmente su se stessa. Ma se essa non può ascoltare tutte le ragioni del corpo sofferente, altri lo faranno, obbligando la scienza medica più riflessiva a desistere dalle sue mire monopolizzatrici.
3. Verso una concezione olistica della salute
La medicina costituisce un osservatorio privilegiato degli umori e delle tendenze del nostro tempo circa il corpo. Nel dibattito antropologico contemporaneo è diventato quasi un luogo comune ripetere che la medicina ha ‘cosificato’ il corpo. Se ne attribuisce la responsabilità alla medicina come scienza della natura, così come si è formata nella prima metà del secolo scorso, opponendosi alla medicina speculativo-romantica. Quando l’uomo è considerato semplicemente come un pezzo di natura tra gli altri, si opera una violenta mutilazione antropologica.
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La tendenza attuale è piuttosto quella di muoversi nella direzione opposta, verso un ricupero della ‘totalità’ e della persona umana. Tuttavia va riconosciuto che l’atteggiamento reificante, proprio della medicina come scienza della natura, non è abusivo. Il corpo come oggetto è una dimensione della nostra esperienza fenomenologica, oscillante tra due percezioni: quella di ‘essere’ un corpo e quella di ‘avere’ un corpo. La medicina sviluppa, tanto nell’ambito concettuale che in quello pragmatico, la dimensione di oggettività del corpo 55. Ma il corpo dell’uomo conserva la particolarità di essere il corpo di un ‘soggetto’. Le conseguenze sono rilevanti quando consideriamo la patologia del corpo da un punto di vista teoretico. Un fatto morboso non è solo qualcosa che ‘ho’, perché mi sopravviene, ma anche qualcosa che ‘faccio’. Il medico-filosofo Viktor von Weizsäcker, che in quanto patologo fu profondamente influenzato dalla conoscenza psicoanalitica dei dinamismi psichici, introdusse la distinzione tra Es-Stellung e Ich-Stellung nei confronti della malattia. Quando si è in rapporto ‘Es’ con la malattia — la malattia come un ‘non-Io’, qualcosa che capita, che aggredisce l’organismo dall’esterno —, viene privilegiato l’aspetto obiettivo-razionale. Ma a un certo punto del trattamento il malato si sente autorizzato ad assumere la malattia nell’ambito dell’io. Qui ci troviamo nel regno non più dell’‘essere’ e ‘non-essere’, bensì del ‘poter-essere’, ‘dover-essere’, ecc., cioè di quelle categorie che sono il fondamento della moralità. La malattia diventa allora un elemento costitutivo di una particolare biografia, nella sua unicità e irripetibilità; il malato assurge a soggetto ‘strutturante’, tanto della propria malattia, quanto della propria guarigione 56.
A un livello di minore astrazione filosofica, ritroviamo un approccio specificamente umano del corpo in molte espressioni della medicina contemporanea, a condizione che ci allontaniamo dall’ambito accademico in cui predomina tuttora la concezione
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meccanicistica ispirata dal positivismo. Le correnti più disparate di medicina umanistica convergono nel tentativo di temperare e ammorbidire la prospettiva fredda, scientifica della ‘natura come nemico’ propria della scienza medica allopatica. Convinti che l’uomo moderno ha deviato dall’antica saggezza ispirata da un contatto diretto con la natura, e con il corpo in particolare, molti pazienti hanno voltato le spalle al trattamento ortodosso, dando la preferenza a sistemi medici e a pratiche che si muovono in un orizzonte di unità cosmica. Il pensiero orientale e nuove filosofie dei sistemi biologici hanno introdotto sulla scena occidentale il concetto che l’interazione tra l’individuo e il mondo è un processo in cui fluisce l’energia vitale. Antiche e nuove idee orientali — agopuntura, t’ai chi ch’uan, aikido, yoga, meditazione, terapie di polarità — si sono unite a nuove idee occidentali, dando vita a una diversa concezione del fatto morboso e della terapia. Questi sistemi mirano al bilanciamento delle energie nel campo ‘corpo/universo’, piuttosto che alla ‘normalità’ come misurazione statica standardizzata della salute. Colui che fornisce la terapia manipola energia, invece che chimismo e strutture. Il cliente è visto come un sistema di interazioni, non in termini di sintomi isolati o di errori cellulari. Possiamo chiamare ‘olistica’ questa concezione della salute e del modo di curarla. La prospettiva olistica riconosce che la vita dell’individuo è un processo di dispiegamento continuo, e la malattia l’interruzione di questo flusso. Tutto può influenzare la nostra salute: fattori grossolani e sottili, fisici, emotivi, mentali, spirituali e ambientali; tutti sono correlati. La prospettiva olistica insegna a guardare al di là del sintomo immediato, a situarlo in un contesto più comprensivo. Una disarmonia nella vita si rifletterà sintomaticamente nel corpo, comunicandoci — se vi prestiamo attenzione — che è necessario un cambiamento. La malattia è allora un messaggio, una specie di feed-back del processo della vita che ci informa che qualcosa turba l’armonia e ci richiama ad agire con coscienza, a prendere parte attiva allo sviluppo del nostro benessere, ad assumere responsabilità per la propria vita. Il presupposto distico è che il corpo sa come curare se stesso, essendo un sistema naturale di guarigione che tende alla buona
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salute. Il nostro compito è di sgomberare il campo da ciò che ci impedisce di intendere le ragioni del corpo. Rimosso l’ostacolo, la buona salute emerge dall’interno della persona 57.
La ricerca del benessere psicofisico si è diffusa come un modello di vivere ‘alternativo’. Non sempre la presa di coscienza dei presupposti antropologici, che noi abbiamo ricondotto alla concezione olistica della salute, è esplicita. Il più sovente la spinta sociale a certe pratiche sembra venire prevalentemente dalla moda, o dalla manipolazione dei bisogni di massa ad opera della pubblicità. Tra le numerose pratiche relazionate alla cura della salute, ma con implicazioni anche psicologiche e spirituali, ci limitiamo a segnalare quelle connesse con le abitudini alimentari, in particolare il ritorno alla pratica del digiuno. I regimi alimentari alternativi — macrobiotico, vegetariano, ecc. — si presentano con una finalità che non è solo utilitaristica (come le diete dimagranti): propongono un diverso rapporto con il cibo al fine di modificare il rapporto con la natura. ‘Tornare alla natura’, nel senso di un ritorno ai cibi genuini, non raffinati — è il programma dell’eubiotica — è anche la proposta di un modo di vivere alternativo, che comprende l’esistenza nella sua globalità; è una filosofia della vita che, attraverso l’alimentazione, abbraccia tutto. Il punto di partenza è la denuncia del nostro comportamento alimentare come specchio delle nevrosi dell’uomo metropolitano. La diffusione delle malattie tipiche della civiltà del benessere — obesità, ipertensione, disturbi cardiocircolatori, cancro — è una espressione del nostro ‘malvivere’. Il rimedio? Il digiuno!
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Non è un paradosso, ma una concreta proposta, veicolata dal fiume dei comportamenti corporei alternativi.
In questa specie di digiuno non si riscontrano, a prima vista, le tracce della mentalità religiosa, che ha sempre dato spazio al digiuno. Non viene proposto né in nome di un’ascesi che castiga il corpo, né per raggiungere esperienze mistiche 58. È proposto in nome di un utilitarismo più basso, centrato sulla promozione del corpo. Forse però è legittimo scorgervi dei residui di una religiosità naturalistica. Sfogliando i manuali divulgativi dedicati al digiuno, troviamo che la finalità più celebrata è quella di tornare a un armonioso rapporto con la natura 59. Gli argomenti possono sembrare ingenui: si rimanda all’esempio degli animali, che digiunano per settimane e mesi interi in determinati periodi dell’anno; ai digiuni spontanei che osservano i bambini quando sono malati... In breve, si
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propone di ritrovare i ritmi della natura, che comprendono tanto il nutrimento, quanto l’astensione da esso. Non manca neppure una certa ‘demonizzazione’ del cibo, presentato come un pericolo costante per l’organismo. L’intossicazione è generale: insieme ai cibi noi ingeriamo ‘veleni’. Il digiuno diventa allora il mezzo per liberarsi dai rifiuti, scorie, impurità. Pur cambiando significato, la dialettica tra puro e impuro è quella di sempre.
Può capitare anche che il digiuno sia raccomandato con toni miracolistici per curare malattie nei confronti delle quali la medicina tradizionale è inefficace. Viene detto «una potente operazione senza bisturi», che in modo sapiente e indolore elimina gli elementi dannosi e conserva ciò che è utile all’organismo. Ad ascoltare i suoi paladini, è l’ultima arma contro certe malattie incurabili, come alcune forme di cancro.
Un ulteriore tratto che colora religiosamente la nuova pratica del digiuno è l’atmosfera generale che viene raccomandata. Il digiuno non riguarda solo il corpo, ma tutto l’uomo: ogni cellula del suo corpo, ma anche la sua psiche e il suo spirito. Deve diventare perciò un tempo di raccoglimento, preceduto da un distacco dal ritmo della vita normale. Lasciati gli impegni professionali, staccato il telefono, elevata una barriera contro la marea degli stimoli dall’esterno, il digiunatore si accinge a incontrare se stesso. Il digiuno può diventare così anche una profonda esperienza interiore. L’esercizio fisico è quindi finalizzato ad un perfezionamento umano di carattere etico.
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parte seconda
STORIA TEOLOGICA DEL CORPO
Gesù disse:
'Se la carne viene a esistere
per via dello Spirito,
è una grande meraviglia;
ma se lo spirito viene a esistere
per mezzo del corpo,
è meraviglia delle meraviglie.
È meraviglia delle meraviglie come
così grande ricchezza
abbia preso dimora in tale povertà’.
(dal vangelo apocrifo secondo Tommaso)
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Gli slogans sulla liberazione e la riappropriazione del corpo, così spesso ripetuti negli ultimi due decenni da essere quasi assurti a verità indiscutibili, soggiacciono a una forte miopia storica. Più per quello che lasciano intendere che per quello che dicono. Hanno infatti l’apparenza di far credere che soltanto la nostra civilizzazione ha saputo valorizzare il corpo, emanciparlo dall’alienazione dello spirituale e dell’intellettuale, dargli lo spazio che gli compete. L’ingenuità di questa prospettiva consiste nel non saper vedere che nessuna esperienza storica ha saputo prescindere dal corpo. Ogni gruppo ne ha una sua simbolizzazione socio-storica. Il corpo occidentale moderno non è ‘il’ corpo, bensì una forma, instabile e transitoria, come le altre. Ogni società ha il ‘suo’ corpo, così come ha la sua lingua. Riflettere sulla storia vuol dire riflettere sulle rappresentazioni del corpo, a partire dalle tracce che questo ha lasciato.
Anche la movimentata storia dei rapporti tra cristianesimo e civilizzazione occidentale, nelle varie forme, è passata attraverso il corpo. Il cristianesimo ha giocato un ruolo decisivo nell'organizzare l’esperienza occidentale del corpo; a sua volta, è stato esso stesso influenzato dal modo di vivere e di pensare il corpo. Infatti il cristianesimo si è storicamente sviluppato in dialogo dapprima con la cultura ellenista, fondamentalmente dualista, e poi con la civiltà borghese, segnata dall’ideologia dell’uomo ridotto a puro soggetto pensante, che sviluppa la propria dignità nel prescindere dagli istinti corporei: la morale, la spiritualità e anche la stessa organizzazione ecclesiastica rimasero ingabbiate in questo schema.
Una storia teologica del corpo completa e sistematica, allo
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stato attuale delle conoscenze, è assolutamente prematura. Ci limiteremo, in questa seconda parte del saggio, a delineare alcuni momenti cruciali, che sono come le pietre miliari del lungo cammino. Una teologia sistematica del corpo è possibile ora solo allo stato di abbozzo: lo tracceremo nell’ultimo paragrafo.
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capitolo primo
IL CRISTIANESIMO È OSTILE AL CORPO?
Sarebbe anacronistico, ed espressione di un ingenuo fondamentalismo, supporre che negli scritti di fondazione del cristianesimo siano contenute le risposte ai complessi problemi che la corporeità pone all’uomo, specialmente quelli che abbiamo visto presentarsi oggi alla ribalta. Tuttavia per il cristiano il confronto con interrogativi storici è inevitabile; a cominciare dalla questione di fondo: nelle diverse espressioni di cristianesimo che hanno preso forma lungo i secoli il corpo occupa strutturalmente lo stesso spazio che gli è attribuito nei vangeli? L’impressione di qualcuno che, cresciuto estraneo alla tradizione cristiana, legga i vangeli per la prima volta, può essere di una vera sorpresa per l’importanza che essi attribuiscono al corpo, trattandosi di una religione così spirituale come il cristianesimo: nei racconti evangelici è questione prevalentemente del mangiare e del guarire, i due problemi fondamentali del corpo 60. La fede, come modalità dell’esistere, ha nei vangeli una ‘corposità’ che non ritroviamo più in nessuna delle teologizzazioni sulla fede successive, a cominciare dallo stesso s. Paolo. La fede è ancora un polveroso camminare dietro a Gesù per le strade della Palestina, ha il sensuale sapore del sale e la luminosità della fiaccola; la speranza equivale a lasciare la concretezza della barca, delle reti, dell’aratro, fidandosi di una parola di promessa; l’amore è lavarsi i piedi gli uni gli altri; la comunità è offrire ospitalità, mangiare alla stessa tavola e nello stesso piatto. Nei vangeli l’immensità della promessa ebraica
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e la grandiosa attesa apocalittica si condensano nel corpo di Gesù di Nazaret. Il cristianesimo come sistema dottrinale si è, dunque, definitivamente allontanato dallo spessore corporeo che ha avuto la fede in Gesù ai suoi inizi, a vantaggio di una intellettualità astratta?
Una seconda questione di fondo è quella che riguarda la connivenza del cristianesimo con l’ostilità verso il corpo che troviamo in molte religioni. Il cristianesimo, in sintesi, è pro o contro il corpo? La risposta non è semplice. Il cristianesimo è una realtà complessa e differenziata, che ha prodotto nel suo sviluppo storico atteggiamenti dottrinali e pratici molto diversi. In pratica, chi sostiene l’una o l’altra tesi può attingere a piene mani dalla multiforme eredità storica testimonianze a proprio favore. Chi lo considera una religione fobica del corpo, può appellarsi alla tradizione ascetica, alle mortificazioni stravaganti in uso tra gli anacoreti e i monaci di ogni epoca, alla tradizionale educazione repressiva nei confronti del patrimonio istintuale del corpo (identificato con la sessualità), fino alla lussureggiante letteratura ascetica, dedita alle peggiori intemperanze verbali quando si tratta di diffamare il corpo e di esaltare ciò che lo umilia, come le malattie. Per contro, chi vuol vedere nel cristianesimo, e in modo particolare nel cattolicesimo, una religione aperta tanto alla materialità quanto alla spiritualità dell’uomo, non manca di pezze d’appoggio: i dogmi della creazione e dell’incarnazione e la dottrina della risurrezione dei corpi (cf. l’effato patristico, sempre ripetuto, della caro cardo salutis), i sacramenti come luoghi materiali dell’incontro con Dio, l’appartenenza alla chiesa considerata come ‘corpo di Cristo’, il rispetto del corpo morto, fino alla venerazione dei frammenti come reliquie. I più accreditati maestri di spirito sono unanimi nel ritenere che un cristiano non potrebbe disinteressarsi del corpo senza danno. Ogni rottura dell’armonia tra corpo e anima nuoce a tutti e due. L’equilibrio fisico è perciò necessario per l’esercizio della vita cristiana 61.
L’elenco delle ragioni favorevoli o contrarie può essere allungato
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a volontà: non è certo per questa via che si arriverà a dirimere la questione. Né la polemica, né l’apologetica; né il trionfalismo, teso a dimostrare che il cristianesimo ha sempre difeso il corpo o che le vicende storico-culturali siano irrilevanti, senza sostanziale valore ermeneutico; né l’autodenigrazione masochistica, che assume senza discernimento critico i clichés negativi divulgati sul cristianesimo. Solo una serena prospezione storica può fornire l’approccio più atto a sondare un patrimonio dottrinale e pratico ricco di molteplici sfumature.
Per coloro che credono di poter riconoscere nel cristianesimo un’irriducibile ostilità al corpo, il medioevo diventa il principale imputato. È uno stereotipo culturale tenace, radicato nel pregiudizio che vede l’esperienza corporea-sensuale come opposta a quella religiosa. Non si può ridurre un fenomeno così poliedrico come il cristianesimo medievale a una formula; né é storicamente corretto attribuire valore esclusivo a singole espressioni di ostilità medievale al corpo — che pur esistono —, isolandole da tutto il tessuto culturale 62.
Per comprendere l’atteggiamento medievale verso il corpo bisogna tener presente che il medioevo si è assunto come compito di conservare una duplice eredità, quella giudeo-cristiana e quella classica, e di creare una nuova sintesi. Nel cristianesimo era confluita storicamente la concezione veterotestamentaria del corpo. Nel contesto culturale ebraico il corpo non era argomento di una speciale filosofia o teologia 63; era piuttosto
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parte integrante della fede e della sua pratica, dell’ortodossia e dell’ortoprassi. Il corpo era considerato quasi come un sacramento; il suo uso e i rapporti basati sul corpo — particolarmente quelli sessuali — simboleggiavano la relazione con Dio e presupponevano il retto ordine della creazione. Il cristianesimo radicalizzò questa prospettiva mediante la dottrina dell’incarnazione: essendo la carne, come credenza centrale del cristianesimo, unita eternamente alla natura di Dio stesso, ne deriva un nuovo rispetto. Anche la ‘parusia’ contribuì a restringere l’abisso tra Dio e la sua creazione, con la dottrina della risurrezione che accresce lo spessore somatico della fede. L’unità psicosomatica dell’uomo, con la dignità del corpo umano come corollario, è stata mantenuta contro le distorsioni eretiche, in particolare contro le spinte verso lo gnosticismo. La religione cristiana, infatti, era troppo materialistica per gli gnostici, che sottolineavano invece l’antitesi tra Dio e la materia, tra il corpo e lo spirito. Il rigetto spiritualistico del corpo poteva portare, con un paradosso solo apparente, tanto all’ascetismo estremo quanto alla completa indulgenza.
Nei confronti della cultura greco-romana il rapporto non fu solo di opposizione, relativamente alle pratiche che celebravano il corpo fino a divinizzarlo o lo sfruttavano fino a svilirlo. Il cristianesimo adottò la più antica e diffusa concezione del corpo che attraversa tutta la filosofia classica: quella che vede nel corpo lo strumento dell’anima. Per Aristotele il corpo è «un certo strumento naturale» dell’anima, come la scure lo è nel tagliare 64. La dottrina della strumentabilità del
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corpo è passata nella filosofia medievale. Secondo s. Tommaso, «il fine prossimo del corpo umano è l’anima razionale e le operazioni di essa. Ma la materia c’è in vista della forma e gli strumenti ci sono in vista delle azioni dell’agente» (S. Th., I, q. 91, a. 3).
Il cristianesimo medievale non volle solo conservare il messaggio rivelato circa il corpo, creato e redento, e l’eredità della filosofia classica: mirò a una sintesi dei due. E la raggiunse, con raro equilibrio. Quanto più ci avviciniamo alla fine del sec. XIII, tanto più è possibile vedere le potenzialità di una visione del mondo equilibrata, umana, dove al corpo è attribuito il suo giusto posto. L’intellettualismo della Scolastica, in particolare della dottrina tomista, costituisce il quadro di referenza ideologico. Come simbolo di questa cultura unificata si può assumere la cattedrale gotica. Nell’arte della cattedrale c’era un’accettazione tollerante dell’umana condizione e della debolezza della carne umana. La certezza del soprannaturale permise di rivalutare il naturale in una celebrazione totale. Si può vedere il culmine di questo processo nell’apparizione del nudo gotico come una forma indipendente, all’inizio del sec. XV 65. Il medioevo, così spirituale, è impastato di sessualità. È la gioia dei sensi che ha creato quelle forme di culto così armoniche, in cui confluiscono bellezze della parola e melodia, architettura e ornamento, quasi per una festa totale delle facoltà sensibili. La sensualità si esprimeva nelle stesse festività religiose, accompagnate da danze e banchetti; trionfava nella letteratura 66.
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Nella civilizzazione medievale al corpo poteva essere lasciato un così ampio spazio perché esso era inserito in un ordine, e l’ordine stesso era coronato e assicurato dall’onnipotenza di Dio. L’uomo vi occupava una posizione centrale per sua natura e destino, che includeva l’incarnazione di Dio e la restaurazione del cosmo. Il naturalismo era garantito dalla sua giustificazione teologica. Non solo il corpo dell’uomo esercitava un grande fascino, ma il corpo di tutte le cose. Ogni cosa reale, per quanto insignificante ed effimera, ha un’immediata relazione con Dio; ogni cosa esprime la natura divina a modo suo. Questo sviluppo è più evidente nelle arti plastiche che in quelle letterarie: l’ideale secondo cui nessuno stato dell’essere, per quanto basso, è completamente senza significato o privo di una scintilla di divinità, per cui nessuno è indegno di essere ritratto, segna una nuova epoca nell’arte. La credenza nella bontà dell’intera creazione e della sua continuità gerarchica in una «grande catena dell’essere» 67 tende ovviamente a smussare ogni rigido dualismo di corpo e spirito.
Questa rilettura storica degli atteggiamenti del medioevo verso il corpo ci autorizza ad individuare la frattura caratteristica dell’epoca moderna non tanto nello spirito del Rinascimento, con la sua celebrazione neo-pagana del corpo e della natura, quanto piuttosto nella svalutazione pratica della natura umana ad opera della teologia luterana. Successivamente, il secondo fattore responsabile della disintegrazione della sintesi medievale fu l’abbandono definitivo del concetto di strumentalità del corpo, sostituito col dualismo cartesiano. Il corpo è stato reso in tal modo indipendente rispetto all’anima: un punto di vista che, prima di Cartesio, non si era mai presentato 68. Il corpo
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è l’anima, resi indipendenti, sconvolgeranno la coscienza moderna; saranno amati e odiati separatamente, l’uno contro l’altro. Questa nuova sensibilità si rifletterà anche nel modo cristiano di vivere il corpo, specialmente nell’ascetica e nella spiritualità.
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capitolo secondo
IL CORPO MALATO NELLA LETTERATURA ASCETICA
La valutazione cristiana del corpo e l’atteggiamento verso di esso hanno subito l’influenza del linguaggio correntemente usato nei confronti della malattia. Ciò che si dice a proposito del corpo malato ha una rilevanza tutta particolare. Il piacere e il dolore sono avvenimenti esistenziali che si staccano dalle altre vicende corporee; essi sottraggono il corpo alla compatta opacità del vissuto quotidiano e lo erigono a soggetto protagonista. Per questo motivo gli atteggiamenti dottrinali e pratici che si concentrano intorno a questi due poli del vissuto corporeo costituiscono l’ossatura di ogni costruzione antropologica.
La malattia, in particolare, ha condensato una quantità di discorsi di natura ascetico-spirituale di tipo doloristico, che hanno contribuito ad alimentare il luogo comune di un disprezzo cristiano del corpo. Non sono pochi coloro che si stupiscono quando sentono in bocca ai cristiani parole diverse da quelle che usava Pascal nella sua preghiera per «domandare il buon uso delle malattie» 69. Eppure sempre più numerosi sono i cristiani stessi che rifiutano di ripetere gli stereotipi tradizionali sull’amore del cristiano per il dolore e sull’accettazione della malattia. L’uomo dell’età secolare tende a vivere anche
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la sua malattia in modo sempre meno ‘religioso’. Più che una crisi dell’esistenza che mette l’uomo di fronte al significato della sua vita, la malattia in epoca di Servizio Sanitario Nazionale è una falla nel sistema rivolto a garantire la salute a tutti i cittadini. Ma questo cambiamento di ottica ha anche i suoi risvolti positivi.
L’éthos dell’uomo secolare — concentrato nel compito di rendere abitabile il mondo, di lottare a fondo contro tutti i condizionamenti negativi, ivi compresa la malattia — ha provocato un ripensamento del messaggio cristiano. Obbliga a correggere certune sottolineature unilaterali e a riscoprire tutta la ricchezza dottrinale e pratica del comportamento di Gesù verso il corpo malato.
1. Discorsi di esortazione per il tempo della malattia
Per ricostruire l’insegnamento cristiano tradizionale circa la malattia è improduttivo il ricorso ai trattati di morale e alle opere teologiche di grande impianto. La teologia morale non ha mai profondamente considerato le implicazioni morali dell'esser malato. Per una specie di delega implicita, la trattazione della condizione morale del cristiano malato è stata demandata alla letteratura ascetico-consolatoria rivolta ai malati stessi (libri di meditazione, di parenesi, di pietà) e alle opere di pastorale indirizzate ai sacerdoti che devono occuparsi dei malati. Non è agevole muoversi nella congerie di tali opere ascetiche e pastorali, che formano un sottobosco molto disorganico 70. Ma, una volta familiarizzati a questa letteratura, vi si rileva la convergenza su alcuni temi. Il più costante è l’assunzione di base, secondo la quale l’unico atteggiamento veramente cristiano
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sia quello dell’accettazione della malattia. ‘Pazienza’ e, ‘rassegnazione’ attraversano, come un leitmotiv, le opere di questo genere di produzione letteraria. Ma siccome tale rassegnazione ripugna alla natura umana, vengono in soccorso gli scritti devozionali, sottoponendo alla riflessione dei fedeli i motivi che possono facilitarla.
Il primo motivo è di vedere nella malattia una giusta punizione per i propri peccati; le sofferenze sopportate con rassegnazione sono così un’occasione per una salutare espiazione. La malattia, inoltre, è vista come un sistema pedagogico messo in atto dalla provvidenza divina per distaccare l’uomo dalla terra e svezzarlo dalle gioie sensibili 71 Immancabilmente, le più diverse considerazioni sui vantaggi spirituali e fisici derivanti dalla rassegnazione si concludono con l’esortazione alla pazienza. Ma nella letteratura ascetica l’accettazione rassegnata della sofferenza non è che un primo passo verso l’utilizzazione completa della malattia che può fare un cristiano. Ciò che differenzia l’accettazione cristiana del dolore da quella stoica è il suo amore per esso. Il cristiano non si limita ad accettare la malattia come un ineluttabile a cui rassegnarsi, bensì l’abbraccia con amore. Gli scrittori ascetici amano moltiplicare riferimenti ai martiri e ai santi, citando i loro esempi e le loro massime circa l’amore per le malattie e le sofferenze.
Per lo più, nonostante alcune urtanti esagerazioni verbali, non siamo in presenza di un malsano amore per il dolore, ma ci troviamo ancora nel campo della spiritualità cristiana. Al fondo si possono ravvisare motivazioni teologiche precise. C’è anzitutto il desiderio di conformarsi all’Amato, il Cristo crocifisso. Con molta facilità gli scrittori ascetici procedono a una
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identificazione tra malattia e croce, per cui il malato che soffre nel suo letto rassomiglia strettamente a Cristo che agonizza in croce. Dall’identificazione con la croce deriva la convinzione della fecondità spirituale della sofferenza.
Contrariamente a quanto potremmo supporre a priori, la valorizzazione ascetico-teologica della sofferenza non è avvenuta che piuttosto recentemente. Possiamo seguire R. Plus quando distingue nella storia della spiritualità cristiana della croce tre periodi con fisionomie nettamente differenziate. Nel primo, che ruota attorno a s. Bernardo e a s. Francesco d’Assisi, si insiste sul ‘compatire’ col Crocifisso; nel secondo, originato dall’opera di s. Margherita M. Alacoque, si vuol ‘compensare’ le ingratitudini che feriscono il cuore del Cristo; nel terzo, proprio dell’età moderna, si mira a ‘completare’, mediante l’apostolato della sofferenza, ciò che manca ai patimenti di Cristo 72.
La prospettiva apostolica ha prevalso sulle altre, grazie soprattutto all’affermarsi della ecclesiologia del ‘Corpo mistico’. Cristo è il capo del corpo, e col battesimo i credenti diventano sue membra. Perciò quando un cristiano diventa infermo, cade malato o è agonizzante, è un membro di Gesù Cristo che è infermo, malato, agonizzante; è Gesù che continua in queste membra sofferenti del suo corpo mistico le infermità, i dolori, le agonie e tutte le sofferenze della sua vita mortale, soprattutto la sua passione. La teologia ascetica ha posto in particolare evidenza la vocazione del cristiano malato ad essere apostolo attraverso la sofferenza per il fatto stesso della comunione mistica col Cristo. Tuttavia anche in questa dimensione si sono introdotti degli eccessi, in senso doloristico. Così il discorso sulle ‘vittime volontarie’, o ‘volontari della sofferenza’, destinate da una speciale vocazione a soffrire in funzione vicaria, come una specie di intermediari tra la giustizia divina e i peccati del mondo. Gli equivoci si moltiplicano mediante
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questo linguaggio. La distanza dalle parole e dai gesti di Gesù nei confronti del corpo malato, quali risultano dai vangeli, è tale, da suscitare l’impressione di una completa estraneità.
2. L’influenza della scuola francese di spiritualità
L’atteggiamento verso il corpo malato rappresentato dalla ascetica tradizionale si è costituito grazie a molteplici influssi. Pur senza voler delineare una genealogia storica esauriente, non è possibile passare sotto silenzio la scuola di spiritualità francese. Dai limiti cronologici e tipologici imprecisi — ma situata sostanzialmente nel sec. XVII e nella scia del card. De Bérulle e dell’Oratorio di Francia — questo movimento ha avuto un’influenza profonda al di là dell’ambito dell’Oratorio.
È stato H. Bremond che ha sottratto De Bérulle e i suoi discepoli dagli archivi della pura scienza storica, facendone una presentazione appassionata e brillante nella sua monumentale Histoire littéraire du sentiment réligieux en France. L’illustre storico ha collocato all’inizio della scuola berulliana la ‘rivoluzione teocentrica’, che sostituisce nella vita cristiana la spiritualità antropocentrica: «Bérulle ha fatto nel mondo spirituale del suo tempo una specie di rivoluzione, che si può chiamare teocentrica» 73. Il teocentrismo informulato del medioevo aveva bisogno di essere affermato, ripetuto, fino a sembrare una verità antica quanto la chiesa, fino a diventare un luogo comune. Questo è stato il compito di De Bérulle e della scuola che da lui ha preso origine; con lui il teocentrismo, già caro ai mistici, ma che conservava un non so che di raro, di complicato, di esoterico, si semplifica e si mostra in piena luce, si offre e si impone alla preghiera di tutti 74.
Come De Bérulle, tutti gli altri membri della scuola francese — Condren, Olier, Eudes e fino ai meno mistici degli scrittori dell’Oratorio — sono stati tutti profondamente e come naturalmente teocentrici.
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L’atteggiamento della creatura di fronte a Dio non deve essere altro che quello di annientarsi per far rifulgere la grandezza di Dio. L’apostolo più appassionato di questa adorazione per annientamento fu Condren, la cui vita intera «ha per oggetto di far nascere, o piuttosto di risvegliare e sviluppare nelle anime quello ‘spirito di purezza’ che è propriamente lo spirito di religione e che non può soffrire che viva altro che Dio» 75.
Non c’è alcuna creatura che non dovrebbe annientarsi se potesse, per glorificare Dio e per testimoniare, attraverso il suo annientamento, che non c’è che lui solo che abbia e che meriti il nome di essere. Il desiderio di annientamento per la gloria di Dio trova la possibilità di realizzarsi nel sacrificio:
L’annientamento della creatura davanti a Dio è un riconoscimento attraverso il quale essa protesta di avere l’essere da lui, una professione che non ce che Dio solo che abbia veramente l’essere [...].
Il nostro essere stesso gli appartiene ed è per questo che bisogna offrirgli il sacrificio, cioè bisogna distruggere l’essere stesso delle cose per riconoscere che si ha l’essere da lui 76.
Il sacrificio esigerebbe la consumazione e la distruzione intera della vittima, benché nello stato d’innocenza — secondo Condren — le vittime, quantunque distrutte, non lo sarebbero state per mezzo della morte.
Il tema del sacrificio e del sacerdozio è stato ampiamente sviluppato dalla scuola francese. Tutti gli autori hanno messo l’accento sul sacerdozio di Gesù Cristo, che ha offerto, con il sacrificio della sua vita e della sua morte, l’adorazione perfetta del Padre: «La religione prima è in Gesù Cristo e risiede nella sua pienezza nel fondo della sua anima divina, che è l’unico vero religioso di Dio Padre» 77. Ma i cristiani non devono limitarsi a onorare questo stato di ostia: uniti a Gesù
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devono sacrificare a Gesù tutto quello che hanno, annientarsi davanti a lui, essere ostie con lui.
«Che ogni creatura perisca davanti al mio Dio! E come Nostro Signore sacrificandosi ha preteso di annientare tutto e fare un sacrificio di ogni cosa in sé, perché ha tutto riunito nella sua persona, è giusto che noi condanniamo e sacrifichiamo tutte le cose fuori di lui, le quali sono tanto meno sante quanto meno sono in lui 78.
La creatura deve offrirsi interamente al suo unico Sacerdote, unendosi al suo sacrificio e annientandosi con Lui. Tutto quello che noi siamo, nella misura in cui possiamo disporne, deve essere consegnato al fuoco del sacrificio, consumarsi, sparire. Condren esprime questa esigenza della creatura con formule molto energiche:
Uscendo da noi stessi e da tutto ciò che è nostro; abbiate intenzione di disfarvi di tutto ciò che siete, di spossessarvi della vostra natura; perdendo per voi ogni desiderio di vivere e d’essere; senza guardare a voi stessi e senza ascoltare le vostre disposizioni né il vostro stato, e senza desiderio d’essere o d’avere; che le anime non vogliano sopportarsi viventi in nessuna cosa 79.
Gli autori della scuola francese parlano tutti allo stesso modo e si lamentano di non trovare nel vocabolario espressioni più forti, più ‘sterminanti’.
Quest’opera di annientamento, che comincia ora e si completerà con la morte, è lo stesso Sacerdote Gesù che la compie nei suoi fedeli:
Questo gran tutto che ama con eccesso i suoi non sopporta che essi attendano dopo la morte per sprofondarsi in lui; egli comincia fin d’ora a inabissarli in se stesso, nella misura in cui lo stato della carne e della vita presente lo possono permettere. Siate dunque sempre in Gesù Cristo; lasciate che egli vi occupi in tutti voi stessi, e che egli solo sia vivente e sperante in voi, sotto la scorza della vecchia creatura 80.
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Dal momento che Cristo è il Sacerdote-ostia perfetto, l’ideale del cristiano che vuole annientarsi nell’adorazione di Dio è di partecipare in qualche modo allo stato unico del Cristo. Noi aderiamo al Cristo, entriamo in comunione con lui, attraverso la partecipazione ai suoi misteri, cioè agli avvenimenti della sua vita terrena. Questi, infatti, in quanto ‘stati’ interiori del Verbo incarnato, permangono eternamente anche dopo che l’avvenimento nella sua storicità è stato ingoiato dal tempo. La spiritualità berulliana è una spiritualità dell’adorazione, mediante la contemplazione del Cristo in ciascuno degli ‘stati’ della sua umanità.
Tutti gli scrittori della scuola francese insegnano la necessità, per essere veramente cristiano, di riprodurre in sé i misteri del Cristo. Essi studiano nei loro scritti i diversi misteri e stati di Gesù; ciascuno di essi, tuttavia, ha le sue preferenze 81. Bérulle si interessa ai misteri della vita terrestre e celeste di Gesù, Condren a quelli della sua vita d’immolazione sulla terra e in cielo, e Olier a quelli della sua vita eucaristica.
Per il nostro studio interessa soprattutto l’accento messo da Condren sullo stato di vittima:
Il Figlio di Dio s’è offerto a suo Padre per essere consumato in Dio [...]. Ora noi dobbiamo essere di Dio in questa intenzione di Gesù Cristo, affinché egli ci consumi completamente in lui, e con la prospettiva di perdere tutto quello che noi siamo, ma in modo particolare tutto ciò che è del vecchio Adamo, ad onore di Dio, della sua grandezza e della sua santità, come egli ha perduto in Dio la sua persona e le sue qualità umane 82.
Il posto del sacrificio è centrale nella spiritualità di Condren. Possiamo così sintetizzarlo, seguendo uno storico che l’ha studiato con particolare cura:
Gesù nel suo sacrificio ha compreso tutte le sue membra; il battesimo, che le fa entrare nella sua santità, le obbliga a entrare nel suo sacrificio; la loro oblazione ratifica il suo volere e le impegna con un titolo nuovo all’immolazione; tutti gli atti virtuosi della vita
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cristiana sono dei sacrifici, dal momento che racchiudono una perdita o una sofferenza ad onore di Dio; la vita intera lo è, nel senso che deve essere una morte a se stessi e una partecipazione alla croce di Gesù; la morte infine è il sacrificio della vita; le prove e la morte consumano il cristiano, cioè distruggono il suo essere primo ad onore di Dio e gli danno parte all’essere del Cristo risuscitato 83.
Che cosa diventa la malattia, quando la poniamo in questa prospettiva dello stato vittimale del Cristo che deve essere partecipato da ogni cristiano? Diventa l’occasione privilegiata in cui si può esercitare quell’annientamento che è il fine e il vertice di tutta la vita spirituale. La malattia, la grande distruttrice dei valori umani, è equiparata allo stato di più perfetta rassomiglianza al Cristo crocifisso. La morte, a cui le malattie introducono, è il supremo sacrificio del cristiano, il più sublime atto di culto, la partecipazione completa alla liturgia dell’unico Sacerdote, Gesù Cristo.
Lo sviluppo più eloquente di questa dottrina lo troviamo nelle Riflessioni sull’agonia di Gesù Cristo di Bossuet, in cui si applicano questi punti di vista alla morte del cristiano. I cristiani — afferma — hanno un così grande interesse a conoscere i misteri e ad assumere i sentimenti e le disposizioni di Gesù Cristo, in tutti i suoi stati, che dovrebbero continuamente applicarmi; «ma soprattutto a quei grandi e terribili misteri della sua passione e della sua morte, attraverso i quali egli ha consumato l’opera della nostra salvezza eterna con la redenzione» 84.
L’anima dell’agonizzante è associata «per diritto di unione, di società e di commercio tra il capo e le membra viventi, agli impieghi divini dell’anima di Gesù Cristo». Gesù, per così dire, ha agonizzato per i cristiani. Così il Cristo rinnova e perpetua il suo sacrificio «non solamente nel mistero della divina eucaristia, ma anche nella morte di tutti i fedeli».
Ed è per mezzo del sacramento dell’estrema unzione che
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Cristo, pontefice sommo, consacra pienamente la morte del fedele. Per mezzo dell’estrema unzione, infatti, «colui che è il tempio del sacerdozio di Gesù Cristo, diventa anche sacerdote e vittima con lui. Si tratta, in ultima analisi, del fatto che il pontefice sovrano prende possesso della vittima in questo sacramento; consacra la sua morte; diventa egli stesso il sigillo, che è il segno del carattere di vittima; e, usando i suoi diritti su una vita che gli appartiene, si serve della malattia come del coltello e della spada con cui sgozza e immola questa ostia» 85.
Così ancora — continua la riflessione di Bossuet — il cristiano, entrando per sottomissione e per adesione in tutti i disegni di Gesù Cristo, volendo disporre del suo essere e della sua vita come il grande sacrificatore ne dispone, diventa sacerdote con lui nella sua morte e completa, in questo estremo momento, quel sacrificio al quale era stato consacrato nel battesimo e che ha dovuto continuare tutti gli istanti della sua vita.
Oltre queste pagine di Bossuet, non trovo niente di più eloquente per illustrare l’atteggiamento della scuola francese di spiritualità nei confronti della malattia che il seguente episodio della vita di Condren, riportato da Bremond 86. Una delle sue figlie spirituali, nell’ultima malattia che ebbe, lo pregò di andarla a visitare. Egli vi andò e s’informò subito dello stato della sua anima. «Mi sento — disse ella — Dio molto rigoroso». Il p. Condren le domandò in quale disposizione ella fosse. «Io entro — rispose — nel suo rigore contro me stessa». Dopo di che, egli le parlò per un po’ di tempo della santità di Dio, dell’avversione che egli ha della comunione della carne, nella quale siamo in questa vita. A ciò ella rispose: «Io adoro tutto ciò che Dio è»; qualche tempo dopo disse: «Io mi separo dall’essere presente e mi ritiro nell'essere sconosciuto di Dio»; e finendo queste parole rese lo spirito. Il p. Condren ― nota Bremond — onorava talmente la memoria di questa figliola, che ebbe per tutta la vita il desiderio di farle fare
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una tomba e di comporle un epitaffio che contenesse le sue ultime parole.
Nelle dottrine teologiche e spirituali della scuola francese l’atteggiamento ascetico verso il corpo malato, che ha preso forma nei due secoli successivi, era già contenuto germinalmente. Eccettuato l’aspetto apostolico della sofferenza, che è stato sviluppato solo dopo la metà del secolo scorso, tutti gli altri temi abituali vi si trovano già o chiaramente espressi o impliciti nelle premesse..
È evidente che una teologia che dia più spazio ai valori umani — pur senza pregiudicare la grandezza assoluta di Dio ― e consideri il mistero pasquale nella sua interezza, senza lasciarsi ipnotizzare unicamente dalla croce, abbia dovuto sovvertire profondamente il modo di porsi di fronte alla malattia.
3. Un nuovo atteggiamento verso il corpo malato
Tra gli atteggiamenti pseudo-cristiani di fronte alle vicende del corpo malato il più tenace è la concezione della ‘buona sofferenza’. La sofferenza è buona — si dice — perché Dio la invia come prova o come punizione: «Dio fa soffrire quelli che ama», oppure «quelli che ama, Dio li castiga». Questa considerazione della buona sofferenza conduce naturalmente, se spinta fino in fondo, a ritenere il malato un privilegiato. Ne abbiamo trovato esempi nelle opere ascetiche sulla malattia. Con queste premesse, il comportamento richiesto al cristiano malato sarà quello di centrare la propria vita spirituale sulla malattia, come fonte di purificazione, di meriti e di redenzione.
Ciò che spinge oggi molti a opporsi ai discorsi fondati sulla buona sofferenza non è soltanto una preoccupazione pastorale ― cioè il pericolo evidente di un rigetto indignato da parte dei malati stessi —, bensì anche una preoccupazione dottrinale: non si vuol spacciare per visione cristiana della sofferenza quella che è piuttosto una concezione deviante e morbosa. L’accusa è quella di propendere verso il ‘dolorismo’ 87.
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Si vuol tutelare la dottrina cristiana sul corpo malato da commistioni con atteggiamenti più o meno psicopatologici, che rimandano un’eco di masochismo. Il rischio è la corruzione del senso cristiano della sofferenza. Il teologo R. Regamey, dopo aver svolto una critica a fondo del dolorismo, fa notare che uno dei rischi della malattia, soprattutto se dolorosa e prolungata, è di conquistare il giudizio stesso, fino a erigere la sofferenza a valore supremo 88. La denuncia di tale pericolo induce a guardarsi da motti altosonanti — del tipo: ‘la mia gioia è soffrire’, ‘soffrire o morire’... —; a non pronunciare alla leggera parole che sembrano ammirevoli, ma che forse non sono che imprudenti o vuote; a diffidare di un’accettazione troppo gioiosa o entusiasta della malattia; a non dar credito a chi indica nella malattia o nell’umiliazione del corpo un cammino privilegiato verso la salvezza. L’attuale sensibilità ha reso espressioni simili quasi intollerabili, soprattutto quando pretendono di presentarsi come l’atteggiamento cristiano tipico o ideale. Ci potrebbe essere un amore della sofferenza che rischia di non essere altro che la corruzione delle sorgenti della vita o pigrizia di fronte allo sforzo. Non bisogna confondere, infatti, il disgusto della vita con l’accettazione della croce. La rinuncia cristiana lascia il posto al desiderio di vivere, sottomettendolo a Dio. Essa non è il lasciarsi andare di un essere che si abbandona
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senza lotta alle forze della natura, ma la decisione suprema al termine di un lungo combattimento.
Gli atteggiamenti estremi, che rischiano di provocare sgradevoli fraintendimenti della concezione cristiana della sofferenza e si attirano le accuse di dolorismo, hanno il loro entroterra teologico in una considerazione del mistero cristiano che si ferma alla croce di Cristo, invece di andare fino alla sua risurrezione gloriosa. Le reazioni più vivaci di chi rimette oggi in discussione quella che si presenta come la tradizionale ‘spiritualità cristiana’ del corpo malato sono dirette soprattutto contro una visione troppo ristretta della vita del cristiano malato. Se non si vede nel malato altro che la sua malattia, si rischia di sopravvalutarla, scivolando così in espressioni e atteggiamenti propri del ‘dolorismo’. Ma soprattutto, insistendo esclusivamente sulla malattia, non si raggiunge che una parte della persona malata, la si imprigiona nella sua malattia, la sua spiritualità si costruisce sulla parte negativa del suo essere e non su quella vivente. Dio non è presente nella ^malattia: è presente in un uomo vivente ma malato. La malattia non interviene che come una realtà seconda, per importanti che siano le sue implicazioni. Limitarsi a una spiritualità della malattia e della sofferenza sembra una posizione troppo incompleta per poter essere generalizzata. Bisognerà, piuttosto, partire da una spiritualità ‘cristiana’ comune a tutti, sani e malati, per poi arrivare al modo speciale in cui il malato deve viverla per i condizionamenti della sua malattia.
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capitolo terzo
IL CORPO SANO: L’IDEOLOGIA DELL’EPOCA VITTORIANA
1. La salute come ideale
L’epoca vittoriana inglese è, secondo cliché, sinonimo di puritanesimo e di repressione sessuale. È un tratto talmente vistoso, che tende a diventare l’emblema dell’atteggiamento verso il corpo proprio di questo periodo. La visione d’insieme dell’uomo che l’epoca vittoriana si era proposto come ideale ne risulta così deformata. L’uomo vittoriano voleva essere, prima di tutto, ‘sano’. Nessun argomento occupò la mente degli scrittori e degli intellettuali inglesi del secolo XIX quanto la salute 89. La massima mens sana in corpore sano fu cara a pensatori peraltro inconciliabilmente diversi, come il positivista H. Spencer e il vitalista-trascendentalista Carlvle.
L’ideale dell’uomo sano assumeva due diverse coloriture, a seconda che fosse sottoposto a un’interpretazione più materialistica o più spiritualista. L’interpretazione popolare della mens sana... inclinava a ritenere che allenare il corpo assicurasse direttamente una mente più robusta, in quanto l’uomo si riduce al suo corpo. «Essere una nazione di buoni animali: è la
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prima condizione per la prosperità nazionale» 90. Questa celebre sentenza di Spencer fu spesso assunta in senso crassamente materialistico, come riduzione radicale del modello umano alla salute del corpo intesa come buon funzionamento fisiologico degli organi.
L’altro polo è quello che potremo chiamare ‘spiritualista’, ed è idealmente rappresentato dall’‘eroe sano’ di Thomas Carlyle. Soprattutto la sua opera Sugli eroi e sul culto degli eroi 91 ha contribuito a delineare la fisionomia antropologica dell’epoca vittoriana. Il suo eroe sano è un personaggio di grande forza, perseveranza, integrità. Il centro della salute è costituito dalla volontà unificata, assertiva; e la salute si prolunga nell’azione eroica, che ne costituisce la prova. Per l’eroe sano il corpo è un’espressione dello spirito, e perciò l’obbedienza alle pulsioni è un segno di armonia costituzionale. Lo stato di salute implica una conoscenza delle leggi della natura; l’eroismo è una vita di azione resa possibile dall’osservanza delle leggi della salute. L’eroe non è solo sano in se stesso, ma ha anche il potere di rendere sani gli altri; è il vero guaritore, in forza della relazione psicologica ed etica con il mondo umano intorno a sé (l’eroe per Carlyle è uno la cui parola «è la saggia parola guaritrice, in cui tutti possono appoggiarsi con fede»).
Secondo questo modello, salute fisica e salute spirituale sono intrinsecamente correlate. La salute corporea è un segno (metafora, analogia) di una più generale salute personale, nella quale è incluso un rapporto armonico con le leggi fisiche e morali che trascendono l’individuo. La persona sana ha un senso di intimità con l’universo fisico, si sente fisicamente e spiritualmente a casa propria tra le cose. Inoltre in questa salute ‘eroica’ è incluso un protendersi continuo, intellettualmente e moralmente, verso ciò che non può essere afferrato. Le due principali spinte della natura sana, quella etica e quella estetica, si esprimevano rispettivamente nel lavoro e nel gioco. Una
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sintesi dei due fu trovata dai vittoriani nello sport, nel quale videro la perfetta incarnazione della vita di azione.
2. Il ‘cristianesimo muscolare’ di Kingsley
Tutta l’epoca vittoriana appare radicata nella fede certa nella mens sana in corpore sano. Charles Kingsley, da parte sua, fece un passo ulteriore: trasformò quella fede laica in una fede evangelica. Singolare figura di pastore, oratore, scrittore, riformatore sociale, Kingsley offrì nella sua vita e nei suoi scritti un esempio vissuto della vita sana come l’intendeva l’ideologia del suo tempo, e al tempo stesso il più brillante tentativo di armonizzare la cultura vittoriana della salute col cristianesimo. L’etichetta di Muscolar Christianity, coniata da un critico nella recensione di un’opera di Kingsley, fu rifiutata da Kingsley stesso; ciononostante rimase incollata alla sua opera e al suo pensiero, e serve ancor oggi ad esprimere l’ideale di cui si è fatto portavoce 92.
Leggendo Carlyle si convinse della «perfetta armonia dell’universo spirituale con quello fisico», e cominciò a sentire tutta la forza dell’idea che il corpo è il tempio del Dio vivente. Da allora il suo naturale entusiasmo per la vita fisica lo portò a dirigere il suo concetto di salute verso le cose concrete appartenenti a questo tempio. L’eroe sano di Carlyle acquista, grazie a Kingsley, un visibile corpo robusto; e la glorificazione del corpo è fatta non in contrapposizione a un ideale religioso, bensì nel nome stesso del cristianesimo.
Kingsley disprezzava l’immagine del cristianesimo presentato come un pallido ascetismo; di questa deformazione era responsabile, a suo avviso, la teologia, tanto quella evangelica quanto quella cattolico-romana. I fautori della rinuncia corporea
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li chiamava ‘manichei’: «Agli occhi dei ‘manichei’ l’uomo non è uno spirito necessariamente incorporato in un animale e da esso espresso, ma uno spirito accidentalmente collegato con un animale, che su di lui fa gravare il suo peso. Ritengono che solo la parte animale sia umana; quella spirituale, invece, angelica o diabolica, secondo i casi. L’ideale dell’uomo, perciò, è di rinnegare, non se stesso, ma la parte animale che non è lui stesso, e di tendere a uno stato non umano o angelico. E di questo stato angelico si pensa, naturalmente, che non abbia una coniugalità e che sia senza relazioni, eccetto che con Dio solo» 93. Per Kingsley corpo e spirito sono ambedue divini; e la virtù dell’uno non è da perseguire con meno impegno di quella dell’altro. Egli stesso, rettore della parrocchia di Eversley, nello Hampshire, ne forniva l’esempio: «Mi è sempre sembrato che ci fosse qualcosa di empio nel trascurare la salute personale, la forza e la bellezza, come fanno ostentatamente le persone religiose e talvolta gli ecclesiastici[...]. Non potrei fare neppure la metà di quel poco di bene che faccio qui, a Eversley, se non fosse per quella forza e quell’attività che alcuni considerano rozza e degradante [...]. Come è stato misericordioso Dio nel rivolgere a favore della Sua opera tutta quella forza e quella robustezza che ho acquistato tirando alle beccaccine, cacciando, remando e pescando in questi magnifici acquitrini!» 94.
Kingsley, lui stesso ‘cristiano muscolare’, intendeva lo stato di benessere costituzionale, corrispondente alla salute, non in chiave edonistica, ma etica. Essere sano domanda, infatti, obbedienza alle leggi della natura, stabilita da Dio. Per il benessere umano le più urgenti sono quelle che riguardano la fisiologia e l’igiene. Con lo stesso ardore con cui propagandava il socialismo cristiano e si adoperava per il miglioramento delle classi operaie, Kingsley si faceva ‘apostolo della pulizia’. E della riforma sanitaria: «Mi sto gettando — scriveva a Lady Harding nel 1859 — in questo movimento. Sono stanco della maggior parte delle cose in questo mondo. Della riforma sanitaria
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non sarò mai stanco. Non si può accusare qualcuno di essere sentimentale a questo proposito, o di fare troppo per essa. Non ci può essere alcun errore nel salvare vite umane e nel tirar su una generazione sana. Dio benedica lei e tutte le buone signore che hanno scoperto che gli esseri umani hanno corpi, oltre che anime, e che lo stato dell’anima spesso dipende da quello del corpo» 95.
Unilaterale e deformante, questo cristianesimo virile? Molti lo pensavano, tra i quali Newman. Raramente, tuttavia, la celebrazione dello spirito animale, della forza fisica, e del cordiale godimento di tutto ciò che obbedisce all’impulsività naturale è stata così audacemente fatta nel nome del cristianesimo. È un motivo per dare al ‘cristiano muscolare’ di Kingsley, fiorito sul terreno vittoriano, un valore non effimero sul piano simbolico.
3. Newman: riproposta del modello aristotelico-tomista
Tra Kingsley e J.H. Newman fu polemica aperta. Kingsley fece di un sermone di Newman (Wisdom and Innocence) il bersaglio delle sue critiche, in quanto ravvisava nella sua proposta circa l’atteggiamento che i cristiani avrebbero dovuto tenere in tempo di persecuzione l’esemplificazione di quell'immagine non virile del cristianesimo che egli detestava. Newman, a sua volta, vedeva nelle idee della muscular Christianity il pericolo di un naturalismo antiascetico, che indulgeva alla tendenza naturale dell’uomo a far affidamento solo sulla forza fisica e materiale: «Ci sono protestanti la cui idea di cristianesimo illuminato è quella di una forte opposizione a ciò che essi considerano mancanza di virilità e di ragionevolezza della morale cristiana, e di un’antipatia per i precetti di pazienza, mansuetudine, perdono delle offese e castità» 96.
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Newman sviluppò anche indipendentemente dalle provocazioni di Kingsley una trattazione organica della salute dal punto di vista cristiano-cattolico. È quella che si trova nella sua Idea of a University. L’opera vuol mostrare che lo scopo dell’educazione universitaria è la salute dell’intelletto, e che solo un’educazione liberale raggiunge questo scopo. Il concetto di ‘eccellenza intellettuale’, applicato alla mente, è analogo a quello di ‘salute’ applicato al corpo. L’università mira a educare l’intelletto, così come l’ospedale cura i Meriti e i malati, e una scuola di equitazione o di scherma allena le membra. Per raggiungere la sua perfezione, la mente deve essere portata sistematicamente a esercitare la sua ampiezza e unità. Volendo chiarire la natura delle occupazioni mentali liberali, Newman ricorre al paragone con quelle fisiche: «Ecco che cosa intendo mediante il parallelo con la salute del corpo. La salute è un bene in se stesso, ed è degna in modo speciale di essere ricercata e amata [...]. Il parallelo è esatto: come alcune membra o organi del corpo possono essere disordinatamente usati e sviluppati, così può esserlo la memoria, l’immaginazione o il ragionamento: e questo non è cultura intellettuale. D’altra parte, come il corpo può essere servito, amato ed esercitato semplicemente nella prospettiva della sua salute generale, così anche l’intelletto può essere esercitato in generale in vista del suo stato perfetto: e questo è coltivare l’intelletto» 97.
Per spiegare la crescita — cioè il progresso dell’uomo in rapporto con la sua perfezione e il bene generale — Newman fa ricorso alla filosofia aristotelica. Rifiutando tanto il meccanicismo quanto il vitalismo, mutua da Aristotele l’idea che ogni essere vivente ha un principio o una tendenza ad attualizzare se stesso, a realizzare la sua natura particolare: qualcosa del genere di una perfettibilità innata (entelechia). Nell’uomo all’attualizzazione formale della mente fa riscontro l’attualizzazione formale del corpo, che è semplicemente Yentelechia della sua parte animale. Così per Newman, come per Aristotele, la salute dell’essere è più o meno equivalente alla
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condizione della sua crescita o formazione; la salute è la particolare condizione dell’organismo in rapporto al suo proprio ideale di perfezione. Dal momento che l'entelechia dell’uomo deve includere la perfezione intellettuale, la sua salute ‘in quanto essere umano’ deve essere misurata secondo questo metro. Tuttavia per l’aristotelico Newman ogni ordine delle cose ha il suo proprio principio: malgrado le somiglianze formali, non devono essere confusi (la conoscenza può offrire gli equivalenti mentali della salute fisica — forza, energia, agilità, sopportazione della fatica ecc. —; ma gli agenti spirituali e morali appartengono a un ordine diverso da quello fisico).
Lungo tutta l'Idea of a University Newman insiste su questa vitale distinzione. Sarebbe stravagante — afferma — che un medico proclamasse che «la salute corporea è il summum bonum, e che non può essere virtuoso colui il cui sistema animale non sia in buon ordine». Indirizzandosi agli studenti di medicina dell’Università cattolica, li mette in guardia dal credere che le leggi della loro professione siano assolute. Dopo tutto, «la salute del corpo non è il solo fine dell’uomo, e la scienza medica non è la più alta scienza di cui egli sia soggetto. L’uomo ha una natura morale e religiosa, oltre che una fisica. Ha una mente e un’anima; e la mente e l’anima hanno una legittima sovranità sul corpo; le scienze che si riferiscono a loro hanno di conseguenza la precedenza su quelle scienze che si riferiscono al corpo» 98.
Nell’affermare la separazione dell’anima dal corpo e la sovranità della mente sul corpo, Newman riflette la tradizione umanistica classica, in particolare il modello aristotelico. Ma Newman è cristiano; per lui il modello antropologico classico è insufficiente e va integrato. Benché la filosofia, al cui studio l’università liberale è intesa, possa perfezionare la mente, e quindi la natura umana, non può però innalzare l’uomo al di sopra della natura. C’è un ideale di perfezione più alto — la salute dell’anima —, e solo attraverso la religione l’anima realizza il completo stato di salute. Ritroviamo cosi lo schema
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tripartito: la salute del corpo, la salute della mente e la salute dell’anima, con cui Newman ripropone la scolastica.
L’educazione universitaria ha come sua più alta meta quella di far conseguire l'habitus filosofico che si addice al gentleman; ma solo la chiesa mira a «rigenerare le profondità del cuore». Il corpo allenato è un aiuto all’educazione; allo stesso modo lo è la mente allenata mediante la filosofia nei confronti della religione: ma la meta dello sviluppo è più alta, o in ogni caso diversa. Newman illustra la differenza paragonando la modestia e l’umiltà 99. Il modello vittoriano di crescita, che integra corpo e mente in un processo che va dal genere più basso a quello più alto, è sostanzialmente fatto proprio da Newman; ma al tempo stesso è dichiarato insufficiente. In nome dell’antropologia cristiana tradizionale, concettualizzata in termini aristotelici, il cardinale polemizza contro l’ideale virile dell’epoca vittoriana. L’uomo totalmente sano non è l’eroe di Carlyle, né il gentleman: è il cristiano. Cristiano tout court, senza alcuna qualifica di ‘muscolare’.
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capitolo quarto
K. BARTH: LA VITA DEL CORPO COME OBBEDIENZA A DIO
Nel continente sconfinato della Dogmatica ecclesiale di Karl Barth troviamo alcuni spunti profondamente innovativi rispetto al modo tradizionale di parlare cristianamente del corpo e delle sue vicende: la vita, la salute, la malattia. È già una novità il fatto che la trattazione più ampia del tema della vita fisica sia situata nel versante della dottrina della creazione, piuttosto che della redenzione. La prospettiva ‘peccato-redenzione’ ha indubbiamente condizionato la tradizionale considerazione teologica del corpo, gravandola di una certa unilateralità. Anche la trattazione barthiana della salute e della malattia è unilaterale, o piuttosto parziale, in quanto si limita a considerare le questioni etiche sollevate dalla dottrina della creazione 100. Ma si tratta di un’utile parzialità, che mette in evidenza i limiti della visione del corpo sottostante a molti discorsi ascetici sulla malattia e la salute, ed esplicita la visione positiva della vita corporale che si apre a colui che crede nella creazione.
1. La vita come dono e come valore
Il racconto biblico della creazione — in modo particolare il racconto sacerdotale: Gen. 1,1-2,4 — è chiaramente ispirato all’idea che Dio ha preparato la terra e l’universo come cornice per la vita umana. L’interesse di Dio è volto primariamente
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all’uomo stesso 101. Tutto ciò che Dio ha fatto è eccellente e prodigioso, e nessuno potrebbe sondarne la grandezza; ma, in tutto ciò, è l’uomo che gli sta particolarmente a cuore. E siccome Dio ha un interesse particolare all’esistenza dell’uomo, gli assicura ed offre continuamente il quadro necessario alla sua vita 102.
Sullo sfondo di questa azione generale di Dio che offre a tutti gli uomini le condizioni per la vita, risalta la storia particolare di Israele. Anche l’alleanza d’Israele, pur preparando e contenendo in germe qualche cosa di strettamente spirituale, ha come oggetto la vita. La storia dell’alleanza descritta dall’Antico Testamento costituisce semplicemente la storia di Israele che prende possesso del paese che Dio ha messo a sua disposizione. La permanenza nella terra in cui «ciascuno abiterà sotto la sua vite e il suo fico» (1 Re 5,5) è il pegno e l’espressione della fedeltà di Dio.
In tutte le varie formulazioni dell’alleanza pattuita fra Jahvé e il popolo d’Israele la salvezza ha sempre una base terrestre e un carattere di incarnazione. Lo possiamo costatare nei ‘formulari di alleanza’ (Es. 19,24; 34; Gios. 24; Lev. 17-26; Neem. 9-10; Dan. 9,4-19). In essi, dopo la stipulazione vera e propria, troviamo le benedizioni e maledizioni condizionali, collegate cioè con l’osservanza o la infrazione del patto. Tra queste benedizioni, la benedizione per eccellenza — cioè la ‘salvezza’ promessa
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a Israele se resterà fedele all’alleanza — è costituita dall’entrata nella terra promessa 103.
Più in generale, possiamo dire che ogni concezione disincarnata della salvezza dovrà urtare contro la frequenza con cui l’Antico e il Nuovo Testamento si interessano ai problemi più concreti dell’uomo; il vestito e l’alloggio, il cibo, il sonno, il lavoro, il riposo, la salute, la malattia: in breve, alla sua vita di tutti i giorni e alla morte che la limita. Si tratta di problemi seri, che non sono affatto abbordati di passaggio, né relegati nell’ombra dai temi maggiori della Bibbia.
Il messaggio biblico verte certamente sulla vita eterna dell’uomo, una vita che, a differenza della vita presente, non sarà semplicemente prestata, ma accordata all’uomo come un bene durevole e inalienabile. Ma, anche sotto questo nuovo modo, essa non sarà meno la vita, la vita dell’uomo. L’uomo perverrà a questa nuova forma di vita solo attraverso la resurrezione da morte (cf. 1 Cor. 15,53); tuttavia l’escatologia non significa la svalutazione, ma al contrario la massima valorizzazione della vita presente. È dunque la nostra vita presente, la vita che ci è prestata, che ritroveremo nel quadro della vita eterna 104.
Per il fatto stesso di vivere, dunque, l’uomo riceve un beneficio da parte di Dio. «Il permesso di vivere — poiché viene da Dio — è in tutti i casi (che lo si riconosca o no!) un bene, un privilegio, un valore per ognuno e di conseguenza per tutti. Non un bene assoluto, un privilegio incondizionale, un valore supremo, certo (Sal. 73,26; Sal. 66,4). Ma, pur in questi limiti, la vita rimane un bene, un privilegio e un valore, perché costituisce la grande occasione di incontrare Dio e di rallegrarsi lodandolo. Ciò resta valido indipendentemente da tutto ciò che la vita può rappresentare o non rappresentare, indipendentemente dal senso che essa può avere o non avere, dalle speranze, dai successi, dalla
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felicità o dai beni che vi si possono trovare o no. Ogni volta che abbiamo a che fare con un uomo vivente, è con il miracolo della grazia divina che abbiamo ipso facto a che fare» 105.
2. Etica dell’obbedienza: la volontà di vivere per essere uomo
In questa prospettiva creaturale, col dono della vita Dio dà anche il comandamento di vivere. Dio Creatore ordina all’uomo di onorare la vita — la propria come quella degli altri uomini — come un bene che gli presta. C’è dunque un’obbedienza a Dio insita nell’esistenza umana come tale. Anche se il comandamento di vivere non è espresso esplicitamente, resta implicato nel fatto stesso che l’uomo esiste, come fine, oggetto e partner dell’azione divina.
L’esigenza di vita implicata dal comandamento di Dio domanda all’uomo di approvare la vita e di ‘volerla’. Volere la vita diventa allora la salute: «Sotto la sua forma di voler vivere, il rispetto della vita implica sempre la volontà di essere in salute» 106.
Non bisogna però confondere la volontà d’aver la salute con la soddisfazione dei bisogni che provengono dagli istinti inerenti alla natura vegetativa e animale dell’uomo. Certo, la salute è legata al benessere fisico; essa è la forza che ci permette, grazie aU’integrità dei nostri organi, le nostre funzioni psico-fisiche 107.
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Ma è falso ridurre la salute semplicemente a un fenomeno fisico e psichico, fatto oggetto di una ricerca e di una sollecitudine particolare. La salute non è uno scopo in sé: non dobbiamo vivere per avere la salute, ma avere la salute per vivere! 108. Voler vivere non è voler esercitare le proprie funzioni psico-fisiche, ma voler esser uomo. La salute è appunto la forza d’essere uomo. Essa serve a questo fine, in quanto costituisce la capacità, il vigore e la libertà che permettono d’esercitare le funzioni psichiche e fisiche, le quali non sono, a loro volta, che delle funzioni dell’essere uomo. Si può e si deve, dunque, volere la salute, perché è la forza che ci permette d’essere uomini nel corpo e nello spirito.
3. La malattia e il comandamento di vivere
Che cos’è la malattia nella prospettiva della salute, vista come la forza dell’individuo per essere uomo? Essa appare come qualcosa che viene a contraddire, diminuire, intralciare o paralizzare il voler vivere. In particolare, essa è un’impotenza a compiere quelle funzioni psico-fisiche in cui si esprime il nostro essere uomo. Impedisce all’uomo di compierle perché lo appesantisce, lo minaccia, lo fa soffrire. Salute e malattia
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si presentano, dunque, come due realtà opposte. Ma questa opposizione non è assoluta: «La malattia non è in sé e necessariamente un’impotenza a essere uomo. Fintanto che l’uomo vive, può ancora avere, benché malato, la forza di essere se stesso, la forza di essere uomo» 109.
Poiché la salute è appunto la forza d’essere uomo, il malato, anche se gravemente colpito, può voler essere in salute, senza per questo farsi illusioni sul suo stato. Difatti, anche a lui è domandato, nei limiti delle sue possibilità, di volere la salute, cioè di esercitare, fintante che vive, la vitalità che, a dispetto di tutto, continua ad avere.
Tutto ciò mi sembra possa sintetizzarsi magnificamente in quella che Barth chiama «la regola fondamentale dell’etica della malattia»: «esigere che il paziente si riferisca continuamente, come tutti quelli che l’accostano, non alla sua malattia, ma alla sua salute e alla sua volontà di ritrovarla» 110.
Se la salute è la forza d’essere uomo che si manifesta nell’esercizio delle funzioni psico-fisiche della vita; se la malattia è un fenomeno che provoca l’indebolimento e il bloccaggio di questa forza, allora l’atteggiamento morale richiesto all’uomo che deve obbedire al comandamento di essere in salute per vivere non può essere che quello della resistenza e della lotta. «Imparare a restare in piedi senza mai lasciarsi andare, tale è il comandamento al quale bisogna qui obbedire su tutta la linea» 111. Per avere la salute e per continuare a perseguire la realizzazione della propria vita, bisogna che l’uomo voglia fare tutto ciò che è necessario per assicurare la continuità della propria vita psichica e fisica, lottando contro ciò che rischia di paralizzarla.
Questa lotta non è lasciata all’improvvisazione di ciascuno, perché esistono delle misure che sono oggettivamente, per il corpo o per la psiche, utili o nocive, buone o meno buone. L’obbedienza al comandamento di vivere si esprime allora nella sottomissione alle norme igieniche, profilattiche e terapeutiche.
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Ciò esclude ogni indifferenza nei confronti dei problemi concreti della salute e della malattia. L’osservanza di tutte le misure negative e positive acquista un aspetto profondamente morale, perché si tratta di conservare o restaurare non una qualsiasi forza in sé indispensabile e buona, ma proprio la forza che permette d’essere uomo 112.
Barth non si limita a sostituire un atteggiamento passivo e dolorista nei confronti della vita del corpo con un’etica attivista. La sua preoccupazione fondamentale è di dare un fondamento teologico allo sforzo di volere la salute, perché non si tramuti in una nuova idolatria. E il fondamento è indicato nel comandamento di volere la vita, iscritto nel nostro stesso essere crea turale. Accettare il dono della vita significa voler essere uomo, e quindi volere quell’integrità psico-fisica che ne è il presupposto. Per impostar bene il comportamento morale da tenere nella malattia, bisogna riferirsi non alla malattia stessa, ma alla salute. E questo è sempre possibile, dal momento che la salute non è solo il retto funzionamento degli organi o della psiche, ma la forza stessa di essere uomo. Non lasciarsi spezzare dalle forze corrosive della malattia o dell'handicap, insistere nel perseguimento di una vita ‘umana’: ecco l’atteggiamento dell’uomo che ha capito il dono della vita, lo ha accettato con fede e lo rispetta, conservando sempre il giusto orientamento verso Dio.
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capitolo quinto
VERSO UNA TEOLOGIA SISTEMATICA DEL CORPO
1. La teologia esperienziale e il corpo vissuto
Tra le due modalità fondamentali di sperimentare il proprio corpo, quali le ha evidenziate la riflessione filosofica che si ispira alla fenomenologia, l’ago della bussola teologica si dirige verso il polo del corpo vissuto. La fenomenologia ha dischiuso, in contrasto con le concezioni dominanti, l’esperienza della corporeità come una nuova terra di ricerca. Il corpo umano che è rilevante per l’antropologia teologica non è quello che consideriamo un ‘dato’, alla stregua di un oggetto — il corpo originariamente percepito come il corpo di un altro, e solo secondariamente, per modalità derivata, trasferito al proprio —. Il corpo vissuto-fenomenico è un elemento fondamentale dell'esperienza esistenziale immediata; appartiene alla sfera del sé, da cui non si può prendere le distanze; vi si intrecciano i concreti, ‘corporei’ incontri con gli altri esseri umani e con il mondo; le vicende del divenire storico e quelle della comunità umana 113.
Questo stesso corpo fenomenico, luogo centrale della nostra esperienza umana, è percepito come rilevante per la teologia in quanto riflessione sul vissuto della fede. Un esempio di come la teologia spirituale, concepita erroneamente come polarità opposta al corpo, possa aprirsi ed essere fecondata dai valori della corporeità, è offerto dall’opera di Vladimir Truhlar. L’autore è ben referenziato: con i suoi venticinque anni di insegnamento all’università Gregoriana e le sue numerose pubblicazioni,
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Truhlar può essere considerato uno dei fondatori della teologia spirituale — o ‘mistagogia della vita cristiana’ — a livello accademico. Truhlar, alla ricerca di un centro unificatore che desse coerenza tanto al metodo quanto al contenuto della teologia spirituale, lo ha individuato nel concetto di ‘esperienza dell’assoluto’. La via esperienziale indicata come nucleo germinale della vita spirituale non è di tipo irrazionalistico (come la categoria dell’Erlebnis nella fenomenologia della religione). Essa si situa piuttosto su un piano in cui l’antinomia ‘razionale-irrazionale’ è inappropriata, in una situazione gnoseologica sui generis. Il sapere di cui è questione nella vita spirituale non è il ‘pensare’ concettuale, né quella conoscenza della realtà che si acquisisce mediante la sperimentazione: è il sapere relazionato all’esperienza del proprio essere e dell’assoluto, comune a tutti gli uomini. Nella via esperienziale l’essere si ‘sente’: non mediante determinate percezioni sensitive, immaginative, concettuali e neppure per il tramite della volontà e del sentimento (il Gefühl dei tedeschi, in quanto si oppone alla conoscenza). L’accesso all’essere passa al di sopra di tali categorie: è diretto, ‘acategoriale’. Si perviene a questo contatto immediato con l’essere indirizzando l’attenzione non verso gli oggetti così come sono nell’uomo, ma verso ciò che li accompagna e in cui sono immersi, verso ciò che costituisce il loro orizzonte. Questa esperienza dell’essere accompagna ogni categoria dell’attività umana, benché come tale non possa mai essere afferrata con i concetti. È una possibilità dell’essere umano, anche se non si realizza per tutti e con frequenza. Si richiede che il centro personale dell’uomo si rivolga ad essa mediante una certa attenta apertura.
L’importanza del concetto di ‘esperienza’ nella teologia spirituale si manifesta nelle sue conseguenze. La più importante è che tutta la teologia risulta ampliata nei suoi interessi e ‘centrata’. La via esperienziale conduce, infatti, a un centro in cui tutto l’uomo è presente come nel punto di partenza della sua vita intera. Tutto è unificato: lo spirito, la psiche, l’immaginazione, i sensi. L’esperienza dell’assoluto si manifesta attraverso il corpo, si iscrive, in un certo senso, nella
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respirazione 114. La spiritualità, grazie a questa integrazione del corpo, perde il carattere rarefatto che il termine era solito evocare, per assumere la concretezza poliedrica della vita umana. Ciò è particolarmente importante in un’epoca in cui, dopo l’ebrezza dei miti del progresso e della macchina, ci stiamo ripiegando sul corpo per difendere quella fragile realtà che evochiamo quando parliamo di ‘qualità umana’.
La teologia può lasciar cadere la sua diffidenza nei confronti del corpo, nella misura in cui il senso vissuto del corpo umano è assunto all’interno dell’esperienza dell’assoluto. L’uomo, in quanto unità e totalità, nella sua esperienza dell’assoluto non percepisce se stesso solamente in quanto spirito, ma anche in quanto corpo; ovvero: percepisce il corpo all’interno della percezione del proprio essere. Il corpo stesso, pertanto, viene sentito come pervaso dall’esperienza dell’assoluto: «Il senso dell’assoluto permea la percezione della corporalità con quel ritmo, ordine, apertura, armonia, pace, scioltezza, distensione, lucidità ecc., che gli sono propri; cerca di creare, partendo dalla corporalità, uno spazio che sia in armonia con la esperienza e in cui questa possa esprimersi e vivere [...]. Quanto più l’uomo, nel suo corpo, si adegua al ritmo, alla scioltezza, alla lucidità del senso dell’assoluto, tanto più liberamente questo senso può vivere, espandersi, svilupparsi, esprimersi nella corporalità dell’uomo; tanto più questa corporalità diviene un ‘materiale’ in cui si esprime il centro personale col suo assoluto; tanto più il corpo assume la sua funzione di manifestare e rivelare il nucleo personale, adeguato nella sua esistenza all’assoluto;
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tanto più le forme della vita corporale sono pervase dall’influsso del centro personale con la sua esperienza e si fanno perciò trasparenti verso il centro e il suo assoluto» 115. La teologia che riflette sull’esperienza spirituale non può avallare nessuna forma di disincarnazionismo e di ascesi impostata sul disprezzo o sull’indifferenza per il corpo. Quando si considera l’uomo nella sua profondità esistenziale, il corpo si identifica con l’essere umano in quanto concretizzato nell’orizzonte della corporeità. Come dimensioni dell’esperienza immediata, il corpo vissuto e lo spirito vissuto si sovrappongono fino a confondersi.
2. Gli studi esegetici sulla corporeità nell’antropologia paolina
La corporeità vissuta, con i suoi significati fenomenologici e ontologico-esistenziali, offre un prezioso aiuto per la comprensione del Nuovo Testamento, e in particolare per la comprensione della teologia paolina. Un’importante stagione di studi esegetici ha permesso di ritrovare l’orizzonte ermeneutico originario di sôma e sárx neotestamentari: non come componenti ontiche essenziali dell’uomo, bensì come dati fondamentali della condizione umana. Il sôma, in particolare, significa la sfera della concretizzazione esistenziale, il luogo dell’incontro e della comunicazione, in cui la salvezza è raggiunta o mancata, il mezzo dell’acquisizione della fede o della soggezione al mondo. Uno studio di Robinson — il teologo anglicano diventato in seguito molto noto per aver proposto, con Dio non è così, una nuova immagine di Dio — ha divulgato per primo le acquisizioni dell’esegesi scientifica in merito alla antropologia paolina 116. Negli ultimi anni si sono succedute altre importanti ricerche di teologia biblica 117. Non si creda che gli esegeti pretendano,
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astoricamente, di trovare negli scritti paolini risposte alle domande sul corpo e la corporeità che si pone l’uomo contemporaneo. La problematica di Paolo è esplicitamente ‘teologica’, nel senso che è concentrata sul rapporto tra Dio e l’uomo dal punto di vista della giustificazione. Ciò che a Paolo interessa è l’apertura ultima nella quale l’uomo è costituito, proprio a partire dalla sua corporeità — l’uomo in quanto uomo dinanzi a Dio —; esula invece dalla sua prospettiva il corpo come fondamento della vitalità, oppure la corporeità propria dell'homo faber o quella che si esprime nella creazione artistica, nonché la corporeità armoniosa che è il fondamento del benessere psicofisico.
Nella somaticità Paolo individua il principio e il fondamento della singolarità personale. L’accentuazione dell’unità intrinseca dell’uomo comporta «un superamento e un distacco da ogni forma di dualismo, non solo da quello di tipo platonico, secondo il quale la unione di anima e corpo è accidentale, ma anche di quello aristotelico che, pur affermando l’unione sostanziale, resta ancora dominato dall’orientamento del mondo greco» 118. Benché la dottrina ellenica dell’immortalità dell’anima offrisse una soluzione al problema della morte, Paolo non vi aderì; mantenne la sua concezione dialettica dell'uomo, portatore, nella mondanità del suo essere, di una destinazione ultramondana. Usando la filosofia esistenziale come strumento ermeneutico, R. Bultmann ha recuperato il senso paolino del sôma come modalità esistenziale: non qualcosa che sta attaccato dall’esterno al vero ‘io’ dell’uomo (magari identificato con l’‘anima’), bensì la persona nella sua totalità, considerata nella sua concreta realtà. Secondo l’incisiva formulazione di Bultmann, «l’uomo non ha un sôma, bensì è sôma» 119. Di qui la possibilità di tradurre sôma con ‘persona’ o ‘personalità’. L’uomo è ‘corpo’ in quanto nello spazio-tempo di Gesù Cristo può rendere se
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stesso oggetto del proprio fare, o soggetto di un patire. La somaticità apre l’uomo all’intervento dello Spirito di Dio e quindi alla speranza sicura della salvezza; oppure lo espone alla minaccia di smarrimento, di perdizione nella sárx, come luogo simbolico in cui trionfa la potenza del peccato.
La concezione di Bultmann non ha riscosso l’adesione di tutti gli esegeti. Käsemann, in particolare, ha accusato l’antropologia bultmanniana di sviare l’interpretazione del sôma in Paolo verso la concezione greca, che vede nell’uomo un individuo chiuso in se stesso. A suo avviso, invece, quando Paolo parla di sôma non si riferisce né esclusivamente, né principalmente alla personalità dell’individuo, bensì alla sua capacità di comunicazione e alla sua appartenenza al mondo 120. Qualunque siano le correzioni che una più attenta esegesi richiede di apportare, la corporeità dell’uomo, vista nell’orizzonte della rivelazione escatologica di Gesù Cristo, fonda la possibilità di essere provocati dal vangelo e di essere un nuovo uomo, una nuova creatura. Il corpo non è, dunque, nella visione cristiana dell’uomo, il polo opposto dello spirito, bensì il luogo in cui il credente diventa ‘Spirito vivificante’.
3. Le dimensioni di una teologia del corpo
Il terreno è ormai pronto perché la teologia sviluppi una visione organica e sistematica del significato del corpo per l’uomo nel dialogo della salvezza cristiana. Un autorevole impulso in tal senso viene da Giovanni Paolo n, il quale nella sua catechesi settimanale al popolo cristiano che si reca alle udienze ha arditamente proposto una riflessione teologica sul corpo, come sviluppo di un commento alla Genesi 121. Non mancano abbozzi di una teologia del corpo presso alcuni teologi 122. È possibile evidenziare almeno le linee portanti di quel disegno.
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Il corpo situa l’uomo di fronte a Dio nella dimensione della creaturalità. Mediante il corpo l’uomo partecipa alla finitezza del mondo. Pur dominando la natura, rimane dipendente da essa: ha bisogni fisici che devono essere soddisfatti, è continuamente minacciato, vulnerabile, esposto alla sofferenza, alle malattie e all’invecchiamento, destinato alla morte. La somaticità, che mette in evidenza la caducità della materia, può diventare, se illuminata dal messaggio della creazione, il luogo in cui l’uomo sperimenta il proprio essere come dono. La limitazione intrinseca alla materia, di cui è costituito il corpo, è il fondamento, inoltre, della vita sociale, in quanto l’essere umano può vivere solo in una comunità di interscambio.
Alla dimensione della creaturalità l’uomo partecipa non solo passivamente, con ciò che subisce, ma anche attivamente. Ricevendo il corpo, riceve al tempo stesso la capacità e il comandamento di ‘fare’ il proprio corpo. Il corpo-natura, in altri termini, è destinato a diventare corpo-cultura. Ciò implica il compito di correggere gli sbagli possibili della natura e di integrare le sue insufficienze; comporta soprattutto il compito di utilizzare ‘tutto’ il corpo, sviluppandone le potenzialità implicite (senza escludere quella dimensione corporea che non conosciamo, di cui si occupa la parapsicologia).
Il corpo vissuto si organizza intorno ai sensi, intesi come le porte attraverso le quali la persona è in comunione con il mondo. La dimensione della sensorialità lascia intravedere quasi un’ontologia diversa, che privilegia l’accoglienza rispetto all’autosufficienza dell’essere. La recipienza del corpo ha una diretta rilevanza teologica, in quanto offre un supporto alla dimensione religiosa della vita. Quando si atrofizza la sensorialità, non ne risente solo la facoltà umana di scoprire e creare la bellezza come risposta alla caducità del mondo, bensì anche quella capacità di trovare un significato ulteriore al mondo, che è l’essenza stessa della religiosità. Perché il mondo di Dio non
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è colto con un ragionamento; piuttosto, come insegnano i mistici, con vista, udito, tatto, odorato, tutti i sensi; il Regno dei cieli è accolto con l’accoglienza uterina propria della sessualità femminile; e in esso si penetra con l’intrusività propria della genitalità maschile.
Una terza dimensione del corpo di rilevanza teologica è la storicità. Il corpo cambia, e di tutte le trasformazioni conserva una memoria, distinta dalla memoria logica e da quella emozionale. Il corpo cambia: e non solo perché soggetto, in quanto natura, alla caducità, ma anche perché incontra altri corpi. Tra tutti i corpi che sono passati sulla terra nessuno ha influenzato la storia dell’umanità quanto il corpo di Gesù. È quanto annunciano la fede cristiana, confessando che Gesù è diventato, attraverso il mistero pasquale, ‘Spirito vivificante’, e la riflessione teologica, qualificando la risurrezione come nuova creazione. L’attenzione alla dimensione corporea che interessa il cristiano non è quella impastata di nostalgie regressive. L’invito di Gesù a tornare bambini è una specie di ‘invito in avanti’.
Il corpo promesso a chi si apre al vangelo è l’icona del nuovo uomo che esce dal sepolcro. E la nuova forma in cui l’uomo è creato è la croce.
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parte terza
L’ETICA COME LUOGO D’INTERROGAZIONE SUL CORPO
Lungi dal rivaleggiare con lo spessore del mondo, lo spessore del corpo è al contrario
l’unico mezzo che ho
per andare al cuore delle cose.
(M. Merleau-Ponty)
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capitolo primo
MASCHILE/FEMMINILE: L’IDENTITÀ SESSUALE
Quando Giovanni Paolo II nei suoi discorsi del mercoledì ha cominciato, commentando il racconto della creazione nella Genesi, a parlare della sessualità come dono che correda essenzialmente il corpo umano, le sue parole hanno suscitato vasta eco anche nella stampa non religiosa. Il recupero teologico della realtà fisica dell’uomo, la celebrazione dello splendore architettonico del corpo nella sua differenziazione sessuale, suonavano come una innovazione audace, che spazzava via una consolidata tradizione di moralismo platonicheggiante, nelle cui prospettive i valori dello spirito venivano presentati come antitetici alla materialità della carne. Affermava il papa: «Non c’è rottura e contrapposizione tra ciò che è spirituale e ciò che è sensibile, tra ciò che umanamente costituisce la persona e ciò che è determinato dal sesso: ciò che è maschile e femminile [...]. L’uomo mediante la sua corporeità, la sua mascolinità e femminilità, diventa segno visibile della Verità e dell’Amore». E ancora: «Il cerchio della solitudine dell’uomo-persona si rompe perché il primo uomo si sveglia dal suo sonno come maschio e femmina [...]. La femminilità ritrova se stessa di fronte alla mascolinità, mentre la mascolinità si conferma attraverso la femminilità. Proprio la funzione del sesso, che è costitutiva della persona (e non soltanto attributo della persona) dimostra quanto profondamente l’uomo con tutta la sua solitudine spirituale, con l’unicità e irripetibilità propria della persona, sia costituito dal corpo come lui e lei. La presenza dell’elemento femminile, accanto a quello maschile e insieme ad esso, ha il significato di un arricchimento per l’uomo in
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tutta la prospettiva della sua storia, ivi compresa la storia della salvezza» 123.
La novità della teologia del corpo e della sessualità proposta dal pontefice è più nella forma che nella sostanza. Tutti i suoi elementi qualificanti, infatti, si ritrovano nell’insegnamento della Gaudium et spes sul significato ‘personale’ dell’amore umano, o possono essere dedotti da esso (cf. G.S. n. 49).
La situazione culturale del nostro tempo domanda però con urgenza una rivisitazione tanto antropologica quanto etica della differenziazione sessuale dell’uomo e della donna. La dottrina tradizionale della chiesa, come anche le concezioni basate sul senso comune, subiscono una forte provocazione da fatti di costume che sovvertono i clichés cui siamo abituati. La revisione dei ruoli maschili e femminili ha sconvolto vistosamente ciò che spetta all’uomo e ciò che compete alla donna nella vita pubblica, nella famiglia, nella divisione del lavoro. I comportamenti sessuali devianti dalla norma, che in passato venivano repressi o tutt’al più tollerati, a condizione che non emergessero in pubblico, ora rivendicano il diritto all’esistenza e all’accettazione sociale. Non si contano le iniziative intese a promuovere un ‘orgoglio omosessuale’. I travestiti nelle strade esercitano una prostituzione aggressiva e disinibita. Più di recente anche i transessuali hanno cominciato a condurre campagne per il riconoscimento giuridico e sociale della loro condizione.
La crisi dell'identità sessuale sembra un tratto emergente della nostra civilizzazione. Anche se i tragici dilemmi di un transessuale non riguardano che una minoranza numericamente trascurabile, il significato proprio all’essere uomo o all’essere donna è una questione esistenziale fondamentale, a cui nessuno può sfuggire. E proprio questo significato sembra essersi messo a traballare.
Che cosa è maschile e che cosa è femminile? che cosa significa per l’essere umano possedere un corpo sessuato? è ancora possibile tracciare una linea decisa tra il normale e il patologico? qual è il cammino abituale, e quali le possibili deviazioni,
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del processo che porta alla differenziazione sessuale? Cercheremo un orientamento tra i molteplici aspetti della crisi cominciando col rispondere a quest’ultima domanda.
1. La conoscenza scientifica dell’identità sessuale
L’essere uomini o l’essere donne è una realtà che compenetra tutto il nostro essere individuale e sociale. Non esiste mai un essere umano generico, che sia poi soltanto accessoriamente qualificato come maschio o come femmina. L’appartenenza a un sesso o all’altro (oppure — come vedremo — a un sesso ambiguo o distorto) si agglutina talmente con il nostro ‘io’ più profondo, che non ci è possibile immaginarci senza identità sessuale. Anche nell’esperienza dell’altro l’identità sessuale è tra i primi dati percettivi e tra i più tenaci nel ricordo: potremo aver dimenticato tutto di una persona incontrata fugacemente — il nome, l’età, l’aspetto, — ma tuttavia sapremo ancora se era un uomo o una donna.
Secondo l’antropologia ingenua, il dimorfismo sessuale è la condizione normale e naturale. Tendiamo a pensare che esistono due sessi, polarmente opposti senza gradazioni, ognuno con una sua specifica morfologia, con i propri attributi psicologici, con stereotipi di comportamento e una ‘naturale’ attrazione per gli individui del sesso ‘opposto’. Consideriamo inoltre l’appartenenza a un sesso come un fatto immutabile, una verità eterna. Questa modalità di pensiero affonda probabilmente le sue radici nel fatto che la mente umana trova comodo percepire per contrasto. Il pensiero bipolare è la forma più primitiva di pensiero logico. La classificazione bipolare soddisfa il nostro bisogno di ordine ed elimina dall’esperienza le zone indistinte e confuse. La nostra tendenza a concepire l’umanità suddivisa tra uomini e donne è indubbiamente giustificata dal punto di vista pragmatico. Ma è inadeguata a una comprensione scientifica. Solo recentemente si è cominciato ad apprezzare la complessità del nostro sesso biologico. Ci si è resi conto che in differenti culture si trovano concezioni divergenti
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circa l’identità maschile e femminile. La stessa distinzione biologica tra maschi e femmine è molto più complessa della definizione tradizionale basata sulla configurazione dei genitali esterni.
Un contributo decisivo è venuto dai tentativi effettuati dagli scienziati per aiutare persone del sesso ambiguo e transessuali ad adattarsi agevolmente a un sesso o all’altro 124. Sappiamo oggi che si diventa maschi e femmine in fasi successive, e che nei momenti critici dell’acquisizione dell’identità può avvenire una deviazione dalla norma che si configura come patologica. Le teorie tradizionali sulla maschilità e femminilità, sia ingenue che filosofiche e aprioristiche, devono confrontarsi con i dati sperimentali e clinici derivanti da più discipline: genetica, embriologia, endocrinologia, neurologia, psicologia medica e clinica, antropologia culturale e sociologia. Grazie a queste conoscenze interdisciplinari, è possibile oggi tracciare l’itinerario che segue la differenziazione sessuale dell’uomo e della donna dal concepimento alla maturità.
L’appartenenza a un sesso, l’essere cioè persona sessuata e percepirsi tale, è designata scientificamente come ‘identità di genere’. Tale identità è la persistenza della propria individualità maschile o femminile (ambigua o ambivalente), come esperienza di percezione sessuata di se stessi e del proprio comportamento: l’essere ‘io’ nel mio corpo di uomo/donna 125. Altra espressione tecnica è quella di ‘ruolo di genere’, corrispettiva all’identità di genere. Indica tutto quello che una persona fa
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o dice per indicare agli altri o a se stessa l’appartenenza personale a un sesso.
La crescita dell’essere umano verso l’acquisizione di un’identità di genere compiuta non comporta solo uno sviluppo di potenzialità presenti fin dal concepimento, ma anche simultaneamente un processo di differenziazione che tende al dimorfismo: uomini e donne hanno diversa morfologia, diverse funzioni endocrine, diverse strutture nervose periferiche e centrali. La differenziazione sessuale si attua normalmente attraverso un programma, nel quale la funzione di elemento pilota è assunta successivamente da fattori diversi. Lo si può immaginare come una corsa a staffetta, nel corso della quale la funzione di determinare il sesso biologico passa da un elemento all’altro. Al momento della fecondazione il sesso è stabilito dalla configurazione cromosomica: XX per la donna e XY per l’uomo. La morfologia sessuale si dispiega successivamente con eventi che sopravvengono durante lo sviluppo fetale. La presenza di ovaie o testicoli determina il sesso gonadico. La differenziazione è diretta, a questo punto, dagli ormoni prodotti dalle gonadi, responsabili rispettivamente di una dominanza di androgeni o di estrogeni. Gli ormoni svolgono un ruolo determinante per lo sviluppo dell’apparato riproduttivo interno: sembra anche che creino differenze nella sensibilità del cervello per la circolazione degli ormoni sessuali. Le differenze cerebrali medieranno poi il comportamento sessuale adulto. La situazione ormonale prenatale esercita, dunque, durante i giorni critici dello sviluppo cerebrale, un’influenza determinante sulle vie neurologiche, le quali, a loro volta, influenzano il dimorfismo comportamentale.
Con la formazione dei genitali esterni si crea il presupposto perché nella differenziazione sessuale intervenga anche la componente sociale. Alla nascita, infatti, si è attribuiti al sesso maschile o femminile sulla base della configurazione morfologica
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dei genitali esterni. Per l’uomo, a differenza di quanto avviene per gli animali, esercita un’influenza determinante la storia biografica post-natale. L’attribuzione di un sesso o dell’altro condiziona il comportamento dei genitori verso il neonato. Il sesso biologico acquista, a questo punto, una connotazione marcatamente culturale: la differenziazione prosegue secondo il tracciato delle prescrizioni culturali che definiscono il comportamento secondo i ruoli di genere. Ingenuamente tendiamo a rappresentarci l’acquisizione dell’identità di genere come una inevitabile estensione del sesso biologico. La conoscenza scientifica dell’identità sessuale ci porta invece a concludere che molto di ciò che consideriamo come inerente intrinsecamente alla maschilità e alla femminilità è il risultato di ruoli culturalmente accettati. Sono istruttivi, in tal senso, gli studi di J. Money sui bambini ai quali alla nascita è stato assegnato un sesso diverso da quello cromosomico, a causa di un’ambiguità morfologica dovuta all’ermafroditismo. Essi crescono con un’identità di genere conforme al sesso loro assegnato, piuttosto che in accordo con il loro sesso biologico 126. Il comportamento secondo il ruolo sessuale si acquisisce mediante un processo imitativo, basato sul riconoscimento delle differenze sessuali. La differenziazione sessuale di genere e di ruolo avviene in modo predominante mediante la relazionalità. Attraverso modelli reali o fantastici, dalla nascita alla pubertà
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il bambino si identifica con il genitore del suo stesso sesso, e si complementarizza con il genitore dell’altro sesso. Nell’ambito del nucleo familiare l’identificazione e la complementarità avvengono con i propri genitori; crescendo, vengono ad aggiungersi modelli al di fuori della famiglia. Per la stabilizzazione dell’identità sessuale il periodo determinante sembra essere quello della prima infanzia, a partire dal momento dell’acquisizione del linguaggio: dai 18 mesi ai 3-4 anni.
Anche le altre fasi della crescita esercitano un influsso sull’identità psicosessuale. Da sempre si è considerata con particolare attenzione la crisi della pubertà. Dal punto di vista endocrinologico, gli ormoni causano una maturazione dimorfica del corpo, accentuando le differenze con l’altro sesso. Si ha così una modificazione dell’immagine fantasmatica che l’adolescente ha del proprio corpo. Il riconoscimento sociale assume una grande importanza; per conquistarselo l’adolescente prende molta cura di accentuare nella presentazione sociale del proprio corpo i caratteri del proprio sesso. L’erotismo della pubertà costituisce, per così dire, il tetto dell’edificio dell’identità di genere: le immagini erotiche della pubertà confermano l’identità che si era precedentemente manifestata e modellano l’orientamento sessuale, come normale oppure distorto da parafilia. L’adolescenza è, infine, il tempo in cui l’innamoramento completa il processo di acquisizione dell’identità sessuale. Il sentirsi accettato e amato, nel proprio corpo, nel proprio sesso, dissipa i residui conflittuali precedenti e rafforza definitivamente la propria identità come uomo o come donna.
2. Le turbe dell’identità e dell’orientamento sessuale
Il cammino per il quale si giunge ad essere un uomo o una donna, a riconoscersi e a comportarsi come tali, è lungo e insidioso. Le turbe dell’identità sessuale possono essere radicate tanto nella differenziazione che ha luogo nella vita intrauterina, quanto nella nascita e nella vita post-natale. La responsabilità risale, rispettivamente, a difetti genetici (anomalie cromosomiche); a un’alterata produzione di ormoni durante i
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periodi critici dello sviluppo fetale (nell’ermafroditismo si verificano, di conseguenza, incongruenze anatomiche nella morfologia dei genitali esterni); a un’errata attribuzione di sesso alla nascita; o, più semplicemente, all’educazione. Per queste persone la conquista della propria identità sessuale diventa un problema arduo, con strascichi di molta sofferenza. Tanto più precoce è l’allontanamento dal modulo normale dello sviluppo, nelle tappe decisive della differenziazione, tanto più gravi e irreversibili sono le conseguenze.
Nell’insieme della popolazione sono comparativamente pochi gli individui che mostrano una discordanza significativa tra il sesso biologico, la loro identità e orientamento sessuale, e il comportamento connesso con il ruolo. Le turbe principali possono essere ricondotte al transessualismo, travestitismo ed omosessualità; le diverse forme di parafilia costituiscono variazioni patologiche nella scelta dell’oggetto sessuale.
Il caso più radicale è quello del transessuale. È una persona la cui identità di genere è in conflitto col proprio sesso biologico, compresa la morfologia genitale esterna. Il transessuale si sente una donna intrappolata in un corpo maschile (parliamo dell’uomo perché il caso contrario — del transessuale biologicamente donna che abbia una identità maschile — è statisticamente molto più raro). Sempre più numerosi sono i transessuali che non si rassegnano a questa situazione e intraprendono il viaggio che li faccia approdare al sesso che sentono come la loro ‘vera natura’. Dopo il trattamento ormonale, che modifica i caratteri sessuali secondari, alcuni si spingono fino ad alterare chirurgicamente la propria anatomia, per risolvere radicalmente l’incongruenza. L’operazione è solo l’elemento più spettacolare del cambiamento di sesso. Per armonizzare la discordanza tra biologia e identità di genere sono necessarie una quantità di trasformazioni relative agli stereotipi comportamentali dell’uno o dell’altro sesso.
Anche il travestitismo è una turba dell’identità sessuale maschile, quasi mai femminile 127. Si manifesta nella tendenza coatta
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a identificarsi col sesso opposto e a vestirne gli abiti. Il travestito autentico ha una specie di duplice identità: le due parti si alternano con nome e identità propria, con gli abiti, la voce e il portamento adatti. Non nega affatto la sua identità maschile, ma ha bisogno di alternarla con la personificazione di quella femminile, con il sentimento ludico di ‘giocare’ un altro ruolo.
La variazione dell’identità più nota e diffusa è l’omosessualità. Spesso l’identità di genere vera e propria non è propriamente in causa: l’omosessuale non ha dubbi circa la propria identità, ma orienta il proprio interesse erotico verso persone dello stesso sesso. Quando tuttavia l’omosessuale, oltre a convogliare l’interesse erotico verso gli uomini, assume comportamenti effeminati e ama identificarsi con il sesso femminile, i confini con il travestitismo e con il transessualismo diventano fluidi.
Tra le turbe dell’orientamento sessuale vanno elencate quelle particolari condizioni psicosessuali per cui la persona è eccitata da stimoli inusuali e socialmente e moralmente inaccettabili. Comunemente vi si ravvisano delle ‘perversioni’; con linguaggio neutro, medicalmente si preferisce parlare di ‘parafilia’: sadismo e masochismo, esibizionismo, voyeurismo, pederastia, necrofilia ecc.
In che misura l’orientamento sessuale delle persone dipende da una specie di determinismo naturale? la scelta di un partner sessuale è un elemento dell’apprendimento del comportamento sessuale adeguato, che si acquisisce mediante il processo di socializzazione, oppure esiste un meccanismo biologico che stimola il nostro erotismo? La ricerca scientifica negli animali ha appurato che gli ormoni possono svolgere un ruolo di organizzazione
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neurologica nel creare la scelta dell’oggetto sessuale. Ma la connessione tra livelli ormonali e orientamento sessuale nei soggetti umani è molto più problematica (anche se è attendibile che gli ormoni fetali che organizzano le strutture fetali dismorfiche possono anche influenzare l’organizzazione delle strutture cerebrali che concernono i comportamenti sessuali). Nell’essere umano gioca un ruolo importante lo sviluppo della identità e dell’orientamento sessuale che avviene dopo la nascita. Lo confermano i risultati della ricerca clinica relativa all’omosessualità, che tra le turbe dell’orientamento sessuale è la più studiata. Risulta inoppugnabile che i genitori giocano un ruolo determinante per quanto riguarda la salute psicosessuale del bambino e i suoi sentimenti di adeguatezza sessuale. Tuttavia non c’è evidenza che siano i genitori a ‘creare’ un bambino omosessuale. Nelle modalità dell’esistenza umana c’è sempre qualcosa che dipende dalla libertà e dalla decisione personale.
3. Orientamenti dell’etica cristiana
Il corpo umano ha uno stampo sessuale. Quando lo si è voluto negare, si è solo riusciti a colpevolizzare le persone, per l’inevitabile emergenza della sessualità in tutte le espressioni della vita, ivi compresa l’esperienza religiosa. Nascondendo l’impronta del sesso nelle rappresentazioni artistiche, coprendo di vergogna i genitali (le ‘pudenda’, le ‘parti vergognose’...), non si è riusciti a produrre, per lo più, che una fissazione morbosa. Le varie espressioni di puritanesimo repressivo, ai limiti della nevrosi, si sono molto spesso alleate con la mentalità cristiana. Eppure la gioia di vivere, che nasce da una piena accettazione del proprio corpo, anche nella sua specificazione sessuale, non è contraria al cristianesimo. La riflessione cristiana sull’uomo comincia, secondo l’esempio fornito da Giovanni Paolo II, con il primo uomo e la prima donna nudi nell’Eden, quale simbolo visivo del dono divino della sessualità.
Oggi però sappiamo, meglio che in passato, che la sessualità,
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oltre che un dono, è anche un compito. Si giunge ad essere uomini e donne attraverso un itinerario che riserva talvolta esiti imprevisti. L’identità e l’orientamento sessuale sono largamente basati sulle caratteristiche sessuali biologiche, ma non ne sono interamente determinati in modo obbligante. Nell’ambito del compito di ‘dover essere’ ciò che per natura si ‘può essere’, si aprono i problemi dell’etica. Anche la morale cristiana è provocata dal sapere scientifico sulla sessualità umana e dai problemi di coscienza di molti individui a prendere posizione.
In primo luogo: è lecito cambiare sesso, come pervengono a conseguire i transessuali? Questa formulazione riflette da vicino il modo in cui il problema dei transessuali è visto dall’opinione pubblica. Sulla loro vicenda grava il sospetto di un intervento capriccioso, quasi una sfida alla natura e alla società, nonché l’insinuazione che il passaggio da un sesso all’altro sia, in definitiva, a servizio della prostituzione. La scelta è vista in funzione del piacere, senza considerare la sofferenza lacerante che molto spesso accompagna il transessuale nella ricerca della propria identità sessuale. Il transessuale, da parte sua, vive la sua decisione non come un cambiamento arbitrario, bensì come l’adeguamento del corpo al profilo psicosessuale che sente come proprio.
La richiesta di intervento medico per la riassegnazione del sesso — con la terapia ormonale e, come ultima tappa, con l’intervento chirurgico — solleva per il sanitario problemi deontologici ed etici. L’opera medica in questo caso travalica l’ambito terapeutico tradizionale. Il medico non può limitarsi semplicemente ad assecondare la richiesta, senza sottoporla a un certo vaglio per appurare la qualità della motivazione, oltre che le conseguenze sanitarie e psicologiche dell’intervento. Benché la legislazione italiana con la legge del 14.4.1982, n. 164, non consideri più tali interventi chirurgici come mutilazione perseguibile penalmente 128, i medici sono per lo più ostili;
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l’opinione pubblica condanna come aberrazioni o eccentricità i cambiamenti di sesso. In tale contesto i transessuali sono rinviati al sottobosco della medicina abusiva (e abborracciata: perciò, spesso, con danni gravi all’organismo) e della speculazione.
Per una serena valutazione morale bisogna far perno sulla identità sessuale, stabilizzata al momento della pubertà. Non è su questa che si può agire, perché l’identità, una volta stabilita, non è più in grado di subire cambiamenti. L’incongruenza con il sesso biologico può essere livellata solo operando sul versante somatico 129. Qualora ciò — per motivi medici, sociali o psicologici — non fosse possibile, rimane la frustrazione beante, a cui si può dare una risposta solo per la via della sublimazione.
La visione cristiana della sessualità, come momento della chiamata divina, è sufficientemente dinamica per integrare le conoscenze scientifiche moderne circa il processo di acquisizione dell’identità sessuale. I racconti biblici della creazione non giustificano nessun fissismo su cui possa far leva la visione ingenua della maschilità e femminilità. Tuttavia non bisogna dimenticare il carattere specifico dell’etica religiosa biblica, compendiato nel concetto di ‘alleanza’. Nella morale dell’alleanza l’essere uomo o donna non sono beni in sé. Sono piuttosto luoghi della ‘vocazione’, destinati a far parte del dialogo della salvezza.
Contro la tendenza, tipica del soggettivismo moderno, a sganciare l’individuo dalla normatività insita nella natura, l’etica cristiana ripropone costantemente il valore della ‘legge naturale’.
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È con questo metro che la chiesa cattolica continua a condannare l’omosessualità e le varie forme di parafilia 130.
Il diffondersi di un’etica sessuale che assume come parametro valutativo dei comportamenti sessuali il modello del piacere ha fatto cadere i criteri tradizionali. Se il sesso è stato troppo a lungo soggetto a restrizioni, non ne segue che d’ora in poi debba essere vissuto senza restrizioni di alcun genere. Qualsiasi concezione filosofica della sessualità si assuma, ne derivano restrizioni. Il cristianesimo ha per lo più fatto proprio e proposto il modello di una sessualità normata dalla finalità riproduttiva. La sensibilità personalistica di oggi invita piuttosto ad aprirsi al modello comunicativo. Questo sposta l’accento dagli aspetti più fisici della sessualità, in quanto finalizzata alla generazione di una nuova vita, ai ruoli interpersonali, all’espressione delle emozioni (il sesso come linguaggio che esprime tenerezza, rispetto, ammirazione, e ovviamente come espressione di amore), comunicazione e condivisione del piacere.
Adottando questo modello — che integra, e non sostituisce quello riproduttivo — la risposta alla domanda etica di che cosa è ‘normale’ e che cosa è ‘perverso’ nel sesso diventa più difficile. Difficile, ma non impossibile; né tantomeno irrilevante. È necessario tributare il giusto apprezzamento alla diversità e alla complessità degli orientamenti sessuali, senza rinunciare però a riferirsi alla ‘normalità’ in armonia con il tipo ideale di sessualità umana a cui si aspira.
Un contributo peculiare dell’antropologia cristiana va ravvisata nell’ambito della revisione dei comportamenti legati agli stereotipi sessuali. Lo stereotipo maschile e il suo corrispettivo femminile sono la definizione che la società offre di quel che
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significa essere uomo o essere donna; rappresentano il generale consenso, nell’ambito di una comunità culturale, sui ruoli assegnati agli uomini e alle donne, ai bambini e alle bambine 131. La miopia che pervade ogni comunità culturale, differenziandola dalle altre, inclina a far considerare gli stereotipi che ci sono familiari come ‘normali’, e a respingere i comportamenti che divergono come aberrazioni o come folclore. Inoltre gli stereotipi tendono, come indica il nome stesso, a una certa rigidità. La resistenza al cambiamento si ottiene mediante un processo di ideologizzazione delle differenze dei ruoli. Essi vengono fatti risalire alla ‘natura’, oppure, più radicalmente, alla volontà di Dio. Anche per ciò che concerne la maschilità e la femminilità, la teologia cristiana ha dato il suo contributo per ‘naturalizzare’ e ‘divinizzare’ le diversità che invece hanno un’origine soltanto culturale 132. Il messaggio cristiano, così come è stato vissuto da Gesù, contiene una potenzialità rivoluzionaria che soltanto oggi, nel contesto dei rapidi mutamenti e dell’appassionata ricerca di ruoli sessuali che non opprimano, bensì si integrino reciprocamente, possiamo appurare appieno. Gesù, «inconfondibile nel suo tempo e nel suo ambiente» nel modo di realizzare la propria maschilità e di concepire la femminilità 133,
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costituisce un’apparizione storica singolare. Ha distrutto l’androcentrismo del mondo antico, fonte di un’ostilità globale contro il femminile; è stato egli stesso l’epifania di una maschilità non animosa, riconciliata con la femminilità prima di tutto nella propria persona, e poi con quella delle donne. È questo il modello con cui l’antropologia cristiana della sessualità è chiamata a confrontarsi. Forze irresistibili si nascondono dentro al presente tumulto che sconvolge la concezione tradizionale della sessualità, forze nuove nella lunga storia dell’umanità. Per l’originale messaggio di Gesù, rimasto a lungo nascosto sotto il moggio, l’èra presente è un kairós, un tempo opportuno della grazia.
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capitolo secondo
LA PRESENTAZIONE SOCIALE DEL CORPO
1. La decorazione del corpo
Il corpo è il legame tra noi stessi e il mondo esteriore, in modo diretto con il mondo costituito dal gruppo sociale. Per suo tramite ci proiettiamo direttamente nella vita sociale. Nel passaggio dalla condizione ‘naturale’ a quella ‘sociale’ il corpo riceve un trattamento, che possiamo designare genericamente come decorazione. Specialmente nelle culture primitive la decorazione è un fatto globale, che include una pluralità di significati, relativi al tipo di società in cui l’individuo è inserito e al posto che occupa in essa (uomo, donna; bambino o adolescente; iniziato o non iniziato; celibe o sposato; stregone, o capo, o guerriero ecc.).
La decorazione del corpo, come il nome, serve a dare uno status preciso all’individuo, ed esprime visivamente il controllo che la società esercita sulla interiorità. Ogni gruppo sociale ha un suo codice peculiare: anche la grammatica della decorazione corporea si differenzia, in colori e forme, come quella dei fenomeni del linguaggio.
Per essere un individuo culturale talvolta si paga un prezzo doloroso. È il caso di molte società primitive, in cui l’identità è fissata mediante forme permanenti di decorazione: tatuaggio 134
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scarnificazione, deformazioni del corpo, mutilazioni 135. Altre volte la funzione di indicare lo status sociale è svolta dagli ornamenti, o più in generale dagli abiti 136. Dalla decorazione del corpo derivano vantaggi psicologici e sociali. Essa fornisce la chiave per la nostra percezione degli altri e forma la base del nostro modo di comportarci verso di essi.
Una delle funzioni della decorazione corporea è quella di favorire la selezione sessuale. Chi subisce una scelta fa in modo di condizionarla, usando un linguaggio corporeo che trasmetta precisi messaggi di seduzione. Nel mondo animale questo ruolo è prevalente nel maschio, mentre presso gli esseri umani è l’uomo che sceglie, e quindi è la donna che decora il proprio corpo, al fine di attirare e di essere scelta. Mentre nelle culture primitive la decorazione del corpo è un fatto globale, finalizzato a ‘inculturare’ l’individuo, in Occidente è
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diventata emergente la funzione seduttiva. Per questo motivo nella valutazione morale, e ancor più nella predicazione cristiana, è stata tradizionalmente denunciata come espressione di vanità e di mollezza.
La diffusione del cristianesimo è avvenuta nel contesto del mondo greco-romano, in cui la cosmesi era una pratica corrente. I Padri della chiesa condannavano l’uso dei cosmetici, in quanto tendente a valorizzare la carne, senza tuttavia riuscire a incidere efficacemente sul cambiamento dei costumi. Una sorte analoga è toccata alla più recente predicazione, che ha usato pulpiti e confessionali per distogliere le giovani cristiane dalla cosmesi moderna, organizzatasi su base industriale alla fine del XIX secolo. Un fatto nuovo, da registrare come variazione del costume, è piuttosto il diffondersi della cosmesi anche tra gli uomini. È la conseguenza dell’espandersi di una industria che muove ingenti capitali e fa ricorso a una massiccia opera di persuasione mediante la pubblicità. Più in profondità, dipende dal cambiamento in corso dei ruoli sessuali, per cui non ci si attende più che la seduzione sia esercitata in senso univoco dalla donna.
L’obbligo morale generale di preservare la propria integrità corporea e la propria salute vale anche in questo campo. Esistono in commercio numerosi cosmetici rischiosi, mentre il consumatore è tenuto dolosamente all’oscuro del contenuto reale di ciò che compera e dei possibili pericoli per la sua salute. Non sempre gli allarmi sono efficaci: la pubblicità crea artificialmente la ‘fame di un’immagine’ diversa del proprio corpo, e su di essa speculano i venditori di bellezza. Alla cosmesi che si esprime in prodotti di sintesi, cioè chimici, oggi sempre più si affianca la ricerca di una bellezza ‘ecologica’, che si affida alle erbe e ai prodotti naturali (fitocosmetici).
2. Abbigliamento e moda
Il significato antropologico dell’abbigliamento può essere ricondotto sostanzialmente alle considerazioni che abbiamo svolto parlando della decorazione del corpo. Gli aspetti utilitaristici
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dell’abbigliamento — protezione del corpo dall’avversità degli elementi atmosferici — sono secondari rispetto alla ricchezza di significati che hanno gli abiti per l’uomo, e non sarebbero sufficienti per dar ragione della sua multiforme variabilità 137.
L’abbigliamento prolunga e potenzia la presentazione sociale del corpo. Serve a stabilire lo status dell’individuo nella compagine del gruppo e svolge un ruolo seduttivo: nel gioco dell’attrazione sessuale l’abbigliamento — gli abiti e i suoi accessori — svolge un ruolo tanto più decisivo, quanto più sono stati confinati a un ruolo marginale gli interventi decorativi sul corpo stesso 138.
Per tener continuamente desto l’interesse, l’abbigliamento ha bisogno di cambiamenti frequenti. Il cambiamento è la molla della moda. Psicologicamente essa si radica invece nel bisogno di imitazione. La moda offre inoltre la possibilità di accrescere ed esaltare il proprio narcisismo attraverso l’interesse dedicato al vestiario. L’abito è investito di amore, in quanto permette di abbellire e magnificare il proprio corpo 139.
Un influsso determinante sulla moda è esercitato dalla società
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consumistica contemporanea, che esalta lo spreco e il continuo avvicendamento dei prodotti. Anche la rivolta contro questo stesso consumismo è spesso ricuperata dal sistema: il modo di vestire dei giovani, che rifiutano l’abbigliamento della società stabilizzata, diventa a sua volta una moda.
Tradizionalmente la teologia morale cattolica trattava della moda nel capitolo dello scandalo, come una modalità dei peccati contro l’amore del prossimo 140. Ovviamente questa prospettiva resta valida, nella misura in cui abbigliamento e moda possano essere usati come strumenti per manipolare gli altri in giochi di seduzione. Oggi, tuttavia, sembra più urgente richiamare l’attenzione sulle conseguenze che ha la moda sulla persona stessa che vi si sottomette. Quando la moda diventa un fine in sé, piuttosto che un mezzo, esercita una tirannia che mantiene la persona in stato di infantilismo. Inoltre la moda spesso è dispotica e pretende cose che sono pericolose sotto l’aspetto sanitario. Valga per tutte la moda, spesso denunciata dai medici, dei pantaloni troppo stretti: ha conseguenze dannose tanto sugli uomini (sterilità) che sulle donne (infiammazioni ginecologiche). Compito dell’etica cristiana è, in questo campo, di farsi paladina della ragionevolezza e di promuovere la libertà personale, sottraendosi tanto al dominio dei bisogni inconsci di autovalorizzazione mediante la seduzione, quanto alla soggezione alle leggi del consumismo. Se la variabilità della moda corrisponde a un bisogno, di per sé non condannabile, l’esasperazione di tale bisogno ad opera della società consumistica è un pericolo per la libertà della persona; contro di esso l’individuo deve essere messo in grado di difendersi.
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3 Il corpo nudo
Una delle questioni attualmente più dibattute nell’àmbito della presentazione sociale del corpo è quella dell’esposizione del corpo nudo allo sguardo altrui. Il costume balneare ha conosciuto una rapida escalation negli ultimi anni: dal bikini al topless al nudo integrale. Ciò che avviene sulle spiagge offre la misura di un permissivismo crescente, che ha portato il nudo a trionfare nella pubblicità, nei rotocalchi e in altre espressioni della convivenza civile. I fautori del nudismo adducono ragioni di tipo naturalista. Il naturismo, come movimento ideologico, ha una matrice ecologica. Vuol difendere la natura e l’ambiente contro le varie forme di inquinamento e promuovere una vita sana, non sedentaria, all’aperto. Il lasciar cadere gli abiti è considerata una via per un contatto più diretto con la natura. I naturisti tendono a dissociarsi dai nudisti. Mentre il nudista è qualcuno che si spoglia nudo come capita, anche su spiagge affollate, il naturista cerca un ambiente naturale e sereno, dove il corpo umano e la natura che lo circonda si armonizzano e si rispettano. Gli oppositori del nudismo non sempre lo avversano per ragioni morali. Quando il nudismo non viene praticato con uno spirito quasi cultuale nell’ambito protetto dei gruppi naturisti, bensì straripa nel contesto della vita sociale, molti vi percepiscono una sfida di chi si sente culturalmente più avanzato e vuol ostentare una superiorità culturale intesa come superamento delle inibizioni. Inoltre, contrariamente allo slogan secondo il quale la nudità favorirebbe l’uguaglianza sociale — ‘nudi siamo tutti uguali’! —, le differenze sociali sono più evidenti sui corpi nudi che sugli abiti omogeneizzati dalla moda di massa. Ci vuole tempo e denaro per rendere ‘presentabile’ il corpo nudo, dopo averlo fatto passare per tutta la sequenza dei trattamenti estetici! Chi sta meglio economicamente, dispone più pienamente del proprio corpo.
Gli argini opposti dalla legge al diffondersi del nudismo si sono riscontrati inefficaci. L’art. 726 del codice penale colpisce «chiunque, in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, compie atti contrari alla pubblica decenza». Nell’interpretazione
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della legge la Corte di Cassazione ritenne valido, nel 1952, il divieto di usare lo slip in pubblico nei pressi della spiaggia, poiché «è contrario ai rapporti di civile convivenza e specialmente alla compostezza che è l’abito esteriore del costume sessuale». È la data di inizio di una serie di sentenze in materia di nudismo, emesse dai vari tribunali, spesso in contraddizione l’una con l’altra. Mancando in materia valori assoluti cui riferirsi — il concetto di pubblica decenza è in continua evoluzione, e soprattutto è opinabile —, i verdetti sono affidati alla personalità del giudice.
I tentativi di banalizzare il nudo sono destinati all’insuccesso: il nudo non è né indifferente, né innocente. Non che la nudità debba essere necessariamente correlata con l’erotismo. Il nudo in sé non è erotico, ma è la proiezione erotica che genera il suo potere di attrazione sessuale; se questa proiezione non avviene più, quel corpo cessa di attrarre. La nudità, comunque, rimane legata — almeno nella nostra cultura — con la disponibilità e l’offerta sessuali. Per questo motivo la morale cristiana ha preso, in genere, una posizione di rifiuto nei confronti del nudismo 141.
In senso positivo, le riserve dell’etica cristiana verso l’esibizione del corpo nudo dipendono dalla concezione che vede
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nel corpo l’espressione della persona. La nudità è perciò riservata ai momenti di particolare intensità, in cui la persona si lascia ‘conoscere’ nell’abbandono amoroso.
4. L’uso del corpo nella pubblicità
L’analisi del trattamento che il corpo subisce da parte della pubblicità è un luogo classico per illustrare le manipolazioni cui è sottoposto l’uomo dell’epoca dei mass-media ad opera dei ‘persuasori occulti’. Con particolare impegno ha condotto questa battaglia il movimento femminista, essendo il corpo della donna il bersaglio privilegiato della pubblicità. Questa aderisce ai valori ideologici della società opulenta, proponendo come meta la felicità nel consumo. L’immagine tradizionale della donna è stata sfruttata in tutte le sue possibilità; principalmente, però, puntando sul binomio bellezza e giovinezza, a cui si riconducono le chances esistenziali della donna, in quanto dalla bellezza e dalla giovinezza è fatto dipendere il suo potere di seduzione. Tutto l’investimento è fatto sull’esterno, sul corpo quale è rispecchiato nello sguardo dell’uomo quale soggetto desiderante. Alla pubblicità a fini estetico-edonistici si abbina quella medica: dopo la ‘prescrizione’ pubblicitaria dei cosmetici, quella dei rimedi contro la cellulite, il deterioramento della pelle, i danni della menopausa. Pelle, capelli, seni, silhouette (terrorismo psicologico della magrezza): nessun dettaglio del corpo femminile è risparmiato. Per i propri fini commerciali la pubblicità crea dei fantasmi collettivi (insicurezza del proprio potere di seduzione, vergogna dell’invecchiamento), e poi li sfrutta. Il corpo, modellato dalla società, è al tempo stesso il simbolo di questa società. Combinando immagini, organizzando slogans, utilizzando miti, la società dei profitti procede ogni giorno di più nella ‘mostrazione pubblica’ del corpo per fini commerciali. Lo stesso dinamismo della libido viene deviato dal suo scopo verso una meta mercantile: il desiderio non si rivolge più alla persona dell’altro, ma viene pilotato verso l’utensile da acquisire.
Molto femminismo militante è stato ingenuamente convinto
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che bastasse smascherare queste subdole manipolazioni per togliere alla pubblicità il suo potere. La denuncia è risonata chiara, ma il comportamento non è cambiato in misura adeguata alla presa di coscienza. Anzi, l’uso pubblicitario del corpo si è esteso, integrando nel ruolo di felice consumatrice non solo la donna ‘alienata’ — quella confinata nei ruoli di sposa e di madre —, bensì anche quella ‘liberata’ 142. Anche i nuovi ruoli che la donna assume nella società, se non rimettono in discussione radicalmente il modo di vivere il corpo e la sessualità, non sfuggono alle manipolazioni pubblicitarie. Perfino la rivolta e l’amarezza delle femministe sono state convertite in bisogno di acquistare prodotti. Sotto il rivestimento superficiale della donna liberata, riappare l’immagine della donna tradizionale: il legame è costituito dal fatto che, nell’uno come nell’altro caso, la donna è ridotta al suo corpo. Più di recente anche il corpo dell’uomo ha subito lo stesso trattamento. Il rapporto degli uomini col loro corpo è stato ‘femminilizzato’ dalla pubblicità. Si è cominciato a inculcare anche al maschio il diritto alla bellezza e il dovere di piacere, agganciandolo così mediante il suo corpo al mercato del consumo.
Perché il servizio all’uomo che la morale cristiana può rendere in questo settore non sia ridotto alla sterile denuncia, è necessario che il suo intervento si inscriva costruttivamente nei meccanismi che permettono lo sfruttamento del corpo nella pubblicità. La diffusione delle pagine pubblicitarie non si spiega solo con l’abilità persuasiva dei mercanti. Ciò che permette alla pubblicità di prosperare è il suo aggancio ai desideri profondi dei consumatori. L’apporto di una morale liberante è auspicabile proprio nell’ambito dei meccanismi psicologici usati
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dalla pubblicità. Il più importante è la ‘colpevolizzazione’. Viene insinuato alla persona che è colpa sua, se non riesce ad acquisire e conservare un corpo giovane e bello. La bellezza ― i cui canoni vengono, volta a volta, stabiliti dai creatori di immagini — è un dovere; la bruttezza — cioè il discostarsi da quell’immagine — una colpa. Insieme vengono nutrite l’ossessione di piacere stabilmente e l’angoscia di non piacere più. Ciò provoca una polarizzazione sul corpo, non come simbolo reale (‘sacramento’) della interiorità personale, bensì come immagine rispecchiata dal desiderio dell’altro. Solo una persona che ha percorso una buona parte del cammino verso l’autonomia è relativamente immunizzata contro le persuasioni pubblicitarie: finché «si cerca la gloria, gli uni dagli altri» (cf. Gv. 5,44), il corpo rimarrà un fragile appiglio per ogni manipolazione.
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capitolo terzo
LA DISCIPLINA DEL CORPO
1. L’ascetica corporea
Le pratiche tendenti a disciplinare il corpo, a fini religiosi o educativi, sembrano aver perso diritto di cittadinanza nell’ambito culturale che vive dell’eredità della cristianità. Hanno bisogno di una nuova fondazione, dopo che l’ascetica, tradizionalmente elemento integrante della vita religiosa, è stata messa in crisi di diritto e di fatto. Rinunce, sacrifici, penitenze: tutto ciò è scomparso dal vocabolario, oltre che dalla prassi quotidiana che abitualmente qualificava il ‘buon’ cristiano. Nel corso dell’evoluzione storica del cristianesimo è avvenuto che alcune forme di penitenza corporea siano entrate a far parte dell’esperienza cristiana. Di alcune riusciamo a parlare solo con un certo disagio, benché siano state praticate dai santi; la loro scomparsa va salutata come una benefica depurazione di elementi superstiziosi e psicopatologici che inquinavano la pratica religiosa 143. Ma altre pratiche di penitenza sono sembrate e sembrano accettabili senza difficoltà pregiudiziali. Alcune, fino a un passato recente, erano richieste e suggerite a tutto il popolo cristiano: così l’astinenza dalle carni il venerdì,
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il digiuno in determinati giorni liturgici, senza dimenticare i ‘fioretti’, che facevano parte di un’educazione alla penitenza, all’autocontrollo e alla disciplina di tutto ciò che è istintuale. Fenomenologicamente si può stabilire uno spettro diversificato di forme ascetiche, che va da quelle che esercitano un’azione diretta sul corpo — digiuno e restrizioni alimentari, esposizione alle intemperie, flagellazione e cilicio, continenza ― a quelle che si librano al di sopra dell’esplicita manipolazione corporea, trasformandosi in ascesi interiore, sotto forma di esercizio che regola la direzione della volontà, del sentimento, dell’intelletto.
Il fine ascetico inteso da queste ultime è di morire al mondo, non in quanto macerazione fisica della carne, ma come rinuncia al proprio essere mondano. In ogni caso, comunque, l’ascesi, sia quando ricorre a metodi fisici, sia quando si risolve in esercitazione spirituale delle facoltà superiori dell’uomo, presuppone una negazione della vita ‘normale’ e comune. La pratica ascetica rifiuta essenzialmente di accettare la realtà com’è. Concepisce l’uomo come dotato di energie fisiche o di poteri spirituali che, sottoposti a regolari training, gli consentono di accedere a un’esperienza di corporeità superiore 144, ovvero di salire a un livello di maggiore perfezione (virtù, santità). Proprio questo modello antropologico, fondamentalmente evolutivo ed ottimista, si rivela problematico per la sensibilità moderna ed è sottoposto a critica.
La diffidenza verso l’ascesi corporea si è insinuata anche presso quegli aggregati religiosi che l’avevano tradizionalmente privilegiata. All’interno del cattolicesimo è penetrata la riserva protestante nei confronti delle opere di penitenza, indiziate di corrompere il senso autentico della salvezza per grazia. Contemporaneamente
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anche il modello secolarizzato dell’ascesi si è sgretolato. Intendiamo riferirci all’ideale dell’autocontrollo, che costituiva un pilastro dell’educazione impartita fino a un recente passato. Non cedere agli istinti, moderare i desideri, saper dilazionare le gratificazioni, non far trapelare le proprie emozioni, tenere il corpo sotto controllo: tutto ciò era considerato una meta aspirativa da trasmettere nel processo educativo. Mentre in ambito religioso l’autocontrollo riceveva facilmente una colorazione ascetico-spirituale, nella prospettiva secolare era apprezzato in sé e per sé, come strumento di formazione della personalità virile.
Oggi gli educatori sono diventati reticenti circa l’autocontrollo. Forse perché la nostra civiltà è più edonistica e tende a considerare come valore Pappagamento dei desideri, piuttosto che la loro repressione? È diventato molto arduo convincere qualcuno, in particolare i giovani, a rinunciare a qualcosa che si presenta come piacevole. Siamo tutti, in qualche modo, figli della civiltà dei consumi, legati ad essa per il bene e per il male. Se cessiamo di desiderare — prodotti sempre nuovi, a un ritmo sempre più accelerato — la macchina si inceppa: le merci non sarebbero richieste, la produzione ristagnerebbe. L’autocontrollo ascetico di colui che si priva del superfluo, e magari tende a restringere anche i limiti dell’indispensabile, rischia di apparire come un comportamento antisociale.
L’educazione all’autocontrollo è incompatibile con Patteggiamento del ‘tutto e subito’. Ci pensa la persuasione occulta che straripa da tutti i pori della nostra esistenza, bombardandoci di annunci pubblicitari, a conquistare strati sempre più ampi allo stato di beati consumatori.
L’allergia attuale all’autocontrollo non deriva però unicamente dall’essere diventati consapevoli delle manipolazioni che subiamo dalla società in genere. Ci è nato il sospetto che il controllo proposto non sia veramente ‘auto’-controllo: piuttosto un ‘etero’-controllo, cioè esercitato da altri, sotto l’apparenza di un ‘auto’-controllo. Tutti coloro che cercano di socializzarci, di trasmetterci le proprie scale di valori, di assimilarci alla loro visione del mondo, diventano inevitabilmente dei controllori. La loro opera è tanto più perfetta, quanto
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meno è visibile; raggiunge il massimo dell’efficacia quando induce a esercitare spontaneamente su se stessi il controllo che neutralizza le emozioni originarie, i desideri autentici, il grido di protesta. Crediamo allora di esercitare l’autocontrollo, mentre in realtà siamo controllati dai controllori estranei che abbiamo accolto ed accettato dentro di noi. Invece di vedere, sentire, odorare, gustare, toccare il mondo com’è, lo percepiamo così come ci è stato insegnato a fare.
La fame di esperienza che oggi induce a rifiutare ogni forma di autocontrollo, specialmente quello proposto in nome di una supremazia della volontà e dello spirito sulla parte corporea-istintuale, nasce dal sospetto che non facciamo che perpetuare una visione distorta della realtà, perdendo così gli aspetti più belli del mondo creato da Dio.
Il puritanesimo non è l’equivalente, ma piuttosto la caricatura dell’ ‘occhio puro’ delle Beatitudini. Il pericolo più grave per l’occhio non è di vedere il mondo, ma di scambiare l’immagine riflessa di esso — sulla quale sono depositati spessi strati di mode consumistiche, interessi, manipolazioni di oggi, nonché di pregiudizi, peccati, paure, viltà delle generazioni che ci hanno preceduto — per l’immagine del mondo voluto da Dio. La disciplina (ascesi) è necessaria: non per castigare il desiderio innato di esperienza, bensì per preservarlo dai tanti inquinamenti che lo minacciano.
Dominare o essere dominati dal corpo? L’alternativa è falsa, e si fonda su una dicotomia implicita, che ci induce a identificarci o con l’intelletto/volontà, o con il corpo, disintegrando così l’organismo totale. C’è disciplina e disciplina. Ce n’è una finalizzata a mantenere il predominio di una parte sull’altra, infrangendo l’unità originaria; e c’è una disciplina volta a ottenere uno stato di sana spontaneità. Per salvare la genuinità dell’essere umano è richiesta la massima disciplina: è quella necessaria per rimanere fedeli alla totalità, rifiutando la dialettica del predominio della parzialità. Questa è la visione antropologica del Vaticano ii, riconducibile al compito morale di sforzarsi per il retto ordine:
Unità di anima e di corpo, l’uomo sintetizza in sé, per la stessa sua
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condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di lui toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore (cf. Dan. 3,57-90). Allora, non è lecito all’uomo disprezzare la vita corporale; egli anzi è tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo, appunto perché creato da Dio e destinato alla risurrezione nell’ultimo giorno. E tuttavia ferito dal peccato l’uomo sperimenta la ribellione del corpo. Perciò è la dignità stessa dell’uomo che postula che egli glorifichi Dio nel proprio corpo (cf. 1 Cor. 6,13-20), e che non permette che esso si renda schiavo delle perverse inclinazioni del cuore (GS 14).
Possiamo assumerla come base dottrinale per la reinvenzione di una disciplina del corpo, che non sia mutilante dal punto di vista antropologico.
2. La nuova educazione del corpo
Nessun progetto pedagogico esclude il corpo dal progetto educativo. Quello che varia, invece, è il modello antropologico sottostante, cosicché la funzione del corpo nell’educazione può essere intesa in modi diversi, anche diametralmente opposti. Per riferirci a modelli storici estremi, pensiamo alla paideia greca, mirante alla celebrazione della forma atletica del corpo come epifania del divino, e alla pedagogia prussiana, il cui scopo sembrava essere l’eliminazione di tutto ciò che nel corpo evoca spontaneità e naturalezza 145.
L’educazione fisica che è entrata nelle nostre scuole era modellata su una concezione antropologica che non è più in armonia con il modo in cui oggi viviamo il corpo. Predominava una
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fisiologia a servizio di una morale volontaristica, rivolta a sviluppare la tenacia e la forza di volontà: «essere forte per essere utile» 146. Si ricercava la robustezza per una finalità trascendente e morale. La priorità data all’elemento mentale-intellettuale era tipica di un’epoca in cui l’uomo si identificava con la propria parte pensante e affidava all’intelletto la leadership sopra la parte animale. La ginnastica tradizionale si preoccupava di ‘educare’ il corpo; ciò che la pedagogia contemporanea rivendica è un educarsi attraverso il corpo. Il corpo non è una parte da educare: è l’essere umano nella sua totalità, per cui l’educazione del corpo e l’educazione dell’uomo coincidono nella finalità. L’educazione corporea è una via del processo educativo, che in se stesso non può non mirare a una integrazione tanto della sfera conscia come di quella inconscia della vita mentale. La svolta è così radicale che alcuni fautori della nuova educazione corporea parlano polemicamente di ‘antiginnastica’ 147.
La critica più vivace all’educazione corporea tradizionale, e all’educazione fisica in particolare, è venuta dall’approccio psicocinetico. Rifiutando risolutamente di promuovere l’educazione fisica a fini strumentali di vario genere, la psicocinetica
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pretende di collocarsi in modo originale nel novero delle scienze umane, anzi di costituire una vera e propria «scienza del movimento umano» 148. Si oppone a una visione parcellare, quale quella di una fisiologia che spieghi solo la meccanica del gesto o di una psicologia che si limiti a cercarne la motivazione. Con l’ausilio di esercizi corporei — e utilizzando costantemente la respirazione quale supporto energetico e prototipo di un movimento continuo che coordina il corpo e la persona — mira a ritrovare la totalità corpo-spirito dell’individuo. Nell’educazione psicomotoria l’attenzione è spostata dall’esercizio all’allievo. Oltre a condurlo, attraverso il corpo, a prendere coscienza di sé, agisce sul movimento per giungere all’essere sociale (educazione alla socializzazione), e alla piena consapevolezza della comunicazione tanto verbale che non verbale. L’educazione fisica in questo contesto non è più vista come un insegnamento tecnico-pratico. Il mutamento di atteggiamenti e di abitudini corporee è perseguito in quanto, attraverso questo, si modifica il comportamento globale di un soggetto. L’approccio psicocinetico favorisce una Unwertung der Werte, un capovolgimento del modo consueto di pensare, insinuando il sospetto che la realtà vera si trovi collocata su un altro registro, dove corpo e idea sono la stessa cosa e costituiscono una realtà indissociabile (la ‘totalità primordiale’). In questo approccio riemerge la polemica contro ogni dualismo, responsabile degli squilibri profondi dovuti al rifiuto dell’unità dell’essere corporale, intellettuale, affettivo e spirituale.
3. La danza per guarire
Il movimento può essere, dunque, un luogo privilegiato dell’educazione, perché grazie ad esso si agisce non tanto sui contenuti oggettivi di conoscenze, quanto piuttosto sui modelli inconsci che li sottendono. Ancor più: il movimento consapevole può essere uno strumento di terapia.
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La saggezza dell’Oriente ha sempre insegnato che l’uomo può agire sullo psichismo modificando l’atteggiamento corporeo. La via occidentale passa attraverso la scoperta del significato espressivo del corpo in movimento. Dall’osservazione attenta del movimento rileviamo che ognuno di noi usa il proprio corpo e lo spazio attorno ad esso in modo idiosincratico, che è espressivo di come percepisce se stesso, gli altri e l’ambiente. Bambini e anziani, persone con disturbi fisici e handicappati mentali: ognuno configura le mosse in una combinazione propria di corpo-spazio-sforzo (cioè flusso energetico), che rivela uno specifico contenuto funzionale ed espressivo. Nel movimento è l’uomo totale — corpo, psiche, emozioni, spirito — che si esprime. Se si giunge a produrre un cambiamento nel comportamento del corpo, il cambiamento si riverbererà nel mondo psichico ed emotivo della persona. Su questa assunzione si fonda la ‘danza-terapia’ 149.
Dopo timidi inizi negli anni ’50, la danzaterapia si è sviluppata vertiginosamente a partire dagli anni ’60. L’American Dance Therapy Association la definisce: «l’uso psicoterapeutico
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del movimento come processo che favorisce l’integrazione emotiva e fisica dell’individuo». I terapeuti che vi ricorrono sono animati dalla fiducia che è possibile raggiungere le emozioni delle persone mediante il potere eccitante, vivificante e calmante della danza. Le risorse della danza offrono sia un’espressività soggettiva e oggettiva, sia un’attività. Rendono possibile la proiezione delle emozioni nello spazio attraverso il corpo. I benefici terapeutici sono connessi alla fiducia in se stesso creata dall esperienza di dar forma alle proprie strutture organiche nello spazio, nonché allo sviluppo della sensazione di essere accettati e sostenuti dal gruppo con cui si danza.
Quando si riconduce la danza alla sua matrice originaria, che è quella dei movimenti espressivi del corpo, la si sottrae ai giudizi moralistici che hanno voluto vedervi solo un’espressione di edonismo, e perciò l’hanno condannata come luogo od occasione di peccato. Oltre al carattere ludico, alla danza sono state tradizionalmente attribuite altre funzioni. Quella rituale-sociale, ad esempio: specialmente nelle danze folcloristiche, in cui il ritmo è il mediatore dell’incontro tra le persone 150.
Alla danza è insito anche un carattere mistico-religioso, come si manifesta nelle culture che, a differenza dell’Occidente puritano, non l’hanno eliminata dal repertorio dei simboli con cui l’uomo tenta di dire l’indicibile 151. La moderna riscoperta e accentuazione del carattere terapeutico della danza può costituire
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un centro, a partire dal quale si dispiega il significato polivalente di questo comportamento corporeo. La ‘guarigione’ che il movimento espressivo della danza favorisce non è solo quella dei disturbi emotivi e fisici, ma anche la restaurazione della capacità di percepire se stesso come una totalità integrata bio-psico-spirituale. Al termine di questo cammino di rieducazione del corpo, che è anche un cammino di reintegrazione antropologica, potremo forse ritrovare la capacità di esprimere nella danza la pienezza dell’emozione religiosa, come il re David davanti all’arca (cf. 2 Sam. 8,16).
4. Lo sport: vecchie é nuove pratiche
Lo sport è una delle manifestazioni più gloriose del potenziamento e trascendimento delle possibilità corporee che si possono ottenere con un’adeguata disciplina. La pratica dello sport favorisce un’entusiastica sensazione di vivere; fa accedere a una forma superiore il gioco gioioso e ricreativo; contribuisce a un’armoniosa formazione fisica e psichica, cui si accompagnano importanti riflessi morali e spirituali (anche se l’originaria dimensione sacrale non si è potuta ripristinare neppure col nuovo ‘ideale olimpionico’).
L’etica cristiana ha da tempo affrontato in modo organico i problemi morali posti dallo sport. La sua posizione si articola sostanzialmente in due momenti: presentare e riconoscere i valori naturali espressi dalle pratiche sportive; criticare i limiti e le deformazioni di quei valori, alla luce della concezione personalista del corpo. Un autorevole contributo a questa linea è venuto dal magistero di Pio XII 152.
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Gli sviluppi recenti dello sport agonistico hanno esasperato la manipolazione del corpo. Il campione viene ‘fabbricato’ come un sofisticato prodotto di laboratorio, a cui si dedicano schiere di tecnici. La manipolazione è ormai totale in tutte le discipline sportive: da un lato si neutralizza la naturale spinta della natura (ritardando, per esempio, lo sviluppo e la crescita, per ottenere atlete che siano ‘adolescenti-bambine’), dall’altra la si ipertrofizza (ottenendo donne-maschio, ingigantite dai muscoli). L’aspetto fisico è devastato dalle manipolazioni, mediante sistemi di condizionamento chimico, biologico e fisiologico. Questa violazione della persona è ancora più grave della pratica del doping, cioè della battaglia per i primati fatta a colpi di sostanze proibite.
Al polo opposto troviamo il diffondersi delle pratiche sportive di massa. Queste vogliono reagire alla mercificazione a livello di spettacolo e di sport agonistico, rifiutando il culto del campione e dei primati. Positivamente, intendono contrastare l’assenza di qualsiasi pratica di attività motoria da parte dell’uomo moderno, che è indotto piuttosto a cercare divagazioni che non comportino sforzo e impegno. La mancanza di attività fisica è un segno dello stato di passività e di indifferenza che genera l’odierna civiltà; l’inerzia fisica è legata al cattivo umore e al pessimismo.
Il movimento può essere, dunque, un modo di ribellarsi agli idoli che la società impone. Anche se, a loro volta, queste nuove pratiche sportive difficilmente possono sottrarsi alle manipolazioni della moda. Con piena consapevolezza della sua ambiguità, possiamo considerare la moda della corsa venuta dagli Stati Uniti (dove è chiamata running o più spesso jogging). Viene lodata come la forma più semplice, più economica e
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più sana di sport. Ma da molti è vissuta come un’esperienza più ampia di una semplice pratica sportiva. Il correre regolarmente offre un valido aiuto su un duplice piano: fisiologico e psicologico. È un rimedio all’atrofia del nostro apparato motorio, che è una malattia della civiltà (l’umanità, nella sua lunga evoluzione, ha vissuto per lo più quale ‘animale da corsa’: l’insieme della nostra biomeccanica e fisiologia è costruito sul movimento); fornisce perciò una efficace prevenzione di malattie, quali i disturbi circolatori e del ricambio e la dipendenza da sostanze eccitanti. Il vissuto emotivo, legato alla pratica regolare e intensiva della corsa, costituisce, inoltre, anche un prezioso aiuto psichico, correlato con una influenza sull’umore. Per molti che corrono regolarmente non si tratta solo di assolvere al ‘sacro dovere’ di mantenere il corpo in forma per la concorrenza quotidiana. La corsa, permettendo il ristabilimento più veloce dell’equilibrio fisiologico, ha una funzione antistress, almeno quanto le diverse tecniche di rilassamento. Potenzia la vitalità, dando la sensazione di un accresciuto potenziale energetico; aumenta l’autostima e la sicurezza nelle proprie capacità 153. Una Miracle Drug, dunque, la corsa? No: piuttosto, uno dei mezzi più semplici per collegare cura della salute e benessere psichico.
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capitolo quarto
LA RICERCA DEL ‘CENTRO’
1. L’uomo moderno ha perso il ‘centro’
Le formule che pretendono di fare la radiografia dell'anima di un’epoca sono spesso tanto più abusivamente semplificatrici, quanto più sono brillanti. Abbiamo, a ragione, imparato a diffidarne. Non si può negare, tuttavia, che talvolta prestino un utile servizio. Accentuano un tratto della complessa Gustali che costituisce una cultura, magari facendone una chiave di lettura globale. Si può divergere sull’importanza da attribuire al fatto; la caratteristica individuata resta, peraltro, acquisita all’attenzione, e molto spesso al vocabolario. È quanto è successo con l’espressione ‘perdita del centro’, quale categoria per comprendere il profondo rivolgimento da cui è nata la cultura moderna. L’espressione stessa si deve allo storico dell’arte Hans Sedlmayr, che ne ha fatto il titolo di un saggio famoso, in cui dall’esame delle opere d’arte nell’arco di tempo che va dalla fine del XVIII alla metà del nostro secolo ricava conclusioni relative alla rivoluzione avvenuta nella profondità del mondo spirituale 154. Ha usato l’arte come strumento per cogliere le caratteristiche di un’epoca, adottando metodologicamente l’ipotesi che l’arte sia, per la storia delle comunità umane, ciò che il sogno di un uomo è per lo psichiatra. Nell’architettura, nella scultura e nella pittura le forme che recano il contrassegno del ‘moderno’ dell’arte hanno come tratto caratteristico la ‘perdita del centro’.
Nella diagnosi di Sedlmayr la ‘perdita del centro’ costituisce
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il sintomo fondamentale, a cui vanno ricondotte diverse tendenze. Tra le principali, individuate dallo storico dell’arte che vuol essere al tempo stesso critico della storia spirituale dell’umanità: la polarizzazione, ovvero la tendenza verso gli estremi 155; la spiccata predilezione per tutto ciò che è inorganico, verso una ‘pietrificazione della vita’ (E. Jünger); lo svincolarsi dalla base terrena, nell’architettura e nella pittura, così come in molti altri settori (la negazione della base è accompagnata dal subentrare di un senso di vertigine); la tendenza a eliminare la diversità tra ‘sopra’ e ‘sotto’ in arte, a cui fa riscontro quella ad appianare la differenza tra il superrazionale e il subrazionale, a dissolvere l’idea di Dio nella natura, mentre l’idea dell’uomo si degrada in dimensioni subumane. Complessivamente, l’arte si allontana dal centro, diviene ‘eccentrica’, perché l’uomo ha perduto il suo centro; l’arte si allontana dall’uomo, dall’umanità e dalla giusta misura, perché lentamente si è consumato l’antico patrimonio della tradizione umanista. Il movimento, che parte da una presa di posizione contro l’uomo e il suo mondo, prosegue con la discesa verso l’inorganico e verso il caos 156.
La ‘perdita del centro’ come caratteristica dello spirito del nostro tempo può essere diagnosticata non solo in base alle opere d’arte, ma anche con altri strumenti delle scienze dell’uomo. Ritroviamo il quadro dell’uomo ‘decentrato’ nella personalità che il sociologo Georg Simmel attribuisce all’abitante delle grandi città 157. La tensione data dalla lotta per l’affermazione della propria individualità rispetto al prevalere della
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cultura di massa si esprime nella tendenza a concentrarsi ‘al culmine’. La vita metropolitana presuppone una consapevolezza eccezionale favorita dalla intensificazione delle stimolazioni nervose interne ed esterne, e una predominanza dell’intellettualità. E il raziocinio, osserva Simmel, «risiede nel livello più superficiale, trasparente e cosciente della psiche» 158. È un’altra forma di ‘decentramento’, non spirituale ma psicologico; responsabile però anch’esso dell'impoverimento antropologico, a cui sono legate varie forme di malessere.
2. Il ‘corpo centrato' e il sacro
Se, come afferma Mircea Eliade, la costruzione di un ‘centro’, quale luogo di rapporto privilegiato con il sacro, è un momento costitutivo dell’esperienza religiosa 159, la perdita del centro ha una ripercussione immediata sulla vita spirituale. Ma il centro da cui irradia il sacro non è solo quello ubicato nello spazio al di fuori deil’uomo, bensì soprattutto quello che coincide con il suo corpo. È questo il centro che è necessario riconquistare in modo prioritario. E la via è la preghiera.
Dal punto di vista della spiritualità cristiana, il nostro modo di pregare (silenzioso, intellettuale, volontaristico, e con la completa esclusione della partecipazione del corpo) è una singolarità che non ha precedenti. Più che un’espressione della tradizione, va considerato come un’invasione surrettizia di puritanesimo. Per contrasto, basti pensare alla tradizione della ‘preghiera pura’ coltivata nella cristianità orientale dal movimento esicasta 160. Cercando di far ‘discendere’ l’intelletto nel
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cuore, gli oranti miravano ad acquistare coscienza della presenza divina. Il mezzo privilegiato era considerato la ‘preghiera di Gesù’ (l’invocazione: «Signore Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me»), ripetuta incessantemente, al ritmo stesso della respirazione. La ‘preghiera pura’ è infatti tutt’altro che mentalismo rarefatto. Si serve di tecniche, come il controllo della respirazione, che hanno un impressionante parallelo nelle tecniche di concentrazione delle religioni asiatiche.
Anche la tradizione cattolica fino alle soglie dell’epoca moderna non conosce la diffidenza per il corpo nella preghiera. Sono note le indicazioni precise circa gli atteggiamenti del corpo che dà s. Ignazio negli Esercizi spirituali.
Perfino la spiritualità domenicana, apparentemente così intellettuale, attribuisce un congruo posto al corpo. S. Tommaso (Summa Theologica II-II, q. 84, a. 2) insegna che la preghiera corporale è perfettamente valida e buona, anche se il nostro cuore e il nostro spirito non vi sono totalmente impegnati. La teologia dell’Aquinate beneficiava indirettamente del ricco insegnamento sulla preghiera corporale che s. Domenico stesso aveva lasciato in eredità al suo ordine. Ne dà testimonianza un documento redatto probabilmente dopo la sua morte: Le nove maniere di pregare di san Domenico 161. Al santo dobbiamo riconoscere una grande libertà e inventività del gesto. La sua preghiera comprende inchini profondi e lenti, prostrazioni, genuflessioni frequenti, l’abbandonarsi alle lacrime (che una lunga tradizione anche liturgica considera un dono), il tenersi «sulla punta dei piedi, le mani levate al cielo»... Riferendoci a questa tradizione, potremmo sentirci incoraggiati ad avere meno inibizioni nel muovere e nell’usare il corpo nella preghiera 162.
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Oltre alla tradizione propria del cristianesimo, esistono in àmbiti religiosi esperienze di preghiera corporea di valore universale. Tra le diverse tradizioni sono possibili influenze reciproche. Una delle novità più clamorose di questi ultimi anni è appunto la penetrazione in Occidente della meditazione orientale, specialmente nella forma assunta dal buddismo zen, proveniente dal Giappone.
Lo zen (il termine equivale a ‘concentrazione’, ‘meditazione assisa’) non è propriamente né una religione, né una filosofìa. Fondamentalmente è un’esperienza personale ed esistenziale, non rappresentabile in termini discorsivi. L’illuminazione (in giapponese satori) è un’esperienza che fa toccare il fondo dell’essere. Tuttavia chi l’ha vissuta la presenta come la cosa più naturale, più rispondente alla natura dell’uomo. È una riconquista del significato elementare delle cose e di se stesso mediante un’adesione immediata all’oggetto, senza mediazione di concetti e parole. Presupposto per essere presi in questa esperienza è l’abbandono della guardia intellettuale.
Il movimento zen fu introdotto in America verso la fine del secolo scorso e si è diffuso in centri di livello scientifico e universitario. Alan Watts ne fu il divulgatore principale e D.T. Suzuki uno dei maestri più ascoltati 163. Lo zen divenne di moda all’epoca della generazione beat. I giovani in rivolta nei confronti della convenzionale concezione scientifica dell’uomo e della natura pensarono di aver trovato nello zen qualcosa di cui avevano bisogno e fecero libero uso di ciò che avevano capito di questa esotica tradizione. Forse quello che i giovani hanno preso per zen ha scarse relazioni con la tradizione originale; ciò che essi ne trassero fu soprattutto un rifiuto di tutto ciò che è positivistico e cerebrale, in senso costrittivo 164.
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In Europa, soprattutto in ambito tedesco, l’interesse per lo zen ha avuto una motivazione specificamente religiosa. Mediato da H.M. Enomiya-Lassalle e soprattutto da K. Dürkheim, che hanno avuto un’iniziazione personale nei monasteri buddisti giapponesi, lo zen è stato diffuso come una tecnica di meditazione perfettamente assimilabile da cristiani 165.
Anche a proposito della comprensione europea dello zen andrebbe posta la questione di quanto corrisponda aH’originale. Malgrado tutti i tentativi di concordismo, gli uomini religiosi dell’Occidente restano coscienti che ciò che viene praticato in Oriente e in Occidente col nome di meditazione è profondamente diverso 166.
La meditatio cristiana è un’attività spirituale che conduce dal mondo sperimentale a Dio che si rivela, alla sua parola e opera di salvezza. È essenzialmente religiosa e domanda una presenza attiva del soggetto, che riflette ed elabora (nella ‘contemplazione’, invece, anch’essa tradizionale in Occidente, il credente accede a una intima, profonda pace, in atteggiamento di accoglienza). La meditazione buddista è invece ‘senza oggetto’. Non è concentrazione di tipo meditativo; non è neppure contemplazione, poiché tende a mantenere la mente completamente vuota da ogni presenza conoscitivo-concettuale. L’effetto della meditazione zen è la sensazione della non-differenza fra l’io e il mondo esteriore. Spontaneamente, senza che vi abbia posto intenzione, il meditante vede crollare le barriere formali fra soggetto e oggetto, fra spirito e contenuto dello spirito, fra idea e cosa proiettata nell’idea.
Ciò che oggi, a seguito del fecondo influsso dello zen, si
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diffonde tra i cristiani con il nome di ‘meditazione’ non coincide esattamente con quanto questo termine designa nelle rispettive tradizioni dell’Oriente e dell'Occidente. Dallo zen si è presa la tecnica, dalla meditazione cristiana l’intenzione profonda. «Preparare l’uomo all’esperienza dell’Essere, aprirlo alla vita della metamorfosi mediante il contatto con l’Essere: tale è lo scopo di ogni pratica meditativa» (K. Dürkheim). Non dunque una ricerca di tipo razionale, una riflessione su un tema; ma neppure l’illuminazione orientale che denuncia l’io e il mondo come illusioni. Piuttosto una via esperienziale all’Assoluto, un cammino verso la ‘realtà seconda’, come l’ha chiamata Balthazar Stähelin 167, vale a dire la coscienza di appartenere a ciò che non è finito. La meditazione consiste nel trovare un ‘centro’ che renda la realtà seconda trasparente. Con la scoperta del vero centro è connesso un rapporto differente con se stesso, con gli altri e con il mondo; un altro stile di vita, un altro modo di essere: la meditazione è, dunque, un cammino di trasformazione. Il processo avviene in noi, nel nostro corpo, grazie al nostro corpo. Per questo, preferiamo dare a questa pratica il nome di ‘meditazione corporea’. Vediamone ora gli elementi costitutivi.
3. La meditazione corporea
La meditazione è un processo che ci conduce al più intimo del nostro intimo, facendoci essere pienamente raccolti e pacifici in profondità. Lo stile di vita odierno è caratterizzato da un risucchio verso la periferia. Così il contatto con gli strati profondi della persona è compromesso. Il centro di gravitazione tende a spostarsi verso gli strati che ci rappresentiamo come superiori, vale a dire la ragione che pensa con chiarezza logica e la volontà intenzionale. È quanto idealmente localizziamo nella testa. Questo spostamento va a spese del contatto con gli strati più profondi, cioè quelli dell’esperienza vitale e
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dell'intuizione, dove non è più in questione la ragione o la testa, ma qualcosa che localizziamo più in basso 168.
La struttura psicologica dell’uomo metropolitano contemporaneo ha un riscontro propriamente fisiologico. La tendenza all’attività frenetica e alla realizzazione personale nelle prestazioni intellettuali e volitive si traduce in un particolare rapporto con il corpo. La percezione del corpo è atrofizzata. «Nella pratica, il senso meno sviluppato, e che è invece il più utile per la personalità (ivi compresa la personalità morale), è il senso interno o propriocettivo. I cinque altri sensi lasciano allo spirito la possibilità di sfuggire, di assorbirsi o proiettarsi nell’oggetto visto, ascoltato, toccato, odorato o gustato. Mentre il senso interno, che non rivela che più o meno oscuramente il corpo in se stesso nella sua sostanza vivente, mette a dura prova l’intelligenza, ed è proprio questa prova che è salutare. Infatti la presenza effettiva al senso interno domanda al mio spirito di lasciare lo schermo mentale per dimenticarsi in qualche modo a vantaggio della sostanza diffusa nel volume delle mie membra e di tutto il mio corpo. Se riconosce sinceramente questa sostanza in se stessa, l’accetterà come irriducibile ai suoi concetti, benché intimamente associata all’unico soggetto che io sono. Sboccia qui un’umiltà fondamentale senza la quale nessun altro grado di umiltà sembra accessibile» 169.
Prendere il cammino dell’universo interiore, rompere il contatto con l’ambiente per raccogliersi in se stesso, concentrarsi per abbandonare le spiagge della vita inautentica, la superficie immediata dell’esistenza: tutto ciò è stato sempre inteso come l’essenza del processo meditativo. Quello che c’è di caratteristico nella meditazione influenzata dalle pratiche orientali è che tutto questo processo si condensa nella riappropriazione del centro naturale del corpo. Si è diffuso anche negli ambienti cristiani che praticano la meditazione corporea il termine giapponese con cui si designa tale centro ideale: bara. Di per sé
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la parola significa ‘ventre’. Essa indica però un atteggiamento d’insieme, che comprende sia l’anima che il corpo, in cui il centro di gravitazione della persona sta nel ventre, le forze che trattengono l’uomo in alto sono in stato di relax, la profondità può esercitare il suo influsso riequilibratore e l’essere umano intero è aperto e disponibile per il contatto con il mistero dell’essere. Lo hara cresce nella meditazione, fino a diventare la disposizione abituale dell’uomo.
Lo strumento privilegiato per accedere a questo centro naturale del corpo e disporsi così all’evento meditativo è la tecnica del respiro. Anche questa è mutuata dalla tradizione orientale, dove alla respirazione è stata dedicata una cura che non trova riscontro nelle culture occidentali. La respirazione non è solo un processo fisiologico che assicura all’organismo la sua riserva di ossigeno, ma un fenomeno che coinvolge tutto l’uomo. È espressione dei processi psichici (le diverse modalità di respiro: affrettato o calmo, mozzo o sciolto, superficiale o ampio e profondo, sono legate a stati d’animo diversi); a sua volta il respiro può influenzare profondamente questi stessi processi psichici ed emotivi. La distorsione dell’equilibrio mediante la rottura con gli strati profondi e lo spostamento del centro di gravitazione verso la testa, di cui soffre la nostra cultura, si manifesta anche nella respirazione. Essa è bloccata inconsciamente nella parte superiore del corpo, creando un’ulteriore tensione. La respirazione toracica tende così a sostituire quella col diaframma. Questo muscolo, che è il grande mediatore del respiro profondo, cade nell’immobilità e si atrofizza. Il movimento di espirazione, di solito, non è condotto a termine: viene frenato, traducendo così un’angoscia viscerale, la paura di morire (di ‘spirare’, appunto). Ciò impedisce di attendere la nuova inspirazione come un dono da ricevere con riconoscenza. Si ‘fa’ la respirazione, invece di ‘lasciarla farsi’. Questo modo di respirare è una manipolazione del movimento naturale della vita che raccoglie le nostre tensioni e fa ostacolo alla trasformazione. La respirazione toracica è l’espressione fisiologica del volere intenzionale, della volontà di autoaffermazione e dell’eccitazione permanente.
Il ricupero della respirazione diaframmatica e del suo ritmo
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naturale permette di ricostruire i ponti con gli strati profondi dell’essere. Ritrovando le nostre radici, ci riannodiamo con quella parte di noi stessi che sfugge alla nostra volontà. Il modo di respirare di una persona traduce il suo atteggiamento generale di fronte alla vita. Quando la respirazione torna ad essere un abbandono armonioso alla natura col suo ritmo di morte e rinascita, si è posta la premessa per la trasformazione esistenziale cui tende la meditazione. Si respira allora nel ventre — lo hara —, che è di fatto il centro geometrico del corpo. La respirazione diaframmatica comunica calma e fa essere se stesso in profondità. Respirazione, distensione, centro del corpo: aspetti diversi dell’unico processo che avviene nella meditazione corporea, cioè un cammino di trasformazione che porta alla nascita di una struttura (Gestalt) nuova.
Il giusto respiro mette in accordo con lo spirito della meditazione ed introduce ad essa. Per definizione, non si può spiegare verbalmente, facendo ricorso a un discorso razionale, l’esperienza che la meditazione rende possibile 170. Per avere almeno un’idea del processo interiore che viene messo in moto, ci si riferisce al ritmo quaternario chiamato ‘ruota della metamorfosi’ (K. Dürckheim). Anche esso è stato mutuato dal buddismo zen.
Il ritmo quaternario è suggerito dal ritmo della respirazione. Quando questa non è deformata da tensioni psichiche e contrazioni fisiologiche, ma si svolge con naturalezza, il rapporto tra espirazione e inspirazione è di tre a uno (due tempi di espirazione, un tempo di pausa e un tempo di inspirazione). Il processo interiore può essere favorito unendo mentalmente ai quattro tempi della respirazione delle parole che esprimono il significato dei diversi momenti che nell’intero cammino ciclico portano alla trasformazione.
Le parole suggerite dai maestri occidentali di meditazione zen sono: ‘mi lascio’, ‘discendo’, ‘mi dono’, ‘mi ricevo’. Sono
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i quattro raggi il cui movimento costituisce la ‘ruota della metamorfosi’. L’insieme realizza anche il ritmo binario di morte-nascita inscritto in ogni respirazione dell’essere vivente: ogni rivoluzione della ruota, ogni respirazione, contiene in sintesi tutta la densità del cammino che si estende per la vita intera. Mentre il corpo resta immobile, si tratta di entrare nel ritmo stesso del respiro, nel lento e profondo movimento del diaframma che va e viene. Il primo tempo è quello dell’espirazione, che induce a ‘lasciare la presa’. Il respiro invita a lasciarsi in quanto persona, centrata e contratta nella parte superiore del corpo, installata in tutto un sistema di sicurezze artificiali, difese e paure, complessi, ruoli e maschere. Abbandonato il centro di gravità situato in alto, che imprigiona l’uomo nel cerchio del piccolo ‘io’ con il quale ci siamo identificati, ci si prepara ad essere invasi da una coscienza diversa, in cui l’atteggiamento fondamentale consiste non tanto nel ‘voler fare’ quanto nel ‘lasciar fare’. Accompagnando l’espirazione, la coscienza può scendere ancora più in basso, verso quel centro di gravitazione, situato nel bacino, che abbiamo chiamato hara. È il secondo tempo dell’espirazione (‘discendo’). L’espirazione, diretta dolcemente ma fermamente verso il basso, veicola le tensioni che traducono una mancanza di fiducia totale e di abbandono, la paura davanti alla vita. Spariscono le contrazioni localizzate nel bacino, traccia di innumerevoli repressioni. La sensazione di essere nello hara suscita un senso di forza diversa da quella che ha origine nella volontà, e genera progressivamente un altro atteggiamento vitale. Parlando dello hara, Dürckheim così descrive questo stato: «Tutto ciò che popola la forma di coscienza abituale è scomparso. Improvvisamente, ciò che era sentito come un vuoto spaventoso dell’io egocentrico diventa una pienezza che le parole non potrebbero esprimere e che penetra la persona intera, dandole forza, luce e calore» 171. È quanto vive il meditante nel vertice di distensione che costituisce il tempo di pausa tra l’espirazione e la inspirazione. Il lasciarsi culmina con naturalezza nell’abbandono, nel dono completo di sé (‘mi dono’).
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Il riflusso del respiro segue non più per comando della volontà, ma per forza propria. È la quarta fase. Come una nascita, la nuova inspirazione viene da sé, la si riceve come un dono; si riceve se stesso come un dono (‘mi ricevo’). E ciò senza abbandonare la posizione alla radice dell’essere, al centro della terra, raggiunta nella fase precedente di abbandono. Lasciando subito la presa, senza violenza, la ‘ruota della metamorfosi’ si rimette in movimento. Con l’esercizio della meditazione, man mano che la distensione si approfondisce, il meditante si calerà maggiormente nel movimento, lasciandosene afferrare interamente.
Una questione è a questo punto inevitabile: la meditazione corporea ha un significato religioso o solo profano? È noto che nella tradizione orientale non si attribuisce alla meditazione un valore religioso, in quanto connesso con una fede e una rivelazione. In quell’ambito culturale la preoccupazione principale è quella di una esperienza umana rettamente fondata nel centro dell’essere. In Giappone l’educazione tradizionale ha sviluppato, oltre alla meditazione, una quantità di esercizi — dal tiro dell’arco, all’arte di intrecciare i fiori (ikebana), alla cerimonia del the — per consentire la giusta disposizione, cioè un’esistenza vissuta a partire dallo hara 172.
I mediatori occidentali della saggezza orientale hanno operato una reinterpretazione in senso religioso, sia naturalistico che propriamente soprannaturale. Hanno presentato la meditazione come un processo che permette di scoprire la trascendenza nel cuore stesso dell’immanenza, valorizzando al massimo
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il movimento di unificazione essenziale dell’essere che compie il meditante. Riscoprendo ciò che è più profondo in sé, l’uomo troverebbe la faccia che è permanentemente rivolta verso Dio.
Cristiani che esercitano la meditazione corporea testimoniano di attingervi un aiuto per vivere il proprio rapporto con Dio nel senso della fede cristiana. La meditazione può essere anche un’esperienza esistenziale rigorosa di unione col Cristo nella sua morte per aver parte alla sua risurrezione. Questa è la ‘ruota della metamorfosi’ del cristiano. Da una visione esteriore del mistero essenziale della fede cristiana la meditazione fa accedere a una comprensione dall’interno. Una comprensione che non è data da una sapienza razionale e dialettica, ma da una saggezza che va incontro alla rivelazione divina percorrendo la via del corpo, sulla traccia esile ma potente del soffio vitale. È la via che, in senso inverso, ha seguito Dio stesso nella rivelazione: «A noi Dio l’ha rivelato per mezzo dello Spirito (la ruah, il soffio di vita). Lo Spirito infatti conosce tutto, anche i pensieri segreti di Dio. Nessuno può conoscere i pensieri segreti di un uomo: solo lo spirito che è dentro di lui può conoscerli. Allo stesso modo solo lo Spirito di Dio conosce i pensieri segreti di Dio» (1 Cor 2,10-11).
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INDICE
5 Introduzione: Il corpo, tra culto e cultura
parte prima
FIGURE DEL CORPO ALLA RICERCA DI SE STESSO
9 1. Il corpo come utopia politica
9 1. Il corpo a controcultura
12 2. La filosofia neo-marxista del corpo
16 3. Il corpo vissuto: la lezione della fenomenologia
19 4. Il corpo narcisistico, dopo il corpo utopico?
21 2. Nel laboratorio delle scienze antropologiche
21 1. Questioni nuove sul corpo
25 2. Alla scuola del corpo
29 3. Il corpo al femminile
28 1. Donna, sei il tuo corpo!
31 2. Riappropriarsi del corpo
34 3. Per una differenza senza disuguaglianze
168
38 4. Psicoterapia con il corpo
38 1. Nostalgia di una clinica umanistica
40 2. Le psicoterapie a mediazione corporea: una panoramica
48 3. Abbozzo di una teoria antropologica
52 5. Corpo malato — corpo sano: le vie della terapia
52 1. Contro la medicalizzazione del corpo
56 2. Il corpo nelle pratiche mediche non ufficiali
61 3. Verso una concezione olistica della salute
parte seconda
STORIA TEOLOGICA DEL CORPO
71 1. Il cristianesimo è ostile al corpo?
78 2. Il corpo malato nella letteratura ascetica
79 1. Discorsi di esortazione per il tempo della malattia
82 2. L’influenza della scuola francese di spiritualità
88 3. Un nuovo atteggiamento verso il corpo malato
91 3. Il corpo sano: l’ideologia dell’epoca vittoriana
91 1. La salute come ideale
93 2. Il ‘cristianesimo muscolare’ di Kingsley
95 3. Newman: riproposta del modello aristotelico-tomista
99 4. K. Barth: la vita del corpo come obbedienza a Dio
99 1. La vita come dono e come valore
102 2. Etica dell’obbedienza: la volontà di vivere per essere uomo
103 3. La malattia e il comandamento di vivere
169
106 5. Verso una teologia sistematica del corpo
106 1. La teologia esperienziale e il corpo vissuto
109 2. Gli studi esegetici sulla corporeità nell’antropologia paolina
111 3. Le dimensioni di una teologia del corpo
parte terza
L’ETICA COME LUOGO D’INTERROGAZIONE SUL CORPO
117 1. Maschile/femminile: l’identità sessuale
119 1. La conoscenza scientifica dell’identità sessuale
123 2. Le turbe dell’identità e dell'orientamento sessuale
126 3. Orientamenti dell’etica cristiana
132 2. La presentazione sociale del corpo
132 1. La decorazione del corpo
134 2. Abbigliamento e moda
137 3. Il corpo nudo
139 4. L’uso del corpo nella pubblicità
142 3. La disciplina del corpo
142 1. L’ascetica corporea
146 2. La nuova educazione del corpo
148 3. La danza per guarire
151 4. Lo sport: vecchie e nuove pratiche
154 4. La ricerca del ‘centro’
154 1. L’uomo moderno ha perso il ‘centro’
156 2. Il ‘corpo centrato’ e il sacro
160 3. La meditazione corporea
[quarta di copertina]
Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti: per sua maestà il Corpo è il tempo del trionfo. Nelle utopie politiche delle controculture e nel movimento femminista, nelle scienze antropologiche e nella psicoterapia, in ogni piega della civiltà dei consumi come nelle correnti spirituali che si ispirano all’Oriente, ritroviamo costantemente il corpo in posizione centrale. L’interpretazione del fenomeno è tutt’altro che univoca: la nostra civilizzazione si è veramente «riappropriata del corpo», oppure la riemergenza del corpo è una sensazione illusoria, come un «arto fantasma»? L’innamoramento collettivo per il corpo è la soglia dell’ultima rivoluzione, o ci risucchia in una politica della consolazione nutrita di narcisismo involutivo?
Con questi interrogativi Sandro Spinsanti segue le piste fornite dalle ideologie, dai movimenti e dalle mode culturali del nostro tempo che si richiamano al corpo nel pensiero e nella prassi. Esplora poi, in una seconda parte, il patrimonio storico della saggezza cristiana, domandandosi se esiste un’ostilità verso il corpo specifica del cristianesimo. Affronta infine alcuni problemi relativi ai modi pratici di vivere il corpo, nei quali si esprime la ricerca di un nuovo orientamento morale: abbigliamento e nudismo, i conflitti circa la propria identità sessuale, la disciplina del corpo, le nuove pratiche sportive, il posto del corpo nell’esperienza spirituale.
1 Friedrich Nietzsche può essere considerato il primo pensatore dell’epoca moderna che ha innovato la riflessione sul corpo. Per primo si è reso conto che la distruzione della qualità umana nell’epoca del capitalismo comincia con l’annullamento del corpo. Perciò esaltò il corpo vivo come unico portatore di gioia, di felicità e di autoelevazione. Solo oggi gli studi storico-filosofici riconoscono che il corpo non era per Nietzsche solo una vaga metafora, bensì il suo tema più importante. Cf. H. Schippers, «Am Leitfaden des Leibes». Zur Anthropologie und Therapeutik Friedrich Nietzsches, Stuttgart 1975.
2 J. Rubin, Do it. Touchstone 1970. L’autore è stato uno degli organizzatori dell’underground di New York; le sue informazioni sono perciò di prima mano.
3 «La maggior parte di ciò che al giorno d’oggi avviene di nuovo, di provocatorio, impegnato, nella politica, nell’educazione, nelle arti, nelle relazioni sociali (amore, corteggiamento, famiglia, comunità), o è opera di giovani che sono profondamente, perfino fanaticamente avversi alla generazione dei loro padri, o lo è di coloro che si rivolgono fondamentalmente ai giovani»: T. Roszack, La nascita di una controcultura. Riflessioni sulla società tecnocratica e sull’opposizione giovanile, Milano 1971, p. 13.
4 R. Dubos, Il Dio interno, Milano 1977, p. 226. Per un’analisi del ruolo svolto dal corpo nella protesta degli anni ’60, cf. H. Kutzner, Erscheinen und Verschwinden des Körpers. Zum Protest der sechziger Jahre, in Körper (numero monografico di Trans, München 1980), pp. 6-12.
5 S. Acquaviva, In principio era il corpo, Roma 1977, p. 20.
6 R. zur Lippe, Naturbeherrscbung am Menschen, I: Körpererfahrung als Entfaltung von Sinnen und Beziehuttgen in der Ära des italienischen Kaufmannkapitals; II: Geometrisierung des Menschen und Repräsentation des Privaten im französischen Absolutismus, Frankfurt 1974.
7 R. Garaudy, Danser sa vie, Paris 1973, p. 13.
8 Cf. J.M. Brohm, Corps et politique, Paris 1975.
9 Il pensiero di Marcuse sull’uso repressivo che la società capitalista avanzata fa della desublimazione degli istinti si trova in L’uomo a una dimensione, Torino 1967, e in Eros e civiltà, Torino 1964.
10 Partendo dall’affermazione di Spinoza, per il quale noi non sappiamo ciò che può essere un corpo, dal momento che l’esperienza che ne abbiamo è molto limitata, Fernando Belo, nella sua discussa proposta di una ‘lettura marxista’ del vangelo ipotizza la piena epifania del corpo umano che avverrà solo quando tutte le sue forze attive saranno liberate da una formazione sociale radicalmente socialista: «Se i corpi non sono più affascinati dall’oro e dal denaro, quale produzione farà seguito alla liberazione delle forze di lavoro? quale gioco, nel senso di Nietzsche, sarà il loro? se non sono più repressi dal re, dal potere dello Stato, quale ordine farà seguito alla liberazione delle forze di autonomia? quale danza sarà la loro? se non sono più deviati dal dio e dal lógos, quale scrittura, quale scienza, quale arte farà seguito alla liberazione delle forme di scrittura? quale riso sarà il loro? quale rapporto profano/sacro, quale festa, quale tragico anche, sempre nel senso di Nietzsche?», F. Belo, Lecture materialiste de l’évangile de Marc, Paris 1975, p. 391.
11 Cf. H. Pluegge, Der Mensch und sein Leib, Tübingen 1967; Id., Von Spielraum des Leibes, Salzburg 1970.
12 Una scelta antologica, attraverso tutta l’opera di M. Merleau-Ponty, di pagine dedicate al problema del corpo e della percezione, è stata pubblicata in italiano a cura di F. Fergnani, col titolo Il corpo vissuto, Milano 1979. L’ampio saggio introduttivo dello stesso Fergnani situa la riflessione sul ‘corpo vissuto’ nel contesto della filosofia esistenzialista. Cf. anche L. Asciutto, Volontà e corpo proprio nella fenomenologia di Paul Ricoeur, Francavilla al mare 1973.
13 C. Lasch, La cultura del narcisismo, Milano 1981. Fa riferimento soprattutto alla condizione psico-sociale americana, ma è valido anche per l’Europa. Cf. anche R. Sennett, Les tyrannies de l’intimité, Paris 1979.
14 A. Bercoff, Vivre plus, Paris 1981, p. 67.
15 P. Salomon, L’art du corps, Paris 1979.
16 «Queste pratiche psicologizzate fanno risaltare differenziazioni che sono sociali. Queste ‘muscolazioni dirette’, questi ‘sacrifici’ di tempo e d’energia, coronati solo all'ultimo momento dal guadagno interiore, appartengono generalmente ad una piccola borghesia sedotta ancora da impegni rigorosi e pazienti. Ci vuole ancora più abbandono e disponibilità per lanciarsi nelle pratiche corporee totalmente psicologizzate che sono lo yoga, l’eutonia, l’espressione totale. L’approccio in questo caso è più distanziato, più intellettualizzato... Pensando al jogging, si può immaginare uno spettro, in cui il lavoro sulla coscienza cambia secondo l’appartenenza sociale, e in cui le classi più sprovvedute sarebbero più vicine a un impegno direttamente fisico»: G. Vigarello, Les vértiges de l’intime, in Esprit, febbraio 1982, p. 77.
17 Sono esemplari, in tal senso, gli sviluppi dello studio antropologico della danza. I primi studiosi tendevano a considerarla come una risposta primitiva dell’umanità, ereditata dai nostri antenati animaleschi, al bisogno di espressione ritmico-motoria dell’eccesso di energia e della gioia di vivere. Gli evoluzionisti sostenevano che aveva maggiore importanza presso i popoli primitivi, e che sarebbe stata abbandonata con il progredire della civilizzazione. Gli studi più recenti, considerandone gli aspetti simbolici e l’integrazione nel contesto culturale, hanno reso giustizia alla danza: ora si comprende meglio il significato antropologico che riveste ai fini della creatività e della comunicazione: cf. A. Peterson Royce, The Anthropology of Dance, Bloomington London, Indiana Univ. Press 1977.
18 Il principale studioso di cinesica, Birdwhistell, ha dato alla disciplina un carattere behaviorista: ha studiato solo le funzioni sociali-comunicative della gestualità e della mimica, non il corpo come portatore di significati. Un’acquisizione importante della cinesica rimane, comunque, la costatazione che quasi ogni genere di comportamento legato al corpo e al movimento è condizionato culturalmente. Cf. R.L. Birdwhistell, Kinesics and context: essays on body-motion communication, Philadelphia 1970. La quasi totalità degli studi antropologici sul corpo e la comunicazione non verbale è redatta in inglese. Tra le più importanti, segnaliamo: J. Benthall-T. Polhemus (edd.), The body as a medium of expression, London 1975; J. Blacking (ed.), The anthropology of the body, London 1977; M. Douglas, Natural symbols: explorations in cosmology, London 1970; R. Hinde, Non-verbal communication, Cambridge 1972. A carattere divulgativo sono disponibili in italiano: E.T. Hall, Il linguaggio silenzioso, Milano 1968; J. Fast, Il corpo parla, Milano 1979; R. Kurtz-H. Prestera, Il corpo rivela, Milano 1978.
19 D. Morris, L’uomo e i suoi gesti, Milano 1978. Gli etologi sono in genere allineati su posizioni neo-universalistiche. Secondo le loro teorie, le espressioni facciali che sopravvengono in situazioni di risposta istintuale (come spavento, rabbia estrema ecc.) non sono culturalmente variabili. Il fatto che poche espressioni facciali specifiche possano essere universali non può, in ogni caso, mettere in ombra la costatazione che le altre espressioni del corpo variano sensibilmente da una società all’altra, come hanno conclusivamente dimostrato gli studiosi di cinesica.
20 Per ‘tecniche del corpo’ M. Mauss intende «i modi in cui gli uomini, società per società, in modo tradizionale sanno servirsi del loro corpo». Anteriormente alle tecniche che si servono di strumenti esiste l’insieme di tecniche del corpo. Il confronto etnografico permette di capire che non esiste un ‘modo naturale’ di camminare, correre, nuotare, tenere le mani ecc. presso l’adulto: in ogni cultura tali comportamenti sono modellati dall’educazione, e possono differire anche sensibilmente da una società all’altra. Nel suo classico studio Mauss classifica le tecniche del corpo seguendo la biografia normale dell’individuo: tecniche della nascita e dell’ostetricia; tecniche dell’infanzia e dell’adolescenza; tecniche dell’età adulta (del sonno, della veglia, dell’attività e del movimento, della corsa, della danza, del nuoto, della cura del corpo, della consumazione e della riproduzione): M. Mauss, Les techniques du corps, in Journal de psychologie 32 (1936), 271-293.
21 «Il corpo sociale esercita una pressione sul modo in cui il corpo fisico è percepito. L’esperienza fisica del corpo, sempre modificata dalle categorie sociali attraverso le quali esso è conosciuto, conferma un particolare modo di vedere la società. C’è un continuo scambio di significato tra questi due generi di esperienza corporea, sicché ognuno rafforza le categorie dell’altro» in M. Douglas, Natural symbols: explorations in cosmology, London, The Cresset Press 1970, 65. Il corpo umano trattato come immagine della società è il fondamento della metafora che troviamo anche in Paolo (1 Cor. 12,12 ss).
22 Cf. M. Argyle, Il corpo e il suo linguaggio, Bologna 1982.
23 A.H. Maslow, Religions, values, and peak-experiences, New York, Viking Compass Book 1970.
24 Cf. G. Amendt, Die Gynäkologen, Hamburg 1982: una documentata requisitoria contro la medicina ginecologica, o meglio contro la corporazione dei ginecologi. A suo avviso, è una finzione che il ginecologo sia solo il medico che cura gli organi sessuali malati della donna. Nella ginecologia, in realtà, avvengono cose che hanno a che fare con potenti tabù, generano ansia, e partecipano della lotta sorda tra uomini e donne. Alle donne vien fatto credere che il miglior modo per aiutare se stesse è quello di affidare con fiducia i loro organi agli uomini. Ma l’analisi delle pratiche ginecologiche relative alle operazioni non necessarie, alla sterilizzazione, al controllo delle nascite e all’aborto dimostra che nella medicina ginecologica si traduce in atto una forma di dominio assoluto che gli uomini vogliono esercitare sulle donne. Amendt paragona la ginecologia a un tumore che si estende in modo inarrestabile su tutti gli ambiti della vita della donna: «vuol includere tutti gli aspetti della vita delle donne e delle ragazze, vuol stabilire ciò che è sano, ciò che è malato, ciò che è costumato, femminile, normale, ciò che è sconveniente e ciò che è svantaggioso per gli uomini [...]. Si ritiene competente per tutto».
25 E. Sullerot, Il fenomeno donna, Milano 1978, p.284.
26 The Boston Women’s Health Book Collective, Noi e il nostro corpo, Milano 1974. Il sottotitolo originale inglese (Our Bodies, Ourselves) fa assumere l’identificazione culturale della donna con la sua corporeità, vissuta in modo riduttivo, per farne il punto di partenza di una riscoperta antropologica. La citazione riportata nel testo è presa dalla conclusione dell’introduzione, p. 13.
27 Cf. Ehrenreich, Le streghe siamo noi, Milano 1973.
28 Cf. la «guida a una gravidanza e a un parto felice» scritta da R. e G. Forleo, Figlio figlia, Milano 1983.
29 Cf. E. Figes, Il posto della donna nella società degli uomini, Milano 1970. Una panoramica documentata è offerta dalla Sociologia della condizione femminile, di F. Bonazzi e G. Catelli (edd.), Roma 1977, con vasta bibliografia ragionata, pp. 97-115. Lo sfruttamento della donna nell’ordine patriarcale è spiegato da E. Fromm, Avere o essere?, Milano 1977, come predominio della modalità dell’avere che si realizza nel possesso di esseri viventi.
30 D. Maraini, Quale cultura per la donna?, in Aa.Vv., Donna, cultura e tradizione, Milano 1976, pp. 60-66.
31 Cf. O. Thibault, La domination du sexe mâle: phénomène biologique ou culturel?, in La revue nouvelle, 30 (1974/1), 44-51. Una documentazione storica sugli abusi causati dall’ambiguità dei termini ‘natura’ e ‘naturale’ per giustificare a posteriori i ruoli assegnati dal sesso dominante e sulla corresponsabilità della teologia cattolica nel rafforzare, con un’interpretazione maschilista dei dati della Scrittura, le ideologie profane, si può trovare in J.-M. Aubert, La donna. Antifemminismo e cristianesimo, Assisi 1976, spec. pp. 116-131. La responsabilità del pensiero cristiano nella creazione dell’immagine tradizionale della donna è sottolineata anche da F. Queré, Les femmes de l’Évangile, Paris 1982.
32 La validità e i limiti della politica di emancipazione femminile del movimento operaio sono obiettivamente considerati da C. Ravaioli, La questione femminile, Milano 1976 (specialmente «La riappropriazione del corpo. Intervista con Giovanni Berlinguer», pp. 89-110).
33 E. Moltmann-Wendel, Libertà, uguaglianza, sororità, Brescia 1979 identifica le tappe del processo di emancipazione della donna dall’illuminismo ad oggi nell’emancipazione politico-culturale, nell’autonomia economica, in quella sociale e in quella del corpo. È da ricordare che anche la Pacem in terris di Giovanni XXIII (1963) indica l’ingresso della donna nella vita pubblica tra i «fenomeni che caratterizzano l’epoca moderna».
34 La rivendicazione dell’autonomia del proprio corpo, che si prolunga nella libertà sessuale, può nascondere un modo ingannevole di scoprire il proprio corpo: «Oggi una donna che proclama: ‘Il corpo è mio’ spesso si illude. Anche se il suo corpo non è più di lui — del maschio oppressore — questo non vuol dire che il corpo per forza le appartenga. Poter dire ‘il corpo è mio’ presuppone che attraverso la presa di coscienza del corpo la donna se ne sia impadronita. Perché il corpo le appartenga bisogna che ne conosca desideri e possibilità e che osi viverli. Solo quando li vive, una donna (o un uomo del resto) rifiuta di accettare una cosa senza viverla. Solo quando ci conosciamo profondamente rifiutiamo di non essere conosciuti e cerchiamo finalmente di conoscere l’altro». T. Bertherat, Guarire con l'antiginnastica, Milano 1978, p. 151.
35 M. Hébrard, Dieu et les femmes, Paris 1982.
36 I tentativi di innovazione sono venuti dalla scuola ungherese, capeggiata da Sandor Ferenczi. Questi proponeva una tecnica più attiva, in cui l’agire corporeo fosse un veicolo alla formazione di associazioni, utili all’interpretazione. Freud non era disposto a fare nessuna concessione circa la tecnica, per cui fu inevitabile il distacco. Quanto a Reich, che all’inizio della sua carriera era uno degli allievi più brillanti di Freud, fu escluso dalla società psicoanalitica internazionale nel 1934. Per approfondimenti del problema del corpo in psicoanalisi, cf. K. Strzyz, Überlegungen zur Funktion des Körpers in der psychoanalitischen Therapie, in Trans 1 (1980) 71-77; il cap. III in W. Pasini-A. Andreoli, Eros et changement. Le corps en psychothérapie, Paris 1981, 49-64 (ora anche in trad. it., Il corpo in psicoterapia, Milano 1982).
37 Cf. W.B. Cannon, The Wisdom of the Body, New York 1932, per il concetto fondamentale di omeostasi. In una delle poche esposizioni organiche della terapia della Gestalt dovuta allo stesso Perls, viene sviluppata l’opposizione tra l’autoregolazione e la regolazione esterna dell’organismo. Nell’auto-regolazione «l’organismo è lasciato solo a prendere cura di se stesso, senza intromissioni dall’esterno. Io credo che questa è la grande cosa da capire: che la consapevolezza per sé — da sé e di se stesso — può essere curativa. Perché con la piena consapevolezza diventi consapevole di questa auto-regolazione organismica, puoi lasciare che l’organismo prenda la mano senza interferire, senza interrompere: possiamo fidarci della saggezza dell'organismo. E in contrasto a ciò sta tutta la patologia dell’auto-manipolazione, del controllo ambientale, ecc., che interferisce con questo sottile auto-controllo organico», F. Perls, La terapia della Gestalt parola per parola, Roma 1980. Cf. anche F. Perls-R.F. Heffeline-P. Goodman, Teoria e pratica della terapia della Gestalt, Roma 1971.
38 Tra le rassegne più complete, per un’informazione generale, A. Ancelin Schützenberger-M.J. Sauret, Il corpo e il gruppo, Roma 1978; W. Pasini-A. Andreoli, Eros et changement. Le corps en psychothérapie, Paris 1981; U. Voelker, Der Körper und die gesunde Persönlichkeit, in Humanistische Psychologie, Weinheim-Basel 1980, 219-226.
39 È necessario tener presente la differenza tra riposo e rilassamento. Con il rilassamento si intende in psichiatria uno sforzo personale attivo, diretto a ottenere l’abolizione dell’attività muscolare con la quiete della mente. Il rilassamento terapeutico è qualcosa di più del riposo: è una specie di recupero in profondità, indispensabile quando ci si viene a trovare in situazioni di ansia o di stress cronico. Tradizionalmente, sia in Oriente che in Occidente, sono stati elaborati intuitivamente dei metodi per raggiungere efficacemente il rilassamento (dalle danze dei dervisci alle tecniche di concentrazione degli yoghi). Qui ci occupiamo dei metodi di rilassamento sviluppatisi in ambito scientifico.
40 «Per una sere di ragioni, stiamo diventando una società che ‘tiene lontane le mani’. Esiste una profonda fame di contatto fisico, di toccare e di essere toccati. Troppe persone sono affamate di questa forma di comunicazione umana più fondamentale di tutte. È fame di essere riconfermati nella certezza che dentro la nostra pelle noi siamo ‘qualcuno’; che dentro la pelle degli altri c’è ‘qualcuno’, proprio come noi. È, letteralmente, una ‘fame di pelle’», S.B. Simon, Caring, Feeling, Touching, Niles, 111. 1976, p. 101. Sul bisogno umano di contatto, le diverse tecniche di massaggio e la relazione terapeutica attraverso il massaggio, cf. il cap. sui massaggi in W. Pasini, Eros et changement, cit., p. 217-226; cf. anche A. Montagu, La peau et le toucher. Un premier langage, Paris 1979.
41 Cf. W. Reich, L’analisi del carattere, Milano 1973. Il pensiero di Reich è stato particolarmente innovativo e originale nel mostrare come il carattere, sia nella sua componente fisica che in quella psichica, si struttura di fatto sotto l’influenza delle pressioni esteriori socio-economiche. Per il suo tentativo di coniugare l’analisi psichica dell’individuo fatta da Freud con quella sociale del potere ad opera del marxismo, Reich è stato scomunicato dai custodi tanto dell’una quanto dell’altra ‘ortodossia’. La chiave di volta della prima fase del suo pensiero — riflessa soprattutto nell’opera La rivoluzione sessuale — è costituita dal conflitto tra i bisogni istintuali-biologici dell’uomo e la sua condotta sociale. Le ricerche sull’ ‘energia organica’, intraprese nell’ultima fase della sua vita, furono condotte nella diffidenza generale, in condizione di isolamento.
42 La letteratura sulla bioenergetica comincia a diventare ampia. Si vedano almeno le principali opere di A. Lowen, alcune già tradotte in italiano: La depressione e il corpo, Roma 1980; Il linguaggio del corpo, Milano 1978.
43 Un sussidio per acuire la capacità istintiva di interpretare ciò che la struttura, la posizione e la fisionomia rivelano delle persone si può trovare in R. Kurtz-H. Prestera, Il corpo rivela, Milano 1978. Il corpo, secondo gli autori, rivela il modo di essere nel mondo di una persona: i suoi traumi passati e la personalità presente, i sentimenti espressi e quelli non espressi; il corpo rivela la persona; o piuttosto, è la persona.
44 Cf. F. Perls, La terapia della Gestalt parola per parola, Roma 1980. Suggerimenti e tecniche per l’ampliamento della consapevolezza sensoriale in F. Perls-R.F. Hefferline-P. Goodman, Teoria e pratica della terapia della Gestalt, Roma 1974.
45 R. Kurtz-H. Prestera, Il corpo rivela, cit., p. 146.
46 Cf. H. Petzold, Gegen den Missbrauch von Körpertherapien, in Die neuen Körpertherapien, Paderborn 1977, 478-489.
47 Cf. R. Dubos, The mirage of health: utopian progress and biological change, New York 1959.
48 I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Milano 1977, p. 139 s. La pubblicazione del libro ha suscitato un ampio dibattito sulla medicalizzazione della vita e della morte e sulla spinta alla delega allo specialista: cf. Illich risponde dopo «Nemesi medica», Assisi 1978 (riproduce la registrazione di un seminario al quale ha preso parte lo stesso Illich).
49 I. Illich, Nemesi medica, cit., p. 86.
50 Oms, Promotion et développement de la médecine traditionnelle, rapporto tecnico n. 622, Ginevra 1979.
51 Cf. M. Foucault, La nascita della clinica, Torino 1969.
52 Il rapporto con il corpo intrattenuto dalla medicina tradizionale e popolare è ampiamente analizzato dal numero monografico di Autrement: Panseurs de secrets et de douleurs (15/1978), soprattutto F. Loux, Médecins et guérisseurs: deux rapports au corps, pp. 190-192.
53 Cf. P. Delaunay, La médecine et l’Église. Contribution à l’histoire de l’exercice médical par les clercs, Paris 1948.
54 M.F. Morel, Les curés, les paysans: un même langage, in Autrement 15/1978, pp. 63-72.
55 J. Sarano, Significato del corpo, Roma 1975.
56 V. v. Weizsäcker, Pathosophie, Göttingen 1956 (soprattutto il cap. sulla Biographik, pp. 241-263); Id., Der kranke Mensch, Stuttgart 1951, p. 352 ss.
57 Si veda, come una chiara indicazione di tendenza, The holistic health handbook. A tool for attaining wholeness of body, mind and spirit, Berkeley 1979. Cf. pure K.R. Pelletier, Holistic medicine, New York 1980. Un’efficace presentazione dei presupposti e degli intenti del movimento di medicina olistica in N. Cousins, La volontà di guarire, Roma 1982, specialmente il cap. ‘Salute olistica e guarigione’. L’autore, pure aderendo alla medicina olistica, vede il pericolo di una frammentazione e una confusione generale all’interno del movimento. È necessario soprattutto non perdere di vista l’obiettivo dei sostenitori della salute olistica: «spostare l’attenzione dalla conoscenza della malattia alla conoscenza degli esseri umani in cui esiste la malattia» (p. 84).
58 In molte culture si ritrova un digiuno con finalità estatiche. Si sottopone il corpo alla più dura privazione per provocare positivamente una specie di «uscita da se stesso». Si sa, per esempio, che nelle culture indiane dell’America settentrionale l’adolescente si ritirava a digiunare a lungo in luoghi solitari per realizzare, al culmine dell’esperienza, il sogno o la visione che gli indicavano il suo destino. Il digiuno di Gesù nel deserto, prima dell’inizio della sua missione (Mc. 1,12 ss.), appare più affine a questo tipo di digiuno iniziatico che al digiuno dei monaci. Il digiuno a finalità estatiche può ricorrere anche fuori di un quadro di riferimento religioso. Lo ha intuito la scrittrice Marguerite Yourcenar, la quale fa dire all’imperatore Adriano, reso emblema della saggezza pagana, che il digiuno prolungato conduce a «quegli stati prossimi alla vertigine, durante i quali, il corpo, in parte libero dal suo peso, entra in un mondo che non è fatto per lui, che gli offre in anticipo un’immagine della gelida levità della morte» (in Mémoires d’Hadrien). La morte per inedia può rappresentare una specie di orgia alla rovescia, in cui la sostanza vitale invece di essere esaltata si esaurisce. È un’esperienza non priva di un certo fascino morboso. Per gli psichiatri ha un nome preciso: si chiama 'anoressia mentale’ e miete numerose vittime, specie tra le adolescenti.
59 Cf. H.M. Shelton, Digiunare per guarire, Roma 1981 (Shelton è il fondatore della Health School di Chicago ed è considerato uno dei più importanti igienisti viventi; al digiuno attribuisce una straordinaria efficacia terapeutica; il suo sistema è adottato da molti medici che prescrivono il digiuno come terapia); A. Cott, Digiuno, via di salute, Como 1982, con ampia appendice bibliografica e documentaria.
60 È l’osservazione di un rabbino contemporaneo, il quale si dichiara sorpreso nel trovare nei vangeli così poca «dottrina» e tanto, invece, a proposito del guarire e del mangiare: L. Blue, A taste of heaven. Adventures in Food and Faith, London 1977, p. 33.
61 Cf. D. Gorce, Corps (spiritualité et hygiène), in Dictionn. de Spirit.,II-2, Paris 1953, c. 2342.
62 Una panoramica storica equilibrata degli atteggiamenti cristiani verso il corpo, con particolare interesse al periodo medievale, è offerta da F. Bottomley, Altitudes to the Body in Western Christendom, London 1979.
63 È già istruttiva la prospettiva linguistico-lessicale: «L’ebraico non ha un termine per indicare il corpo. Questo dipende dal fatto che nel pensiero dell’Antico Testamento la distinzione tra materia e forma non viene mai sottolineata. Così pure, l’uomo non immagina se stesso come colui che si forma come individuo in possesso della massima perfezione possibile, partendo dalla materia che gli è propria. L’artista che dà forma all’argilla non è l’uomo; Dio è colui che può mandarla in frantumi. E neppure l’uomo concepisce se stesso primariamente come un individuo distinto da altri, quasi che fosse essenzialmente un microcosmo. Infine, manca la distinzione tra corpo e un io vero e proprio, come se l’uomo fosse quello che è prescindendo dal suo corpo carnale»: E. Schweizer, sôma, in Grande lessico del N.T., vol. XIII, Brescia 1981, c. 755. Cf. anche J.H.T. Robinson, Il corpo, Torino 1967, pp. 13-16. Per l’antropologia veterotestamentaria, cf. W.H. Schmidt, Dizionario biblico. Teologia dell’A.T., Milano 1981, alla voce ‘carne’, p. 54 s.
64 Diversa è la concezione platonica, riassunta nel mito, esposto nel Fedro, della caduta dell’anima nel corpo. Il mito è stato spesso ripreso nella patristica orientale, specialmente da Origene. Ma anche questa concezione presuppone la nozione della strumentalità del corpo: nello stato di caduta, dovuto al peccato, l’anima ha bisogno del corpo e le è indispensabile valersi dei suoi servizi.
65 Il nudo gotico non deve niente al nudo classico. K. Clark, The nude, London 1956, lo chiama «the Alternative Convention», e rileva le analogie con l’architettura gotica e le curve ogivali. Anche secondo l’autorevole storico dell’arte A. Hauser, l’arte gotica mostra una sensibilità, un’intimità di esperienza, un’interiorità di sentimento, sconosciute anche al più sensibile artista del mondo antico. A suo avviso, «questa sensibilità è il particolare effetto di un’interpretazione dello spiritualismo cristiano e del sensualismo che si risveglia nell’arte gotica», A. Hauser, The Social History of Art, vol. I, London 1962, p. 221 s.
66 «È difficile trovare un’epoca della storia dell’Occidente la cui letteratura abbondi in descrizioni della bellezza del corpo nudo, del vestirsi e dello spogliarsi, di bagni di eroi ad opera di donne e ragazze, di notti di nozze e di copule, di visite e di inviti a letto, come fa la poesia cavalleresca e il medioevo così rigido moralmente [...]. La poesia d’amore cavalleresca è, nonostante il suo sensualismo, completamente medievale e cristiana», A. Hauser, cit., p. 198.
67 Cf. A.O. Lovejoy, The Great Chain of Being, Cambridge, Mass. 1936.
68 Secondo lo storico Michel de Certeau, la spaccatura moderna, che si è prodotta tra la fine del sec. xv e l’inizio del xvii sec., può essere espressa facendo ricorso a un bel mito antico e medievale: «Un albero rovesciato rappresenta il corpo. Celeste ne è la radice, e terrestre il fogliame. Visto dall’alto, questo albero è uno, dal basso è plurale. Una simbolica celeste tiene la sua unità. La spaccatura sarebbe la sezione del tronco. La simbologia si isola, astratta rappresentazione, o si dissolve, sospetta credenza. Ridotto alla sua parte terrestre, l’albero si spande al suolo, in elementi slegati e disseminati. Ormai, con questi frammenti messi in mostra al modo di un lessico, con questo vocabolario corporeo di teste, cuori, ventri, o mani, si può comporre un numero indefinito di corpi. Mille combinazioni sono possibili. Sono i corpi barocchi, ma anche i primi corpi scientifici, per esempio i montaggi della medicina che, nel sec. xvii, mettono insieme diversi elementi corporei secondo le leggi di una fisica da choc. Con pezzi separati, si producono corpi inventati secondo un modello meccanico che sostituisce la simbolica antica». L’intervista con de Certeau è contenuta nell’articolo: Histoires de corps, nel fascicolo monografico di Esprit (n. 62, febbraio 1982) dedicato a Le corps... entre illusions et savoirs, pp. 179-185.
69 B. Pascal, Il buon uso delle malattie, Brescia 1959. La sorella di Pascal riporta che, durante la sua ultima malattia, a coloro che gli esprimevano la loro pena, rispondeva che «quanto a lui, non ne aveva alcuna, e che anzi aveva timore di guarire [...]. Perché conosco il pericolo della salute e i vantaggi della malattia [...]. Non mi compiangete: la malattia è lo stato naturale dei cristiani perché si è in essa come si dovrebbe sempre essere, cioè nella sofferenza, nei mali, nella privazione di tutti i beni e dei piaceri dei sensi, esenti da tutte le passioni, senza ambizione, senza avarizia e nell’attesa continua della morte. Non è così che i cristiani dovrebbero passare la loro vita? non è una grande felicità quando si è per necessità in uno stato in cui si ha l’obbligo di essere? Non si ha altro da fare che sottomettervisi umilmente e pacificamente»: M.me Perrier, Vie de Blaise Pascal, Paris 1923, t. 1, pp. 109-110.
70 Per una rassegna documentata dell’atteggiamento morale richiesto al cristiano malato da tale letteratura ascetica, cf. S. Spinsanti, Etica cristiana della malattia, Roma 1971, pp. 25-48.
71 I discorsi sulla provvidenzialità della malattia possono raggiungere degli eccessi veramente irritanti per la nostra sensibilità. Un esempio, tra i tanti possibili: «Voglio farti persuaso di una tale verità che al primo aspetto ti parrà strana, e sai qual è? È questa: che tu sei più fortunato di chi gode buona salute, ricchezze e onori [...]. La ringraziasti mai la Provvidenza perché ti mise in tale stato che ti fa come alieno al mondo, e perché ti ha mandato questa malattia per distaccartene affatto, e forse acciocché tu non corressi pericolo di andare coi ciechi mondani alla perdizione?», E. Guerra, Gesù al cuore dell’ammalato, Bologna, s.d., p. 21 s.
72 Cf. R. Plus, La folie de la Croix, Paris 1955, p. 14. Sullo sviluppo storico della finalità apostolica della sofferenza cristiana, cf. Guzman del Val, El valor apostólico del sufrimiento, Roma 1963 (tesi inedita nella P.U.G.).
73 H. Bremond, Histoire littéraire du sentiment réligieux en France, III: L’École française, Paris 1923, p. 23.
74 H. Bremond, ibid., p. 29.
75 H. Bremond, ibid., p. 360.
76 Condren, citato da J. Galy: Le sacrifice dans l’École française de Spiritualité, Paris 1951, p. 241.
77 Olier, Lettres, II, p. 158.
78 Olier, Introduction à la vie chrétienne, cit. da Pourrat, La spiritualité moderne, III, Paris 1927, p. 54.
79 Condren, Lettres spirituelles, passim; cit. da Bremond, op. cit., p. 372.
80 Olier, Lettres, I, p. 426.
81 Cf. Pourrat, La spiritualité chrétienne, cit., p. 535.
82 Condren, Considerations sur les mystères de Jésus-Christ, Paris 1882, p. 74.
83 J. Galy, Le sacrifice dans l’École française de Spiritualité, cit., p. 241.
84 J.B. Bossuet, Réflexions sur l’agonie de Jésus Christ, in Doctrine spirituelle, Paris 1908, p. 230.
85 Bossuet, ibid., p. 246.
86 Bremond, Histoire littéraire..., op. cit., p. 387.
87 Il termine ‘dolorismo’ fu lanciato da Paul Souday nella critica a La possession du monde di Duhamel. Egli lo definiva come «la teoria dell'utilità, della necessità, dell’eccellenza del dolore». Il neologismo di Souday è divenuto usuale dopo essere stato ripreso da Julien Teppe, che pubblicò nel 1935 il suo Manifesto del Dolorismo sotto il titolo Apologie pour l’anormal, poi una Revue doloriste, e infine il suo testamento filosofico, il Manuel du désespoir. Il Vocabulaire philosophique del Lalande definisce il dolorismo come una «dottrina che attribuisce un alto valore morale, estetico e soprattutto intellettuale al dolore — principalmente al dolore fisico —, non soltanto perché rende l’uomo sensibile alle sofferenze altrui, ma perché ferma le pulsioni della vita animale e permette così allo spirito di acquistare un’egemonia particolarmente efficace per la creazione artistica e letteraria». Per una informazione esauriente sull’origine del dolorismo e le prime vicende di questo movimento, cf. G. de Lacaze-Duthiers, Introduction à une bibliographie du Dolorisme, Paris 1946.
88 R. Regamey, Dolorisme?, in Présences 71 (1960), pp. 3-12.
89 La più esauriente raccolta di materiali e discussione critica è offerta dal saggio di B. Haley, The healthy body and Victorian culture, Cambridge-London 1978. È utile tener presente la definizione di lavoro della salute vittoriana utilizzata dallo stesso Haley: «Salute è lo stato di crescita e sviluppo costituzionali in cui i sistemi corporei e le facoltà mentali inter-operano armoniosamente sotto la spinta diretta della forza dell’energia vitale o di quella indiretta della volontà morale, o di ambedue. I suoi segni sono, soggettivamente, un senso di interezza e di disinvolta capacità e, esternamente, la produzione di un utile, creativo lavoro. Tutto ciò è espresso più semplicemente nel detto: mens sana in corpore sano» (p. 21).
90 H. Spencer, Education: Intellectual, Moral, and Physical, Appleton 1860, p. 222.
91 Th. Carlyle, On Heroes and Hero-worship, London 1841; trad. it., Torino 1941.
92 «Il suo ideale è un uomo che teme Dio ed è in grado di percorrere mille miglia in mille ore; che respira la libera aria di Dio sulla ricca terra di Dio, e che allo stesso tempo può colpire uno sciocco, curare un cavallo e far girare le carte da poker intorno alle dita»: così T.C. Sandars, recensendo il romanzo di Kingsley, Two Years Ago, sul Saturday Review (21 febbraio 1857).
93 Charles Kingsley: His Letters and Memories of His Life, London 1879, I, p. 267.
94 Ivi, p. 87.
95 Ivi, II, p. 259.
96 J.H. Newman, Grammar of Assent, London 1870 (trad. it., Brescia). La polemica tra Kingsley e Newman è stata esaminata nei suoi presupposti filosofici da W. Houghton, The Issue between Kingsley and Newman, in R.O. Preyer (ed.), Victorian Literature: Selected Essays, New York 1967, pp. 1-12.
97 J.H. Newman, The Idea of a University Defined and Illustrated, 1852; nuova ed. New York 1947, p. 450.
98 Ibid., p. 378.
99 La perfezione intellettuale «è quasi profetica per la sua conoscenza della storia; raggiunge quasi l’esame di coscienza per la sua conoscenza della natura umana; ha quasi una carità soprannaturale per la sua libertà dalla grettezza e dal pregiudizio; ha quasi la risposta della fede, perché niente la può spaventare; ha quasi la bellezza e l’armonia della contemplazione celeste, tanto intima è con l’eterno ordine delle cose e con la musica delle sfere»: ibid., p. 123. Quasi...: ma è proprio quel quasi che costituisce tutta la differenza!
100 La parzialità è ammessa da Barth stesso nella prefazione al tomo 4 del terzo volume. Avverte che non bisogna aspettare di trovarvi un’etica cristiana completa, in quanto si limita alla sola prospettiva creaturale. Le pagine che ci interessano si trovano nel vol. 16° della traduzione francese: K. Barth, Dogmatique, vol. III/4, parte II, Genève 1965.
101 L’uomo che è oggetto del primo intervento di grazia non è l’uomo ‘naturale’, ma già l’uomo destinato alla salvezza. La creazione è stata fatta in vista del Popolo di Dio. Con la creazione Dio ha preparato il teatro in cui si sarebbe sviluppato il destino d’Israele. Cf. K. Barth, Die Kirchliche Dogmatik, III Die Lehre von der Schöpfung, 1. Teil, Zollikon-Zürich 1957, pp. 106-107 e 261-262.
102 Dal momento che Israele ha pensato i suoi rapporti con Jahvé nel quadro di un’alleanza, anche il dono della terra da abitare nella sicurezza e tutti i presupposti ‘naturali’ all’esistenza dell’uomo furono visti come frutto di un’alleanza, e precisamente di quella stipulata con Noè e con tutti i suoi discendenti, dopo la distruzione della vecchia umanità (cf. Gen. 8,20; 9,17). Il significato salvifico dell’alleanza con Noè è stato sottolineato con insistenza da J. Daniélou (cf. ad es., Les saints païens de l’Ancien Testament, Paris 1956, pp. 55 ss.). Cf. anche G. Lambert, Il n’y aura plus jamais de déluge, in N.R.Th. 87 (1955), pp. 601 ss.
103 «Tra tutti questi benefici, ce n’è uno che li riassume e li domina e, con la sua natura complessa, li situa tutti in una prospettiva determinata: è il possesso della Terra Promessa», J. L’Hour, La morale de l’Alliance, Paris 1966, p. 87.
104 Cf. K. Barth, Dogmatique, trad. franc., vol. 16°, Genève 1965, p. 17.
105 K. Barth, ibid., pp. 14-15.
106 K. Barth, ibid., p. 37. Questo atteggiamento etico non si confonde con letica ‘vitalista’ propugnata, per esempio, da A. Schweitzer, secondo cui il bene consiste nel mantenere e favorire la vita, e il male nel distruggerla e ostacolarla. Il motivo del nostro atteggiamento etico non è la vita, ma il comandamento di Dio a proposito della vita.
107 Ecco per esempio, nella descrizione di un rappresentante eminente della corrente nota come ‘medicina antropologica’, che cosa implica dal punto di vista organico Tesser in salute: «L’uomo in salute prova un sentimento di gioia e di forza. Egli vive senza sentire come, senza sentire i suoi organi, in uno slancio naturale che lo spinge a svilupparsi e a compiersi. È all’altezza di parecchie difficoltà e si trova largamente preservato da numerosi pericoli; soprattutto, è pronto a darsi al lavoro e all’azione gioiosamente, anche senza pena», R. Siebeck, Medizin in Bewegung. Klinische Erkenntnisse und ärztliche Aufgaben, Hannover 1949, p. 486.
108 Molto incisive alcune osservazioni di Barth: «Si pensa non senza sgomento alla folla di gente per la quale la salute in sé e come tale è uno scopo essenziale, o anche lo scopo per eccellenza, e che non vive che per essa. Poiché non cessano d’impietosirsi sul loro corpo e sul loro stato psichico, poiché si interessano unicamente a ciò che può loro far del bene o nuocere, ecco che il sole, l’aria e l’acqua, la virtù delle piante e dei frutti, la bellezza della pelle abbronzata e la potenza dei muscoli ben temprati, ma anche forse una quantità di possibilità della medicina e della psicologia, senza parlare dei rimedi da ciarlatano, sono diventati per essi delle specie di demoni benefici ai quali accordano la loro attenzione e il loro credito, e che si mettono a coltivare con una passione e un entusiasmo che tradiscono fino a che punto essi sono, in realtà, dei malati», K. Barth, ibid., p. 38. L’acuto teologo anticipa una critica al movimento salutista di massa che è diventato attuale solo di recente.
109 K. Barth, ibid., p. 39.
110 K. Barth, ibid., p. 39.
111 K. Barth, ibid., p. 40.
112 Cf. K. Barth, ibid., p. 41. Barth fa un importante sviluppo di questa dottrina: la salute, in quanto forza di essere uomo, non è solo un affare personale, ma anche sociale, così che il rispetto della vita implica, necessariamente, la responsabilità di vegliare sulle condizioni generali dell’esistenza: «Il principio mens sana in corpore sano può essere perfettamente egoista e barbaro, se non vale che per l’individuo, se non significa anche: in societate sana» (pp. 44-45). In una società in cui gli uni sono condannati ad essere malati, gli altri non possono voler essere in salute con buona coscienza.
113 Cf. B. Thum-K. Hörmann, Leib, in Lexikon der christlichen Moral, Innsbruck-Wien 1976, 964-971.
114 Cf. il capitolo dedicato all’integrazione del corpo in V. Truhlar, Concetti fondamentali di teologia spirituale, Brescia 1971, p. 72: «Bisogna inserire anche il corpo nella ricerca della via esperienziale, mettere anch’esso nell’impegno generale dell’uomo intero, affinché non sia un ostacolo, ma piuttosto un elemento che porta all’esperienza e che si unisce armonicamente nella percezione del proprio essere e dell’essere assoluto, nonché nell’estensione di questa percezione e di questo senso, in tutti i campi della vita umana [...]. All’interno della realtà umana anche il corpo viene percepito e come penetrato del senso dell’assoluto (Dio)». La seconda edizione dell’opera di Truhlar, Brescia 19822, è preceduta da un saggio di S. Spinsanti, che discute i vantaggi di un approccio esistenziale-concreto-corporeo della vita spirituale.
115 V. Truhlar, Lessico di spiritualità, Brescia 1975, p. 141.
116 J.A.T. Robinson, Il corpo. Studio sulla teologia di san Paolo, Torino 1967.
117 Citiamo, tra le più importanti: E. Schroten, Kerker of Tempel? Over te zin van de lichamelijkheid, Rotterdam 1970; K.-A. Bauer, Leiblichkeit. Das Ende aller Werke Gottes, Gütersloh 1971; S. Heine, Leibkafter Glaube. Ein Beitrag zur Verständnis der theologischen Konzeption des Paulus, Wien 1976; G. Bof, Una antropologia cristiana nelle lettere di S. Paolo, Brescia 1976.
118 G. Bof, Una antropologia cristiana..., cit., p. 95.
119 R. Bultmann, Theologie des Neuen Testamentes, Tübingen 1958, p. 195.
120 E. Käsemann, Prospettive paoline, Brescia 1972.
121 La catechesi del mercoledì sul corpo è raccolta in un volumetto dal titolo Teologia del corpo (ed. Paoline, collana ‘Magistero’), Roma 1982.
122 Le suggestioni più feconde per un organico ripensamento teologico della corporeità sono venute da J.B. Metz: Corporeità, in Dizionario teologico I, Brescia 1966, 331-339; Id., Caro cardo salutis, Brescia 1968; Id., Zur Metaphysik der menschlichen Leiblichkeit, in Arzt und Christ (1958) 78-84. Vedi anche: K. Rahner-A. Goerres, Il corpo nel piano della redenzione, Brescia 1969.
123 Cf. il volumetto: Teologia del corpo, cit.
124 Da segnalare particolarmente l’opera di J. Money e della ‘Clinica per l’identità di genere’ fondata alla John Hopkins University. Si è dedicato soprattutto allo studio di individui che mostrano una discordanza tra le varie componenti del sesso biologico, in particolare degli ermafroditi, che possiedono gli organi di ambedue i sessi. Nel presentare le acquisizioni scientifiche sul processo di acquisizione dell’identità sessuale e sulle sue disfunzioni seguiamo l’opera di J. Money-A.A. Ehrhardt, Uomo, donna, ragazzo, ragazza, Milano 1976, concepita in una prospettiva interdisciplinare.
125 «La nostra percezione di noi stessi quali individui unici — della nostra identità — è l’essenza di noi medesimi, al cui centro sta la nostra percezione di noi medesimi quali maschi o femmine, vale a dire la nostra identità di genere. È l’àncora della nostra salute emozionale, presente nell’amore e nel gioco, nei rapporti con gli altri. La nostra identità di genere informa di sé tutto quanto facciamo e diciamo. La nostra comprensione di noi medesimi e degli altri è limitata dall’intendimento del significato che ha — per noi e per loro — ‘essere uomo o essere donna’»: J. Money-P. Tucker, Essere uomo, essere donna, Milano 1980, p. 6 s.
126 «È prematuro attribuire tutti gli aspetti dell’identità di genere al periodo post-natale della differenziazione sessuale. Abbiamo però prove sufficienti, forniteci dall’ermafroditismo umano, per affermare che la maggior parte della differenziazione dell’identità di genere nell’uomo avviene durante il periodo post-natale. Ciò avverrebbe come nello sviluppo del linguaggio [...]. I casi studiati erano costituiti da coppie di ermafroditi, identici dal punto di vista cromosomico e gonadico e per altre caratteristiche, ma discordanti per assegnazione del sesso, storia biografica e identità di genere. Il contrasto tra i due individui di ciascuna coppia, per quanto concerne il ruolo e l’identità di genere, è tale che difficilmente si riesce a comprendere che essi abbiano una situazione analoga di patologia sessuale»: J. Money-A.A. Ehrhardt, cit., p. 35. Il confronto dimostra quanto sia determinante la fase post-natale nella differenziazione dell’identità di genere. Si potrebbe quasi dire che dalla stessa creta si può formare un uomo o una donna...
127 Le turbe dell’identità e dell’orientamento sessuali sono molto più frequenti tra gli uomini che tra le donne. Dagli studi comparativi di natura clinica e sociologica sull’incidenza dei disordini dell’identità sessuale risulta una proporzione di 3 o 4 maschi per una donna. Sono statistiche che riguardano sia i transessuali che gli omosessuali. Le parafilie, poi, sono distorsioni quasi esclusivamente maschili. È come se, per la natura, fosse un compito più difficile differenziare l’identità maschile rispetto a quella femminile. Qualunque sia la spiegazione che se ne voglia adottare, resta un fatto incontestabile la maggiore fragilità psicosessuale del maschio.
128 Per un’analisi delle conseguenze morali e giuridiche della nuova legislazione, cf. G. Perico, Il fenomeno della transessualità. Rilievi clinici, giuridici e morali, in A. Bottani (ed.), Educazione alla sessualità, vol. II, Milano 1982, pp. 987-999.
129 La resistenza dei medici ad adire le richieste dei transessuali può ricevere una spiegazione anche dal biologismo che predomina nel mondo medico, rendendo così i sanitari incapaci di valutare in modo appropriato l’importanza dell’identità sessuale. I medici tendono a privilegiare la sessualità morfologico-ormonale. In tal modo si rischia di cadere sotto la tirannia delle gonadi.
130 Cf. B. Häring, Omosessualità, in Dizionario enciclopedico di teologia morale, Roma 1974, 682-688. Prevale attualmente nel discorso teologico la tendenza a evitare il ricorso alla nozione di ‘legge naturale’, a favore di una fondazione dei valori mediante categorie personaliste. Tuttavia l’uomo è, oltre che culturale per natura, anche ‘naturale per cultura’, secondo l’espressione di E. Morin: con nuove giustificazioni culturali continua a riferirsi alla natura come fondamento stabile dell’essere e dei comportamenti.
131 Cf. J. Money-P. Tucker, Essere uomo, essere donna, Milano 1980, p. 9. La funzione dello stereotipo sessuale viene considerata nell’ambito dell’identità di genere: «Allorché il nostro schema si adatta allo stereotipo, otteniamo il supporto della società per il nostro senso di identità, e per la stessa ragione un mutamento nello stereotipo fa stridere il senso che abbiamo di noi stessi. Come la colonna vertebrale, i nostri schemi dovrebbero essere abbastanza rigidi da sostenerci, ma anche abbastanza flessibili da permetterci di piegarci».
132 J.M. Aubert, La donna: antifemminismo e cristianesimo, Assisi 1976.
133 Per quanto riguarda la revisione dei ruoli sessuali in modo conforme alla proposta originaria di Gesù, seguiamo H. Wolff, Gesù, la maschilità esemplare, Brescia 1979. È una rilettura del profilo psicosessuale di Gesù fatta sulla base della psicologia junghiana. Anche altri studi recenti hanno rilevato una connivenza profonda tra Gesù e le donne, e la disponibilità di queste ultime, a differenza del mondo maschile che attorniava Gesù, verso la sua proposta sovversiva nei confronti dell’ordine sessuale esistente. Cf. M. Hébrard, Dieu et les femmes, Paris 1982; F. Quéré, Les femmes de l'Evangile, Paris 1982.
134 È stato un pregiudizio positivista, divulgato da Cesare Lombroso, secondo cui si tatua soltanto il criminale o il deviato mentale. Tutti i popoli e tutte le culture hanno avuto, in un capitolo della loro storia, la fase della pittura somatica e del tatuaggio. Tale momento è stato poi per lo più seguito dal divieto, che ha conferito alla pratica un sapore di cosa perversa, carica di un senso di sfida e di non conformismo. Oggi la pratica del tatuaggio sta prendendo l’aspetto di una vera e propria arte corporea, a cui non è aliena una certa aggressività sociale (cf. più sotto, nota 5).
135 Un problema particolare, di recente emerso all’attenzione mondiale, è quello delle mutilazioni sessuali. Mentre quella maschile — la circoncisione — tende a perdere la sua valenza religiosa per essere adottata correntemente come misura igienica (specialmente negli Stati Uniti), le mutilazioni femminili sono denunciate come forme di tortura. Si tratta dell’eccisione del clitoride e dell’infibulazione, cioè la cucitura delle grandi labbra, destinata a preservare la verginità. Queste pratiche tradizionali, comuni in Africa dove 80 milioni di donne sono condannate ad essere eccise e/o infibulate, sono diventate note in Occidente in seguito all’immigrazione. Sono le donne stesse a domandare queste mutilazioni, perché senza di esse non vengono considerate appartenenti al gruppo sociale, e quindi non possono sposarsi. Non solo i musulmani, ma anche cristiani (copti) e pagani praticano queste mutilazioni, di cui si conoscono male le radici lontane. Le mutilazioni genitali inflitte alle bambine non sono che la forma più visibile, più crudele e più traumatizzante dell’oppressione che pesa sulle donne da millenni. Affrontando questo problema nel 1958, l’Organizzazione Mondiale della Sanità si è dichiarata incompetente a risolverlo. Un seminario, organizzato a Khartum nel 1979, sotto gli auspici dell’oms, ha ribadito che le interdizioni si rivelano inefficaci. Alcuni paesi hanno legiferato invano contro le mutilazioni già da parecchi decenni. È necessaria una rieducazione in profondità, a cominciare dalle donne stesse. Perché tali campagne abbiano successo, bisogna che le pratiche mutilanti siano denunciate non in nome della libertà individuale, ma piuttosto della salute fisica e mentale.
136 V. Ebin, The body decorated, London 1979.
137 «L’abito, benché spesso assurdo, produce piaceri che sovrastano il disagio e i disordini organici. Tutti i nostri tentativi di superare questa ossessione, razionalizzando la natura dell’abito, sono falliti. L’utilitarista vede nell’abito niente altro che una protezione dagli elementi, benché l’esempio di razze che sfidano i rigori di un clima freddo senza il beneficio di vestiti tenda a screditare questa credenza. Ugualmente insostenibile è l’argomento che l’abitudine di portare dei vestiti sia dovuta alla modestia. Basta ricordare che diverse tribù nude indossano abiti solo per danze il cui scopo sia di eccitare la passione del sesso opposto. L’ornamento non aiuta a proteggere o a celare il corpo. Al contrario, sotto- linea la sua nudità»: B. Rudofsky, The unfashionable human body, London 1972 (trad. it.: Il corpo incompiuto, Milano 1975). Cf. M.A. Descamps, Le nu et le vêtement, Paris 1974.
138 La decorazione del corpo non è del tutto scomparsa neppure in Occidente, anche se è ispirata da motivazioni più sofisticate che presso le società primitive. Così gli artisti della body-art usano il corpo umano come tela, scultura, scena; il corpo è esibito, truccato, dipinto, travestito, sfregiato; volti e gesti vengono impiegati per esprimere umiliazioni, estasi, solitudini, orrori. È un’arte che vuol comunicare soprattutto un’azione critica contro la società. La stessa finalità è rintracciabile nella moda punk, ostentata provocatoriamente da alcuni gruppi di giovani.
139 Cf. G. Dorfles, Moda e modi, Milano 1980.
140 Cf. B. Häring, La legge di Cristo, vol. II, Brescia 1962, pp. 525-527. Häring considera benevolmente, con la sua solita moderazione, l’osservanza della moda e la cura del corpo, purché siano osservati i «giusti limiti rispetto al troppo o al troppo poco» e il motivo sia onesto («spesso solo l’intenzione e la disposizione d’animo rendono veramente pericolosa una moda di per sé indifferente o poco colpevole»).
141 «Dopo la perdita dell’innocenza nel paradiso terrestre, la nudità non può oramai considerarsi del tutto innocua (cf. Gen. 2,25); e precisamente, la moderna esibizione del nudo nel campo della moda, dell’arte, dei divertimenti e nello sport, come nei film e nelle danze, è tutt’altro che intesa a fini innocui. Essa è seduzione e forma di idolatria; ma rappresenta, in realtà, una degradazione, che deruba il corpo del pudore e della sua vera bellezza, essenziale emanazione dello spirito»; B. Häring, La legge di Cristo, vol. IIIi, Brescia 1963, p. 264. Nelle considerazioni catechetiche che Giovanni Paolo II ha dedicato al corpo (cf. Teologia del corpo, Roma 1982) la nudità — in riferimento a Gen. 2,25 — è cantata per il suo significato antropologico, in quanto evidenzia la rivelazione e la scoperta del significato sponsale del corpo. La nudità corrisponde alla «pienezza di coscienza del significato del corpo», che è quello della ‘donazione sponsale’; l’uomo nudo, senza le sovrastrutture e le miserie del suo peccato (la ‘vergogna’), intuisce che la donazione d’amore lo rende simile al Dio che lo ama (e in questo egli si rivela ‘immagine di Dio’). L’uomo è invitato a tornare simbolicamente ‘nudo’, cioè a riscoprire la purezza del suo donarsi nello splendore dell’amore.
142 Per un’analisi delle diverse immagini del corpo usate dalla pubblicità, cf. J. Milfort, Le corps dans la pubblicité, in W. Pasini, Eros et changement, cit., p. 37-48. Cf. anche M. Metoudi, La femme pubblicitaire: sport et chinchilla, in Ésprit n. 62 (febbraio 1982), 34-50. Per una documentazione del trattamento che riceve l’immagine del corpo nella civiltà di massa, cf. N. Aspesi-L. Tornabuoni, Corpo a corpo, Milano 1978: il volume illustra, con materiali figurativi e scritti, i fenomeni e le contraddizioni della riscoperta del corpo nel costume italiano contemporaneo.
143 Non è necessario voler, a tutti i costi, trovare giustificazioni spirituali ad asceti dediti alle pratiche più fantasiose di mortificazione del corpo. Alcuni comportamenti confinano inequivocabilmente con la psicopatologia. Qualche apologeta preferisce, invece, classificarli come ‘eccezionali’, piuttosto che ‘anormali’, ritenendo che sia necessario che all’orizzonte della chiesa si levino, di tanto in tanto, quei giganti dell’ascesi che, benché ancora nella carne, sembrano non esservi più; preferiscono vedere in certe forme esasperate di ascesi corporea un’espressione della ‘follia della croce’ che sfida la follia del mondo, cf. D. Gorce, Corps (spiritualité et hygiène), in Dictionn. de Spirit. II-2, Paris 1953, c. 2343.
144 Cf. la concezione tantrica del ‘corpo sottile’, divulgata in Occidente dalla teosofia: il corpo fisico sarebbe solo la esteriorizzazione di un’invisibile incorporazione della vita psichica; anche il ‘corpo sottile’ sarebbe di ordine materiale, ma di una natura più dinamica della sua cornice fisica sensibile: cf. G.R.S. Mead, The doctrine of the subtle body in Western tradition, London 1967. Un’esposizione molto informativa sull’insieme delle dottrine esoteriche sul corpo è fornita da D.T. Tansley, The subtle body, London 1977.
145 I vertici di maggiore alienazione furono raggiunti con il successo arriso nella seconda metà dell’Ottocento all’opera di Schreber, medico e studioso di pedagogia. Egli pensava che i suoi tempi fossero moralmente fiacchi e in decadenza a causa soprattutto della debolezza che caratterizzava l’educazione e la disciplina dei bambini. A suo avviso, niente è più importante in un bambino dell’obbedienza e della disciplina, a cominciare da quella che consiste nell’imporre determinate posizioni del corpo. Escogitò strumenti ‘correttivi’, per ‘domare le cattive abitudini’, simili piuttosto a strumenti di tortura: cf. documentazione in M. Schatzman, La famiglia che uccide, Milano 1973.
146 La formula, che ha occupato l’universo pedadogico per diversi decenni, risale a G. Hebert, L’education physique, virile et morale par la méthode naturelle, Paris 1936.
147 Il termine, coniato da Thérèse Bertherat (Guarire con l’antiginnastica, Milano 1978) è, per sua stessa ammissione, inadeguato; evoca solo imperfettamente i metodi ‘naturali’ ai quali fanno ricorso coloro che considerano il corpo come un’unità indissolubile. Ancor meno lascia intendere quanto di positivo viene affermato sull’uomo: l’equazione pratica tra il corpo di un essere e la sua vita; l’incapacità di vivere in pienezza, se prima non sono state risvegliate le zone morte del corpo e tolte le corazze muscolari. Sotto il termine riduttivo di ‘antiginnastica’ si nasconde il progetto utopico di un’educazione alternativa alla corporeità, che porti all’equiparazione vissuta tra ‘essere corpo’ ed ‘essere’: «Prendere coscienza del proprio corpo è accedere a tutto il proprio essere poiché corpo e anima, psiche e fisico, e anche forza e debolezza, rappresentano non la dualità dell’essere, ma la sua unità». L’insieme delle tecniche che usano movimenti liberi e coscienti per riconciliare il corpo con le proprie leggi ha preso più appropriatamente il nome di ‘ginnastiche dolci’. Ampia documentazione in M.-T. Houareau, Ginnastiche dolci, Como 1981.
148 È il titolo di un volume di J. Le Boulch, Verso una scienza del movimento umano. Introduzione alla psicocinetica, Roma 1975. Le Boulch e P. Vayer sono i due corifei del movimento. Pur lavorando in campi differenti e con mezzi differenti, concordano nell’affermare che, nella presenza al mondo, l’uomo ha nel corpo un riferimento permanente; di conseguenza, l’educazione dell’essere attraverso il suo corpo costituisce la chiave di volta di ogni azione educativa o rieducativa. Cf. anche A. Maigre-J. Destrooper, L’educazione psicomotoria, Roma 1978 e J. Berge, Vivre son corps. Pour une pédagogie du mouvement, Paris 1975.
149 Mutuiamo le riflessioni sulla funzione espressiva del movimento dal volume di I. Bartenieff, Body Movement: Coping with the Environment, New York 1980. La base dottrinale è costituita dall’insegnamento del coreografo e filosofo Rudolf Laban (1879-1958), un educatore estremamente innovativo e carismatico. Partecipò alle maggiori attività artistiche europee, specialmente allo sviluppo della danza moderna. Osservò il processo del movimento in tutti gli aspetti della vita: arti marziali, lavoro in fabbrica, modelli ritmici delle danze popolari, comportamento di persone con disturbi emotivi. Creò un sistema di notazione per i movimenti del corpo analogo a quello delle notazioni musicali (Labananalysis). Sulla sua scia Alan Lomax, insieme a I. Bartenieff, ha studiato e sistematizzato gli stili di movimento delle diverse culture. Dai principi di Laban si è sviluppata anche la dance therapy. Nel 1966 il Laban Institute tenne la sua prima conferenza sul ‘Movimento come terapia’, nell’ambito della quale venne esplorata la possibilità di usare la terapia del movimento con bambini e adulti affetti da disturbi emotivi.
150 Fino a non molto tempo fa bisognava ricorrere a culture primitive ed esotiche per osservare la funzione sociale della danza. Attualmente la danza tende ad acquistare nella società moderna la funzione che ha avuto e ha tutt’ora in altre culture meno meccanizzate e meno oppresse dal senso di colpa: «Gli uomini e le donne, sia giovani che vecchi, hanno scoperto che prender parte a un’attività di danza non è riservato ai danzatori professionisti, ma che tutti vi possono trovare lo stimolo a un rinnovamento della vita, un impulso all’azione creativa e una migliore comprensione della complessa realtà della natura umana, attraverso un agire concreto», F. Boas (e altri), La funzione sociale della danza, Milano 1981, p. 4.
151 «E che cos’è questa febbre, capace di afferrare e agitare fino alla frenesia ogni creatura, se non la manifestazione, spesso esplosiva, dell’istinto di Vita, che non aspira che a rigettare tutta la dualità del temporale, per ritrovare d’un tratto l’unità primeva, in cui corpi e anime, creatore e creazione, visibile e invisibile si ritrovano e si saldano, al di fuori del tempo, in un’unica estasi. La danza proclama e celebra l’identificazione all’imperituro», Danse, in I. Chevalier-A. Gheerbrant, Dictionnaire des symboles, Paris 1982.
152 Cf. L. Gedda, Lo sport nella parola di Pio XII, Roma 1953. Secondo Pio XII, «vi sono virtù naturali e cristiane, senza di cui lo sport non può evolversi sanamente, mentre sprofonda inevitabilmente in un materialismo angusto, sufficiente a se stesso». In un’allocuzione sull’educazione sportiva mette in guardia dall’esagerazione e «dall’errore che ritiene illimitato il diritto di disporre del proprio corpo, esponendolo per conseguenza a pericoli evidenti e a sforzi eccessivi o introducendovi, allo scopo di ottenere prestazioni non consentite dalle proprie forze, sostanze gravemente dannose, quali i forti stimolanti, che non solo cagionano all’organismo danni forse irreparabili, ma dagli stessi arbitri sono giudicate un dolo». Troviamo in questa impostazione le linee portanti della valutazione dello sport che darà la teologia morale cattolica: vedi la voce Sport, in Dizionario enciclopedico di teologia morale, Roma 1974, a cura di G. Perico.
153 La bibliografia sulla pratica del correre — e sui suoi risvolti fisici, psicologici e spirituali — è abbondante. Si veda: J. Fix, The Complete Book of Running, New York 1977; B. Glover-J. Shepherd, Jogging. Laufen als neue Bewegungstherapie, München 1979; M. Steffny, Lebens-Lauf. Laufen als neue Erfahrung mit Korper und Psyche, Köln 1979.
154 H. Sedlmayr, Perdita del centro. Le arti figurative dei secoli diciannovesimo e ventesimo come sintomo e simbolo di un’epoca, Milano 1974.
155 «Intelletto e sentimento, intelletto e istinto, fede e sapere, cuore e testa, anima e spirito vengono violentemente scissi gli uni dagli altri e si dichiarano avversari. Il desiderio di tenerli uniti, e anche la moderazione, vengono banditi, perché considerati come un sintomo che denota tiepidezza», H. Sedlmayr, ibid., p. 193.
156 «Non c’è dubbio che lo spirito moderno si sia abbandonato in questa sfera del caotico non meno profondamente di quanto non l’abbia fatto in quella dell'inorganico. Ed esso può farlo solo perché contiene in sé gli organi e le capacità sostanzialmente affini a quel mondo, che è il più basso di tutti i mondi immaginabili», ibid., p. 216.
157 G. Simmel, Die Grosstadt, trad. it. in G. Martinotti, Città e analisi sociologica, Padova 1968, p. 275.
158 Un’analisi aggiornata della psicologia dell’abitante delle grandi città è quella dovuta a W. Hellpach, L’uomo della metropoli, Milano 1960. Come caratteristiche psichiche principali egli indica: la rapidità e la fretta; la vigilanza sensoria (necessaria per una reazione rapida e precisa alle esigenze della vita urbana); l’indifferenza emotiva.
159 M. Eliade, Immagini e simboli. Saggi sul simbolismo magico-religioso, Milano 1981.
160 L’esicasmo deriva dal greco hesychía, cioè: silenzio, pace dell’unione con Dio. Sulla pratica della ‘preghiera di Gesù’, una delle più care alla spiritualità orientale russa, in particolare, cf. Un monaco della chiesa orientale, La preghiera di Gesù. Genesi, sviluppo e pratica nella tradizione bizantino-slava, Brescia 1964.
161 La documentazione è fornita da S. Tugwell, Le corps dans la prière, in La vie spirituelle, 56 (1974), pp. 879-887.
162 Cf., in questo senso, G. Moroni, Il corpo e la preghiera, Bologna 1976. Il libretto presenta esercizi pratici individuali e collettivi per una ricerca delle condizioni corporee e mentali per accogliere la preghiera. Suo presupposto è che tutto ciò che viene vissuto dalla persona nella sfera più intima viene recepito a livello fisico e che, viceversa, il corpo impone la sua presenza a ogni manifestazione, anche la più spirituale.
163 Tra le opere più qualificate sullo zen, cf. A. Watts, La via dello Zen. Milano 1959; D.T. Suzuki, Zen Buddhism, New York 1956. Bibliografia esauriente in Enciclopedia delle Religioni, vol. VI, Firenze 1970, pp. 354-356.
164 Tale è il giudizio di Th. Roszak, La nascita di una controcultura, cit., pp. 149-154.
165 K. Dürckheim, Alltag als Übung, Bern-Stuttgart 1962; Id., Hara. Die Erdmitte des Menschen, Weilheim 1964; Id., Zen und Wir, Weilheim 1961; H.M. Enomiya-Lassalle, Zen, Weg zur Erleuchtung, Wien 1960; Id., Zen Buddhismus, Köln 1966; Id., Zen-Meditation für Christen, Weilheim 1969. Sui rapporti tra zen e cristianesimo, cf. anche: H. Dumoulin, Dialogo con il buddismo zen, in Concilium, ed. it., 9/1967, pp. 167-185; W. Johnston, Dialogo con lo zen, in Concilium, ed. it., 9/1969, pp. 159-169; T. Merton, Mystics and Zen masters, New York 1967; D.T. Suzuki, Mysticism, Cristian and Buddhist, London-New York 1957.
166 Cf. H. Waldenfels, Meditazione: est e ovest, Brescia 1977. Cf. anche L. Boggio-Gilot, Psicosintesi e meditazione, Roma 1983.
167 B. Stähelin, Essere o avere. Diario metafisico, Roma 1966.
168 Questo quadro corrisponde, grosso modo, alla personalità che il sociologo G. Simmel attribuiva all’abitante delle grandi città.
169 A.M. Besnard, ‘Tu m’as façonné un corps’, in La vie spirituelle 56 (1974) p. 815.
170 Oltre all’indispensabile guida di un maestro, si può fare ricorso a guide e manuali, che già cominciano ad essere numerosi. Ci limitiamo a segnalare: K. Tilmann, Guida alla meditazione, Brescia 1975.
171 K. Dürckheim, Hara. Die Erdmitte des Menschen, cit.
172 Una fonte esauriente di notizie sullo hara è il libro di Dürckheim dedicato all’argomento. Lo hara stesso vi è così definito: «Il possesso di quella disposizione generale dell’uomo che lo mette in grado di aprirsi alle forze e all’unità della vita originaria e di mostrarle nel dominare, dare un senso e portare a compimento la propria vita. Ciò che si oppone più tenacemente all’acquisizione della forza dal centro è il restare attaccato all’io, il quale con la propria ostinazione disturba la nascita di un vero potere. Solo quando si riesce a escludere l’intrusione dell’io si produce la prestazione perfetta, in quanto frutto di una maturazione interna. La ragione non è più necessaria, la volontà tace, il cuore è diventato silenzioso; con felice sicurezza l’uomo agisce senza il proprio intervento».