Malattia

Sandro Spinsanti

MALATTIA

in Dizionario Enciclopedico di Teologia Morale

Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1990

pp. 553-559

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I - ISTANZE PER UNA NUOVA MORALE DELLA MALATTIA

1. La malattia nella teologia morale tradizionale ― La tradizionale morale manualistica si rivela carente in merito alle implicazioni morali dell’essere malato. Nei trattati scolastici se ne parla talvolta a proposito degli atti della virtù di religione o dei sacramenti, ma in chiave casistica: «Quando excusantur infirmi ab audienda Missa»; «infirmitas excusans canonicos a residentia»... 1. Al capitolo dedicato al quinto comandamento è demandata abitualmente la trattazione degli obblighi riguardo alla vita. Dopo aver parlato dei delitti contro la propria vita (suicidio, mutilazione ecc.), vi si ripete che c’è l’obbligo di curare la propria salute, ma l’obbligo grave concerne solo i mezzi ordinari 2. Questo è, grosso modo, tutto quello che si trova nei manuali tradizionali circa la morale della malattia.

La carenza si spiega col fatto che la trattazione della malattia era abitualmente demandata alla letteratura ascetico-consolatoria rivolta ai ma lati stessi e alle opere di pastorale per i sacerdoti incaricati della cura spirituale dei malati. Dobbiamo per ciò rivolgerci a questa produzione

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letteraria se vogliamo conoscere qual era l’atteggiamento morale richiesto al cristiano malato.

Rileviamo in queste opere una convergenza di fondo sull’affermazione che l’unico atteggiamento veramente cristiano è quello dell’accettazione della malattia. Il compito che si assumono gli scrittori parenetici è allora quello di industriarsi a trovare motivi per rendere plausibile ― naturalmente e soprannaturalmente ― tale accettazione. Le opere pastorali, da parte loro, forniscono al sacerdote o alla suora infermiera un arsenale di argomentazioni per convincere il malato ad accettare la sua malattia, a rassegnarsi (ricorrono costantemente vari temi: la malattia come conseguenza del peccato originale e punizione dei peccati personali, l’identificazione tra malattia e croce, il valore salvifico della malattia accettata come croce). Al malato si domanda poi di offrire la sua sofferenza perché, nell’insieme del Corpo Mistico, egli è il membro sofferente e crocifisso; unendo le sue sofferenze a quelle di Cristo, egli espia per gli altri, specialmente per i peccatori 3.

Questo è il modo tradizionale con cui si parla dei malati e ai malati. Ma negli ultimi decenni sono venuti maturando profondi fermenti nel mondo dei malati, col risultato di un passaggio a nuovi modi di considerare la malattia. Conseguente mente stiamo assistendo, negli ambienti più sensibili, a una radicale rimessa in questione di quell’atteggiamento morale che era ― e spesso è ancora ― abitualmente inculcato al cristiano malato.

La discussione si concentra attorno a due problemi focali: l’esistenza di una «spiritualità del malato» specifica, distinta dalla spiritualità cristiana comune, e la nozione di rassegnazione.

2. Esiste una «spiritualità del malato»? ― La reazione non è diretta solo contro quelle intemperanze verbali che abbondano nelle opere parenetiche, ma anche contro la concezione basilare della «buona sofferenza»; in modo particolare poi verso quanti valorizzano talmente la sofferenza nella vita spirituale, che arrivano a considerare il malato come un «privilegiato».

Certi atteggiamenti estremi, che rischiano di provocare sgradevoli fraintendimenti della concezione cristiana della sofferenza, hanno il loro entroterra teologico in una considerazione del mistero cristiano che si ferma alla croce di Cristo, invece; di andare fino alla sua risurrezione gloriosa.

Esiste, in conseguenza, il serio pericolo di spacciare per visione cristiana della sofferenza certe forme deviate e confinanti con il morboso, che possiamo catalogare sotto il nome generico di «dolorismo». E non è sorprendente il fatto che talvolta il malato stesso si trovi a suo agio in questa prospettiva: uno dei rischi; della malattia è proprio quello di conquistare il giudizio, fino a erigere la sofferenza a valore supremo. La psicologia, inoltre, ci mette in guardia contro la «regressione psicologica», che il fatto drammatico della malattia provoca in certe persone 4.

Le reazioni di chi rimette in discussione la «spiritualità del malato» sono dirette contro una visione troppo ristretta della vita del cristiano malato. Se non si vede in lui che la sua malattia, lo si imprigiona in essa, si costruisce la sua spiritualità sulla parte negativa del suo: essere, e non su quella vivente.

È sintomatica la presa di posizione di alcuni malati: «Non abbiamo bisogno di una farmacia spirituale, ma di un buon nutrimento comune. Ciò che i malati domandano non è una cappella di infermeria , ma la Chiesa. Abbiamo bisogno semplicemente di una spiritualità ecclesiale. Non domandiamo che si apra per noi una nuova scuola di spiritualità, dove tutto sia visto attraverso un'ottica di malati e in odore di ospedale. Che non ci si parli continuamente "in quanto malati", come se non si volesse sapere altro da noi; prima di essere malati siamo uomini e figli di Dio5».

Una spiritualità tagliata su misura per il malato è troppo incompleta e resta esposta alle unilateralità deformanti del dolorismo. Ciò vale anche nei confronti di una spiritualità che chieda al malato di accettare asceticamente la sua sofferenza e di offrirla apostolicamente, in continuazione alla Passione del Signore. Una spiritualità del malato

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più autentica dovrà invece parti re da una spiritualità «cristiana» comune a tutti, per poi arrivare al modo speciale in cui il malato deve viverla a causa dei condizionamenti della sua malattia.

3. È cristiana la nozione di rassegnazione? ― Il rivolgimento di pensiero in merito all’atteggiamento del cristiano di fronte alla malattia giunge fino ad attaccare lo stesso postulato basilare della dottrina tradizionale: la richiesta dell’accettazione e della rassegnazione.

La riflessione critica è partita da i vari fronti indipendenti. La teologia biblica ha studiato più profondamente il rapporto malattia-peccato, il significato dell’attività taumaturgica di Gesù, la vera portata di certe affermazioni di S. Paolo in merito al «soffrire con Cristo».

Gli studi dei liturgisti hanno fatto rilevare negli antichi formulari di preghiere una concezione della malattia diversa da quella ora comune 6.

Anche una certa «spiritualità dell’azione» ha contribuito a mostrare i limiti e le ambiguità dell’atteggia mento di rassegnazione. Lo spirito moderno ha ormai definitivamente acquisito la serietà dell’obbligo di sottomettere la terra combattendo contro tutto ciò che diminuisce l’uomo 7.

Questa forte accentuazione della lotta contro tutto ciò che limita l'uomo non deve indurci nell’eccesso opposto di un'«etica eroica». Non può essere questo il genuino atteggiamento cristiano. Questo deve superare il dilemma lotta-accettazione, perché ambedue gli atteggiamenti, presi separatamente, conducono a un'etica deformata in cui non riconosciamo più il comportamento di Cristo stesso.

Il dilemma non si risolve negando uno dei termini, ma facendone due dimensioni coesistenti nell’unico atteggiamento cristiano di fronte alla malattia. Ciò è possibile solo se recuperiamo il senso integrale del termine neo-testamentario «hypomoné» 8. Esso è stato reso per lo più con il termine latino «patientia», e ha assunto una sfumatura di passività, quando non addirittura di fatalismo.

La traduzione più adeguata è forse quella di «costanza», in quanto il termine, indica esattamente il fatto di «tener duro» con un nemico più forte, il restare saldo sotto l’avversità. Questo era l’ideale etico degli Stoici: il saggio fruisce della «costanza» grazie a una forza d’animo che nessuna congiuntura esterna può piegare; nella costanza sotto i colpi del Destino egli mostra la sua vera libertà.

Nell’orizzonte spirituale cristiano la parola «hypomoné» prende un senso diverso. Essa caratterizza l’uomo che tiene duro in una situazione difficile grazie alla fiducia con cui aspetta il soccorso da Dio. Mentre lo stoico deve la propria costanza solo a se stesso, per il cristiano la costanza è la forma tipica della speranza (cf lo stretto legame nel pensiero di Paolo tra costanza e speranza: Rm 5,3-5; 8,24-25; 1Co 13, 7; 2Co 1,6-7 ecc.).

Il cristiano «paziente» (= costante) non è dunque un dimissionario di fronte alle potenze di diminuzione che aggrediscono l’uomo: egli può e deve resistere al male. D’altra parte, la sua non è una lotta di sapore prometeico: è una lotta nella speranza, cioè nella situazione spirituale di chi, nella fede, si è arreso a Dio ed ha accettato che egli dica l’ultima parola sulla storia dell’uomo. Diversamente che nella concezione greca, il peso della speranza non gravita sull’uomo, ma su Dio e sul suo futuro.

La fede introduce il cristiano nel mistero pasquale, e chiede che tutto il suo agire morale ne sia animato. Nel mistero pasquale ha senso la lotta, perché è condotta nella fede; ed ha senso l’accettazione, perché è espressione della speranza. La morale cristiana della malattia non potrà limitarsi né a inculcare la rassegnazione né ad animare la lotta. Il suo primo compito sarà quello di «evangelizzare» il malato, proiettando sulla sua situazione la luce dell’evento pasquale. Alla luce di ciò che è avvenuto in Cristo, il cristiano malato troverà quale deve essere anche il suo comportamento.

Raccogliendo in sintesi le varie istanze che ci vengono dalle riflessioni critiche recenti sul comporta mento del cristiano di fronte alla malattia, emergono le seguenti linee di forza di una trattazione rinnovata dell’argomento. La morale cristiana

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della malattia dovrà rivolgersi all’uomo malato, ma che tende alla salute; nello stato di malattia che lo condiziona, ma da cui cerca di uscire; lottando contro la malattia, ma valorizzando il dolore secondo la dinamica del mistero pasquale; vivendo una vita spirituale certamente condizionata dalla malattia, ma fondamentalmente simile a quella di tutti coloro che vivono «in Cristo».

Su questa base, cerchiamo ora di delineare i tratti essenziali del comportamento che la vocazione cristiana chiede all’uomo che incontra la malattia nel suo cammino verso Dio.

II - LINEAMENTI SISTEMATICI

1. La malattia nell’etica creaturale ― Nella tradizionale morale cristiana della malattia manca una considerazione delle prospettive morali che si aprono all’uomo in forza della creazione e del comandamento di vivere inscritto in essa. Si parla della malattia solo nella prospettiva «peccato-redenzione». Bisogna invece che una trattazione sistematica dell’etica della malattia prenda le mosse dal comportamento che con segue il fatto stesso di essere creato 9.

Nella prospettiva biblica la creazione è il primo intervento di Dio in vista dell’alleanza con l’umanità. Siccome Dio ha un interesse particolare all’esistenza dell’uomo, gli assicura ed offre continuamente l’insieme dei beni che formano il quadro necessario alla vita. Per il fatto stesso di vivere, dunque, l’uomo riceve un beneficio da parte di Dio. La vita è perciò un bene, un privilegio e un valore, perché costituisce la grande occasione di incontrare Dio.

Col dono della vita Dio dà anche il comandamento di vivere. L’esigenza di vita implicata dal comandamento di Dio domanda all’uomo di approvare la vita, di «volerla», perché c’è un’obbedienza a Dio in sita nell’esistenza umana come tale. Volere la vita diventa allora la salute, cioè la forza che ci permette di essere uomini nel corpo e nello spirito.

La malattia ci appare allora come qualcosa che viene a contraddire, diminuire, intralciare, o paralizzare il voler vivere. Essa provoca l’indebolimento e il bloccaggio della forza di essere uomo. Per obbedire al comandamento di Dio, bisogna che l’uomo voglia fare tutto ciò che è necessario per assicurare la continuità della propria vita psichica e fisica, lottando contro ciò che rischia di paralizzarla. E poiché si tratta di conservare o restaurare non una qualsiasi forza, ma proprio la forza che permette di essere uomo, questa lotta per la vita assume un carattere profondamente morale. Tale atteggiamento si può riassumere in quella che K. Barth chiama la «regola fondamentale dell’etica della malattia»: «Esigere che il paziente si riferisca continuamente, come tutti quelli che lo accostano, non alla sua malattia, ma alla sua salute e alla sua volontà di ritrovarla».

Sul piano pratico, il malato non dovrà essere incoraggiato ad esagerare la sua impotenza e a coltivare l’inattività come dovere di stato. Si eviterà di dire perciò che «ai malati non si domanda di agire, ma di accettare», che tutto ciò che è loro richiesto è di «offrire la propria sofferenza»...

L’utilizzazione delle proprie energie, finalizzate a uno scopo costitutivo, si chiama «lavoro». Perciò il malato ― in particolar modo l’affetto da handicap - dovrebbe lavorare. Lavorare, e non «ammazzare il tempo»! Anche nel caso che un malato non possa più continuare la sua attività abituale, non diventa con ciò «buono a niente». Rimane in ogni caso la possibilità di un irraggiamento spirituale, proporzionatamente all’opera di «spiritualizzazione» che ogni uomo deve perseguire.

2. La malattia nella morale pasquale ― Idee teologiche, atteggiamenti morali e schemi pastorali circa la malattia saranno profondamente trasformati quando si accetterà il compito che il Concilio assegna a tutta la teologia morale: rinnovarsi «per mezzo di un contatto più vivo col mistero di Cristo e con la storia della salvezza» (Opt. tot. 16). In concreto, ciò implica che l’atteggiamento del cristiano malato deve essere ripensato nel contesto di una vita morale pasquale 10, o dell’alleanza.

Nel mondo biblico salute o malattia acquistano significato in quanto Israele è in relazione di alleanza

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con Dio. Di esse si parla nei formulari di alleanza, e precisamente nell’elenco delle benedizioni e maledizioni che seguiranno se il partner che accetta l’alleanza si atterrà ― o, rispettivamente, non si atterrà ― alle clausole stipulate 11.

Salute e malattia entrano perciò a far parte integrante nel disegno di salvezza, come ne fanno parte la vita e la morte. Malattia, morte e peccato appaiono come realtà comunicanti e congiuranti contro l’uomo, dalle quali Dio lo libererà mediante la storia della salvezza in atto. Passiamo cosi dalla malattia vista nella sua dimensione creaturale e naturale, alla malattia come segno della condizione spirituale dell’uomo in alleanza con Dio.

La malattia è relativa non solo al peccato dell’uomo, ma anche al piano di Dio per la salvezza dell’uomo. Per comprenderla adeguatamente non ci si può perciò limitare a riferirla al passato o al presente, in cui dice la lontananza dell’uomo con Dio; bisogna riferirla anche all’avvenire. Numerosi testi biblici ci parlano della malattia precisamente come della realtà che deve essere abolita all’apparizione dei tempi escatologici, che saranno anche tempi di guarigione; anzi, la guarigione è adoperata come metafora per indicare la salvezza completa e perfetta (cf Is 35,5-6; 57,18-19; 61,1-2; 65,19; Gr 30,17; 33,6; ecc.).

Per comprendere la malattia come segno bisogna adottare una duplice prospettiva: storica e personale. Essa esige una spiegazione non astratta ―anche se «teologica»! ― ma vitale. La malattia acquista significato e trasparenza di segno solo nel dialogo tra il Dio che salva e l’uomo che si lascia salvare; e, prima di tutto e come prototipo, nel dialogo tra Cristo e il Padre.

Già l’attività terapeutica di Gesù ha un profondo valore salvifico. Le sue guarigioni miracolose non sono solo gesti di potere soprannaturale per accreditarlo come Messia; sono piuttosto il segno che il tempo fina le ha fatto irruzione. Con il mistero pubblico di Gesù l’anno giubilare ebraico, con cui è raffigurata la salvezza escatologica, è iniziato (cf Lc 4,16-22); il grande sabato della fine dei tempi è cominciato (cf le guarigioni di Gesù in giorno di sabato).

Le guarigioni operate da Gesù non sono però destinate a inaugurare in modo glorioso un’èra di felicità sulla terra. Gesù non risponde infatti alle attese giudaiche di un messianismo terreno. Anche come prodigioso terapeuta, Gesù conserva i tratti del Servo sofferente di Jahve.

Gesù guarisce ma lo fa caricando si personalmente della miseria umana, prendendola su di sé (cf Mt 8, 16-17); a tal punto che il «segno» decisivo non sarà costituito dalle guarigioni, ma dal «segno di Giona» (Mt 12,38-40), cioè la morte in croce e la resurrezione.

Il dinamismo pasquale della vita del Cristo rende ragione di ambedue gli atteggiamenti di fronte al male fisico: la lotta ad oltranza di Gesù terapeuta e l’accettazione del Servo di Jahve. Gesù ha voluto lottare contro il male, perché la salute è una delle «benedizioni» della nuova alleanza e il suo recupero è un segno della presenza del Regno come lievito nella pasta (cf Mt 13,33). Ma ha lottato senza adottare un atteggiamento di titanismo, bensì nella debolezza umana. Ha accettato la condizione umana di impotenza di fronte al male e l’ha vissuta senza deflettere minimamente dalla sua autodedizione al Padre e ai fratelli. Il valore redentivo dell’assunzione della debolezza umana, che raggiunge l’apice nella passione e morte, consiste nel fatto che diventa mezzo per esprimere un amore fedele a oltranza.

Il male fisico non deve esistere e un giorno, nel Regno ― anticipato ora nel corpo glorioso di Cristo ―, non esisterà più. Se esso permane nel nostro mondo «non ancora» trasfigurato, in realtà è vinto, perché può diventare espressione di amore fedele in colui che non si lascia sviare dal suo atteggiamento di autodedizione cristiforme.

Tutti coloro che vivono «in Cristo» e sono stati assimilati a lui mediante la fede e il battesimo sono chiamati a partecipare alla croce del Signore. Ma per parteciparvi realmente non basta semplicemente soffrire: bisogna rovesciare il significato della sofferenza, facendola diventare espressione di carità pasquale 12.

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Il cristiano che vuol vivere secondo il dinamismo della nuova alleanza inaugurata dalla vicenda pasquale del Cristo trova nello stato di malattia dei condizionamenti particolari. La malattia porta infatti dei sovvertimenti profondi in tutta la vita dell’uomo. Dal punto di vista psicologico, si nota una tendenza alla regressione. Anche la vita morale è intaccata dalia malattia. È un luogo comune ripetere che il malato diventa egoista, ma bisogna ammettere che la malattia svela ed esaspera tutte le forme di egoismo già in atto nella vita da sano. Neppure la vita religiosa sfugge ai condizionamenti della malattia. Questa è per lo più l’occasione di un’esplosione del senso elementare del sacro, che si manifesta sotto forma di presentimento di forze che ci superano e ci sottraggono il dominio della nostra vita; e non è raro il caso che la religiosità si degradi ulteriormente in credulità e in magia. In breve possiamo dire che non è mai il corpo da solo ad essere malato: è tutto l’uomo, che soffre di un disordine, ad essere malato.

Ma anche la sofferenza fisica può far parte della vita morale del cristiano, nella misura in cui entra nel dinamismo dell’amore oblativo e se ne rende espressione. L’atteggiamento adatto non è però quello della passività e della rassegnazione, quell’accettazione dell’inevitabile che potrebbe anche essere talvolta calo o perdita della speranza. Ci vuole un movimento positivo di superamento nella dinamica dell’amore pasquale.

La vita morale del cristiano, come quella del Cristo stesso, sta sotto il comandamento dell’amore. Regola fondamentale di un comportamento nella malattia conforme a quello di Cristo è di riferirsi al dono di sé al Padre e ai fratelli, da continuare anche nello stato di malattia, nonostante i condizionamenti negativi che questa tende a porre. Si tratta di uno sforzo per non arre stare lo slancio della vita nuova in Cristo, fatto in una condizione che di per sé rende più difficile l’orientamento oblativo della vita. Così è reso possibile alla malattia di diventare «croce», cioè situazione in cui la donazione è provata, purificata, approfondita.

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Al cristiano malato non possiamo presentarci con la presunzione di portargli una valida teoria filosofica del dolore o una «teologia della malattia», pretendendo di spiegargli il come e il perché della sua sofferenza. Bisogna che la spiegazione sia trovata dal di dentro, vivendo la malattia nella dimensione creaturale e pasquale della propria vita morale: e ciò nessun altro può farlo, se non il malato stesso.

Si può solo stargli accanto nel servizio fraterno e nella testimonianza di una fede e di una speranza che suscitano in noi la fiducia che niente può separarci dall'amore di Dio che ha preso possesso di noi nel Cristo (cf Rm 8,31-39); niente, neppure la malattia: «siamo ritenuti moribondi ed ecco viviamo!» (2Co 6,9).

BIBLIOGRAFIA

Una bibliografia completa, fino al 1970, si può trovare in Spinsanti S., L'etica cristiana della malattia, Roma 1971, 227-237. Qui ci limitiamo alle indicazioni essenziali.

Tra le voci di dizionari, che possono servire da orientamento generale:

Roux H., Maladie in Vocabulaire biblique, tr. it., Roma 1969, 257-259.

Soe N.H., Krankheit (ethisch) in Relig. in Gesch. u. Gegenw., 4, c. 38-39.

Weber C.M., Krankheit in Lexikon für Theol. u. Kirche, 6, c. 591-595.

Sulla teologia e morale della malattia:

Balthasar H.U., von, L’homme et la maladie in Présences, 67 (1959), 5-10.

Bertrangs A., Das Leiden im Zeugnis der Bibel, Salisburgo 1966.

Crespy G., La guérison par la foi, Neuchâtel 1952.

Lovsky F., L’Église et les malades depuis le II siècle jusqu’au début du XX siècle, Thonon-les-Bains 1958.

Molari C., Lo scopo della malattia in AA. VV., La sofferenza, Varese 1958, 111-126.

Robert J.M., Les malades... qu’en pense l'Eglise?, Champrosay 1959.

Weber L.M., Gedanken zum theologischen Verständnis der Krankheit, in AA. VV., Moralprobleme im Umbruch der Zeit, Monaco 1957, 101-132.

Sulla pastorale del mondo dei malati:

Bissonnier, Pédagogie de résurrection, Parigi 1959.

Bolech P., Krankenseelsorge im Umbruch, Vienna 1967.

Martin B., Veux-tu guérir? Réflexions sur la cure d'âmes des malades, Ginevra 1963.

Svoboda R., Krankenseelsorge, Friburgo im Br. 1962.

Riviste:

Anime e corpi, trimestrale (V. alla canonica, Brezzo di Bedero, Varese).

Die Krankenseelsorge, trimestrale (Seelsorge Verlag, Friburgo im Br.).

Présences, trimestrale (69, rue Danton-Draveil).

NOTE

1 S. Alfonso de’ Liguori, Theol. Mor., 1. 3, n. 325; n. 1033; 1. 4, n. 130.

2 Cf M. Zalba, Theol. moralis summa, 2, Madrid 1962, 70.

3 Per una documentazione sull’atteggiamento di fronte alla malattia nella letteratura ascetica e pastorale, cf S. Spinsanti, L'etica cristiana della malattia, Roma 1971, 25-48.

4 «Sul piano psicologico la malattia è caratterizzata da tre elementi: il restringimento del proprio mondo; l’egocentrismo; un atteggiamento fatto allo stesso tempo di tirannia e di dipendenza. L’insieme di questi fenomeni avvicina il comportamento dell’ammalato a quello; del bambino; si tratta essenzialmente di un comportamento regressivo» (Delay-Pichot, Compendio di psicologia, trad. it., Firenze 1965, 437. Cf G. Goldszal, Régressiòn et maladie, Parigi 1968).

5 L. Lochet, Au Service des malades: l’Union Catholique des malate, in La Vie Spirituelle, 83 (1950), 55-72.

6 Cf H.R. Philippeau, La maladie dans la tradition liturgique e pastorale, in La Maison-Dieu, 15 (1948) 53-81.

7 È esemplare, in questo senso, l’opera di P. Teilhard de Chardin, Le milieu divin, Parigi 1957. Il libro è dedicato a «coloro che amano il mondo», traccia le linee fondamentali della spiritualità dei cristiani che vivono, come Teilhard stesso è vissuto, «votati alle forze positive del mondo».

8 La nozione di «costanza» è stata sufficientemente studiata dagli esegeti. Vedi G. Borkamm, Geduld in R.G.G., 2, col 1242; C. Spicq, Patientia, in Rev. Sc. Ph. Th., 19 (1930), 95-106; A.M. Festugière, Hypomoné dans la tradition grecque, in Rev. Sc. Rel., 30 (1931), 477-486.

9 Per questa parte ci siamo ampiamente ispirati alle prospettive etiche che K. Barth deriva dalla dottrina della creazione: K. Barth, Die Kirchliche Dogmatik, III/4: Die Lehre von der Schöpfung, Zurigo 1951; è il 16° volume della traduzione francese: Ginevra 1965.

10 Cf in questo senso T. Goffi, La morale pasquale, Brescia 1968.

11 Cf J. L’Hour, La morale de l’Alliance, Parigi 1966; soprattutto il c. 3°, 83-103.

12 Può essere illuminante la riflessione di D. Bonhoeffer sul rapporto tra «sequela e croce» (D. Bonhoeffer, Sequela, trad. it., Brescia 1971, 67-75).