L’alleanza terapeutica

Book Cover: L'alleanza terapeutica
Parte di Rapporto professionista-malato series:

Sandro Spinsanti

L'ALLEANZA TERAPEUTICA

Le dimensioni della salute

Città Nuova, Roma 1988

pp. 171

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In ogni società evoluta la funzione terapeutica si differenzia. Così è avvenuto nella cultura dell'Occidente: il compito di guarire è svolto dal medico per ciò che riguarda le malattie somatiche, dallo psicoterapeuta per i disagi di tipo psichico, emotivo e relazionale, e dal sacerdote per ciò che concerne i mali di natura spirituale.

La differenziazione è utile e produttiva, e non è pensabile un cammino a ritroso, verso l’indeterminatezza. È pensabile, però, un cammino in avanti, verso l’integrazione dei diversi saperi e pratiche terapeutiche. Si può dire, di più, che l’acquisizione di una prospettiva «distica» per comprendere la patologia che affligge l’uomo e per fornire una risposta soddisfacente è un imperativo culturale e pratico del nostro tempo.

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INTRODUZIONE

UN'ARTE DELLA GUARIGIONE PER L'EPOCA POST-MODERNA

Ci sono libri che nascono a seguito di una lenta coagulazione del materiale intorno a un’idea germinale. Li potremmo chiamare libri «organici», in quanto ricordano molto da vicino il dinamismo di crescita degli organismi vegetali e animali: stadio embrionale, sviluppo, differenziazione delle parti... finché il nuovo essere è là, individuato e autonomo, pronto per affrontare l’impatto con il mondo. Non è questa la storia del libro presente. Avrebbe forse potuto esserlo: la nozione di «alleanza terapeutica» si presta magnificamente alla funzione di idea seminale, suscettibile di sviluppi organici. Ma non è andata così.

Il libro è nato dall’attività dispersa che costituisce la croce e la delizia di chi si trova oggi a operare sulla frontiera di una medicina più umana. Nessuna possibilità di otium (non solo nel senso di oziosità, ma anche in quello nobile e antico di tempo dedicato alla contemplazione e allo studio): si è presi nell’occhio del ciclone di una realtà culturale-sociale-politica tra le più dinamiche, continuamente sollecitati a interventi di vario genere. Conferenze, dibattiti, articoli; il più sovente abbozzi di riflessioni, più che idee sviluppate fino in fondo. Forse materiali che non si ha il coraggio di presentare ai propri colleghi dediti a severi studi accademici, ma nei confronti dei quali è facile sentire una particolare predilezione, in quanto nati dal confronto vivo con la vita, là dove questa si fa interrogazione su valori così carnali e spirituali a un tempo: la salute e la malattia, la guarigione e la morte, il dolore e la compassione, il curare e il consolare,

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il male da combattere e l’inevitabile arrendersi che può aprire l’accesso a un’altra dimensione dell’essere.

Il libro è dunque nato da scritti di natura occasionale, originati da sollecitazioni di diverso genere. Gli scritti tuttavia non sono stati semplicemente assemblati. La nozione di «alleanza terapeutica» ha conferito loro un legame organico e una reale unità, evidenziando una struttura che esisteva in essi previamente, anche se in modo implicito. L’alleanza si impone, con l’evidenza di un insight che ristruttura gli elementi già presenti nel campo percettivo, dando loro una nuova Gestalt, quando consideriamo le esigenze attuali della sanità. Della medicina di domani, ancor più di quella di oggi. Essa sarà — dovrà essere, se non vuol tradire se stessa — medicina di relazione, piuttosto che medicina di organo. E la categoria di alleanza, con l’alone sociale che l’accompagna, evoca meglio di qualsiasi concetto il progetto di un nuovo modello di impresa terapeutica.

Anzitutto per la sua vastità. Nell’universo biblico, infatti, l’alleanza non è una categoria esclusiva, ma inclusiva. Il credente non conosce solo l’alleanza particolare con Abramo e la sua discendenza, in vista della storia della salvezza (che per i cristiani si conclude con la Nuova Alleanza e la salvezza messianica), ma anche un’alleanza universale di Dio con tutti gli uomini. Essa è stata stabilita con Noè (cf. Gn 9,8-13) e si riflette nella stabilità e nell’ordine del creato.

Di questa alleanza l’immaginario religioso ha evidenziato il segno simbolico: l’arcobaleno. Ma essa, come tutte le alleanze bibliche, contiene anche la promessa di altri segni reali. Sono le «benedizioni», che accompagnano ogni alleanza. Queste hanno un carattere concreto e una portata cosmica; consistono nella sicurezza, felicità, salute, fertilità del suolo, armonia col mondo circostante. A tutta l’umanità l’alleanza promette che il vivere sulla terra nell’ordine universale costituirà la benedizione del Signore. Proprio questa dimensione cosmica, implicante un giusto rapporto con la natura, costituisce la solida base della medicina di domani. Essa dovrà essere — o tornare ad essere — medicina della totalità,

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olistica. Dovrà concepirsi come un’alleanza con la natura, piuttosto che un’impresa bellica contro di essa. Le conseguenze di questo cambiamento di prospettiva portano lontano. Adottando questo atteggiamento, il corpo ci appare non solo come oggetto di un potere che l’uomo esercita su di esso, ma come alleato. Anche il corpo malato. Riferita a un quadro antropologico più completo, la malattia mostra la sua ambivalenza: riveste il significato di sregolamento e pazzia del corpo, ma anche di saggezza. Elaborare la malattia, facendola diventare un momento significativo del proprio cammino biografico, è opera più delicata e difficile che la semplice lotta a oltranza contro di essa; ma è forse anche l’opera di creatività più personale che l’essere umano possa fare nel frammento di storia che è chiamato a vivere.

Il carattere interpersonale dell’alleanza richiama inoltre un altro tratto, che emerge inequivocabilmente dalla fisionomia che dovrà assumere in futuro l’azione terapeutica. Parallelamente al crescere dell’efficacia dei farmaci, al moltiplicarsi e al raffinarsi della possibilità di intervento nel corpo umano, a livello non più di organo o cellula, ma di atomo, si va riscoprendo che la medicina fondamentale, e assolutamente insostituibile, rimane il medico stesso. Una medicina personalizzata: non la richiedono a gran voce solo i malati. Anche i sanitari che esercitano la professione in modo burocratico e mercantile si accorgono di pagare il successo materiale con ansia ed esaurimento della motivazione, fino a quella sindrome che nei Paesi di lingua inglese è stata chiamata di burn-out: il sanitario «bruciato», privo di ogni idealità, non trova più alcun appagamento nel proprio lavoro, assume un atteggiamento cinico verso i pazienti, diventa anaffettivo anche nella vita privata, oltre che nella professione.

Il luogo della rifondazione di una medicina di relazione è più l’ospedale che la Facoltà universitaria. La medicina di scuola rischia di morire per obesità scientifica; trascinata dal desiderio di essere sempre più rigorosamente scienza, perde il malato. Nell’ospedale, invece, la realtà ingombrante della persona malata — con le sue molteplici esigenze, con la rivendicazione

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di diritti, con la richiesta sempre rinnovata di un’alleanza della mente, del cuore e delle mani del sanitario col corpo sofferente del malato — non si lascia eliminare. Qui è destinata a sorgere, con la forza dirompente della profezia, la nuova cultura sanitaria, centrata sul malato. Di questo nuovo sapere teorico-pratico qualitativamente diverso che nasce nell’ospedale, ci limitiamo a presentare per esteso, nel corso del libro, due proposte: il «Dipartimento di Scienze umane» e i Comitati di etica ospedalieri.

La posta in gioco è così importante, che nessun progetto concreto va lasciato inesplorato. Si tratta di arrivare a far si che le vicende patologiche del corpo e dello spirito dell’uomo non siano una landa desolata, ma una terra abitabile, addirittura feconda.

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I. UN’ALLEANZA NUOVA CON IL CORPO

I. 1 - il corpo come espressione e come comunicazione

Il linguaggio dei gesti corporei non si insegna in nessuna scuola; eppure tutti arrivano a capirlo, a parlarlo correttamente, a comunicare con gli altri esseri umani senza gravi intoppi. Non parla solo la nostra lingua, formulando parole, ma parlano anche le mani, i piedi, gli occhi, il corpo intero. Gli studiosi del comportamento umano hanno già messo nel dovuto rilievo la nostra capacità di usare dei segni per comunicare. Una disciplina in grande sviluppo, la semiotica, ne ha fatto l’oggetto di una trattazione specifica. L’attenzione a quella particolare classe di segni che sono i gesti corporei è passata di recente dal livello della curiosità a quello di un sapere organizzato, anzi di una vera a propria scienza, nell’ambito delle scienze del comportamento o sociali. Tra i numerosi studi disponibili, preferiamo rivolgere un’attenzione privilegiata a un’opera di Desmond Morris. Anche se di taglio piuttosto divulgativo e datato già di qualche anno, L’uomo e i suoi gesti 1 rimane un punto di riferimento non trascurabile e ci permette di fare considerazioni di portata più generale.

Tra tutti i segni che attraversano l’universo conoscitivo dell’uomo, Morris prende in particolare considerazione quelli che formula il corpo. Un repertorio di gesti corporei, quindi. Ma fondato su ben altri presupposti ideologici che, poniamo, La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano di De

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Jorio (1832), che Morris cita come uno dei primi tentativi precursori del suo lavoro. Nel mezzo è passato Darwin, sollevando la questione scientifica dell’origine della specie umana.

È noto che Darwin si occupò, nella sua prospettiva evolutiva, dell’espressione fisica delle emozioni in un’opera (L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali) che, fino a un’epoca più recente, non ha goduto la meritata attenzione degli scienziati. Eppure è proprio quest’opera la vera antenata della ricerca di Morris. La sua analisi dei gesti dell’uomo è più che un’antologia comparativa, in senso sincronico, come potrebbe compilarla uno studioso del folklore o di antropologia culturale. Non può essere neppure schedata tra le ricerche che si occupano della funzione del corpo nella semantica e nella pragmatica della comunicazione umana 2. Desmond Morris è uno studioso del comportamento animale, un etologo; anzi, più crudamente: uno zoologo. Direttore della sezione mammiferi dello zoo di Londra dal 1959 al 1967, studioso in particolare dei primati, deve la sua fama mondiale al libro con cui nel 1967 ha sorpreso — affascinato — scandalizzato milioni di lettori: La scimmia nuda 3. Partiva dal presupposto che per capire l’uomo bisogna considerarlo, né più né meno, che come una delle 193 specie di scimmie viventi; con una sola particolarità: che è nuda, mentre le altre sono coperte di pelo. Per l’evoluzionismo darwiniano ottocentesco, l’uomo deriva dalla scimmia; per Morris, l'homo sapiens è rimasto scimmia.

Le opere successive di Morris, Lo zoo umano e Il comportamento intimo, confermavano la sua fama di enfant terrible

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della divulgazione scientifica. Il disagio maggiore derivava dal non sapere che valore dare alle sue affermazioni: erano asserzioni scientifiche o boutades impertinenti? L’uomo e i suoi gesti, frutto di 10 anni di lavoro sul campo e di un esauriente vaglio della letteratura precedente, aiuta a risolvere l’interrogativo. Abbandonato il tono provocatorio e la scrittura semplificatrice — che seducevano i lettori quando i suoi scritti venivano pubblicati a puntate nel «Daily Mirror» —, vuol fare ora un esplicito lavoro scientifico. Il programma di Morris è di applicare allo studio del comportamento umano i principi che l’etologia ha elaborato per quello animale. Il titolo originale, più pedante ma più preciso, esprime meglio l’intento del suo lavoro: ManwatchingA Field Guide to Human Behaviour. Si tratta di osservare l’uomo, in modo che il suo stesso comportamento lasci trasparire il proprio senso biologico; vale a dire, la sua funzione nella soddisfazione dei bisogni e, in ultima analisi, nel mantenimento della specie.

Il libro vuol essere al tempo stesso un’opera divulgativa, nel senso che si rivolge a un’ampia cerchia di lettori. Tuttavia qui Morris esce dal cliché costruitosi con le sue opere precedenti. Sulla questione di fondo, cioè la legittimazione di un’etologia umana, si pronuncia in termini sfumati ed evasivi: «Non vi è nulla di insultante nello studiare gli esseri umani come animali. Dopotutto, noi siamo animali. L'homo sapiens è un primate, un fenomeno biologico regolato da leggi biologiche, come ogni altra specie. La natura umana non è che un tipo particolare di natura animale. Certo, l’uomo è un animale straordinario; ma anche tutte le altre specie lo sono, ognuna a suo modo, e l’osservatore scientifico dell’animale umano può portare molti nuovi contributi allo studio della specie, se mantiene questo atteggiamento di umiltà evolutiva». Rinuncia alle provocazioni per assumere il tono più suasivo del richiamo all’evidenza. Le sue analisi del significato dei vari gesti non hanno la forza di un’argomentazione stringente; il loro valore dimostrativo risiede nell’assenso intuitivo che riescono a evocare nel lettore.

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Ciò che viene costruito su una base antropologica così ristretta ha stabilità diseguale. Molta parte del lavoro è salda; quando invece l’analisi si estende ai comportamenti ad alta densità simbolica, allora la costruzione pencola paurosamente e minaccia di franare. Così, per esempio, quando viene affrontato il comportamento religioso («azioni effettuate per ingraziarsi divinità forgiate dalla nostra immaginazione», dice il sottotitolo del capitolo), oppure quando si traccia una biologia dell’estetica o si analizza il comportamento etico. La spiegazione del comportamento altruistico è esemplare. Assumendo come base del comportamento umano la pura finalità biologica, l’altruismo in quanto tale è un assurdo. Per Morris l’animale umano si comporta in modo «apparentemente altruistico»; come tutti gli altri animali, non può essere geneticamente programmato ad agire con vero altruismo. I gesti che pretendono la qualifica di altruistici, comprese le più alte vette dell’auto-sacrificio e della filantropia, sono tutti a servizio dell’«ego». Là dove ciò non è evidente, lo si deve a un processo di simbolizzazione — il vedere una cosa come la metafora di un’altra —, responsabile dell’estensione ad altri dell’impulso fondamentale a ricercare il proprio vantaggio.

Se in passato filosofi e teologi hanno preteso di dare ragione del comportamento umano prescindendo completamente dalla scienza che si occupa dei fatti biologici, ora il dogmatismo sembra prendere dimora tra gli scienziati: la biologia, e nient’ altro che la biologia, per spiegare il comportamento umano. Non è nostra intenzione mostrare l’inadeguatezza dell’approccio etologico quando viene esteso anche a quei comportamenti che specificano l’uomo in quanto tale. Tanto meno vogliamo negare la legittimità dell’approccio etologico in sé, purché rinunci alla sua pretesa imperialistica di ridurre tutto entro i suoi schemi. In particolare, non vorremmo che le doverose riserve che avanziamo circa l’antropologia riduzionistica di Morris (= «l’uomo non è altro che...») ci impediscano di partecipare alla festa dei gesti a cui la ricerca ci invita.

Come specie «gesticolante» non abbiamo l’uguale nel regno

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animale! La nostra inventiva in questo campo è tanto grande che nessuno ha finora seriamente tentato di compilare un esauriente dizionario internazionale dei gesti umani. Anche il voluminoso lavoro di Morris resta un primo abbozzo parziale di una ricerca destinata ad occupare gli studiosi per parecchi decenni. Premessa una classificazione con intenti sistematici (i gesti vengono divisi in: accidentali, espressivi, mimici, schematici, simbolici, tecnici e codificati), inizia la grande, fantasiosa rassegna del linguaggio fatto non di parole, ma di azioni: gesti di affermazione o negazione, il linguaggio dello sguardo, i gesti con cui segnaliamo la nostra posizione nell’ordine di preminenza sociale, le reazioni al pericolo, i gesti e riti di trionfo, fino al comportamento di riposo. La lista dei gesti presi in considerazione da Morris potrebbe essere allungata indefinitamente. In breve, è tutto il comportamento umano che qui viene indagato nella prospettiva del corpo come soggetto espressivo.

L’espressività del corpo è il perno di tutta questa ricerca, al di là dell’analisi eto-antropologica dei gesti dell’uomo. Anche il recupero della gestualità è un elemento di quel ritorno al corpo che è uno dei tratti salienti della cultura attuale 4. Mentre la società industriale avanzata persegue il suo progetto di esproprio del corpo — sostituendolo col surrogato di un corpo come oggetto di consumo —, le contro-culture, specialmente quelle giovanili, avanzano progetti alternativi centrati sulla riappropriazione del corpo.

Per il moralista supercilioso, preoccupato per le trasformazioni del costume, la pornografia delle edicole e il nudismo dei naturisti si equivalgono. In realtà, si tratta di comportamenti che non sono riconducibili a un denominatore comune. È proprio l’atteggiamento verso il corpo che marca maggiormente la differenza. Mentre la pornografia è un segno dell’ulteriore decadimento del corpo a merce, la caduta dei tabù in certi contesti può essere ricondotta a quel vasto movimento che incentra la crescita spirituale dell’uomo

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nell’occuparsi seriamente del corpo. Ciò che lo distingue dal banale culto del corpo promosso dalla società del benessere è proprio l’elemento spirituale, in quanto nel corpo si considera l’uomo intero. In tal senso il ritorno al corpo è parte costitutiva di quel Growth Movement in cui confluiscono le correnti più diverse dello spiritualismo moderno.

Non si tratta di ridurre l’uomo al corpo, come fa il consumismo, bensì di fare del corpo il punto di partenza di un processo di crescita che coinvolga tutto l’uomo. Quando si dice oggi: «Tu sei il tuo corpo», non lo si intende nel senso di un riduzionismo crassamente materialista. È piuttosto un invito a considerare che l’uomo come totalità trova nel funzionamento del corpo, in quanto luogo in cui si coagulano azioni ed emozioni, la condizione del suo completo benessere. Tornare al corpo equivale a mettere in moto un processo che inverte la tendenza a una sempre maggiore estraneità rispetto alla nostra dimensione somatica. Il suo linguaggio naturale non ci è più trasparente: non siamo più neppure in grado di interpretare i suoi segni di malessere, per i quali deleghiamo l’onnipotente macchina medica. L’autopercezione è il fattore critico della nostra esistenza nel mondo: se si atrofizza, è compromessa radicalmente la nostra esistenza in quanto uomini, ivi compresa la possibilità di comunicare con gli altri.

L’incremento dell’autopercezione del corpo comincia con la presa di coscienza che ci sono differenze nella tensione muscolare nelle diverse parti del corpo, intimamente connesse con le emozioni e con il benessere o malessere psichico e spirituale. È necessario mettere in moto la percezione del proprio corpo, porre a contatto le sensazioni profonde con le azioni esterne, al fine di mobilitare le energie originarie. Per eliminare i conflitti che si inscrivono nel corpo e rafforzare la capacità di sentire, in contrasto con i modelli di reazione offertici dalla cultura tecnologica, sono state messe a punto diverse tecniche corporee. Alcune sono tradizionali e derivano dalla secolare pratica dello yoga, diffusasi anche in Occidente. Altre, più moderne, possono essere comprese sotto la

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denominazione comune di «terapie a base corporea» (intendendo terapia non come quel processo che interviene per riparare uno stato patologico, ma come un mezzo tecnico per rendere il processo di crescita più consapevole e soddisfacente) 5.

Il movimento femminista ha assunto in proprio l’istanza di un ritorno al corpo. La donna ha sofferto più dell’uomo della scissione schizofrenica tra corpo e spirito. Idealizzata, talvolta, dalla mistica della femminilità e ridotta ad avere un rapporto col proprio corpo solo per delega, mediante il riferimento al corpo dell’uomo, oppure, talaltra, relegata nel puro biologico della funzione generatrice. Riappropriarsi del proprio corpo vuol dire, per le donne, oltre al raggiungimento di obiettivi di rivendicazioni contingenti, gettare le basi di una cultura femminile.

Dall’analisi del comportamento gestuale umano alle pratiche che incrementano l’autopercezione, il filo conduttore è costituito dall’interesse per il corpo in quanto strumento privilegiato per l’espressione e la comunicazione. L’accenno ai movimenti che promuovono la riappropriazione del corpo ci apre una prospettiva sulle possibilità pedagogiche offerte da una migliore conoscenza del corpo umano nella sua gestualità. Il primo campo di applicazione è indubbiamente quello della sessualità. La grande miseria della sessualità contemporanea non deriva primariamente dalla mancanza di principi morali o dalla carenza di informazione. Lo squilibrio è causato piuttosto dall’atrofizzazione dell’autopercezione del corpo (o dalla sua esasperazione patologica nelle forme che la biologia del comportamento chiamerebbe «supernormali»). Una vera educazione sessuale non può aver luogo finché non diventa chiaro che il vero protagonista del dialogo sessuale è il corpo pienamente umanizzato.

La sessualità umana è essenzialmente relazione, un legame che passa per il contatto fisico. Nel suo capitolo sui segni

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di legame per contatto fisico, Morris lascia cadere la cifra di 457 forme di contatto fisico finora individuate dagli studiosi del comportamento. Conosciamo per esperienza quotidiana l'estrema varietà e sottigliezza di queste azioni: ogni giorno interpretiamo migliaia di questi segni di legame e ne inviamo centinaia a quanti ci circondano. La conoscenza raffinata del linguaggio espressivo del corpo è indispensabile soprattutto per i legami amorosi, i quali appunto si nutrono di contatto fisico. Di gesti ha bisogno l’amore per esprimersi, per crescere, per dissipare equivoci, per evitare il tramonto dei sentimenti per usura e per carenza di stimoli.

La stessa conoscenza del proprio corpo è meno una questione di tavole anatomiche che di emozioni. Oltre alle zone tabù di competenza della censura, ci sono quelle create dall’educazione. Un’interessante ricerca-pilota in questo campo è ampiamente illustrata da Morris nel suo libro. La ricerca è stata fatta su giovani laureati negli Stati Uniti. Il corpo venne suddiviso in dodici zone di contatto; poi si chiese ai soggetti quanta probabilità avevano di essere toccati in quelle aree da: 1) madre, 2) padre, 3) amici dello stesso sesso, 4) amici del sesso opposto. Ne è emerso che ogni rapporto ha una propria combinazione peculiare di zone tabù e non-tabù. Variano non solo da cultura a cultura, ma anche da persona a persona, per il tramite dell’educazione familiare.

Ciò di cui sentiamo oggi la necessità non sono le trasgressioni provocatorie, che ci liberino dal formalismo puritano del passato, veicolo talvolta più di ipocrisia che di valori. Abbiamo bisogno di un’adeguata formazione emotiva al rapporto sereno, disinibito e armonioso con il corpo proprio e con quello degli altri. In quest’ottica di un corpo che è anche spirito accettiamo di buon grado il richiamo a ritornare alla fondamentale essenzialità dei gesti. I gesti dell’uomo sono così importanti perché solo l’uomo, tra le 193 specie di scimmie, con questi gesti può ricevere e trasmettere l’amore.

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I. 2 - la malattia e la saggezza del corpo

Malattie per guarire

P., un attore quarantenne, è in psicoanalisi da alcuni anni. I suoi sintomi principali sono l’alcolismo e l’instabilità affettiva. È fortemente identificato con la madre, iperattiva e dominante, che non può sopportare «debolezze» di nessun genere. Si rifugia anche lui nell’iperattività, viaggia di spettacolo in spettacolo, ha una relazione amorosa dopo l’altra (omosessuale, si lega a ragazzi molto più giovani di lui e ha relazioni brevi e tempestose). Non riesce a lasciarsi andare in nulla, deve sempre avere il controllo: lasciarsi andare significherebbe essere debole. E così, malgrado il suo successo professionale esterno, internamente è vuoto, depresso, può calcare il palcoscenico solo dopo essersi ubriacato... Improvvisamente una grave infezione gastro-intestinale lo inchioda a letto. Per la prima volta è in grado di viversi «debole» e di accettarlo. Non ha più bisogno di reprimere la passività, la tristezza, il senso di «non poterne più»; anzi sperimenta questa nuova esperienza come benefica, rilassante, sanante. Dopo la malattia la sua vita si stabilizza, i suoi sintomi nevrotici regrediscono vistosamente.

Franz Kafka. Per cinque anni è fidanzato con Felice Bauer; per cinque anni si tormenta con esitazioni e ripensamenti, se deve o no porre fine al fidanzamento. Teme di non poter più scrivere, se si lega con un saldo rapporto ad un’altra persona. Alla fine ha un’emottisi, si sente enormemente alleviato e poco dopo scioglie il fidanzamento. Scrive al suo amico Max Brod: «Talvolta mi sembra che cervello e polmoni si siano messi d’accordo, a mia insaputa. Così non può più andare avanti, ha detto il cervello; e dopo cinque anni i polmoni si sono dichiarati pronti a dare una mano».

Due flash, uno clinico e l’altro biografico, che strappano lo stesso commento: di malattia non solo ci si ammala, ma di malattia si guarisce! Sia gli esempi, che la tesi provocatoria

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sono tratti dall’ultimo libro di Dieter Beck, La malattia come auto guarigione 6. Ultimo in senso assoluto: il libro è uscito postumo. Beck, che era psichiatra e direttore del Dipartimento di Psicosomatica nella clinica universitaria di Basilea, è stato ucciso, nella primavera del 1980, da un suo ex-paziente con un colpo di pistola. Elisabeth Kübler-Ross nella postfazione ne tesse un elogio ammirato e commosso, descrivendo il suo incontro personale col giovane psichiatra svizzero a Shanti Nilaya, il Centro in California in cui tiene i suoi seminari sulla morte e il morire 7. Beck si era aperto al problema dell’accompagnamento dei morenti e aveva in animo di estendere la sua attività in questa direzione. L’eredità che ha lasciato è stata invece un’altra: un libretto scarno e lucido come una scheggia, che stimola a ripensare da capo il significato della malattia.

Senza circonlocuzioni, ad apertura di libro espone il suo pensiero a tutto tondo: «In questo libro vorrei proporre una tesi che negli ultimi anni del mio lavoro come medico psicosomatico mi ha fatto capire meglio molti pazienti e mi ha mostrato la loro malattia in una nuova visuale. La tesi suona: le malattie somatiche rappresentano spesso il tentativo di compensare una ferita psichica, di riparare una perdita intima o di risolvere un conflitto inconscio. La malattia del corpo è spesso un tentativo di autoguarigione psichica. Il tentativo di autoguarigione può avere successo, più sovente invece fallirà. La peculiarità di questa concezione della malattia sta nel fatto che al male fisico viene attribuito un valore più positivo di quanto si faccia di solito. In genere la malattia viene considerata come un molesto incidente nella nostra vita ispirata all’ideale della massima efficienza... Qui invece vengono evidenziate le facoltà sintetiche dell’io e le tendenze creative del Sé, che pongono le malattie somatiche al servizio dell’autoriparazione».

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Una tesi inaudita? Non certo nel senso che la concezione della malattia qui presupposta non abbia riscontro in altre formulazioni, anche molto autorevoli. Ne cito una emblematica, che risale già a una cinquantina di anni fa, dovuta a Viktor von Weizsäcker, il neurologo psicoanalista di Heidelberg che, introducendo la psicoanalisi nella medicina interna, voleva fondare una patologia generale che non separi le malattie psichiche e psicosomatiche da quelle organiche, bensì le unisca in una considerazione unica. Ciò presupponeva che venisse trasferito anche all’ambito delle malattie somatiche il presupposto che sorregge la teoria e la prassi della psicoanalisi: vale a dire che il sintomo non sia considerato un evento insensato, ma abbia un senso psicodinamico ed emotivo.

Von Weizsäcker propose di abbandonare il dualismo cartesiano e di lavorare con l’ipotesi dell’unità corpo-psiche. Era consapevole che la svolta era così decisiva per la medicina, che per realizzarla sarebbe stata necessaria una mente geniale, «un Paracelso per i nostri tempi». Pur non riconoscendosi tale genialità, si dedicò a fare un lavoro preparatorio. Cercò un caso tipico, redasse uno studio e lo sottopose a Freud 8.

Si trattava di un paziente che soffriva di disturbi della minzione di natura nevrotica. Come confermò Freud nella corrispondenza con von Weizsäcker, l’analisi del caso era stata condotta in modo soddisfacente, tanto dal punto di vista genetico (analizzando da «che cosa» era nata la malattia), quanto da quello dinamico (lotta tra la sessualità e la funzione urinaria per il possesso dell’organo, lotta della libera volontà con il bisogno naturale, lotta dell’io con l’Es). Eppure l’analisi non aveva portato all’eliminazione del sintomo: non era avvenuta — come si esprimeva von Weizsäcker — quella «svolta che è una trasformazione» (die Wandlung, welche eine Venvandiung ist). Ma lo sviluppo del caso nel corso del trattamento

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doveva riservare allo studioso un elemento «sorpresa», fecondo dal punto teoretico. Il fatto, semplice ed eloquente, consisté in un’angina, che tenne il malato per due settimane lontano dalla psicoterapia; una volta ristabilitosi, il sintomo era scomparso. Allo stesso tempo, anche la psicoterapia sembrava aver fatto una svolta di qualità. Si inaugurava una nuova fase, incentrata sul problema della professione e del rapporto con la realtà, non più sui problemi edipici.

La malattia come evento biografico

Come può l'angina avere qualcosa a che fare con la nevrosi? L’ipotesi appare inverosimile al solo formularla. Ma solo finché si rimane condizionati dalla suddivisione dell’uomo in due ambiti, «psichico» e «somatico», con le rispettive causalità ed espressioni fenomeniche. Von Weizsäcker considerò invece anche questo fatto organico come relazionato alla persona che lo subisce; in qualche modo la nuova malattia, come già il sintomo nevrotico, andava iscritta nella colonna dell’avere, in quanto comportava un certo guadagno esistenziale. Il salto nella malattia cambia la situazione in cui il malato si trova; avviene un capovolgimento, una svolta (Umkehrung). La malattia acuta è come un vertice drammatico che si realizza in una biografia. In questo caso specifico, l’angina acquista il significato di un tentativo di sfuggire alla nevrosi, sostituendola con qualcosa d’altro. Attraverso l’angina avviene la «quadratura del circolo nevrotico».

Diversi anni più tardi, considerando a distanza quel momento cruciale della sua ricerca, von Weizsäcker scriveva in un libro autobiografico: «Il sorgere di un’angina nel corso del trattamento di una nevrosi era un reperto secondario; il mio merito fu di non prenderlo come una casualità, ma come un fatto significativo. Questo, Freud non l’aveva fatto. Mi è successo qualcosa come nella scoperta dei raggi X da parte di Roentgen. La mia preoccupazione era di capire il disturbo della minzione, vale a dire come mai il muscolo occlusore

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della vescica del paziente funzionasse in modo avversivo. Risultava che qui la psicoanalisi, con la sua scoperta di forze e controforze psichiche, permetteva una comprensione migliore della teoria riflessologica del sistema nervoso; di più: la teoria fisiologica non spiegava niente, mentre la psicologia spiegava quasi tutto. Quando però fu inclusa l’angina, ne derivò, quasi inavvertitamente, una specie di nuova antropologia, una visione dell’uomo genetico-dinamica, nella quale le idee centrali della psicoanalisi erano ancora presenti, ma che andava sostanzialmente oltre la psicologia, in quanto la costellazione dell’ambiente era inclusa insieme all’organismo nel concetto di uomo... Quando un nevrotico ha un disturbo funzionale della vescica, si può trovare questo fatto tanto poco misterioso quanto uno sbadiglio per la noia. Ma quando qualcuno per motivi psichici ha un’angina, allora il tema della nevrosi è superato. Si potrebbe pensare a questo punto a una minaccia che incombe sulla medicina in quanto scienza della natura» 9.

Se la capacità di strutturare la malattia appartiene non solo alla psiche ma anche alla materia, è lecito concludere che il corpo ha più ragionevolezza di quanto siamo soliti attribuirgliene, Von Weizsäcker può essere stato condotto a questa conclusione da un’estensione all’ambito somatico del procedimento proprio della psicoanalisi, che insegna a riconoscere le ragioni della «pazzia»; ma può aver anche seguito l’intuizione di Lou Andreas-Salomé. In una lettera a von Weizsäcker, la geniale letterata e psicoanalista gli aveva detto che, malgrado tutti gli stupefacenti successi della psicoanalisi, le restava l’impressione'che il mistero della corporeità fosse ancora maggiore di quello dello spirito 10.

Freud, pur sottoscrivendo l’interesse delle osservazioni di von Weizsäcker, non era disposto a seguirlo per la strada che doveva condurlo a elaborare la sua Anthropologische Medizin.

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Dopo avere esaminato il manoscritto di Körpergeschehen und Neurose, scriveva a von Weizsäcker: «La parte del suo lavoro in cui lei cerca di stabilire punti di vista comuni per la malattia psichica e per quella organica ci porta qualcosa che per noi è nuovo e ci fa tendere l’orecchio, appunto perché osservazioni occasionali ci hanno fatto avvicinare ai confini di questo territorio inesplorato. Siamo diventati attenti ai fattori psicogeni delle malattie organiche, abbiamo potuto capire che spesso una malattia subentra a una nevrosi; anche la stupefacente immunità di alcuni nevrotici rispetto a infezioni e raffreddori e la perdita di essa dopo il miglioramento psichico non ci è passata inosservata. I punti di vista comuni ad ogni malattia — interruzione, svolta, crisi, ecc. — ci preparano grandi novità» 11. Tuttavia, mentre esprimeva all’internista la propria riconoscenza per l’ampliamento della prospettiva psicoanalitica, Freud dichiarava, nella stessa lettera, che la psicoanalisi non avrebbe seguito quella strada. Egli aveva tenuto lontani gli analisti da tali ricerche, aggiungeva, per motivi pedagogici: dovevano limitarsi a pensare in modo psicologico, usando cioè postulati, teorie e metodi specificamente psicologici 12.

Von Weizsäcker, nonostante la sua alta considerazione per il maestro di Vienna, non era disposto a lasciar cadere l’importante osservazione che le formazioni nevrotiche e quelle organiche possono alternarsi ed essere reciprocamente interscambiabili. Se con l’irrompere dell’evento organico si riordinano giudizi, desideri, sensazioni, la concezione stessa

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della malattia ne deve tirare una conclusione. Ciò che è determinante non è la natura dell’evento, se psicogenetico o somatogenetico, bensì la posizione che il soggetto assume nei confronti di esso. E ciò può esprimersi solo in quel procedimento che von Weizsäcker ha chiamato «indagine biografica» (biographische Erforschung): il malato deve esser portato a parlare della sua vita. Questa è, a suo avviso, la strada che conduce oltre la svolta copernicana della psicoanalisi.

«Quando Freud scoprì la psicoanalisi, la paragonò alla svolta copernicana: il sole e le stelle non ruotano intorno alla terra, bensì è la terra che gira, e la nostra tranquilla sicurezza su di essa non era che illusione. A questa si aggiunge l’umiliazione per opera di Darwin, quando questi affermò che l’uomo non deriva dagli dèi, bensì dalla scimmia: un secondo colpo per il nostro orgoglio. La psicoanalisi ci mostra che neppure nella nostra coscienza siamo padroni di casa, bensì dipendiamo da potenze inconsce, molto più di quanto potevamo supporre. Ora bisogna fare un quarto passo. Comporterà anch’esso un tale scoraggiamento come gli altri? Dobbiamo renderci conto che la nostra sofferenza non è una macchina che possiamo guidare, bensì è essa stessa una specie di psiche, un uomo nell’uomo, spesso nemica, ma anche amica; spesso caparbia, ma anche nostra maestra. Spesso si comporta da sciocca; ma è anche, a volte, saggia, astuta, ragionevole e passionale. Quest’ultimo passo non è perciò solo una diminuzione, ma questa volta una speranza. La svolta che avviene produce nella malattia, come l’embrione alla madre, un altro ego, un Io nell’io, un essere che non sono lo e che tuttavia sono Io. Si avverte ora che la psicologia nella medicina produce un risultato inatteso. Essa deve portare non solo la conoscenza della psiche; piuttosto ha illuminato il corpo in maniera tale, che questo appare in un’altra luce, del tutto nuova. Il corpo ora non è più ciò che prima appariva e che l’anatomia e la fisiologia insegnano. La fisiologia rimane solo una cosa attraverso la quale scopriamo una qualità sepolta del corpo. Anche la medicina psicologica si interessa del corpo, ma esso è qualcosa di completamente

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diverso. Lo dobbiamo chiamare “corpo animato” (Leib); con ciò intendiamo dire che la sua materia (da mater) è il ritratto vivente e il compagno dello stesso rango della psiche, anche se non sempre è facile viverci insieme; è ugualmente partner in un matrimonio indissolubile» 13.

La medicina antropologica di von Weizsäcker, introducendo il soggetto, attua una duplice operazione: recupera la totalità, in una prospettiva distica, e indica la presenza, dietro ogni malattia, di un soggetto desiderante. Questi struttura la sua malattia, ne fa un elemento della propria biografia, dice,' con il linguaggio del corpo, qualcosa a se stesso e al suo ambiente. Solo se si tiene presente ciò che la malattia è (antropologia), tenendo uniti fattualità e significato, si può aprire la malattia al poter essere del malato (etica), dal momento che la malattia dell’uomo — per ricorrere ancora una volta a un’espressione di von Weizsäcker — «non è il guasto di una macchina, bensì la sua malattia non è altro che lui stesso; o meglio, la sua possibilità di diventare se stesso» 14.

Sulla traccia di von Weizsäcker, esplicitamente assunto come punto di riferimento teoretico, Dieter Beck si muove partendo da una concezione antropologica che restituisce al soggetto la sua centralità. La soggettività diventa la via obbligata per l’ermeneutica della malattia. Questa prospettiva si distacca da quella psicosomatica, in tutte le sue varianti. Anche le ricerche sulla natura psicosomatica di alcune malattie (ulcera, ipertensione, carcinoma...) presuppongono sempre tacitamente che la malattia sia un principio dannoso e nemico dell’io del paziente. Nell’ottica biografica, invece, assumendo il punto di vista della soggettività, risulta non solo che la malattia ha un significato psichico, ma che questo è (o almeno può essere) positivo. La valutazione antropologica

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dell’evento morboso cambia di segno: può essere espressione addirittura della saggezza del corpo. La deprecata «fuga nella malattia» diventa un’inconscia realizzazione dell’io (Ich-Leistung) a servizio dell’Io stesso. Ciò vuol dire, in concreto, che emicranie, dolori intestinali cronici o una gamba rotta possono essere preferibili per il paziente all’essere confrontato col suo lutto, col vuoto, col suo narcisismo ferito, con la sua disperazione.

Ancor più: l’essere malato può offrire un aiuto per la soluzione di problemi psichici pressanti che hanno bisogno di un’elaborazione e di una risposta. La dinamica psicofisica indicata da Beck per le malattie che si risolvono in un'autoguarigione è quella del reculer pour mieux sauter. Durante la moratoria della malattia somatica avviene una regressione a servizio dell’io, che comporta un riflusso di pensieri e di emozioni verso una fase precedente dello sviluppo. La malattia offre l’opportunità di ritirarsi in ambienti che assomigliano a quelli curati e protetti dell’infanzia.

In questo stato di regressione, che è connesso con un reinvestimento di carica libidica sul corpo, una risomatizzazione degli effetti e una rianimazione di un Sé corporeo arcaico, si sviluppano le tendenze autoguaritive dell'Io. Nella regressione attuata grazie all’aiuto della malattia somatica, l’io effettua una ristrutturazione psichica. Nelle riserve serene delle prime fasi dello sviluppo possono essere riscoperte e rivitalizzate facoltà «dimenticate»; possono essere fatte nuove esperienze emotive, da utilizzare per far fronte a ciò che opprime in campo psichico. Se questa impresa ha successo, alla fine il paziente può rinunciare ai suoi sintomi somatici.

Il senso adattivo della malattia somatica può realizzarsi secondo diverse dinamiche. La più frequente consiste in un ampliamento dell’io tramite le emozioni. È il caso dell’attore che abbiamo citato all’inizio. Nella malattia sopravviene una frattura e una rinascita psichica, che il paziente sperimenta come liberatoria. Dopo la malattia si sente come un altro essere, più autentico e più vero, avendo integrato delle parti scisse della personalità. Oltre a questa, Beck descrive e illustra

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con esempi clinici altre dinamiche: la malattia come elaborazione di una perdita (funzione della malattia in questo caso è di offrire un aiuto per l’elaborazione del lutto; coloro che reagiscono a una perdita con una malattia somatica, avevano con l’oggetto perduto un rapporto almeno parzialmente narcisistico); la malattia come espiazione (a causa di un senso di colpa inconscio; dalla malattia può risultare una ristrutturazione del paziente, che stabilisce un rapporto senza tensioni tra l’io e il Super-Io; se invece il tentativo di operare una riparazione nell’ambito della coscienza mediante la malattia fallisce, la persona rimane la stessa e riproporrà la stessa dinamica più tardi); la malattia come riparazione narcisistica (il malato si vive come centro del mondo: appaga dei bisogni infantili e si dispensa dalle esigenze della realtà).

Queste sono solo le costellazioni più frequenti, e non ne escludono altre. Ancor più importante della dinamica psicofisica, è il momento biografico della malattia. Malattie o incidenti sopravvengono di rado per caso: solo se vengono collocati nella storia della vita della persona può diventare chiaro perché si è ammalata ora, non prima e non dopo. È il momento biografico in cui il male fa la sua apparizione che manifesta lo speciale significato individuale che esso ha per ogni paziente.

«Io sono la mia malattia»

Ammalarsi non è, dunque, un evento insensato; piuttosto, cadere malato a un certo punto della vita può essere un modo di procedere verso la guarigione. Per quanto possa essere convincente e affascinante questa dimensione di profondità della malattia, in cui viene messo in valore tutto il suo significato antropologico, bisogna riconoscere che la presa che esercita su di noi è fortemente contrastata: la tesi suona come «inaudita». Le pagine di Beck hanno lo smalto dell’intelligenza e la forza persuasiva delle cose semplici e vere. Eppure non possiamo negare l’inclinazione a sottrarci alla

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forza delle argomentazioni per ripiegare su posizioni più sicure, perché meno esposte. Tali suonano per noi quelle su cui riposa abitualmente la prassi medica e che si fregiano del titolo di «scientifiche». La resistenza del mondo medico ad accettare l’ipotesi di tendenze riparative nel paziente è spinta per lo più fino alla negazione di queste tendenze stesse. Secondo Beck, l’ipotesi è sentita come offensiva da molti medici, perché limita il sentimento di onnipotenza terapeutica.

Il modello che prevale nella medicina corrente si basa sul presupposto implicito che solo l’esperto, cioè il medico, sa spiegare la malattia, mentre il malato è all’oscuro di tutto ciò che sta avvenendo in lui. Inoltre il malato non ha praticamente rapporto con la propria malattia, né con la propria salute. Se cade malato, è perché diventa «vittima» di un capriccio della natura, di un virus o di un germe patogeno, oppure di un programma genetico sbagliato.

Anche la guarigione, in questa prospettiva, è qualcosa che avviene al di fuori della persona del malato. Essa va attribuita al medico che ha fatto la diagnosi giusta, o ha prescritto l’antibiotico appropriato, o al chirurgo che ha fatto l’operazione necessaria. Il solo contributo del malato è di attenersi alle prescrizioni del medico e di non intralciare la sua opera. L’azione del medico è tutta rivolta all’eliminazione del disturbo. Quando ciò avviene, l’individuo torna in salute. La malattia? «Un inutile incidente!».

In questa concezione tutto ha una sua coerenza interna: «La malattia diventa una scienza degli errori; la clinica, un’officina per le riparazioni; la tecnica, l’eliminazione dei disturbi; l’obiettivo da raggiungere, uno stato ideale» 15. Considerare le malattie come azioni creative del soggetto, al pari delle opere d’arte, è una prospettiva non integrabile con il pensiero e la prassi della medicina scientifica. La mutilazione antropologica che questa ha preteso sembra irreversibile.

Su questi presupposti si appoggia il rapporto medico-paziente, armonizzando così l’etica con l’antropologia. In

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questo rapporto avviene una trasmissione di responsabilità al medico; chi si scopre un disturbo che intralcia il proprio benessere, si aspetta dal medico che glielo elimini; e il medico attende da se stesso la capacità di eliminarlo. La malattia (il sintomo, il disturbo) viene privata di ogni senso personale. Von Weizsäcker parla di Es-Stellung nei confronti della malattia: essa è un non-Io, qualcosa di spiacevole che capita, che aggredisce l’organismo dall’esterno. Al polo opposto troviamo la Ich-Stellung, che si realizza quando il malato accetta di essere il soggetto «strutturante», tanto della propria malattia, quanto della propria guarigione 16.

La teoria e la prassi della medicina adottano esclusivamente la Es-Stellung. La responsabilità di questa situazione va attribuita ai medici? La resistenza dei medici ad accettare il soggetto — e quindi il significato personale della malattia in medicina — è solo una parte della verità. L’altra metà del fallimento del programma di antropologizzare la malattia va attribuita ai malati stessi. Sono essi che vogliono semplicemente liberarsi di un sintomo e non scendere fino alle radici della malattia, là dove si è chiamati ad assumersi la propria responsabilità.

Von Weizsäcker, da acuto osservatore, nota: «I malati si aggrappano all’Es per sfuggire all'Io, ed esercitano una seduzione sul medico perché percorra con loro questa via che offre minore resistenza. La seduzione è dunque reciproca». L’opposizione a interpretare psicologicamente la malattia è perciò, semmai, il risultato di una collusione tra il medico e il paziente. Questa opposizione è così forte — osserva ancora — che è difficile credere che derivi dalle creazioni più superficiali della psiche: «Si ha l’impressione che il malato non solo sperimenti la naturale estraneità della sua malattia all’io, ma ne abbia bisogno» 17. I medici si comportano da

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medici perché tanti pazienti desiderano rinunciare alla loro responsabilità per la propria salute.

Il vero rinnovamento in medicina non può avvenire se non si giunge a intaccare il rapporto fondamentale tra medico e paziente. Proprio dall’etica, la quale esige che ognuno dei due partners dell’azione terapeutica acceda al livello della piena responsabilità, riceviamo quindi la principale spinta a costituire una scienza medica come scienza del soggetto. Per questa via le due subculture — quella medica e quella psicoterapeutica —, attualmente collocate in un parallelismo non interattivo, potranno integrarsi per la formazione di una vera cultura della salute.

I. 3 - Dimensioni spirituali del corpo

Spiritualità del corpo: una contraddizione in termini?

Perché al solo formulare l’ipotesi di una «spiritualità del corpo» siamo presi da un senso di disagio? Perché soggiaciamo all’impressione di un’operazione culturale ibrida, o addirittura di una forzatura semantica? È un fatto: nell’ambito della cultura occidentale siamo tutti, in misura maggiore o minore, influenzati da una scansione della realtà umana in termini dualistici, che ci fa opporre la materia — il corpo — allo spirito 18. L’esistere nel corpo sembra uno stato che fa resistenza alle varie forme di trascendimento, sia mistico-religiose che intellettuali.

Più di recente il corpo è diventato estraneo non solo alle avventure spirituali, ma alla stessa esistenza quale si coglie

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attraverso l’esperienza dei sensi. L’estraneità del corpo è un dato maggiore della nostra antropologia vissuta. Le ragioni per cui vi si è pervenuti sono varie. Tra gli studiosi, chi preferisce accusare la metafisica greca, chi punta il dito contro la scienza moderna (la quale, assumendo la distinzione cartesiana tra soggetto e oggetto, ha favorito una concezione del corpo come res extensa su cui si esercita il dominio del soggetto). Il corpo è oggetto di manipolazione, come tutta la materia. Mentre la medicina tecnologica procede a sostituzioni sempre più sofisticate di organi del corpo, come pezzi di ricambio di una macchina, l’ingegneria genetica estende le possibilità di intervento verso confini fantascientifici. Più cresce il potere di manipolare il corpo, più sembra che il corpo stesso si faccia lontano dall’esperienza vissuta.

Nel momento stesso in cui formuliamo queste osservazioni sullo Zeitgeist, con tono di rammarico per l’impoverimento dell’esperienza corporea che esso implica, ci rendiamo conto di essere parziali. Possiamo attribuire validità generale all’atteggiamento verso il corpo che abbiamo evocato solo se accettiamo l’implicito diktat egemonico del sapere scientifico. Ma ci sono più cose, tra il cielo e la terra, di quante ne conosca la scienza accademica...! Ci sono più atteggiamenti nei confronti del corpo di quello tecnico-manipolativo. Anche in Occidente. Un rapido inventario dei modi non «reificati» di rapportarsi al corpo presenti anche nella cultura contemporanea, dentro e fuori l’esperienza religiosa, ci può indurre a dare un inatteso senso di concretezza alla «spiritualità del corpo».

Il corpo nella cultura olistica della salute

La medicina costituisce un osservatorio privilegiato degli umori e delle tendenze del nostro tempo circa il corpo. Nel dibattito antropologico contemporaneo è diventato quasi un luogo comune ripetere che la medicina ha «cosificato» il corpo. Se ne attribuisce la responsabilità alla medicina come

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scienza della natura, così come si è formata nella prima metà del secolo scorso, opponendosi alla medicina speculativo-romantica. Quando l’uomo è considerato semplicemente come un pezzo di natura tra gli altri, si opera una violenta mutilazione antropologica. Le tendenze attuali, che a noi sembrano significative dal punto di vista della spiritualità del corpo, si muovono nella direzione opposta, verso un recupero della «totalità» e della persona umana.

Ritroviamo questo approccio specificamente umano del corpo in molte espressioni della medicina contemporanea, a condizione che ci allontaniamo dall’ambito accademico in cui predomina tuttora la concezione meccanicista ispirata dal positivismo. Le correnti più disparate di medicina umanistica convergono nel tentativo di temperare e ammorbidire la prospettiva fredda, scientifica della «natura come nemico» propria della scienza medica allopatica. Convinti che l’uomo moderno ha deviato dall’antica saggezza ispirata da un contatto diretto con la natura, e con il corpo in particolare, molti pazienti hanno voltato le spalle al trattamento ortodosso, dando la preferenza a sistemi medici e a pratiche che si muovono in un orizzonte di unità cosmica. Il pensiero orientale e nuove filosofie dei sistemi biologici hanno introdotto sulla scena occidentale il concetto che l’interazione tra l’individuo e il mondo è un processo in cui fluisce l’energia vitale. Antiche e nuove idee orientali — agopuntura, t’ai chi ch’uan, aikidoyoga, meditazione, terapie di polarità — si sono unite a nuove idee occidentali, dando vita a una diversa concezione del fatto morboso e della terapia.

Questi sistemi mirano al bilanciamento delle energie nel campo «corpo/universo», piuttosto che alla «normalità» come misurazione statica standardizzata della salute. Colui che fornisce la terapia manipola energia, invece che chimismo e strutture. Il cliente è visto come un sistema di interazioni, non in termini di sintomi isolati o di errori cellulari.

Possiamo chiamare «olistica» questa concezione della salute e del modo di curarla. La prospettiva olistica riconosce che la vita dell’individuo è un processo di dispiegamento

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continuo, e la malattia l’interruzione di questo flusso. Tutto può influenzare la nostra salute: fattori grossolani e sottili, fisici, emotivi, mentali, spirituali e ambientali; tutti sono correlati. La prospettiva olistica insegna a guardare al di là del sintomo immediato, a situarlo in un contesto più comprensivo.

Una disarmonia nella vita si rifletterà sintomaticamente nel corpo, comunicandoci — se vi prestiamo attenzione — che è necessario un cambiamento. La malattia è allora un messaggio, una specie di feed-back del processo della vita che ci informa che qualcosa turba l’armonia e ci richiama ad agire con coscienza, a prendere parte attiva allo sviluppo del nostro benessere, ad assumere responsabilità per la propria vita. Il presupposto olistico è che il corpo sa come curare se stesso, essendo un sistema naturale di guarigione che tende alla buona salute. Il nostro compito è di sgomberare il campo da ciò che ci impedisce di intendere le ragioni del corpo. Rimosso l’ostacolo, la buona salute emerge dall'interno della persona 19.

Mentre la rivalutazione del corpo come armonico sistema naturale fa il suo timido ingresso in medicina, il corpo trionfa nelle correnti più recenti di psicoterapia. Nella psicoterapia analitica ortodossa il corpo continua ad essere metodologicamente escluso dal trattamento. Lo dimostra lo stesso setting analitico, che dispone l’analizzato e l’analista in modo tale che il corpo resti escluso dal campo visivo; l’unico legame tra i due è la parola Nelle nuove forme di psicoterapia, invece, il corpo è posto al centro del processo terapeutico. Specialmente nelle terapie di gruppo. «Le nuove forme di gruppo riscoprono ciò che era al centro delle psicoterapie di gruppo all’alba della nostra civiltà — nella Grecia antica e a Roma, con i baccanali, i riti dionisiaci — e che si è mantenuto

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in Africa nelle “terapie da trance”, quelle “terapie da possesso” che Roger Bastide chiama “cure motrici”» 20.

Tracciare una mappa delle psicoterapie centrate sul corpo è un’impresa che supera i limiti di questo generico accenno. Basterà indicare il filone centrale costituito dallo sviluppo delle intuizioni di W. Reich (lo studioso che, con i suoi studi sulla psicologia del gesto e del movimento del corpo e l’analisi del carattere individuale in quanto sistema cui spetta la funzione di regolare l’utilizzazione dell’energia, resta il principale precursore dell’introduzione del corpo sulla scena della terapia). La corrente più autorevole è attualmente la bioenergetica di A. Lowen. Presupponendo un parallelismo tra la dimensione psichica e la dimensione corporea, la bioenergetica mira a individuare i nodi di tensione muscolare, che tengono bloccata l’energia, ad allentare la tensione con opportuni esercizi di catarsi, e a restituire infine l’energia al libero fluire nel respiro, nel movimento del corpo, nella percezione delle sensazioni.

«Psicoterapia con il corpo»: un paradosso verbale affine a quello implicito nella «spiritualità del corpo». Nell’uno come nell’altro caso, si delinea un superamento della divisione dell’uomo in compartimenti stagni, grazie alla valorizzazione del corpo come realtà pregnante in cui è contenuto tutto l’umano. Perché questa comunicazione tra corpo, psiche e spirito si realizzi, è necessario che la realtà corporea non sia privata della sua valenza simbolica. È l’istanza che caratterizza la conoscenza esoterica del corpo, nelle diverse epoche e culture.

Salvezza per il corpo nel rinnovamento carismatico

La salvezza cristiana è rivolta all’uomo intero: corpo, spirito e anima. I credenti raggiunti dal movimento carismatico dovevano riscoprire questa verità, e proprio loro, in genere

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nere accusati di «spiritualismo», ricordare a tutti i cristiani il ruolo del corpo nella salvezza 21. Nei gruppi di preghiera neo-pentecostali il corpo occupa, in generale, un posto centrale. La preghiera non è intesa in modo cerebrale o intellettualistico. Essa trascina, permettendo la partecipazione di tutto l’essere. Le mani trovano il ritmo per sottolineare il canto, le membra si sciolgono, la preghiera in lingue gorgoglia spontaneamente. Il corpo intero, fatto per la comunicazione interpersonale, vive con intensità questa sua destinazione originaria.

La valorizzazione del corpo in seno ai gruppi di preghiera carismatici doveva portare però ancora più lontano, fino alla riscoperta del carisma delle guarigioni. «La fede guarisce»: è l’esperienza quotidiana nei gruppi di preghiera. L’antecedente culturale di questa fusione di fede e azione terapeutica è costituito, specialmente in America, da una tradizione, risalente al secolo scorso, di guaritori carismatici. Sono di casa nelle sètte, di cui la più nota è la Christian Science.

Questi fenomeni sono rimasti marginali alle Chiese istituzionali, in particolare a quelle della Riforma, tradizionalmente ostili ad espressioni emotive che esulano dal puro servizio della Parola 22. In genere le guarigioni miracolose che avvengono nelle sètte non godono buona reputazione. Si è soliti associarle a macchinazioni di fanatici, all’uso di violente suggestioni di massa, a superstiziosi esorcismi. Il pericolo

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di abusi è reale. Tuttavia, la funzione delle sètte è sempre stata quella di richiamare la Chiesa di fronte a carenze, trascuratezze e deviazioni da ciò che è originario nel messaggio cristiano. È facile distanziarsi con sufficienza e commiserazione dalle iniziative settarie; più difficile, ma più utile per le Chiese, cercare di accogliere ciò che c’è di genuino nelle loro istanze.

L’esperienza di guarigioni mediante la fede dei carismatici cattolici non si innesta direttamente sulla tradizione settaria. Il suo antecedente immediato è una prassi più moderata, stabilitasi nelle comunità ecclesiali che le avevano dato diritto di cittadinanza. Una certa decantazione è avvenuta nei decenni scorsi, soprattutto in ambienti episcopaliani e presbiteriani 23. Progressivamente si sono stabiliti dei criteri a tutela della qualità delle guarigioni: tendere a che il fine ultimo dei servizi di guarigione sia l’adorazione; capire in quale senso la malattia può dipendere da una dissociazione nella relazione con Dio e con il prossimo; mantenere il contatto con i medici e non sottovalutare l’utilità delle cure tecniche; prevenire ogni atmosfera di malsana eccitazione; passare all’imposizione delle mani solo come climax di un lungo cammino di preghiera, non come atto magico davanti a un uditorio affamato di sensazionale.

La pratica della preghiera per la guarigione che troviamo nei gruppi di preghiera e rinnovamento cattolici è sintonizzata con questo clima spirituale. Le riserve circa l’uso indiscriminato dei poteri di guarigione continuano a farsi sentire; anzi, secondo un osservatore attento, «i cattolici romani tendono ad avvicinarsi al guaritore per fede con una diffidenza e uno scetticismo immensi. Essi sospettano un inganno inteso ad allettare i credenti e a spingerli negli errori del fanatismo entusiasta» 24. I pentecostali cattolici sono restii

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ad usare il termine «taumaturgo» per indicare le persone che sembrano possedere il carisma di guarire. Nel loro linguaggio, il potere di ridare la salute è proprio di Dio solo; grazie al battesimo e al dono dello Spirito, esso è partecipato a ogni credente. Ciò vuol dire che il potere di Dio è messo a sua disposizione, sia che egli diventi un ministro riconosciuto, sia che non lo diventi 25. I ministri di questi carismi non si comportano come dei taumaturghi, ma come degli oranti. Sono fratelli che pregano per altri fratelli, non detentori di un potere autonomo.

La riscoperta della preghiera collettiva per la guarigione dei malati è avvenuta spontaneamente, sul filo degli avvenimenti entusiastici che hanno caratterizzato gli inizi del movimento carismatico. Attualmente è diventata prassi comune dei gruppi di preghiera. «I carismatici non danno l’idea di voler impiantare un qualche ufficio di costatazione medica, proprio come non si occupano di registrare il parlare in lingue per vedere se c’è qualche lingua straniera. Essi vivono i carismi in funzione dell’incontro con Dio e con gli uomini. Quel che importa ad essi è che il Signore è vivo, oggi come ieri, che la salvezza non concerne l’“anima” soltanto, ma tutto l’uomo, il corpo compreso, e che in questo campo neanche il Vangelo predica la rassegnazione, bensì la speranza» 26.

La preghiera per la guarigione si recita il più delle volte in sedute di preghiera a parte, che hanno luogo dopo i regolari incontri di gruppo. La preghiera comune è accompagnata dall’imposizione delle mani, quasi un gesto di comunione cristiana attorno a chi soffre. Non è mai una sola persona che prega e impone le mani.

Nei gruppi pentecostali cattolici il ministero della guarigione è comunitario, non individuale. Si pone cura nell’evitare il miracolismo. La guarigione stessa, del resto, non è

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considerata come l’avvenimento fisico che lascia strabiliati e perplessi i rappresentanti della scienza. È vista come un processo che inizia dall’intimo risanamento spirituale, vale a dire dall’esperienza di essere stati afferrati da Gesù e posti nella vita stessa della famiglia di Dio. La guarigione fondamentale consiste nella conversione stessa. Dalla certezza di questa presenza della salvezza nella propria esistenza rinnovata scaturisce una forza nuova per affrontare i mali della vita, presente e passata. Qualsiasi esperienza di rifiuto, di oppressione e di non-amore può essere guarita, comprese le ferite provocate dalle vicende traumatiche del passato. I carismatici amano parlare, a questo proposito, di «guarigione delle memorie». Con questa espressione si vuole indicare la purificazione dei sentimenti subconsci di ansia, paura, vacuità e inutilità. È il presupposto per la soluzione dei problemi di natura emotiva 27. Alla pace interiore è attribuita una grande potenza terapeutica: quando la coscienza è piena d’amore, di gioia, di pace, di pazienza, di bontà, di benevolenza, di fede, di dolcezza, di padronanza di sé (cioè di quanto Paolo in Gal 5,22 chiama «frutti dello Spirito»), possiede una forza di guarigione contro ogni male, comprese le malattie del corpo.

A seguito della preghiera comunitaria, avvengono anche guarigioni di mali fisici. Secondo l’autorevole testimonianza di Mac Nutt, «la metà di coloro per la cui guarigione noi preghiamo vengono guariti (o migliorati notevolmente) dalle loro malattie fisiche, e circa i tre quarti dai loro problemi emozionali o spirituali».

Guarigione, anche straordinaria, non vuol dire miracolo. Almeno, non nel senso dell’apologetica. Quello che interessa non è l’accertamento di un fatto che costituisce un’eccezione alle leggi naturali e permetta quasi di sorprendere Dio in azione, per dimostrarlo all’incredulo. Il ministero delle

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guarigioni recupera l’aspetto religioso della guarigione stessa. Essa è un momento dell’incontro con Dio, il quale si fa presente con i suoi doni. Ma è Dio stesso, non i suoi doni, che è al centro dell’interesse del credente. Non si prega per mettere la potenza di Dio a servizio dell’uomo. L’incontro personale è preferito al risultato, il ringraziamento alla domanda. I servizi di guarigione tendono a ristabilire la relazione esistenziale dell’uomo con se stesso, con Dio e con gli altri. La fede che guarisce è la fede che crea rapporti di comunione, la fede che apre all'amore.

La comunità dei credenti vi scopre così un ruolo terapeutico singolare. Non perché offre asilo e incoraggiamento ai «guaritori», ai quali anche la società moderna, malgrado la medicina scientifica, sembra non sia ancora in grado di rinunciare. La comunità cristiana guarisce in quanto diventa quello che deve essere: la casa di coloro che sono colpiti dal potere di emarginazione e dissociazione del male in tutte le sue forme 28. Allora essa è un riflesso autentico dello spirito e offre ai malati, handicappati, anziani, ai sofferenti nel corpo e nello spirito quello spazio in cui sono possibili relazioni umane ravvicinate, accettazione, sostegno, conforto: ciò di cui l’uomo ha bisogno per riconciliarsi con la vita e lasciar agire le forze di guarigione. Così anche le comunità cristiane del XX secolo possono essere un riflesso fedele di Colui che «passò guarendo e facendo del bene» (cf. At 10,38).

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L'uomo e i suoi corpi: la conoscenza esoterica

Esiste un fiume sotterraneo di conoscenza del corpo, irriducibile a quello rappresentato dall’anatomia-fisiologia-psicologia scientifiche. Come un corso d’acqua carsico, appare talvolta in superficie con manifestazioni vistose, poi si lascia riassorbire, per riapparire più in là sotto altro aspetto. Una delle ultime apparizioni, in ordine di tempo, è quella che può essere chiamata «fenomeno Castaneda». Le opere di questo scrittore hanno suscitato in tutto il mondo occidentale un interesse che trascende quello dell’etnologia e dell’antropologia culturale 29. Il successo non può essere spiegato senza riferirsi all’insoddisfazione diffusa per le visioni materialistiche dell’uomo e alla nostalgia di una natura che sia qualcosa di più di ciò che la scienza intende per natura. Castaneda, entrato in rapporto con indios messicani depositari di tradizioni esoteriche, ha divulgato una «via di liberazione» analoga a quelle ben note dell’Oriente: taoismo, yoga, vedanta e zen. Un mondo impensato si rivelava agli occhi dei figli della civiltà tecnologica: un mondo in cui la sapienza viene trasmessa per via di iniziazione; la natura, da oggetto passivo del dominio dell’uomo, si anima per assumere i contorni del mysterium fascinosum et tremendum; il potere dell’uomo si dilata, in quanto l’iniziato diventa, attraverso la conoscenza, uno strumento in mano alla Potenza.

Il punto di vista esoterico può essere sintetizzato in un aforisma: niente in questo mondo ha solo un significato; tanto meno l’uomo e il suo corpo. Una concezione puramente fisica è limitata: la scienza non esplora che l’anticamera di ciò che l’uomo è realmente. La visione esoterica fornisce una conoscenza progredita dell’entità umana a tutti i livelli nei quali opera. Questo tipo particolare di conoscenza ha

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un’ascendenza molto autorevole. Tradizioni antichissime si sono occupate del corpo umano e delle sue funzioni, della mente e delle sue potenzialità. Le troviamo in Egitto, in Israele, in Grecia, in India e in Cina, nelle civilizzazioni precolombiane del Nord e del Centro America. A innumerevoli generazioni hanno fornito una profonda conoscenza dell’uomo nella sua totalità; tuttora non sono solo oggetto della ricerca storica e antropologico-culturale erudita, ma una fonte viva a cui anche le generazioni attuali continuano ad attingere.

Una delle credenze più persistenti dell’umanità, che troviamo in ogni epoca e sotto tutte le latitudini, è che la forma fisica del corpo è solo il riflesso di una serie di altre realtà, o «corpi»; nella loro totalità queste forme invisibili e interpenetranti riflettono l’Uomo cosmico, la natura stessa di Dio 30. Scritti e insegnamenti spirituali e filosofici di tutte le epoche hanno indicato nello studio dell’uomo la chiave per penetrare nella natura dell’universo e di Dio; ma l’uomo a cui si riferivano era una realtà molto più complessa di quella fisico-biologica che cade sotto i sensi. «L’uomo è più della sua ombra», si può dire con il mistico indiano Shankara, con riferimento al corpo umano.

Tutti i temi ricorrenti nelle concezioni esoteriche del corpo — il corpo come tempio in cui abita la divinità; la dottrina delle proporzioni armoniche disegnate dal Creatore; i significati occulti della fisiotassi; il legame organico tra microcosmo e macrocosmo, nonché tra il corpo e gli elementi fondamentali, tra il corpo e i segni zodiacali 31 — presuppongono

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una visione dinamica. Il corpo è una realtà irradiante, al centro di un campo di energie. Anche la rappresentazione tradizionale di una triplice divisione — corpo fisico, anima e spirito — è dinamica: la sua ragione d’essere sta in una circolazione d’energia tra ciò che è sopra (spirito) e ciò che è sotto (materia), dove l’anima gioca un ruolo decisivo nella trasformazione. La gradazione di sostanza si traduce in una gradazione di coscienza.

In tutte le tradizioni esoteriche la comprensione di questi piani di coscienza interrelati è fondamentale per l’anatomia dinamica dell’uomo. La concezione più elaborata dei centri energetici si trova nella dottrina indiana dei chakras; ma in modo diverso è presente in tutte queste tradizioni. Numerose tecniche — in primo luogo la meditazione — sono state messe a punto per favorire quella circolazione interna e cosmica di energie a cui si può ricondurre, in ultima analisi, ogni sistema dottrinale e pratico che meriti il nome di «spiritualità». La convinzione comune a tutte le tradizioni esoteriche è che la vita del corpo è una «chance» per una realizzazione spirituale. Nella loro concezione sacramentale del mondo, infatti, il corpo e la materia sono mediatori dello spirito.

C’è il rischio di un malinteso di fondo, quando si considerano le conoscenze esoteriche del corpo: quello di confondere le analogie verbali e figurative, di cui si serve questo tipo di conoscenza, con la realtà stessa. Esse non sono altro che dita che indicano la luna, non sono la luna! La conoscenza esoterica domanda di essere trasformata in esperienza. In ciò il cammino esoterico presenta singolari analogie con la concezione oggi emergente di teologia spirituale come via esperienziale.

Verso una spiritualità cristiana del corpo

Sulla soglia di ogni trattazione tematica della spiritualità cristiana del corpo, ci imbattiamo nell’inevitabile questione: esiste un rifiuto religioso del corpo? L’ostilità del cristianesimo

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al corpo è stata così spesso ripetuta che sembra diventata un truismo. Il problema è difficilmente solubile finché ci si limita a un confronto di testimonianze dottrinali favorevoli o contrarie alla tesi. Se ne trovano, infatti, sia nell’uno che nell’altro senso. Non è difficile allungare la lista degli atteggiamenti, sia dottrinali che pratici, che riflettono una valutazione negativa del corpo: dalle pratiche più fantasiose di mortificazione della carne, in uso tra gli anacoreti, alla tradizionale educazione repressiva nei confronti del patrimonio istintuale del corpo (identificato con la sessualità), fino alla lussureggiante letteratura ascetica, dedita alle peggiori intemperanze verbali quando si tratta di diffamare il corpo e di esaltare ciò che lo umilia, come le malattie 32.

Per contro, lo stesso insegnamento tradizionale cristiano, che ruota attorno alla dottrina dell'Incarnazione — caro cardo salutis (la carne perno della salvezza) secondo il principio patristico — è ricco di elementi di grande umanità nei confronti del corpo. I più accreditati maestri di spirito sono unanimi nel ritenere che un cristiano non potrebbe disinteressarsi del corpo senza danno 33. Ogni rottura dell'armonia tra corpo e anima nuoce a tutt’e due. L’equilibrio fisico è perciò necessario per l’esercizio della vita cristiana.

Per dare concretezza a questo insegnamento tradizionale, ci si può riferire a san Francesco. Nel Poverello di Assisi è presente, con marcate caratteristiche medievali, la disciplina ascetica per il dominio del corpo. Egli amava parlare di «fratello asino», per indicare che il corpo deve essere sottomesso all’anima come il servo al suo padrone. Ma riteneva,

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allo stesso tempo, che bisognava dare al corpo la sua giusta parte di cibo, bevanda, sonno: «Il servo di Dio deve provvedersi ragionevolmente, affinché fratello corpo non possa mormorare». «Fratello asino» è, dunque, anche «fratello corpo» 34.

L’antropologia cristiana nella riflessione recente ha messo in primo piano l’esigenza che la corporeità venga sperimentata come valore. L’assunzione della propria corporeità appartiene al processo di identificazione dell’essere umano. Ciò presuppone che l’uomo venga accettato dagli altri nella sua corporeità, in una educazione positiva al valore del corpo. L’equilibrio può venir compromesso tanto dal disprezzo o dall’indifferenza verso il corpo, quanto dal culto esagerato di esso. In concreto, influenze stimolanti nel campo della spiritualità, anche cristiana, sono state esercitate dal programma di «riappropriazione del corpo» che ha caratterizzato l’ormai mitico movimento di «controcultura» del ’68. Alcune sue influenze sono state meno effimere. Molte esigenze avanzate dallo human potential movement americano sono state assunte in ambito spirituale. L’integrazione di corpo, emozioni, psiche e spirito è diventata un programma anche per molte persone che intendono vivere lo spirito del Vangelo. Di qui l’interesse per le tecniche, di sviluppo recente, che mirano al conseguimento di questa «totalità» integrata (wholeness, in inglese; Ganzheitlichkeit, in tedesco; l’italiano manca, purtroppo, di parole così espressive; le perifrasi con cui le traduciamo perdono di efficacia): tecniche per il rilassamento, esercizi per liberare l’aggressività, terapie relazionali intese al potenziamento della comunicazione corporea 35.

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La maggior attenzione al corpo che si sviluppa da parte di persone interessate al divenire spirituale dell’uomo è di tutt’altra qualità rispetto a quella che produce il culto del corpo. La sensualità dilagante, infatti, non è di per sé indice di accettazione del corpo. Non è difficile scoprire, infatti, dietro a certe espressioni della celebrazione neopagana del corpo — il corpo giovane, bello e sexy: uno degli ultimi miti creati con l’intento scoperto di servire alla civiltà dei consumi — una segreta ostilità verso il corpo stesso. Accettare la realtà corporea propria e degli altri significa rispondere positivamente al corpo nella sua espressività umana, anche quando non ha una perfetta forma fisica. Nella valorizzazione spirituale del corpo è contenuta anche una critica del culto idolatrico di esso, che si riduce, in definitiva, a una caricatura del corpo come realtà umana.

Se passiamo a considerare la letteratura teologica che si occupa della vita spirituale, registriamo con piacere che non è restata impermeabile all’attuale rivalutazione teologica del corpo. Possiamo segnalare, ad esempio, studi relativi alla partecipazione del corpo alla preghiera, alla meditazione corporea, al servizio carismatico di guarigione. Tralasciando di entrare nei dettagli di tali sviluppi, vogliamo piuttosto richiamare l’attenzione sulla necessità che la teologia spirituale sviluppi una riflessione non occasionale sul corpo. Nel corpo si coagula la vita psichica e spirituale, essendo il luogo centrale della nostra esperienza umana; ad esso spetta una posizione centrale anche nella riflessione sistematica che caratterizza quella disciplina — la teologia spirituale — che è stata chiamata a buon diritto «mistagogia della vita cristiana». Come primo tentativo esemplare in tal senso ci si può riferire all’opera di Vladimir Truhlar. L’autore è ben referenziato: con i suoi 25 anni di insegnamento di teologia spirituale alla Gregoriana e le sue numerose pubblicazioni, padre Truhlar può essere considerato uno dei fondatori di questa disciplina a livello accademico. È noto come padre Truhlar, alla ricerca di un centro unificatore che desse coerenza sia al metodo che al contenuto della teologia spirituale, lo abbia individuato

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nel concetto di «esperienza dell’assoluto». La via esperienziale indicata come nucleo germinale della vita spirituale non è di tipo irrazionalistico (come la categoria dell’Erlebnis nella fenomenologia della religione). Essa si situa piuttosto su un piano in cui l’antinomia «razionale-irrazionale» è inappropriata, in quanto la via esperienziale partecipa di una situazione gnoseologica sui generis.

Il sapere di cui è questione nella vita spirituale non è il «pensare» concettuale, né quella conoscenza della realtà che si acquisisce mediante la sperimentazione: è il sapere relazionato all’esperienza del proprio essere e dell’assoluto, comune a tutti gli uomini. Nella via esperienziale l’essere «si sente»: non mediante determinate percezioni sensitive, immaginative, concettuali; e neppure per il tramite della volontà e del sentimento (il Gefühl dei tedeschi, in quanto si oppone alla conoscenza). L’accesso all’essere passa al di sopra di tali categorie: è diretto, «acategoriale». Si perviene a questo contatto immediato con l’essere indirizzando l’attenzione non verso gli oggetti così come sono nell’uomo, ma verso ciò che li accompagna e in cui essi sono immersi, verso ciò che costituisce il loro orizzonte. Questa esperienza dell’essere accompagna ogni categoria dell’attività umana, benché come tale non possa mai essere afferrata con i concetti. È una possibilità dell’essere umano, anche se non si realizza per tutti e con frequenza. Condizione indispensabile è che il centro personale dell’uomo si rivolga ad essa mediante una certa attenta apertura.

L’importanza del concetto di «esperienza» nella teologia spirituale si rivela nelle sue conseguenze. Tutta la disciplina ne risulta ampliata nei suoi interessi e «centrata». Perché la via esperienziale conduce a un centro, in cui tutto l’uomo è presente come nel punto di partenza della sua vita intera. Tutto è unificato: lo spirito, la psiche, l’immaginazione, i sensi. L’esperienza dell’assoluto si manifesta attraverso il corpo, si iscrive nella respirazione 36. La spiritualità, grazie a

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questa integrazione del corpo, perde il carattere rarefatto che il termine era solito evocare, per assumere la concretezza poliedrica della vita umana.

La via indicata dall’opera di padre Truhlar rimane un’indicazione autorevole in un’epoca in cui, dopo l’ebbrezza dei miti del progresso e della macchina, ci stiamo ripiegando sul corpo per difendere la fragile realtà che si chiama «la qualità umana».

Riflessioni conclusive

Al termine della nostra panoramica ritorniamo al corpo, la nostra realtà gioiosa e dolorante che ci è così familiare 37. Le diverse vie alternative che abbiamo preso in considerazione sono unanimi, pur nella loro irriducibile diversità, nel ritenere che la via d’uscita dal malessere culturale attuale nei confronti della corporeità punta verso l’alto: un rapporto equilibrato col corpo non è un bene di consumo da aggiungere a quelli che promette la società costruita sul mito del progresso illimitato. L’essere «bene» dell’uomo (il benessere) è solo quello che deriva da un essere «più». L’esperienza del corpo, che prende avvio dall’alienazione che conosciamo oggi, rilancia esistenzialmente una ricerca antropologica. È la nostra concezione dell’uomo che viene messa in discussione e ripresa. La riappropriazione del corpo si apre quindi, in definitiva, sul processo dell’ominizzazione.

L'impasse della civilizzazione attuale dimostra all’evidenza che l’ominizzazione comprende la vita dello spirito.

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L’umanità non può sopravvivere senza un «super-vivere» 38. La vera riappropriazione del corpo non è dunque un’operazione riduttiva, bensì integrativa. Non si tratta di realizzare il corpo contro lo spirito, o prescindendo dallo spirito. Le avanguardie della nuova umanità intendono intraprendere l’integrazione del corpo con lo spirito, dal momento che sempre l’uomo è in questione tutto intero.

Anche alcuni cristiani, che respirano lo spirito del tempo, riscoprono nel corpo una via privilegiata della comunicazione con Dio. Michelangelo lo ha espresso simbolicamente dipingendo la creazione dell’uomo sulla volta della Cappella Sistina. Al posto della creazione per mezzo della parola subentra un contatto personale, sensibile; attraverso le dita che si toccano fluisce la corrente che congiunge il cielo e la terra. Per affermare la reciprocità tra Dio e l’uomo, l’artista non ha tolto il corpo all’uomo, ma ne ha prestato uno a Dio. La nostra epoca è provocata ad esplorare il mistero della corporeità, come altre epoche hanno esplorato quello della spiritualità. Ai cristiani di domani, ancor più che a quelli di oggi, sarà dato di vivere lo Spirito col corpo.

I. 4 - il corpo e il rito

La liturgia sul modello della comunicazione angelica

Esclusi i giovanissimi, non vi è sacerdote anziano o di mezz’età che non ricordi la cura scrupolosa con cui i cerimonieri e i responsabili della formazione istruivano i neodiaconi sul modo di celebrare la Messa. Nessuna parte del corpo, nessun gesto sfuggiva a una minuziosa standardizzazione: come dovevano essere tenute le mani, a che altezza e in che postura; inchini e genuflessioni, esattamente misurati per evitare sia il troppo che il troppo poco; anche il tono

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della voce e le diverse sfumature con cui dovevano essere pronunciate le parole prescritte venivano minuziosamente regolati. Il giovane celebrante veniva in definitiva addestrato a uno stile di celebrazione che realizzava un tipico modello di «comunicazione paradossale»: doveva pronunciare, infatti, la frase culminante del rito — Hoc est corpus meum — in modo che il proprio corpo, ingabbiato dentro la stereotipia cerimoniale, non comparisse affatto. Non solo era privato personalmente, in quanto presidente di una celebrazione fatta in nome di Cristo e per la comunità, di ogni rilevanza storica e personale, ma addirittura il suo corpo, con cui realizzava la celebrazione, veniva ridotto all’invisibilità, grazie alla rigida standardizzazione di ogni gesto.

Perché questo Hoc est corpus meum, detto per il tramite di un corpo ridotto a un «non-corpo»? Una prima indicazione di senso la troviamo riferendoci alla funzione comunicativa del gesto stereotipato. Questo manifesta tutta la sua potenzialità nelle situazioni in cui si vuol evitare la comunicazione interpersonale. Si pensi — si parva licet componere magnis! — a ciò che avviene in una sfilata di moda. Gli atteggiamenti delle presentatrici di moda si riducono alla concatenazione di gesti congelati, stereotipati, eleganti ma impersonali. È il ruolo stesso di indossatrice che comporta una spersonalizzazione, allo scopo di favorire l’identificazione della donna con l’abito che indossa: è questo, e non l’indossatrice, che deve imprimersi nella memoria dello spettatore. La funzione del gesto stereotipato è qui chiaramente quella di distogliere l’attenzione dalla comunicazione interpersonale, a vantaggio di quella funzionale.

L’analogia non ha nessuna finalità dissacratoria; vuole soltanto aiutare a cogliere il funzionamento della stereotipia nella comunicazione sociale. Quando si passa dalla presentazione di un prodotto a una celebrazione liturgica, ben altri sono, ovviamente, i significati in causa. La spersonalizzazione del ministro del culto è finalizzata alla comunicazione del mistero. Tutto il disciplinamento del corpo promosso dalla Chiesa (anche altre agenzie sociali lo realizzano, con esiti

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molto più vistosi di quelli della Chiesa: si pensi all’esercito, per esempio) mira a uno scopo di trascendimento dell’esperienza mondana. La finalità della liturgia è precisamente quella della koinonia con la realtà divina. Ora, il linguaggio del corpo, se rapportato a questo fine trascendente, si rivela come clamorosamente inadeguato, o quanto meno come gravido di malintesi e di fraintendimenti; esso rimane tuttavia l’unico di cui, in quanto esseri umani, possiamo disporre.

Una riflessione esemplare su questa funzione del corpo fu elaborata dalla teologia scolastica. Questa considerò la comunicazione umana come limitata, imperfetta e decaduta, rispetto alla potenza del verbo adamitico e soprattutto nei confronti della comunicazione angelica. Grazie a quest’ultima, dei puri spiriti comunicano immediatamente, senza segno sensibile, neppure spirituale: gli angeli dischiudono se stessi gli uni agli altri mediante la translucidità. Il corpo umano è opaco; il pensiero fatica ad aprirsi la strada attraverso la parola. L’angelo, invece, non ha corpo: è pura voce senza corpo 39. Nella sua immaterialità, la voce angelica realizza la comunicazione più efficace: mentre la voce dell’angelo dell’Annunciazione «in-forma» la Vergine del disegno divino, il Figlio di Dio viene modellato nel suo corpo 40. La stereotipia dei gesti del culto ha la funzione di supplire alle carenze del corpo umano nella communicatio in sacris, rendendo la comunicazione liturgica meno dissimile da quella angelica.

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Coscienza religiosa di sé e rifiuto del corpo

Quale reazione possiamo aspettarci da un ministro del culto, che un rigido cerimoniale priva della propria libera espressività corporea? Non escludiamo il disagio e l’imbarazzo, soprattutto se questa negazione del corpo viene messa in correlazione con un più generale atteggiamento negativo verso il corpo attribuito al cristianesimo. Un giudizio così sommario non rende giustizia alla verità storica e va indubbiamente sfumato 41. Resta tuttavia difficilmente contestabile che lo spessore corporeo che la fede mostra nei Vangeli e nella pratica messianica di Gesù non è più riscontrabile nella cristianità successiva, in più o meno «ellenizzata». È soprattutto l’inquietante corporeità di Gesù, unico e inconfondibile nel suo tempo e nel suo ambiente 42, che è stata ben presto neutralizzata ad opera dei modelli culturali — siano essi patriarcali, matriarcali o androgini — con cui è stata successivamente interpretata.

L’ideale di acorporeità, o addirittura di negazione del corpo, può tuttavia creare anche una sottile gratificazione in colui che vi aderisce. La fede, quella cristiana in particolare, è in grado di fornire un solido appoggio alla denegazione di una parte di sé, nel processo generale di sublimazione. Infatti il cristianesimo fornisce un sistema che iscrive il soggetto in una totalità perfettamente inglobante, con un’origine e una conclusione oltre i limiti temporali della storia. L’identificazione inoltre avviene sotto il segno dell’ideale: amato da Dio con amore infinito, il credente è chiamato a partecipare all'immagine perfetta di Dio, che è il Figlio. L’identificazione, infine, è dotata di un carattere prescrittivo: tutto ciò che il credente deve fare, pensare ed essere, è prescritto da una tradizione che lo avvolge e lo precede.

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L’adesione al mondo dischiuso dalla fede può essere talmente appagante per la coscienza di sé narcisistica, da diventare il punto di appoggio di una denegazione che rende il soggetto estraneo a tutta una parte di se stesso: il corpo, in questo caso, con l’insieme pulsionale che lo correda. Nella misura in cui ciò avviene, il cristianesimo realizza una figura particolare di quell’allontanamento dal corpo che contraddistingue la civilizzazione occidentale nel suo insieme. Un distanziamento che nei casi estremi ha prodotto una vera e propria alienazione.

Il corpo, con la sua genuina molteplicità di sensi, passioni e desideri, è stato fatto oggetto, nella cultura laica non meno che in quella religiosa, di una gabbia di contenzione costituita da proibizioni e comandamenti. Attraverso una catena di misure repressive, il corpo è stato reso uno stupido «servitore muto». L’ideale proposto più frequente nella pedagogia e nella direzione spirituale tradizionale era quello di una testa fredda e di un cuore caldo, mentre il ventre ― vale a dire, la dimensione corporeo/viscerale dell’uomo — era completamente dimenticato, o tenuto in uno stato di soggiogamento, di cui P«uomo spirituale» menava vanto. È proprio questo modello che è venuto a cadere, sotto la spinta di vari movimenti rivendicanti una «riappropriazione del corpo» 43. Non solo il celebrante, ma anche i partecipanti a un rito rischiano oggi, in clima di ritorno al corpo, di sentire come frustranti le ridotte possibilità di comunicazione conseguenti alla subalternità del corpo.

Ritualità e inconscio

Alcune delle concezioni più in voga della riappropriazione del corpo, oltre a essere spesso culturalmente ingenue, perché ignorano l’ambivalenza del fenomeno, rischiano un

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appiattimento del corpo, a danno di una delle lezioni più feconde della psicoanalisi. La disciplina del profondo ha reso possibile, infatti, un altro sguardo sul corpo. I sintomi, letti in profondità, si sono rivelati segni di una saggezza strategica che denuncia il contrasto susseguente alla separazione del corpo e dello spirito.

Una delle vie più feconde di introspezione è stata proprio la traccia fornita dal rito, o piuttosto dai rituali o cerimoniali che si trovano spesso nella vita di persone affette da nevrosi ossessiva. Questa parte della teorizzazione psicoanalitica è nota anche al di là dall’ambito clinico, perché è stata sviluppata all’estremo da Freud stesso nei suoi saggi relativi al significato psicoanalitico della religione (specialmente Totem e tabù, 1912 e Mosè e il monoteismo, 1934). Il rito religioso è considerato da Freud, al pari dei cerimoniali patologici, come un sintomo; esso sarebbe l’equivalente socializzato dei rituali ossessivi mediante i quali il nevrotico cerca di scongiurare l’angoscia provocata dalle sue pulsioni represse.

La debolezza teorica di questi sviluppi del pensiero freudiano ha fatto cadere in discredito le dottrine psicoanalitiche sul significato psicodinamico del rito. Né oggi si trova chi sia disposto a scendere in campo per difenderle. Tuttavia un punto essenziale va ritenuto, per non buttar via il bambino con l’acqua sporca: la ritualità ci fa affacciare sull’orlo dell’abisso che si spalanca sull’inconscio.

Un decisivo impulso a valorizzare questa possibilità del corpo è venuta da quei movimenti della psicologia contemporanea che si aprono sulla dimensione umanistica e transpersonale 44. La via era stata già aperta dalle scienze antropologiche. Ad esse si deve lo studio di quelli che potremmo chiamare «stati somatici trascendentali», ovvero del ruolo del corpo nelle esperienze umane di trascendenza. Tutte le culture

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assumono stati somatici di qualità particolare, che espandono la coscienza 45. I più spettacolari sono la trance e l’estasi; ma possono anche avvenire nel quadro della vita quotidiana, ed essere indotti con l’ausilio di bevande, droghe e digiuni; oppure con la meditazione, che si avvale di tecniche di respirazione, coltivate soprattutto dalla tradizione dell’Oriente. Secondo Maslow, tali esperienze sono parte integrante della potenzialità del corpo umano e costituiscono delle peak-experiences 46. Attraverso di esse il corpo conosce la vertigine dell’assoluto.

Nell’ambito di una religione rivelata, com’è il cristianesimo, e che sottolinea con tutto il vigore possibile la trascendenza del divino, può sembrare irritante parlare di vicinanza o lontananza di Dio in rapporto con tecniche corporee, o affermare che in fondo agli stati mistici di coscienza unitiva ci sono tecniche del corpo. Tuttavia una condanna troppo radicale di queste espressioni di religiosità naturale porterebbe a un isolamento controproducente per i valori spirituali, i quali, senza essere monopolio delle religioni organizzate, si radicano in esperienze che sono comuni a tutti. Il rito religioso acquista un profondo rilievo, se considerato su questo sfondo: in rapporto, cioè, all’«inconscio superiore» 47, sede della

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creatività e della realizzazione delle possibilità religiose dell’essere umano, invece che in rapporto all’inconscio pulsionale o inferiore, come ha fatto la psicoanalisi freudiana.

Corpo e comunicazione

Il tradizionale interesse per lo studio del comportamento di comunicazione verbale, considerato con fierezza come caratteristica peculiare dell'homo sapiens, ha visto scalfito il suo monopolio da un crescente espandersi della ricerca scientifica sulla comunicazione non verbale. L’antropologia sembra quasi aver preso le distanze da un approccio esclusivamente «logocentrico» dell’essere umano. Questo aveva portato a minimizzare le risorse espressive del corpo, a vantaggio della parola, ma a danno delle possibilità espressive globali 48.

Le scienze antropologiche dell’Occidente oggi tendono a spostare la loro attenzione sui movimenti, gesti, posture ed espressioni del corpo fisico. E non solo con quella curiosità etnografica che induceva a studiare il corpo dei primitivi ― la nudità, la danza, il tatuaggio — con lo scopo recondito di ricondurre le diversità inquietanti registrate in altre culture entro i limiti della razionalità occidentale. Se il «logocentrismo» è visto come causa di alienazione, il «somatocentrismo» è considerato, al contrario, come un aiuto a tornare all’umano nella sua integralità (la body experience come self experience). È ancora troppo presto per celebrare la fine della monocultura della parola, che affligge l’Occidente. Ma abbiamo almeno cominciato a renderci conto che l’eccessiva dipendenza dal linguaggio verbale, la cui caratteristica essenziale è l’arbitrarietà, ha portato all’atrofia le risorse di comunicazione:

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siamo diventati ciechi e sordi ai potenti simboli espressivi del corpo. Ridare al linguaggio del corpo la priorità rispetto a quello verbale nell’espressione individuale e nella comunicazione sociale equivale a una rivoluzione antropologica. Ed è una rivoluzione che va fatta non come una fuga in avanti, ma piuttosto con un recupero di ciò che la cultura occidentale ha lasciato per strada nel suo cammino.

Attraverso il corpo, che è lo strumento plastico e sensibile della comunicazione non verbale, possiamo talvolta capire di più di quanto sappiamo attraverso i processi cognitivi che ci vengono insegnati nel corso del processo di inculturazione. É una comunicazione diretta, che può essere chiamata un «corpo a corpo». Le scienze antropologiche ritrovano così un’indicazione già formulata dai filosofi che hanno condotto una riflessione sul corpo a partire da un approccio fenomenologico-esistenziale 49. Il corpo — notava M. Merleau-Ponty — ci unisce a quella chair commune, che non ha inizio con noi, ma che troviamo già là prima di diventare capaci di consapevolezza. La vita è precedente a noi, e da essa emergiamo. Il nostro corpo ci isola da questa grandezza collettiva, da questa chair commune (possiamo riferirci ad essa considerandola, con uno sguardo sempre più ampio, come l'umanità, o come il regno del bios, o come il kosmos). Benché il corpo ci separi come individui dal fiume della vita, allo stesso tempo ci unisce organicamente ad esso. Il corpo è confine, vale a dire contemporaneamente realtà che ci separa e ci unisce al tutto.

Questa prospettiva antropologica consente di dare tutto il dovuto rilievo alla ritualità, comunque essa si esprima: nell’ambito del sacro come in quello profano. Il rituale è una forma di comunicazione a mediazione corporea, che si presenta come una forma di compromesso tra la distanza-separazione e l’intimità. In esso si esprime tanto il bisogno, quanto la paura del contatto. Solo l’intimità che si realizza

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nella comunicazione interpersonale permette una partecipazione alla chair commune, senza che i confini che ci individuano siano aboliti.

Come sostitutivo e surrogato dell’intimità, facciamo ricorso ai rituali. Ad essi spetta un posto discreto ma non insignificante nella gamma delle nostre possibilità espressive e comunicative. Se il rito si affaccia, da una parte, sull’abisso dell’inconscio e ci fa provare la vertigine dell’assoluto, dall’altra, sui piano interpersonale, ci avvicina alla comunione tra gli esseri.

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II. LA MEDICINA SOTTO IL SEGNO DELL'ALLEANZA

II. 1 - gli ideali etici nella professione del medico, ieri e oggi

L’attenzione ai problemi della medicina è tradizionale nel cristianesimo. A. von Harnack ha potuto addirittura affermare che il cristianesimo è essenzialmente una religione medica. Il Vangelo stesso è apparso sulla terra come annuncio di un guaritore e di una guarigione. Di conseguenza, la religione cristiana non può essere assente là dove si tratta di contribuire con la riflessione a una delle questioni pratiche che si ripropongono ogni volta che lo sviluppo culturale giunge a una svolta critica: a quali condizioni un medico può essere considerato un «buon medico»?

Vir bonus, sanandi peritus: parallelamente all’evolversi delle conoscenze e abilità prerequisite sul versante della competenza scientifica, si delinea in ogni epoca una bonitas richiesta al medico per meritare la fiducia che l’individuo e la società gli concedono, e sulla quale si fonda il permesso di esercitare l’arte terapeutica.

La bonitas non ha una connotazione esclusivamente religiosa. Anche il pensiero della società civile converge nell’esigere dal medico che abbia buoni costumi. Nella tradizione dell’Occidente il filone laico è rappresentato emblematicamente dal costante riferimento a Ippocrate e all'ethos detto appunto ippocratico. Senza mores non esiste vero medico: è il senso di quell’ippocratismo che produrrà, in epoca scolastica, minuziosi trattati di etichetta medica, precorritori dei

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moderni codici deontologici. La formazione morale è parallela a quella intellettuale, e non meno importante di quest’ultima. Questa esigenza troverà un’espressione «ecumenica» nei tre rami della medicina scolastica — araba, ebraica e cristiana —, unanimi nel richiedere al medico una perfetta correlazione tra un corpo sano e uno spirito moralmente irreprensibile. «Il filosofo — troviamo scritto nel trattato Pratica etica del medico, scritto in arabo da al-Ruhawi, un cristiano nestoriano — cerca solo il vantaggio dello spirito, mentre il medico virtuoso deve cercare il vantaggio tanto del corpo quanto dell’anima. Il medico è così l’uomo che imita, tanto quanto può, gli stessi atti di Dio».

In forza di questa visione religiosa, non si è esitato a considerare l’esercizio della medicina, fino in epoca moderna, come una professione a regime speciale: più «missione» che professione. La missionarietà è stata considerata come fonte di esigenze specifiche, riguardanti sia le motivazioni, sia le modalità con cui la medicina viene esercitata al quotidiano. È un ordine di problemi che, dopo un apparente affossamento a favore di una concezione esclusivamente scientifica e socializzata della professione, è ritornata di attualità sull’onda del dibattito relativo all’«umanizzazione» della medicina. Si è voluto identificare, infatti, nella perdita di idealità e di ispirazione filantropica tra coloro che esercitano l’arte sanitaria una causa del calo preoccupante di qualità che si registra nella pratica medica. Se non si contrasta l’emorragia di anima tra i professionisti della sanità, si avrà una medicina in rapido degrado, malgrado i crescenti progressi tecnici.

Essere un «buon» medico è per un cristiano un’esigenza che richiede un’ulteriore specificazione della bonitas. Un primo livello di quest'ultima è, nei casi di conflitto di valore, la coerenza delle scelte con le esigenze della morale cristiana. Un medico cristiano potrà dire di avere una vita morale conforme alla sua vocazione se si adegua alle norme della morale cristiana nelle situazioni concrete che si presentano nella pratica della professione. A tal fine si è sviluppato, all’interno

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della teologia morale, il capitolo della «morale medica» (ampliatasi più di recente, dal punto di vista contenutistico, con i problemi affluenti dalla biologia; in conseguenza di questo ampliamento tematico, è diventata frequente la designazione di questo ambito della morale col nome di «bioetica»). La morale medica ha formalizzato in un corpo dottrinale le regole a cui il medico cristiano deve attenersi in merito all’aborto, all’eutanasia, alla contraccezione, al trapianto di organi, alla sterilizzazione, al prolungamento artificiale della vita, alla fecondazione «in vitro», alla creazione e utilizzazione di embrioni, alla sperimentazione con esseri umani, ecc.

Oltre a questo aspetto formale — è un buon medico cristiano colui che segue le regole morali autorevolmente proposte dalla Chiesa, nelle diverse articolazioni del suo magistero dottrinale — emerge oggi sempre di più la ricerca di un habitus, morale, consistente soprattutto nelle virtù che si attualizzano non solo nei casi di conflitto più clamoroso, ma anche in quella prassi che potremmo chiamare «etica al quotidiano». Da questo punto di vista, un buon medico cristiano è chiamato a sviluppare delle virtù personali, tanto teologali che cardinali; a introiettare una concezione antropologica che lo porti ad accostare l’altro essere umano così come ce lo presenta la rivelazione cristiana; a elaborare uno «stile» di esercizio professionale che lasci trasparire, nel tessuto della sanità contemporanea, quella particolare sensibilità che fa del cristianesimo una «religione medica».

Medico ippocratico e/o medico cristiano

Uno degli argomenti con cui frequentemente si sente rifiutare un confronto specifico del medico con la morale cristiana è quello della «sufficienza» dell’etica professionale elaborata fin dall’antichità, e nella quale tutti i medici fondamentalmente si riconoscono. Per il medico, in altre parole, sarebbe sufficiente modellarsi sull’ideale della medicina ippocratica:

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tanto basta per essere un «buon» medico. Tale ideale richiede al medico un atteggiamento fatto di accoglienza di qualsiasi malato, di preoccupazione per il bene del malato stesso, di filantropia. L’ispirarsi ad un ideale cristiano può essere, in quest’ottica, un «di più» opzionale, che si può prendere o lasciare senza intaccare la struttura di fondo dell’etica richiesta dalla professione medica.

Il richiamo all’ippocratismo etico non ha necessariamente una valenza anticristiana. Talvolta ci si riferisce all’ideale ippocratico con la speranza di poter arrivare a un accordo sostanziale sui problemi di fondo della pratica della medicina, malgrado il pluralismo di orientamenti etici che può far sembrare il dialogo irrealizzabile. Tuttavia, se non vogliamo cadere in uno schematismo semplicista (facendo magari dell’ippocratismo uno schermo su cui ognuno proietta il modello ideale di medico che auspica), dobbiamo considerare diversamente il rapporto tra l'ethos medico che deriva con continuità storica dal mondo antico e quello che si ispira ai valori cristiani. A un esame storico, il generico ideale ippocratico si sfaccetta in una pluralità di modelli. Non c’è dubbio che il mondo classico sia arrivato a formulare l’ideale a cui il medico deve aspirare, e gli obblighi che acquisisce verso il malato, in termini di misericordia, solidarietà, fratellanza universale: in una parola, come un’«etica della filantropia». Ma questo ideale non è stato l’unico, né si è imposto unitariamente in Lutto l’ambiente medico dell’antichità. I diversi modelli che il mondo greco-romano ha espresso hanno un rapporto peculiare con l’animazione etica della professione che deriva la sua linfa dal cristianesimo.

Nell’epoca classica della civiltà greca il comportamento del medico non si ispirava agli obblighi verso l’umanità. Negli scritti veramente ippocratici (V sec. a.C.) la «filantropia» è intesa come gentilezza e buone maniere, in pratica come contrapposto della misantropia. I suggerimenti impartiti al medico riguardavano i comportamenti più efficaci da tenere nel corso del suo lavoro, al fine di conseguire la fiducia del paziente e distinguersi dai numerosi guaritori ciarlatani. In

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altri termini, si tratta più di «etichetta» che di etica medica. In questa fase dello sviluppo delle norme per essere un buon medico, l'ethos è quello di una corretta prestazione esterna. Il medico era, in pratica, un artigiano ed esercitava la sua arte (techne) come gli altri artigiani. L’età classica, come risulta dagli scritti platonici, giudicava il lavoro manuale sulla base della competenza e dell’efficienza. Nessuna particolare idealizzazione esaltava la medicina al di sopra delle altre professioni: era considerata un’arte come le altre, estranea a valori come l’intenzione interiore, la motivazione e il cuore. In pratica, a chi esercitava un’arte, la filosofia classica non attribuiva la possibilità di un’autorealizzazione etica tramite la professione.

Il medico artigiano aveva una sola credenziale: la buona reputazione. L’acquistava con l’apprendimento, l’abilità, la coscienziosità, la corretta prognosi, e in generale conducendo una vita onesta. Attraverso la porta bassa della ricerca della, buona fama (doxa) — non certo l’ideale più sublime che possiamo concepire dal punto di vista etico! — è entrato così nella cultura dell’Occidente il principio che la medicina è un’arte in cui la conoscenza è inseparabile dalla moralità.

Il secondo stadio dell’evoluzione dell’ethos medico dell’antichità pre-cristiana presuppone la trasformazione spirituale che si è espressa nell’insegnamento pitagorico e nella filosofia stoica. La filosofia pitagorica comprendeva ideali di giustizia, fortezza, purezza e santità, e soprattutto di profondo rispetto per la vita. Il celebre giuramento attribuito a Ippocrate è molto probabilmente un prodotto dell’etica pitagorica, applicata alla medicina. I medici pitagorici potrebbero averlo redatto come un programma di riforme, e forse anche come protesta contro le pratiche correnti, tutt’altro che ispirate al rispetto per la vita. In seguito il giuramento fu considerato opera del grande Ippocrate, allo stesso modo in cui gli furono ascritte le opere mediche della biblioteca di Alessandria, secondo un processo di accreditamento comune nell’antichità. Gli ideali rappresentati dalla scuola pitagorica fecero da ponte tra il paganesimo e il cristianesimo, il quale,

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elevando il rispetto e la promozione della vita a imperativo etico fondamentale, avrebbe cambiato i fondamenti della civiltà antica anche per quanto riguarda l'ethos della pratica medica.

Dobbiamo soprattutto alla filosofia stoica l’aver reso possibile a ogni stato di vita, compreso quello dell’artigiano, il perseguimento di un ideale etico. Anche l'ethos dell’artigiano medico fu riformulato e la medicina elevata al rango di arte filantropica. La moralità della prestazione esterna, caratteristica dell’epoca classica, cedette così il posto alla moralità dell’intenzione: il medico, secondo Gallieno, non può non essere filosofo. Si struttura così in modo compiuto l’umanesimo medico dell’antichità. Esso trova la sua espressione letteraria negli scritti deontologici del Corpus Hippocraticum: il giuramento in primo luogo, ma anche i Precetti, Sul medico, Sul decoro. Composti in epoca ellenistica o addirittura cristiana, rispecchiano nella sua forma più compiuta l’ideale del medico come amore per l’umanità, cioè come filantropia.

A un’analisi più accurata, si riconoscono nei vari scritti sfumature filosofiche diverse. Così nello scritto Sul medico predominano le virtù della scuola aristotelica: il medico deve essere onesto, prudente, gentile. La sintesi suprema è costituita dal primo paragrafo di questo libro, nel quale il comportamento abituale prescritto al medico è detto kalós kai agathós, «bello e buono». Riconosciamo subito la suprema eccellenza dell’uomo nel mondo omerico, la kalokagathia. Questa non è più privilegio fisico e morale delle stirpi nobili, bensì una virtù accessibile a coloro che praticano con decoro un’arte, in questo caso quella di curare. Il buon medico diventa moralmente un aristos, un «nobile».

Precetti e lo scritto Sul decoro mettono piuttosto l’accento su valori stoici, come la saggezza e la scelta razionale. Negli scritti di Scribonio Largo — I secolo d.C. — l’etica della prestazione materiale e quella dell’intenzione interiore sono diventate un’unità inseparabile. L’umanesimo stoico trasmesso da Cicerone diventa per Scribonio Largo il fondamento

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di specifiche virtù professionali. Il medico come filantropo deve misericordia e humanitas a ognuno dei suoi malati, sulla base della fratellanza tra gli uomini. L’amore dell’umanità, che si esprime in un sentimento di simpatia universale, diventa la virtù professionale del medico.

L’ideale etico del medico cristiano dell’antichità si colloca in posizione di continuità o di rottura con l’ideale pagano? La risposta a questa domanda non è semplice: è imbricata con le questioni fondamentali del rapporto tra fede e storia, Chiesa e cultura, trascendenza della salvezza offerta ed incarnazione del messaggio. I rapporti tra i valori cristiani e quelli espressi dal mondo greco-romano non sono unidirezionali; è più facile spiegarli mediante un’influenza reciproca. Col diffondersi del cristianesimo il pensiero pitagorico era il più adatto a creare un ponte tra l’ambiente culturale pagano e la nuova fede. Ciò permise la «cristianizzazione» dell’ethos medico che si era coagulato attorno al giuramento ippocratico: quell’etica fu considerata, infatti, naturaliter cristiana. D’altra parte, l’alta considerazione del medico in ambiente cristiano, in quanto la sua attività lo fa rassomigliare al Cristo terapeuta, può aver influito sullo sviluppo dell’ideale stoico del medico-filantropo, che esercita la professione con amore disinteressato nei confronti di tutti coloro che hanno bisogno della sua opera.

Una chiarificazione ulteriore dei rapporti tra comunità cristiane e mondo classico nell’ambito della cura della salute ci viene dagli sviluppi del tema del Christus medicus nella letteratura patristica.

Christus medicus: le implicazioni etiche di un tema teologico

Un luogo privilegiato per osservare i cambiamenti che il cristianesimo, assumendo l’eredità greco-romana, ha provocato in essa, è il tema del Christus medicus. La designazione di Cristo come medico si trova già nei Padri apostolici. Per Ignazio di Antiochia «esiste un solo medico, Gesù Cristo,

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nostro Signore. Uno è il medico, di carne e di spirito al tempo stesso, generato e increato, Dio apparso nella carne, vera vita nella morte, proveniente da Maria così come da Dio, prima passibile e poi impassibile, Gesù Cristo, il nostro medico»50. In un libro di Atti degli Apostoli apocrifo troviamo una preghiera in cui ci si rivolge a Gesù con queste parole: «Tu che sei il solo protettore di questi servi e medico che guarisce senza compenso, tu solo sei misericordioso e ami gli uomini (philanthropos), tu sei il solo salvatore (soter) e giusto» 51.

Nella letteratura patristica latina il motivo del Cristo medico è ripreso da Girolamo, Ambrogio, Agostino e diversi Padri minori. L’immagine offre l’opportunità di riferirsi ad alcuni aspetti del comportamento professionale del medico, stabilendo al tempo stesso un parallelo con l’azione di Cristo nei confronti del credente. Così, per quanto riguarda ik primo contatto tra il medico e il paziente, viene sottolineato che è il malato che deve rivolgersi al medico, affinché si instauri il rapporto di fiducia; il medico divino, invece, assume lui l’iniziativa con il paziente. Un altro contrasto sottolineato in tutto lo sviluppo storico del motivo è quello tra l’amarezza della medicina usata e l’efficacia terapeutica del mezzo usato dal medico. Secondo Agostino, il Cristo ha bevuto per primo l’amaro calice della rinuncia e del dolore, affinché il paziente sia animato ad affrontare l’amara ma salutare medicina 52: «Medicina autem ideo inventa est, ut pellatur vitium ed sanetur natura. Venir ergo Salvator ad genus humanum, nullum sanum invenit, ideo magnus medicus venit» 53. Nell’omiletica di Agostino, nella quale il motivo raggiunge la sua massima fioritura, il medico divino guarisce la natura dell’uomo, è un medico dell’umanità, piuttosto che del singolo

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individuo. Il tema diventa così una metafora tra le altre per indicare l’opera della Redenzione.

Anche gli altri Padri latini, nell’insegnamento catechetico, si servono dell'immagine di Gesù medico per spiegare come avviene la Redenzione. Il Salvator opera la guarigione. La minaccia di una malattia è assunta come simbolo della peccaminosità. «Ciò che la malattia e le ferite sono per il corpo, lo è il peccato per l’anima» 54. Altre analogie utilizzate sono quelle della penitenza come medicina: «Vulnus medicum quaerit, medicus confessionem exigit» 55; oppure quella del medico che per soccorrere il paziente gli deve procurare dolore, incidendo o cauterizzando. Per Agostino il motivo del Christus medicus è soprattutto simbolo della dottrina teologica della grazia: nello schema della natura e della grazia (la giustificazione come processo di guarigione della natura), il Cristo nella sua morte guarisce col suo sangue, è per il peccatore al tempo stesso medicus e medicamentum 56. La «medicina» non si può perciò separare dal medico, come un’energia risanante che agisce per forza autonoma; nel farmaco, piuttosto, si comunica il medico stesso.

Il motivo del Cristo medico non è stato, dunque, tematizzato per dibattere questioni etiche; è stato piuttosto utilizzato per interessi dogmatici o, più esattamente, catechetici: simbolizzare l’evento della Redenzione, presentando il Cristo come il medico che, per mezzo della grazia, risana la natura corrotta. Gii aspetti pratici dell’attività terapeutica del medico nel motivo del Cristo medico sono accennati solo di sfuggita (l’iniziativa del medico o del malato, la prescrizione della medicina amara, l’efficacia del farmaco che guarisce le cause), in quanto offrono spunti per illustrare il processo della salvezza in senso teologico.

Oltre alle implicazioni soteriologiche, il motivo ha anche altre finalità? In passato gli storici hanno molto discusso

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sul possibile intento apologetico dell’attribuzione del titolo di medicus a Cristo, per contrapporlo al dio greco della medicina, Esculapio. La tesi è stata difesa da Harnack e da altri storici, i quali ritenevano che la devozione popolare ad Esculapio avesse costituito una minaccia per il cristianesimo. Il culto asclepiadeo era concentrato in alcuni santuari; i più celebri, tra i circa 200 santuari dell’ambito greco-ellenistico, si trovavano a Epidauro, Kos, Pergamo, Roma. Il santuario di Epidauro, in particolare, è descritto come una Lourdes dell’antichità...

La contrapposizione polemica di Cristo medico a Esculapio non sembra, alla rilettura attuale del cristianesimo delle origini, così centrale come era stata fatta sembrare. L’ostilità degli apologisti cristiani nei confronti di Esculapio è della stessa natura di quella che ha indotto la Chiesa antica ad avversare le divinità greco-romane e la mitologia pagana. Esculapio non costituì un particolare contraltare all’immagine del Salvatore proposta dal cristianesimo. Oggi si tende anche a relativizzare la tesi che proprio la devozione a Esculapio avrebbe indotto a privilegiare il titolo di Salvator (soter) attribuito a Cristo.

Tra i due culti esisteva una diversità fondamentale circa l’universalità della salvezza. A differenza di Esculapio, che si accosta solo a qualcuno, il Cristo Soter porta la salvezza a tutti. Questa concezione di natura religiosa non è stata priva di conseguenze per quanto riguarda il rapporto tra medico e malato. I cristiani non hanno certo inventato la medicina, che nel mondo classico aveva autonomamente sviluppato sia una grande tradizione scientifica, sia un nobile ethos; ma il cristianesimo ha trasferito in essa un’esigenza di universalità, che affonda le radici nella dottrina teologica dell’universalità della salvezza. In forza di questa universalità, il medico cristiano si sente rigorosamente impegnato verso qualsiasi uomo sofferente. Notava l’imperatore Giuliano, nel IV secolo: «Ciò che fa forti (i cristiani) è lavoro filantropia nei confronti degli estranei e dei poveri... È vergognoso per noi (pagani) che i galilei non esercitino la misericordia solo con

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quelli che condividono la loro fede, ma anche con quelli che venerano gli idoli».

Una prima conseguenza pratica: la deontologia medica classica, che escludeva gli inguaribili dal trattamento, non poteva più essere accettata dal punto di vista cristiano. Il medico del mondo classico si asteneva dal curare i malati per i quali non c’erano prospettive di guarigione, non per carenza di etica professionale, ma per un motivo fondamentalmente religioso. La medicina ippocratica, infatti, affidava come compito al medico quello di agire secondo la physis e il logos. Non forzare la natura era quindi espressione di una certa pietas physiologica. La sequela del Cristo conduceva invece ad anteporre la philanthropia alla physiophilia, superando la concezione di una natura divinizzata. La cura dei malati più abbandonati e dei derelitti diventò perciò un segno caratteristico della caritas cristiana e della missione della Chiesa. I primi ospedali, sorti nel IV secolo, dopo la svolta costantiniana, sono un’espressione di quella cura dei malati senza discriminazione, con predilezione per coloro che la scienza medica abbandona, che deriva dall’insegnamento di Gesù.

Anche dietro il motivo teologico del Christus medicus come simbolo della salvezza offerta a tutti gli uomini pulsa il ricordo storico della dedizione di Gesù ai malati. Esso ha influenzato la pratica sanitaria propria della Chiesa antica. Ne è derivato anche un nuovo tipo di rapporto con il malato, che si discosta da quello in vigore nella medicina dell’antichità. Anche quando il modello etico derivato dall’ideale della filantropia avrà raggiunto la sua espressione più compiuta, nella medicina precristiana si nota una considerevole distanza e freddezza nel rapporto tra medico e paziente. La comunità cristiana, invece, non abbandona i malati, ma li fa piuttosto oggetto di un’attenzione particolare. Il modello del comportamento stesso di Gesù con i malati sta sullo sfondo di questa innovazione introdotta nell’atteggiamento verso colui che soffre.

Il motivo del Christus medicus, benché si sia sviluppato

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con preoccupazioni principalmente dottrinali, ha svolto anche il compito di fornire nuovi parametri di comportamento in ambito sanitario. In obliquo, ha connotato un modo nuovo di fare il medico, con una passione per l’uomo derivante da un orizzonte di salvezza universale. Un indice che il motivo non avesse solo valore simbolico in riferimento alla Redenzione è costituito dal fatto che è stato usato con predilezione proprio dai Padri che, come Agostino e Ambrogio, si sono preoccupati di più della cura dei malati. Il medico che si ispira al cristianesimo trova perciò nella sequela di Gesù un nuovo ethos.

Poiché il Cristo nel motivo del Christus medicus viene descritto come il «medico eccellente», che si interessa solo del bene del paziente (Clemente Alessandrino), anche il medico cristiano deve concepire se stesso come strumento di Dio, con la philanthropia divina come motivazione. Come afferma Gregorio di Nissa in una lettera al medico Eustasio, suo amico: «Per tutti voi, che esercitate la medicina, l’amore degli uomini è un’abitudine quotidiana. Mi sembra perciò che giudichino bene, senza esagerare, quelli che pongono la vostra scienza al di sopra di tutte nella vita» 57. Indirettamente viene espressa una grande considerazione per il medico che agisce come il Cristo, dando alla philanthropia lo stesso orizzonte della soteria. In questo senso anche il rapporto medico-paziente ha ricevuto una nuova dimensione dall’avvento del cristianesimo.

Essere medico nella prospettiva messianica

Il confronto tra l'ethos del medico dell’antichità grecoromana e quello che si è venuto gradualmente formulando all’interno della comunità cristiana ci permette di individuare l’elemento che specifica l’etica medica ispirata alla sequela messianica. Il principio formale dell’etica delle primitive comunità cristiane è l’azione modellata su quella del Cristo

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storico. In questa prospettiva, il malato diventa un luogo privilegiato della prassi messianica e l’attività terapeutica acquista, secondo il significato etimologico originario di therapeuein, il valore di un «servizio».

Questo ideale etico si demarca da quello naturalistico, in misura analoga a quanto le virtù teologali si differenziano dall’intenzione filantropica. Il terapeuta cristiano tende ad adeguare la sua prassi a quella messianica di Gesù. Nella pratica degli occhi e degli orecchi (vedere la realtà e ascoltarne l’appello) si esprime la fede; nella pratica dei piedi (camminare dietro al Messia, dopo aver abbandonato barca e reti, famiglia, sicurezza) prende corpo la speranza; la pratica delle mani (fasciare le ferite e versarvi sopra l’olio, come il buon samaritano) equivale alla carità.

Che cosa, in concreto, implichi l’assunzione del modello messianico nei confronti dei malati, emerge dai tratti che conosciamo della comunità cristiana delle origini. Il malato è considerato in essa un membro cui spetta un posto privilegiato all’interno della comunità. Gli occhi del credente vedono la sua vera realtà, al di là di ciò che gli occhi della carne riescono a scorgere. E anche là dove la visione degli occhi, benché illuminati dalla fede, fa difetto, le mani hanno accesso diretto alla realtà della salvezza. Secondo la formulazione di Mt 25,39-40, nel malato c’è Gesù stesso («Signore, quando ti abbiamo visto malato o prigioniero, e ti abbiamo visitato?... In verità, ogni volta che lo avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me»). La mano del credente, posta nella sequela messianica, si apre a condividere, secondo le esigenze radicali della comunità fraterna (cf. At 2,44-47) e a «sostenere i deboli e gli infermi» (cf. 1Ts 5,14). È ancora la prassi della mano quella che vediamo nell’unzione con l’olio, che allevia il dolore e salva il malato (cf. Gc 5,14-16).

La speranza si traduce in una pratica dell’assistenza ai malati atipica rispetto a quella della società, compresa la pratica d’Israele nell’Antico Testamento. Guardando all’assistenza agli infermi messa in atto dalla comunità cristiana dei

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primi secoli, Origene poté scrivere, con tono di leggero trionfalismo apologetico: «Con i loro bei discorsi, Platone e gli altri saggi greci sono simili a quei medici che trattano solo le classi elevate e disprezzano la gente del volgo; mentre i discepoli di Gesù si preoccupano che tutta la tavola riceva un alimento sano» 58.

L’attività terapeutica che si sviluppa sulle orme del Messia affonda le radici nelle virtù teologali e fiorisce in comportamenti di ampiezza universale, altruistici e disinteressati nella motivazione. La professionalità del medico che vi si ispira non ha bisogno di complicati codici deontologici, in previsione dei diversi casi che si possono presentare. Anche perché questa medicina, ricca di sentimenti di amore e di accoglienza, è stata tradizionalmente povera, fino ad epoca molto recente, di mezzi terapeutici veramente efficaci. L’ospedale, che raccoglie pellegrini e poveri, non è un luogo dove viene procurata la guarigione, ma piuttosto dove colui che non può guarire viene amorevolmente assistito, fino alla sua morte. Gli ospedali dell’antichità si prolungano in quelli medievali, predisposti anch’essi per poveri e incurabili. Della città ospedaliera di Cesarea, fondata da san Basilio, Gregorio Nazianzeno scriveva: «La malattia vi era sopportata con pazienza; la disgrazia era considerata con gioia e veniva messa alla prova la compassione di fronte alla sofferenza altrui» 59. Non molto di più si può dire degli ospedali medievali, la cui funzione era quella di permettere ai malati di fare una morte cristiana. In quelle istituzioni si praticava un’etica della morte, più che un’etica della malattia (a differenza di ciò che avveniva nella medicina per ricchi e altolocati; la minuziosa deontologia scolastica, sopra menzionata, valeva per il medico che si occupava delle classi privilegiate, in senso sociale ed economico).

Che questa prospettiva non sia del tutto anacronistica lo dimostrano iniziative come quella di Madre Teresa di Calcutta,

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rivolte a raccogliere i morenti dalla strada e permettere loro una morte umana. È una riemergenza, ad alta densità simbolica, dell’etica della sequela messianica, che ha dato frutti così luminosi in ogni epoca della storia della Chiesa: dagli ospedali dell’antichità e del Medioevo alle diverse istituzioni create per assistere handicappati fisici e mentali, considerati dalla società come casi-limite che non rientrano nello standard di coloro che fruiscono dell’assistenza medica (come i vari «Cottolengo», cronicari, ecc.). L’estensione di questa attività di assistenza ai malati di AIDS dei nostri giorni non è che un’ulteriore illustrazione della mobile frontiera della medicina messianica.

La prassi che ha ricevuto il nome di «accompagnamento dei morenti» è diventata un argomento di grande attualità anche nel mondo occidentale sviluppato. Anzi, soprattutto in questa parte del mondo. Un infausto concorso di diversi fattori culturali ha spinto i morenti ai margini estremi della nostra società, facendone i più poveri tra i poveri. La «tabuizzazione» della morte, infatti, stringe intorno al morente una cortina di reticenze, di dissimulazione o di menzogna, che produce come risultato finale la solitudine più totale di colui che affronta la morte. La scienza medica, d’altro lato, è tutta sbilanciata sul fronte della lotta contro la malattia e del prolungamento della vita. Persegue questo obiettivo anche quando l’azione terapeutica si manifesta come insensata e controproducente: più che prolungare la vita, infatti, prolunga l’agonia e impedisce che la fase finale della vita si concluda nella dignità che spetta a un essere umano. Il furor sanandi che porta il medico a impiegare tutto l’arsenale terapeutico di cui dispone, senza domandarsi se ciò sia ragionevole e se faccia effettivamente il bene del malato, ha creato una situazione diffusa di morte sempre più disumana. L’impegno medico, per quanto lodevole nelle sue intenzioni, è disastroso nei risultati: non aggiunge, infatti, vita alla vita, ma solo sofferenze a un morire dilatato nel tempo.

Non è per caso che proprio negli ambienti segnati da una sensibilità cristiana verso gli ultimi sia sorta di recente

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una nuova attenzione verso i morenti. L’etica messianica mostra di voler raccogliere la sfida che viene dalla nostra cultura tanatofobica, identificando il nuovo bisogno di presenza e rispondendo all’appello muto dei morenti del nostro tempo. Recenti documenti ufficiali di Conferenze episcopali hanno mobilitato la coscienza dei cristiani su questo problema. Iniziative concrete, come quella degli hospices, sono state intraprese nel nome della carità cristiana. Prototipo di questa istituzione è il St. Christopher’s hospice di Londra.

L’intento dell’hospice è quello di fornire congiuntamente l’assistenza medica più adeguata insieme a quella affettivo-relazionale. Ciò implica in primo luogo la scelta dell’ambiente più adatto per concludere la vita. In contrasto con la tendenza a medicalizzare tutti i fatti della vita biologica, dal nascere al morire, con il corollario costituito dall’ospedalizzazione, coloro che si dedicano a umanizzare il morire tendono a riportare l’evento del decesso nel suo luogo naturale: la casa. Quando non è possibile trasportare l’ospedale in casa, fornendo domiciliarmente le cure necessarie, la struttura dell'hospice costituisce un valido compromesso. Si tratta, infatti, di una realtà intermedia tra l’ospedale e l’albergo, nella quale viene prestata attenzione al confort da fornire al morente e ai suoi familiari nella stessa misura con cui ci si preoccupa della terapia, in particolare di quella rivolta a lenire il dolore.

Il soggetto di questo tipo di «medicina messianica» è meno il medico in prima persona, quanto la comunità nelle sue diverse articolazioni. L’intervento della realtà comunitaria è decisivo per tutte quelle cure nelle quali il sintomo non è una disfunzione passeggera che va rimossa, ma piuttosto l’indice di un malessere profondo. Pensiamo, come esemplificazione, ai fenomeni di alcolismo e alle tossicodipendenze. La medicina concepita come intervento professionistico settoriale fallisce regolarmente con questo tipo di mali, anche se dotata di mezzi terapeutici efficaci, mentre hanno successo le cure «povere», ma ad alta concentrazione affettiva (gruppi di Alcolisti Anonimi, Comunità terapeutiche...). Il

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Christus medicus che emerge in queste situazioni come archetipo del guaritore è la personalità corporativa che, da san Polo in poi, è chiamata «corpo mistico». Essa ha nella concreta comunità dei credenti il suo segno sacramentale e il suo strumento privilegiato di azione.

La prospettiva messianica sembra mortificare l’opera propriamente terapeutica del medico; in realtà, invece, la dilata. L’atteggiamento verso la malattia e la guarigione, che abbiamo chiamato «messianico», si differenzia da due altre prospettive di natura religiosa, ampiamente rappresentate nel mondo biblico e presenti anche al di fuori di esso: quella sacerdotale e quella profetica. Dal punto di vista della religiosità sacerdotale, la malattia è un’impurità; il malato va, di conseguenza, segregato dalia comunità, in particolare da quella cultuale (cf . Lv 12,2-8). La prospettiva profetica adotta, invece, il linguaggio del «dono-debito» (o peccato): la malattia è considerata come la manifestazione corporea del peccato del cuore, come castigo di una trasgressione etica, come segno di un cammino fuori dell’Alleanza (cf. Dt 28,15-22). Nella considerazione sacerdotale la risposta alla malattia è la purificazione, mentre in quella profetica è la conversione. I rischi dei due atteggiamenti si manifestano nelle rispettive estremizzazioni: il legalismo per l’una, il moralismo per l’altra.

Al tempo di Gesù i due linguaggi sulla malattia coesistevano. Gesù differenzia il suo atteggiamento messianico tanto dal legalismo (cf. Mc 7,1-16), quanto dalla ricerca di una colpa personale dietro ogni manifestazione patologica (il conflitto con l’estremizzazione della prospettiva profetica riveste nell’episodio del cieco nato i toni della polemica teologica: cf. Gv 9,1-3). Nella prospettiva messianica l’infermità va relazionata all’azione di Dio: in particolare a quella che si manifesta attraverso il suo Messia. Il Vangelo che egli annuncia con il ministero della Parola e con quello della mano, con l’annuncio del perdono e con i gesti della compassione, è una forza che fa vivere. La salute che egli concede non è semplicemente un’assenza di sintomi morbosi, ma un riflesso,

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sul piano della persona totale, della soteria, cioè della vita nella sua massima espressione: dal piano somatico a quello spirituale.

La terapia messianica elimina i sintomi e guarisce gli affetti, apre all’azione di Dio e reintegra i rapporti comunitari. Il medico cristiano, che si situa nella sequela del Messia, promuove consapevolmente un’azione risanante totale, che supera quella che la scienza e la società riconoscono come specifica della sua professione.

Essere medico nella cultura della complessità

Nella nostra società non esiste più un consenso unanime su un modello di uomo da promuovere e sui valori irrinunciabili, in quanto costitutivi dello specifico umano. La situazione è particolarmente acuta nell’ambito della malattia e della salute: le opinioni su ciò che è bene o male — e ancor più su ciò che rispetta o offende la dignità dell’uomo — divergono in modo inconciliabile.

Un caso emblematico è quello delle nuove possibilità procreative, grazie al ricorso a tecnologie biomediche. Su fecondazione extra-corporea, donazione di gameti, madri surrogate, scelta del sesso del figlio, le valutazioni etiche sono le più disparate. L’unico «magistero» che sembra si sia disposti ad ascoltare, nella cultura della tecnologia avanzata, è quello che si presenta con l’autorità della scienza. Anche le istituzioni più radicate nella tradizione hanno difficoltà a far trapassare i valori umanistici nella coscienza di coloro che aderiscono ad esse. La Chiesa cattolica, ad esempio, in tutto l’ambito della riproduzione, della difesa e del rispetto della vita ha impegnato fortemente la propria autorità morale, per promuovere presso i fedeli una prassi in armonia con la concezione personalista cristiana. E tuttavia le indagini sociologiche rilevano che, per quanto attiene ai metodi contraccettivi, all’aborto e al ricorso alle svariate possibilità della «procreatica» in caso di sterilità, anche i cattolici tendono a

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orientarsi secondo quanto è proposto con l’avallo della scienza medica, piuttosto che in conformità con le indicazioni dottrinali del magistero ecclesiastico.

Nell’ambito dei nuovi poteri che l’uomo ha acquisito sulla vita e sulla morte, la questione centrale è quella di sapere se una tecnica assicura un progresso per la persona e per la comunità umana, o se, al contrario, comporta un regresso o veicola un rischio di disumanizzazione. Secondo un documento dell’Episcopato francese (Vita e morte su richiesta, 1984), per arrivare a discernere ciò che, nell’ambito di tutto ciò che è fattibile tecnicamente, è compatibile con le esigenze morali, bisogna superare l’ostacolo costituito da una duplice logica corrente: quella del sentimento e quella della tecnica. Ambedue tendono a porre la soggettività al di sopra di ogni norma etica; anzi, la bontà morale nell’azione viene correntemente commisurata sulla sua rispondenza al desiderio: è bene ciò che porta al soddisfacimento di ciò che è sentito soggettivamente come desiderabile. Non si accetta un principio regolatore del desiderio, come se questo non avesse altra regola che se stesso. La logica tecnica, d’altra parte, induce a perseguire ogni fine realizzabile, spingendo il progetto di dominio della natura fino alla completa disposizione del proprio corpo. In fondo a questo progetto si delinea la figura mitica dell’autopoiesis, cioè l’autocreazione dell’uomo.

La situazione attuale di complessità e di pluralismo di orientamenti etici espone il medico a un confronto con richieste che esigono, più che in passato, il discernimento che si fonda sulla virtù della prudenza. Anche l’etica greca richiedeva dai medico la phronesis, ovvero, secondo la definizione di Aristotele, «la capacità di distinguere rettamente ciò che è buono» nelle cose che riguardano il singolo. Il compito etico del medico era tuttavia facilitato dal fatto che la physis costituiva la base dell’etica, la norma della moralità essendo data dall’applicazione del logos alla conoscenza dell’ordine della physis. In altre parole, nell’etica a orientamento «deontologico» è buono ciò che segue l’ordine della natura, è cattivo ciò che altera questo ordine. L’assunzione della medicina

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«fisiologica» dell’antichità da parte del cristianesimo medievale ha rafforzato questa concezione naturalista: l’uomo non può e non «deve essere» (deontos) altra cosa che il servitore della natura, adattandosi all’ordine della natura 60, che in ultima analisi è un ordine divino — in quanto Dio è il creatore della natura e delle sue leggi — l’uomo realizza la «giustizia» e la «virtù».

L’orientamento alla lex naturalis, partecipazione della lex aeterna 61, non offre più un criterio di discernimento per l’uomo della nostra epoca. Caratteristica della tecnica contemporanea, a differenza di quella greca e medievale, è di produrre «artificialmente degli esseri naturali» (Zubiri). Non produce più soltanto degli «arte-fatti», contrapposti alle realtà naturali, ma interviene in zone sempre più ampie dell’essere vivente, producendo le stesse cose della natura e dotate della stessa attività naturale. L’«artificialità» non è più, in sé, un criterio di valutazione morale.

Il medico si trova oggi sempre più spesso sollecitato a interventi che non si situano entro il quadro dell’opera «terapeutica» in senso formale. Pensiamo alla richiesta di un figlio «a ogni costo», mediante il ricorso a uno dei numerosi artifici che rendono possibile attualmente generare un figlio, qualunque sia l’impedimento naturale: interventi che non possono essere qualificati come «terapia della sterilità» in senso stretto, a meno che la sofferenza a causa della sterilità non venga considerata, in quanto tale, una «malattia» da cui la coppia domanda di essere liberata. La decisione di fare un figlio con l’aiuto della tecnologia biomedica può provenire da una donna nubile, o da una coppia omosessuale; può rispondere al desiderio di evitare un rischio fondato di trasmissione di malattia genetica, ma anche a quello di avere un figlio con determinate caratteristiche (si veda il ricorso a inseminazione artificiale con gameti di premi Nobel...).

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Altre situazioni possono essere ancor più problematiche. La richiesta di cambiamento di sesso è una di queste. Il transessuale, che vive il proprio corpo come «sbagliato» rispetto all'identità sessuale che ha acquisito, può domandare al medico di uniformare la propria realtà somatica a quella «giusta», vale a dire al sesso che ha scelto nel corso del processo di acquisizione dell’identità sessuale. Anche alcuni interventi di chirurgia plastica cadono nella terra di confine tra la medicina come impresa terapeutica e la medicina come possibilità di servizi a vantaggio del desiderio soggettivo.

Ancor prima che l’esplosione della «medicina del desiderio» esponesse il medico a un confronto così radicale con una richiesta che può esprimere valori in conflitto con quelli ai quali aderisce, la professione medica ha elaborato dei criteri per filtrare le richieste che le vengono rivolte. Uno di questi è la deontologia professionale. Questa stessa funzione ha svolto il richiamo costante all’ethos ippocratico, contenente l’impegno formale del medico a non offrire la sua opera per l’interruzione volontaria della gravidanza e per l’eutanasia attiva. L’elaborazione di norme deontologiche, alle quali tutti i professionisti si attengono in nome della «dignità» e del corretto esercizio della professione, è una possibilità poco utilizzata nell’ambito medico, mentre potrebbe offrire ai medici un aiuto di non poco conto per discernere ciò che si concilia con lo spirito che anima la professione medica e ciò che invece la contraddice in modo insanabile.

La deontologia corrente si limita, negativamente, a menzionare la possibilità che il medico si opponga sollevando l’obiezione di coscienza, nel caso in cui gli vengano richieste prestazioni professionali in contraddizione con la sua visione etica. Si ha obiezione di coscienza, in senso giuridico, quando il cittadino rifiuta di adempiere un compito, demandatogli dalla legittima autorità, perché tale compito contrasta con i suoi principi morali. L’obiezione di coscienza, espressione di una concezione sociale liberal-democratica, è riconosciuta in Italia dalla Carta Costituzionale (cf. artt. 2, 19, 21) e costituisce un modo corretto di risolvere il contrasto tra la coscienza

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individuale e la sensibilità sociale, di cui la norma giuridica è espressione.

Il caso più frequente di obiezione di coscienza in ambito sanitario è quello della partecipazione a una interruzione volontaria della gravidanza. La possibilità è prevista dalla Legge n. 194 del 1978, che ha introdotto in Italia l’aborto legale. L’art. 9 della Legge indica nel «personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie» coloro che possono legittimamente esprimere il dissenso, pur restando cittadini integrati nella struttura statuale. L’esonero riguarda esclusivamente le attività specificamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, non le altre attività sanitarie che eventualmente precedono o seguono l’intervento. La possibilità legale e deontologica di sollevare obiezioni di coscienza nei confronti dell’aborto è stata ampiamente utilizzata in Italia dai medici, sia in nome delle proprie credenze religiose, sia in nome delle convinzioni etiche secolari.

La recente «Guida europea di etica medica», proposta dalla Conferenza degli Ordini dei Medici della Comunità Europea (gennaio 1987), prevede: «È conforme all’etica che il medico, in ragione delle proprie convinzioni, rifiuti di intervenire nel processo di riproduzione o nel caso di interruzione della gravidanza o di aborto, invitando gli interessati a ricorrere al parere di altri medici» (art. 18). È importante notare l’allargamento della tradizionale obiezione all’aborto anche ad altri casi indicati genericamente come «interventi nel processo di riproduzione». Ciò si applica ad alcuni metodi contraccettivi, come l’uso della spirale intrauterina. La modalità di azione dei dispositivi intrauterini non è del tutto chiara dal punto di vista fisiologico; la spiegazione più probabile è che impediscano l’impianto dell’ovulo fecondato nell’utero. Equivalgono quindi, in pratica, a un aborto precocissimo. Molti medici, che sono contrari per principio all’aborto, estendono il loro rifiuto a prestare l’opera professionale anche a questo procedimento contraccettivo.

L’indicazione della Guida europea può estendersi anche a numerose situazioni della «procreatica», ovvero della procreazione

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medicalmente assistita. Senza erigersi a giudice della coscienza altrui, il medico può tuttavia sottrarsi, in nome della deontologia che accetta nel momento in cui entra nella professione, a richieste che ritiene dissonanti con la finalità terapeutica della sua professione.

II. 2 - i comitati per un’etica del dialogo

Attraverso i Comitati, l’etica rientra in medicina

Il ruolo svolto dai Comitati di etica non può essere pienamente compreso se non partendo da una costatazione: fino a pochi anni fa, l’etica sembrava rilevante per i comportamenti della vita privata e per alcuni aspetti della vita sociale (come la guerra, la giustizia sociale, lo sviluppo), ma era stata completamente evacuata dall’ambito della prassi medica. Oggi invece la questione etica riferita alla biologia e alla medicina è diventata un topos tra i più caratteristici del dibattito culturale: oltre a straripare nei mass-media, citata a proposito e, talvolta, a sproposito, ha acquistato la dignità di disciplina accademica col nome di «bioetica». L’etica medica ci si presenta come uno di quei vecchi cavalli sui quali nessuno è disposto a scommettere un soldo, che improvvisamente ha una ripresa inaspettata e si rivela come un cavallo vincente.

Molti fattori hanno contribuito al suo successo. In questo contesto vogliamo mettere in evidenza il contributo di primissimo piano che hanno dato i Comitati di etica alla riemergenza della questione etica in campo biomedico. Tuttavia, per aver presente la vicenda nelle sue articolazioni più importanti, bisognerà partire dal rifiuto dell’etica in medicina: i motivi con i quali è stato giustificato e gli atteggiamenti emotivi, anche inconsci, che l’hanno alimentato.

Prima che avesse luogo la svolta a cui abbiamo accennato, l’atteggiamento più diffuso tra i sanitari era quello di difesa

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nei confronti di un’interferenza sentita come un’ingerenza indebita. Là dove tale atteggiamento ancora persiste, l’etica viene respinta con varie argomentazioni. La più frequente è l’appello a una concezione scientifico-posivista e tecnologica della medicina. Si presume che la scienza, compresa quella medica, si sviluppi in regime di obiettività e abbia a che vedere solo con i fatti; è interesse della scienza tenersi lontana da ogni commistione come le ideologie: i dibattiti sulle idee vanno lasciati ai filosofi e agli avvocati! Anche se la massiccia fede positivistica del XIX secolo si è da tempo dissolta alla luce della epistemologia e della filosofia della scienza contemporanee, la concezione di una scienza medica indipendente dai valori continua a motivare il rifiuto dell’etica. L’inizio dell’èra tecnologica in medicina sembra aver radicalizzato la tendenza.

Ancora più polemica contro ogni idealizzazione della professione è la rappresentazione della medicina come una forma di artigianato; niente di più che un abile artigianato. In quest’ottica, essere un «buon» medico equivale a fare «bene» il proprio lavoro, valutando tale bontà con il criterio dell’efficienza e della qualità della prestazione tecnica. Posizioni di questo genere sono riconducibili al cosiddetto «codice Hemingway»; secondo lo scrittore, infatti, una delle ripercussioni sulla vita morale delle situazioni in cui non si vede via di uscita — quella a cui si riferisce più specificamente è il carnaio della guerra di Spagna descritto nel romanzo Per chi suona la campana — è quella di portare a concentrare tutto il proprio impegno nel fare ciò che si fa così come deve essere fatto, astraendo del tutto la questione dal suo significato (combattere «bene» è tutto l’ideale morale del combattente, mettendo completamente tra parentesi la domanda circa il perché si combatte; di qui il consiglio che riceve il protagonista del romanzo: «Quando spari non pensare che spari a un uomo, ma che colpisci un bersaglio!»).

Mentre la prima ragione del rifiuto dell’etica può essere etichettata come scientismo, la seconda può esserlo come efficientismo. La medicina si presta a un’interpretazione efficientistica,

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in quanto evoca spontaneamente un ambito in cui il primato non spetta al pensare, ma al fare; in cui si è chiamati a rimboccarsi le maniche e a mettere le mani in pasta, piuttosto che a prendere le distanze e a riflettere. I risultati della medicina si misurano nelle guarigioni: queste monopolizzano tutto l’interesse del sanitario. «L’essenziale è guarire: tutto il resto non conta», si sente spesso ripetere da parte di chi opera nella sanità. Lo slogan serve a giustificare sia le grossolane o sottili trasgressioni che avvengono nella prassi medica e ospedaliera ai danni dei diritti del malato, sia la programmatica esclusione di ogni preoccupazione di ordine morale.

Un’altra motivazione con cui viene sostenuto il rifiuto dell’etica è l’affermazione della sua inutilità, avendo già il medico nel diritto codificato e nella deontologia professionale tutto ciò di cui ha bisogno per risolvere le situazioni conflittuali. È ben vero che il riferimento deontologico occupa nella pratica della professione medica un ruolo indubbiamente maggiore rispetto a quanto avviene nelle altre professioni. Nella storia della professione medica è emersa precocemente la convinzione che fosse opportuno codificare non solo le conoscenze relative alla patologia e alla terapia, ma anche le regole concernenti il comportamento che il medico deve tenere con il paziente. Indicazioni sul comportamento corretto sono frequenti nei trattati medievali di medicina. Non mancano neppure abbozzi di una regolazione dei rapporti con gli altri medici, all’interno della professione. Col tempo si è formato un corpo di regole pratiche che costituiscono ciò che potremmo chiamare la «etichetta» medica. A partire dal secolo XIX, questo corpo precettistico sarà a più riprese codificato nei codici deontologici.

Nella deontologia confluiscono sia l'ethos filantropico che affonda le sue radici nella tradizione ippocratica, che le norme che regolano il comportamento dei medici tra di loro e coi pazienti. Le norme non sono dedotte da un’etica, religiosa o laica che sia, ma derivate da un corpo sociale intermedio tra lo Stato e l’individuo, con cui il medico si identifica:

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il gruppo professionale. La codificazione del comportamento serve agli interessi del gruppo; e indirettamente a quelli degli utenti dei servizi medici. La deontologia comprende un insieme specifico di doveri (il termine significa appunto, etimologicamente, «scienza dei doveri»), ai quali sono tenuti i membri di una professione, diversi da quelli imposti dalla legge o derivanti dall’etica alla quale l’operatore sanitario personalmente si riferisce. Sono i doveri che derivano dal fatto di esercitare una determinata professione 62.

Aderendo alla professione, i membri del gruppo si impegnano a rispettare le norme ritenute essenziali per il buon esercizio della professione stessa. Le norme deontologiche sono, dunque, più che un semplice regolamento: le si potrebbe chiamare uno «spirito» comune, che deriva da una percezione collettiva dell’attività svolta, del senso di quest’attività e del suo articolarsi con l’organizzazione sociale.

Questo riferimento alla deontologia, al suo significato e alla sua funzione, va tenuto presente per capire l’appassionato richiamo ad essa da parte dei medici. Essi additano con legittima fierezza il corpus deontologico, notevole per mole e per valore morale, costituito da prese di posizione da parte di organismi professionali e assemblee autorevoli, nazionali ed internazionali: giuramenti, codici, dichiarazioni, carte dei diritti, raccomandazioni 63.

Nella deontologia si esprimerebbe completamente, secondo alcuni medici, tutta la preoccupazione per il «giusto» comportamento professionale, esaurendo così l’ambito della normatività in medicina. In nome della deontologia molti sanitari si sentono autorizzati a respingere qualsiasi riflessione etica sulla pratica medica. Ammettono, semmai, che la deontologia possa venire ampliata e potenziata, inglobando tutto

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ciò che si presenta come un dovere per il medico: sia che derivi da norme del diritto positivo che da esigenze etiche, da fattori consuetudinari o da quelli validati come correttezza professionale 64.

È legittimo supporre che le argomentazioni con cui viene esplicitamente sostenuto il rifiuto dell’etica in campo biomedico non esauriscono tutta la resistenza contro di essa. Oltre ai motivi razionali che inducono a respingerla lontano dal letto del malato o dai laboratori del ricercatore, esistono dei motivi che affondano le radici in un atteggiamento difensivo alimentato da un’emotività più o meno consapevole. Possiamo parlare di fantasmi, o di paure inconsce 65. La più corposa è la paura del «prete», che cioè colui che introduce e rappresenta l’etica sia un «dogmatico». L’insegnamento dell’etica medica si risolverebbe in tal caso nella trasmissione di un sapere costituito, elaborato in altra sede — la sede, per l’appunto, dove le istituzioni totalitarie forgiano le loro

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certezze — e venga poi trasmesso nell’ambito della formazione medica. E che quindi, in pratica, l’etica medica venga ad essere una specie di colonizzazione della coscienza e dell’operato del medico ad opera di un’istanza esterna.

Assumiamo qui il termine «prete» in senso molto estensivo, includendo tutte le forme di dogmatismi, non solo quelli religiosi. Esistono le certezze che si fondano sulle dottrine rivelate e le certezze che si fondano sui dogmi di Stato. Non è per caso che nell’ambito europeo le uniche istituzioni che prevedono l’insegnamento dell’etica obbligatorio per tutti gli studenti di medicina sono alcune università cattoliche (Roma, Lovanio, Cork e poche altre) e le università della Repubblica Democratica Tedesca, dove l’etica medica viene insegnata alla luce della dottrina ufficiale di Stato, il marxismo-leninismo. Secondo quest’ultima forma di dogmatismo, c’è una medicina buona, quella che è conforme alla dottrina socialista, e una medicina cattiva, che è la medicina borghese...

Nelle pubblicazioni accademiche di Paesi socialisti si incontrano attacchi sistematici alla medicina borghese, alla quale viene contrapposta la medicina veramente «scientifica», cioè quella che si basa sull’interpretazione marxista-leninista della realtà. L’etica marxista è incorporata sistematicamente nella medicina, determinandone le scelte e gli orientamenti.

Troviamo un riscontro di questa impostazione nel giuramento che il presidente del Soviet Supremo ha imposto nel 1971 a tutti i medici russi. Il modello tradizionale del giuramento ippocratico è abbandonato, per dare rilievo al significato politico del gesto. Al posto del dovere umanitario e filantropico nei confronti del singolo paziente, subentra l’impegno del medico a servire gli interessi della società. Il giovane medico si impegna ad esercitare là dove la società ha bisogno della sua opera e ad aderire internamente ai principi marxisti e all’etica comunista che regolano la società: «Giuro... di lasciarmi guidare in tutte le mie azioni dai principi della morale comunista, di ricordarmi sempre dell’alta vocazione

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del medico sovietico e della responsabilità nei confronti del popolo e del governo sovietico» 66.

La paura del «prete», vale a dire la paura di soggiacere a chi si fa tramite della comunicazione di certezze dogmatiche, in concreto per noi in Occidente non è tanto riferita alla prevaricazione da parte di ideologie totalitarie socialiste, quanto piuttosto alla «colonizzazione» di tipo religioso. C’è un precedente storico, che è un dato di fatto: l’etica medica ha come antenato immediato la morale medica cristiana, che è stata elaborata tempestivamente man mano che si configura l’accelerazione del progresso della medicina e ne derivava una divaricazione tra quello che è possibile fare in campo biomedico e quello che è lecito od opportuno fare. Proprio in questo momento dell’accelerazione, contestualmente alle prime massicce applicazioni della tecnologia alla medicina, è nata in ambito cattolico una riflessione che ha avuto una grande e autorevole voce in Pio XII, e che ha portato all’elaborazione di una precisa morale medica.

Scopo di questa morale era l’applicazione, nel campo dei problemi di coscienza che sorgono nella prassi medica, della visione antropologica ed etica derivante dal sistema dottrinale cristiano, fondato su una rivelazione divina. La finalità è quella di normare il comportamento dei credenti, di portarli ad essere consoni con la morale della Chiesa.

Questa morale medica insegnata dai teologi, ed elaborata alcune volte anche piuttosto maldestramente, è stata veramente così invadente, così prevaricatrice, da giustificare atteggiamenti di chiusura diffidente? Personalmente non sono di questa opinione. Condivido piuttosto la formula di J.F. Malherbe, secondo il quale tra morale medica e medicina si è stabilita una «coesistenza non interattiva». La normazione del comportamento dei medici credenti e dei fedeli cristiani è stata più velleitaria che reale. Resta comunque il fatto che una delle paure maggiori è quella che qualcuno, intervenendo dall’esterno della medicina, obblighi o violenti la coscienza

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del medico, influenzandola in modo prevaricatorio, nel senso di sottometterla a regole precostituite.

È possibile individuare una seconda paura che serpeggia nel mondo medico e ispira il rifiuto di tutto ciò che non si presenti con il paludamento della «scienza»: quella dello psicologo. La paura nei confronti dello psicologo è seconda soltanto a quella verso il dogmatico; negli ambienti medici lo psicologo è considerato come un terapeuta poco serio, che si occupa dei «resti scomodi» della medicina: mentre il medico tratta i malati veri, lo psicologo si occupa di quelli che, secondo il medico, «non hanno niente»...

Il punto di vista che suscita in questo caso perplessità e resistenza presso i medici è quello che si prefigge di sbrogliare la matassa relazionale che si instaura là dove un malato interpella il medico e devono essere elaborate delle decisioni conflittuali. Costantino Iandolo designa questo punto di vista come «etica medica clinica» 67. In questo caso chi rappresenta l’etica medica non è tanto qualcuno che trasmette un sapere precostituito e dogmatico, quanto piuttosto un facilitatore del processo decisionale, nel senso di favorire la consapevolezza e la coscienziosità del processo stesso. È questa connotazione fortemente psicologica dell’etica che rende sospettosi alcuni oppositori in campo medico. Si mettono in guardia per evitare che, attraverso il varco dell’etica medica, entrino nell’ambito del positivismo della scienza medica i turbamenti e le indeterminatezze della psiche.

Un’altra paura ancora ha nutrito la resistenza all’ingresso dell’etica nel campo biomedico: la paura del filosofo. Esiste tra gli operatori, biologi e medici, un sospetto pregiudiziale verso tutti coloro che «parlano» la realtà, invece di agire. Il filosofo è considerato dagli scienziati, per antonomasia, come colui che parla. Nel campo dell’etica medica il filosofo è colui che pone delle questioni scomode: che cos’è che conferisce un carattere etico a un’azione? E soprattutto: su che

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cosa si fonda un’etica?' Qual è il criterio che ci permette di discriminare ciò che è bene e ciò che è male? Al filosofo compete la ricerca del fondamento dei giudizi etici, ponendo gli interrogativi che si è convenuto di chiamare «questioni meta-etiche», cioè di fondazione dell’etica, ed esplorando l’interrelazione tra la meta-etica e i giudizi etici pratici.

Non che il compito del filosofo sia quello di distribuire certezze. Piuttosto, il filosofo sottopone a un’analisi critica i fondamenti dell’etica. In concreto: il «non uccidere» come imperativo etico non lo posso trasmettere a nessuno, usando argomentazioni convincenti per obbligarlo a farlo proprio; posso, però, da un punto di vista meta-etico, analizzare su che cosa si fonda la certezza dell’imperativo: su un comandamento di Dio? Su una valutazione antropologica? E ancora: come si è formata la coscienza che fa proprio l’imperativo? Quali sono le tappe costitutive del suo sviluppo storico e individuale? Come si articola questa certezza morale del non uccidere con le decisioni mediche concrete? Quando, in concreto, si giunge alla determinazione di staccare dal respiratore un malato in coma depassé, si tratta di un atto che può essere qualificato come omicidio? Ecco alcune vie possibili di articolazione tra le decisioni operative concrete e il fondamento etico. Oppure, ancora: dire una bugia al malato, o dissimulare la verità della diagnosi, è mentire o no? Si può mentire con l’intenzione di fare del bene? Questo è il tipo dei problemi che hanno bisogno di una chiarificazione filosofica, qualunque sia poi l’indirizzo filosofico a cui si aderisce (il fondamento del giudizio etico può essere di tipo fideistico, o razionalistico, ovvero di tipo utilitaristico, come sta prevalendo nella bioetica elaborata negli Stati Uniti).

Del filosofo si ha paura in quanto si teme che potrebbe portare nella medicina, che ha maturato il suo statuto scientifico facendo ricorso al positivismo, delle problematiche contro le quali i medici si sentono vaccinati. La filosofia è sospettata di essere il tramite di un violenza di tipo particolare, quella dell’ideologia.

Certamente l’etica è un prodotto dell’ideologia. Non

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soltanto quella che voglia essere etica medica «cattolica» o «comunista», e quindi con delle qualificazioni aggettivali che la legano a una determinata Weltanschauung; più radicalmente, anche l'ethos ippocratico tradizionale e la deontologia professionale sono ideologici, nel senso di essere al servizio di certi interessi, e perciò di mostrare una parte della realtà e contemporaneamente di nasconderne un’altra.

Ma la scienza non è essa stessa un prodotto dell’ideologia? La pretesa che la nostra conoscenza attinga ciò che vale semper et ubique, come non esiste per il bene, così non esiste neppure per il vero; neppure per il vero scientifico. Gira nelle università americane una boutade attribuita a un docente di medicina, il quale sarebbe solito dire agli studenti: «La metà di quello che insegniamo oggi è sbagliato; purtroppo, non sappiamo dirvi quale metà...».

Quello che costituisce la scienza non è epistemologicamente un sapere semper et ubique valido, bensì il metodo della ricerca della verità. Ciò vale anche per l’etica: cioè per la ricerca del bonum, non solo per quella del verum. Anche l’etica è una riflessione metodica, vale a dire condotta con metodo, e sistematica, in vista di un agire responsabile. L’etica non mira al raggiungimento del bonum in assoluto, ma del bonum umano che si coniuga con l’agire con responsabilità; vale a dire con la conoscenza della conflittualità che si sviluppa nelle situazioni concrete della vita.

Purtroppo, in Europa, per la nostra tradizione storica, noi abbiamo portato nell’etica la violenza dell’ideologia. Verso chi parla di etica si forma, perciò, un sospetto pregiudiziale, in quanto considerata sinonimo di intolleranza, cioè di imposizione agli altri della propria visione. Non si sa accettare la fluidità, l’indeterminatezza, che invece è costitutiva dell’etica. Il filosofo, considerato come costruttore di sentieri obbliganti per la verità, può assurgere a nemico della vita.

Da ultimo vogliamo menzionare un’altra paura ancora, che contribuisce al rifiuto dell’etica: la paura del «moralista». Con questo termine non intendiamo il cultore della filosofia o della teologia morale, bensì colui che, in senso molto

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riduttivo, «fa la morale» agli altri. Nel caso della pratica medica, si comporta da moralista colui che ama richiamare i medici e il personale sanitario agli ideali umanitari e filantropici tradizionalmente connessi con le professioni terapeutiche, accusandoli di allontanarsi da essi in modo più o meno vistoso.

Anche l’esaltazione della professione medica, considerata come «missione», conduce allo stesso risultato: confrontato con un modello troppo idealizzato — qualcuno spinge l'idealizzatore fino a considerare le professioni sanitarie come una specie di «sacerdozio» della salute — il medico tende a ripiegare sulla rassegnazione o sul cinismo 68. I risultati di simili campagne di moralizzazione sono per lo più nulli. Quando non addirittura controproducenti: i sanitari, sentendosi sotto accusa, si chiudono in se stessi corporativisticamente, oppure rispondono alle critiche, percepite come aggressione ostile, con altrettanta ostilità. Sulla base di una tale reciproca incomprensione non si può costruire nessun progetto di riumanizzazione della medicina. Si scava, piuttosto, un fossato sempre più ampio di indifferenza, proprio in un ambito in cui il rapporto di fiducia è tutto.

Per una questione di giustizia, e non per una manovra tattica ad captandam benevolentiam, a coloro che lavorano nell’ambito della sanità bisogna anzitutto tributare il riconoscimento che non svolgono un lavoro come gli altri: per la particolare situazione del malato — talvolta in lotta drammatica per la vita e la salute, in stato di particolare tensione emotiva sempre — i sanitari sono coinvolti e sollecitati a una partecipazione umana che supera quella di qualsiasi altro lavoro. Quando, per umanizzare la medicina, si pigia esclusivamente

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il pedale dei sentimenti, colpevolizzando al tempo stesso i sanitari di non mettere abbastanza cuore in quello che fanno, la morale, da terreno saldo di consenso sulla base della condivisione degli stessi valori umanitari, rischia di tramutarsi in un insidioso terreno di sabbie mobili.

Un particolare pericolo è insito nelle argomentazioni moraleggianti di tipo religioso. Quando, ad esempio, si presenta unilateralmente il lavoro sanitario sotto la metafora del buon samaritano, e a medici e infermieri viene richiesto un comportamento tutto modulato sull’oblatività, l’abnegazione e l’amore del prossimo, si incrementa al tempo stesso il senso di inadeguatezza e quello di colpa. Ciò che ne consegue è per lo più una brusca interruzione di contatto con chi si presenta con la proposta di un ideale così manifestamente lontano da ogni applicabilità. E ciò a discapito, ovviamente, della causa dell’umanizzazione della medicina che si intende servire. Da questo punto di vista, più che di un rifiuto dell’etica, bisognerebbe parlare di rifiuto delle «prediche», nel senso angustiante e oppressivo del termine.

Questa ampia panoramica sul rifiuto dell’etica, sulle forme che esso assume, sulle argomentazioni con cui in ambito sanitario ci si difende dal discorso etico e sulle motivazioni profonde del rifiuto, è lo sfondo necessario per capire la novità costituita dall’introduzione di Comitati di etica. L’etica, in sanità non ha vita facile. Prima di acquistare il diritto di cittadinanza, deve liberarsi dai sospetti che gravano su di essa. Quest’opera di depurazione è obiettivamente più difficile nel contesto della tradizione culturale del nostro Paese, in cui pluralismo e tolleranza non sono mai stati valori coesivi nella vita sociale. Sarà accettata solo un’etica che non equivalga a indottrinamento; che non sostituisca delle regole puramente formali al ruolo critico della coscienza; che metta in pieno valore i soggetti: tanto il malato in quanto soggetto che riceve il servizio terapeutico, quanto il sanitario che lo fornisca.

Questa apertura del mondo della sanità alle esigenze dell’etica, così difficile in casa nostra, è avvenuta invece in

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altri Paesi, e precisamente attraverso la via regia costituita dai Comitati di etica. È questo sviluppo che vogliamo ora documentare, trattando separatamente le due principali articolazioni dei Comitati stessi: i Comitati nazionali e i Comitati ospedalieri.

Comitati nazionali

Il tempo dell’etica per la pratica della biologia e della medicina in alcuni Paesi è già giunto. Un ruolo d’avanguardia in questo settore hanno svolto gli Stati Uniti. Nell’ultimo ventennio si è delineato oltre Atlantico un vivace movimento di reazione a una medicina senza interessi etici e umanistici, una medicina unicamente impegnata sul versante scientifico e tecnologico. Qualcuno afferma che quella che si è messa in moto è una rivoluzione nel modo di concepire la medicina (una rivoluzione che, come le rivoluzioni più riuscite, non è solo innovazione, ma anche recupero di valori del passato che erano stati dimenticati).

Oltre ad avere conquistato una solida testa di ponte nel curriculum degli studi medici, il punto di vista dell’etica ha trovato un’udienza attenta negli ambienti scientifici e presso l’opinione pubblica. Un’azione impareggiabile per la sensibilizzazione del grande pubblico hanno svolto due Commissioni, a livello nazionale, susseguitesi nel giro di pochi anni: la National Commission for the Protection of Human Subjects of Biomedical and Behavioral Research e la cosiddetta Presidenti Commission. La prima, creata dal Congresso nel 1974, ha svolto i suoi lavori fino al 1978 69. È stata incaricata di elaborare i principi di etica che devono regolare la ricerca che utilizza i soggetti umani, con particolare riferimento a quella condotta in istituzioni di ricerca sovvenzionate dal governo federale.

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Nel corso del decennio che ha preceduto la creazione della Commissione, l’opinione pubblica ha cominciato a interessarsi alla sperimentazione con esseri umani a seguito di numerosi allarmi creati dalla stampa. L’attenzione si era concentrata su alcuni progetti di ricerca discutibili dal punto di vista etico: studio degli effetti della sifilide su soggetti negri, proseguito anche dopo che era diventato disponibile un nuovo trattamento efficace; iniezioni di cellule cancerogene su anziani, a loro insaputa; infezione di bambini con il virus dell’epatite in un istituto per malati mentali; somministrazione di placebo a pazienti che credevano di ricevere pillole anticoncezionali; utilizzazione di prigionieri per la ricerca. Pur esistendo dei Comitati istituzionali di controllo (Review Boards), questi venivano indiziati di inefficienza nel prevenire gli abusi. La Commissione, creata sotto la pressione dell’opinione pubblica, ha svolto un lavoro considerevole, tenendo numerose udienze e visitando i centri di ricerca. A conclusione sono stati pubblicati una decina di resoconti (riguardanti specificamente la ricerca sui feti, la ricerca con utilizzazione dei prigionieri, di bambini e di ritardati mentali, la psicochirurgia) e un insieme di raccomandazioni per il controllo dell’attività di ricerca. Seguite o no, queste raccomandazioni hanno segnato un punto di partenza e hanno svolto una notevole influenza nell’elaborazione di una politica di controllo. Hanno avuto, in particolare, un’influenza a lungo termine, contribuendo alla riflessione etica e dimostrando che, in un’epoca il cui il pluralismo è riconosciuto sia come fatto che come valore, è possibile ottenere l’unanimità sui diversi problemi critici di etica della ricerca. Anche se i membri della Commissione non erano d’accordo sui principi, giungevano a un accordo sulle conclusioni: così che l’analisi di problemi di etica da parte di un gruppo responsabile, con un compito ben definito, può condurre a un’intesa pratica autentica 70.

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Il lavoro di questa Commissione può essere additato come l’inizio di un fenomeno moderno, a dimensione internazionale, che A.M. Capron ha chiamato «un dibattito etico aperto». Lo stesso Capron ha presieduto la Commissione appositamente stabilita dal Presidente degli Stati Uniti per studiare i problemi etici della medicina e della ricerca scientifica. La Commissione — nota come President's Commission — ha svolto i suoi lavori dal gennaio 1980 al marzo 1983, col supporto finanziario di un fondo di 20 milioni di dollari.

Era costituita da eminenti personalità del mondo del diritto, della medicina, della filosofia e della teologia. In tre anni di lavoro sono stati prodotti undici volumi, di cui nove relazioni su problemi specifici e una guida sui comitati locali che si occupano della ricerca con esseri umani. La sua competenza era più ampia di quella della Commissione precedente; oltre ai problemi specifici della sperimentazione, sono stati affrontati tutti i problemi etici maggiori della pratica biomedica contemporanea. Alla luce dei valori che costituiscono il tessuto di fondo della vita civile americana — libertà, onestà, rispetto per la dignità umana — sono stati presi in considerazione gli interrogativi più inquietanti che turbano la sensibilità etica degli Americani nell’ultimo quarto di secolo: quanto devono essere protratti i trattamenti che prolungano la vita umana? La società deve assicurare a ogni cittadino l’assistenza sanitaria, e in che misura? Devono, i sanitari, dire la verità ai pazienti, anche se infausta? Chi deve pagare i danni che subiscono i soggetti umani sui quali si fa la ricerca? Che cosa si deve tentare nel campo delle manipolazioni genetiche, e dove eventualmente arrestarsi? Queste sono alcune tra le domande principali alle quali si è voluto rispondere.

La Commissione presidenziale non era autorizzata a dare risposte conclusive o direttive moralmente obbliganti. «Il fatto che una commissione pubblica — ha dichiarato Capron — studi un problema, non dovrebbe significare che la risposta pubblica (sotto forma di regolamenti o di legislazione) sia una conclusione decisa già in anticipo. Il pubblico

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può trarre profitto da un dibattito aperto su un problema difficile (come la decisione di sospendere gli ultimi trattamenti che mantengono qualcuno in vita), soprattutto quando questo dibattito è condotto da medici seri e da intellettuali che provengono da ambiti diversi: filosofia, diritto, religione, ecc. Un tale processo ha il vantaggio di accrescere la comprensione pubblica e professionale di un problema, e forse anche di migliorare la qualità delle decisioni individuali, senza imporre tuttavia una decisione particolare in tutti i casi mediante regole statali o sanitarie».

L’esperienza delle due Commissioni americane è stata nel complesso positiva e incoraggiante. Malgrado il pluralismo e lo scetticismo etico dominanti nella cultura contemporanea, si è vista la possibilità di raggiungere dei punti di convergenza, invertendo la rotta del progressivo scollamento tra la pratica della biologia e della medicina e gli interessi umanistici. Tuttavia le diverse aree culturali sono così diversificate, con proprie tradizioni e istituzioni, che prima di arrivare a una discussione internazionale e a una cooperazione internazionale formale è auspicabile che ogni Paese proceda autonomamente alla creazione di Commissioni o Comitati nazionali, secondo le esigenze e nelle modalità specifiche di ciascuno.

In Europa la via è stata aperta dalla Francia. Il Presidente Mitterrand ha costituito nel dicembre 1983 un Comitato, designato ufficialmente «Comitato consultivo nazionale di etica per le scienze della vita e della salute». Il contesto culturale che ha indotto alla creazione del Comitato è analogo a quello degli Stati Uniti e di tutte le società ad alto sviluppo tecnologico: le pratiche biomediche di avanguardia sconvolgono i valori tradizionali legati alla vita, alla sua trasmissione e alla sua fine; i governi sono chiamati a fare urgentemente delle scelte politiche, che richiedono un dibattito pubblico preliminare; l’opinione pubblica dibatte vivacemente i problemi bioetici e ha bisogno di giungere a un consenso democratico, in assenza dell’adesione a un magistero.

Nel discorso di insediamento del Comitato, Mitterrand

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metteva lucidamente in evidenza la necessità e l’urgenza di superare il quadro di riferimento costituito dalla semplice razionalità scientifica, aprendosi al punto di vista etico: «Abbiamo creduto per qualche tempo che la razionalità sarebbe bastata per servirci da guida, una razionalità senza debolezze e senza dogmatismi, ed ecco che il successo stesso della scienza ci sta dando torto. La medicina e la biologia moderne cercano delle ragioni che la sola ragione non giunge sempre a cogliere». Una triplice attesa si è creata intorno ai problemi bioetici: quella dei cittadini, che cercano dei punti di riferimento nei progressi vertiginosi che scandiscono i parametri tradizionali; quella dei ricercatori e dei medici, che si sentono spesso soli di fronte alle conseguenze gigantesche del loro operato; quella infine dei poteri pubblici, che hanno spesso bisogno di consigli e di raccomandazioni. La pressione delle aspettative non deve creare una fretta precipitosa, ma piuttosto una feconda pausa di attesa: «Più in fretta va il mondo, più forte è la tentazione dell’incognito — ha affermato ancora Mitterrand nella stessa occasione — e più dobbiamo saper prendere tempo: il tempo della misura, che chiamerei il tempo dello scambio e della riflessione, cioè il tempo della morale».

Come laboratorio di ricerca filosofica e luogo di mediazione tra la sensibilità collettiva e l’intervento dei pubblici poteri, il Comitato di etica è stato investito del compito di dare dei pareri sui problemi morali sollevati dalla ricerca nell’ambito della biologia, della medicina e della sanità. Questa delimitazione della competenza è importante. L’ambito dei problemi che può porre la pratica medica al di fuori del quadro della ricerca continua ad essere competenza della deontologia professionale, del diritto e dell’etica, secondo la delimitazione delle reciproche specificità. La costituzione del Comitato rispecchia i punti di vista e le esperienze più diverse: pensatori e filosofi sono presenti accanto a specialisti di varie discipline; esponenti di tradizioni e famiglie religiose diverse sono ugualmente rappresentati. I trentasei membri devono rappresentare l’insieme delle famiglie di pensiero (filosofiche

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e spirituali, secondo la diversificazione confessionale) e tutti i settori della ricerca biologica e medica.

I compiti del Comitato possono essere ricondotti a due: emettere dei pareri sui problemi sollevati dalla ricerca e organizzare ogni anno una conferenza, nel corso della quale sono affrontate pubblicamente le questioni etiche importanti nell'ambito delle scienze della vita e della sanità. Le conferenze annuali, giunte già nel 1987 alla quarta edizione, fungono da cassa di risonanza per i lavori del Comitato e servono ad amplificare il dibattito. Quanto ai pareri, non hanno valore vincolante; tuttavia, dopo l'adeguata diffusione, possono contribuire a formare l'opinione pubblica, a ispirare le amministrazioni competenti e a influenzare la giurisprudenza dei tribunali.

A partire dall'inizio della sua attività, il Comitato ha espresso una quantità di pareri. Alcuni non sono stati resi pubblici: sono quelli relativi a progetti di ricerca puntuali, richiesti da equipe mediche o da organismi di ricerca. Altri invece, di portata generale, sono stati presentati all'opinione pubblica. Si tratta, nell'ordine, delle questioni etiche poste dall'utilizzazione, a fini terapeutici, diagnostici e scientifici, dei tessuti di embrioni umani morti; dalla sperimentazione di farmaci e nuovi trattamenti sugli esseri umani; dalle nuove tecniche di riproduzione artificiale; dai registri medici per gli studi epidemiologici e di prevenzione; dalle diagnosi pre e peri-natali; dalla valutazione dei rischi di AIDS mediante la ricerca di anticorpi specifici dei donatori di sangue; dalla sperimentazione sui malati in stato vegetativo cronico; dalle ricerche sull'embrione umano in vitro.

Il prof. Jean Bernard, presidente del Comitato, nella sua allocuzione nel corso delle giornate annuali di etica del 1985 ha messo in evidenza le critiche rivolte ai lavori del Comitato di etica. Critiche apertamente contraddittorie: «"Pretendete di irreggimentare tutto", dice qualcuno. "Filosofeggiare esageratamente tra voi", dice qualche altro. "Vi preoccupate esageratamente dei dettagli", dice l'uno. "Restate deliberatamente nel vago", dice l'altro. "Vi occupate

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unicamente della persona, mentre è il corpo ad essere interessato", dice questi. "Vi limitate alle viscere e ai muscoli, mentre dovreste elevare il vostro pensiero", dice quello. Alcuni ci rimproverano ora una rigidità eccessiva, ora una spiacevole morbidezza. "Penetrate indiscretamente nella nostra vita quotidiana", dice un gruppo. "Dimenticate le nostre contingenze e restate puri metafisici", dice un altro gruppo. "Siete sempre in ritardo di una guerra", ci dice ancora l'uno. "Ci proiettate in un avvenire di cui non sappiamo che fare", dice l'altro.

La varietà delle reazioni critiche al lavoro del Comitato è una dimostrazione convincente della difficoltà dei problemi affrontati e della pluralità delle opinioni che suscitano le questioni bioetiche. Una dimostrazione, al tempo stesso, della funzione stimolante che il Comitato svolge. I suoi pareri che suscitano, svolgono un'opera pedagogica nei confronti di tutto il Paese, aiutando a identificare la dimensione etica del progresso biomedico e a confrontarsi con la molteplicità delle opinioni.

Accanto a Comitati nazionali americano e francese, con uno spettro di interessi a largo raggio, vanno menzionate le Commissioni ad hoc, create in alcuni Paesiper acquisire informazioni ed elaborare direttive etiche relativamente a problemi specifici. Ricordiamo la Commissione Warnoch, creata in Inghilterra per lo studio degli aspetti etici e giuridici della fecondazione artificiale e l'embriologia umana (Report of the comittee of inquiri into human fertilization and embryology, London 1984), Un vivace dibattito ha suscitato, in particolare, il paragrafo del Rapporto che stabilisce un limite temporale alla facoltà di usare embrioni per la ricerca. La Commissione Warnoch raccomanda, infatti, che si stabilisca una legislazione che legittimi le sperimentazioni sugli embrioni risultati da una fecondazione in vitro fino al quattordicesimo giorno dopo la fecondazione, proibendola invece dopo questo limite. Le concezioni antropologiche che riconoscono lo statuto di persona umana all'embrione fin dal momento del

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concepimento hanno denunciato come inaccettabile la delimitazione temporale delle due settimane.

Un documento analogo è stato pubblicato anche dalla Commissione Benda, un gruppo di lavoro costituito nella Repubblica Federale Tedesca ad opera congiunta del Ministero della Ricerca e della Tecnologia e di quello della Giustizia (In-Vitro-Fertilisation, München 1985). Il Rapporto, che vuole servire come base ai lavori legislativi in materia e fornire elementi al dibattito etico che si svolge nell’opinione pubblica, prende in considerazione le diverse applicazioni, da parte dell’uomo, delle nuove metodiche di biologia cellulare e di genetica: la fecondazione in vitro, il dono di embrioni, le maternità sostitutive, la ricerca sugli embrioni, l’analisi genetica e la terapia genetica.

Anche la Spagna ha avuto la sua Commissione speciale per lo studio della fecondazione in vitro e dell’inseminazione artificiale umana. Terminati i lavori, la Commissione ha presentato le sue raccomandazioni e i suoi suggerimenti al Congresso dei deputati, nell’aprile 1986. Secondo il parere della Commissione, l’atteggiamento con cui far fronte alla realtà attuale è quello che individui le condizioni etiche razionali minime per proteggere la dignità di tutta la società. Questa etica minima dovrà essere basata su quello che si potrebbe chiamare «l’etica civile», cioè senza influenza confessionale o di partito politico.

Non possiamo terminare questa rassegna senza porci una precisa domanda: esistono in Italia i presupposti per la costituzione di un Comitato di etica nazionale? La Costituzione tende a decentrare le competenze; tuttavia non impedisce che, in sede centrale, si possano attivare delle Commissioni per lo studio di particolari tematiche. Una di queste Commissioni con un oggetto attinente all’etica biomedica è stata la cosiddetta «Santosuosso», dal nome del suo presidente, per lo studio dei problemi attinenti alle pratiche di fecondazione artificiale. L’esperienza maturata dal lavoro di simili Commissioni ad hoc ci inclina in senso pessimistico rispetto alla prospettiva di realizzare un Comitato nazionale

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nel nostro Paese. La preoccupazione per l’assetto politico e per lo schieramento ideologico dei membri del Comitato tenderebbe a prendere il sopravvento, a scapito della finalità specifica di un servizio alla riflessione etica. È preferibile, perciò, favorire piuttosto altre forme di apertura alla presenza di una preoccupazione etica in campo biomedico, quali possono essere i Comitati di etica negli ospedali, in attesa di una maturazione che proceda parallelamente alla crescita della coscienza civile.

I Comitati di etica negli ospedali

Passiamo ora a considerare un altro tipo di realtà istituzionale: i Comitati che si formano negli ospedali. Lo scenario in questo caso cambia. Non si tratta del parere di «saggi», ai quali viene richiesto di farsi interpreti e mediatori di una valutazione morale di determinate pratiche biomediche; la preoccupazione dominante non è quella di salvare dei valori nella cultura o nella legislazione, bensì l’aiuto da offrire a persone concrete — operatori sanitari, pazienti, familiari, amministratori di istituzioni ospedaliere — che si trovano nella difficile situazione di dover prendere delle decisioni conflittuali dal punto di vista etico.

Anche questo tipo di Comitati è stato concepito e ha avuto le prime realizzazioni negli Stati Uniti d’America. Possiamo addirittura individuare con esattezza le circostanze concrete che hanno provocato l’avvio dell’istituzione. Si è cominciato a parlare di Comitati di etica negli ospedali nel 1976, a proposito del dibattutissimo caso di Karen Ann Quinlan. La vicenda ha assunto un ruolo emblematico nel dibattito sul prolungamento artificiale della vita e ha avuto il merito di portare questo problema di etica medica a livello della coscienza popolare. La ragazza era caduta in coma profondo, con lesioni cerebrali irreversibili, che non le avrebbero permesso di tornare indietro da una sopravvivenza puramente vegetativa. I genitori (adottivi) chiesero ai medici di lasciarla morire in pace; questi invece, in nome dell’etica

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professionale che impone loro di fare di tutto per prolungare la vita, rifiutarono, e le applicarono un polmone di acciaio. Ne segui un processo a più riprese, che vide schieramenti appassionati pro e contro il desiderio dei genitori. Questi ottennero infine dalla Corte suprema del New Jersey la sospensione delle misure di rianimazione, anche se la povera Karen doveva ancora «vegetare» per anni, prima di spegnersi naturalmente.

La proposta di formare un Comitato di etica è contenuta esplicitamente nella sentenza emessa dalla Corte del New Jersey. Il valore storico della sentenza consiste nel riconoscimento che i principi etici del singolo medico o dell’Ordine dei medici in tato non possono essere decisivi nel giudicare se la soluzione più ragionevole — o, se vogliamo, più «giusta» dal punto di vista morale — sia la sospensione delle cure o il loro prolungamento. La Corte sentenziò, testualmente: «Dietro richiesta del tutore e della famiglia di Karen, nel caso in cui i medici curanti arrivino alla conclusione che non esiste alcuna ragionevole possibilità che Karen riemerga dal presente stato comatoso ad uno stato di piena coscienza e che l’apparato che attualmente permette il suo mantenimento in vita deve essere staccato, essi devono consultare il “comitato di etica” od organismo similare esistente nell’ospedale in cui Karen è ricoverata. Se l’organismo consultato confermasse che non sussiste nessuna ragionevole possibilità che Karen riemerga dal presente stato comatoso a uno stato di piena coscienza, il presente sistema di mantenimento in vita può essere staccato, e detta azione non comporterà alcuna responsabilità, né civile né penale, a carico dei partecipanti: tutore, medici, o altro personale dell’ospedale».

La sentenza propone la valorizzazione dei Comitati di etica per uscire dall'impasse di una medicina rianimati va che può trasformarsi in accanimento terapeutico. Tuttavia le sue indicazioni sono gravate da una notevole ambiguità, quella stessa ambiguità che ancora non ci permette di definire in senso univoco la natura e i compiti dei Comitati di etica negli ospedali.

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Secondo la Corte, infatti, una volta che la famiglia e il medico si fossero trovati d’accordo sulla sospensione delle cure, la questione doveva essere sottoposta a quell’organismo che la Corte chiama «comitato di etica». Ad esso, secondo la sentenza, era assegnato un solo compito: confermare che non c’era «nessuna ragionevole possibilità che Karen riemergesse dallo stato di coma ad uno stato di piena coscienza». Sembra quindi trattarsi di un controllo tecnico, non di valutazione etica, del caso presentato. Questo punto è decisivo, quando si voglia stabilire la fisionomia di un Comitato di etica ospedaliero: ha la funzione di valutare fatti tecnici, medici (come, ad es., le prognosi), oppure deve valutare gli aspetti etici e i valori collegati ad una decisione, quale quella di sospendere le cure (una volta che la prognosi sia già stata stabilita)? La scelta dell’una o dell’altra funzione si riverbera immediatamente sulla costituzione del Comitato stesso, con la predominanza, nel primo caso, di esperti di scienze biomediche, e di scienze umane nel secondo. Inoltre, la Corte sembra prevedere il ricorso al Comitato come una «liberatoria» da responsabilità di ordine penale.

Questa commistione tra ordine etico ed ordine giuridico contribuisce a rendere più confusa la fisionomia di un Comitato di etica ospedaliero. Tuttavia, anche se apparentemente i Comitati di etica sono partiti con il piede sbagliato — almeno per quanto riguarda la loro finalità — sono stati tenuti a battesimo da una situazione clinica e umana di forte impatto. Karen ha legato il suo nome ai Comitati di etica, legittimandone con il suo dramma la necessità.

Prima di affrontare i problemi specifici attinenti ai Comitati di etica, soffermiamoci ancora un momento su un altro caso esemplare, per circoscrivere più esattamente gli ambiti di applicazione dell’opera dei Comitati. Prendiamo ancora un fatto sanitario dai risvolti etici, che ha scosso l’opinione pubblica americana nella primavera del 1982. Una bambina (identificata al pubblico come Baby Doe) era nata con sindrome di Down e con una fistola tra la trachea e l’esofago.

I genitori furono informati che il difetto poteva essere

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corretto chirurgicamente con «normale possibilità di successo»; se invece non si fosse intervenuti sulla fistola, questa avrebbe condotto ben presto la bambina alla morte per inanizione o per polmonite. I genitori, che avevano già due bambini sani, decisero di non fornire alla bambina né cibo né il trattamento chirurgico, «lasciando che la natura facesse il suo corso». La bambina morì sei giorni dopo la nascita, mentre i medici cercavano di ottenere dal tribunale un’autorizzazione a procedere chirurgicamente. I genitori furono incriminati. Il caso di Baby Doe ci confronta con uno dei problemi più angoscianti che si presentano oggi nell’etica biomedica: il trattamento dei bambini che nascono con gravi malformazioni. Il problema confina con le questioni di fondo relative all’aborto e all’eutanasia; ciò che permette di circoscriverlo, è il fatto che il nodo dei conflitti si concentra attorno al bambino già nato, la cui vita dipende esclusivamente dall’intervento medico. La protezione e il sostegno della vita sono sempre e assolutamente giustificati? C’è un punto oltre il quale possono rivolgersi contro il migliore interesse di colui a cui sono rivolti, diventando disumani? Tra i principi etici e gli interessi in conflitto, è possibile trovare un orientamento di soluzione?

La morale pubblica ufficiale — quella rappresentata dalle leggi, dai codici deontologici medici, dalle posizioni morali religiose — afferma il principio della difesa della vita e inorridisce di fronte all’ipotesi spartana di lasciar morire i non adatti. Ma se si passa da ciò che si predica a ciò che si pratica, la divaricazione è notevole. È vero che sono pochi i casi in cui positivamente si decide di sopprimere un neonato o di lasciarlo morire con un procedimento di eutanasia passiva; tuttavia sempre più raramente l’assumersi il compito di far crescere un handicappato fisico o psichico profondo è considerato un valore. Socialmente prevale un atteggiamento contrassegnato dall’ipocrisia, per cui a un’affermazione formale di tutela della vita, in tutte le sue forme, non fa assolutamente riscontro un efficace sostegno alle famiglie che si trovano schiacciate dai problemi dell’assistenza, abbandonate in

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una società in cui dominano incontrastati i modelli competitivi che non lasciano posto a chi si trova sotto lo standard, e sprovviste di adeguati sussidi medico-pedagogici.

In una situazione come quella descritta, si crea un vortice di interessi in conflitto: del bambino, della famiglia, della società. Tra le diverse parti in causa, chi deve prendere la decisione se curare o lasciar morire un neonato gravemente malformato? Dal momento che il bambino non può decidere per se stesso, la decisione sulla sua vita spetta ad altri. Il medico ha più informazioni: può prevedere, ad esempio, la qualità di vita che spetta a un bambino affetto da «spina bifida», o il decorso di una malattia a prognosi infausta. Nell’insieme i medici sono piuttosto inclini, per l'ethos professionale e per i possibili risvolti penali dell’omissione di trattamento, ad attenersi a una linea di intervento ad ogni caso. Dal momento che negare il trattamento è illegale (anche dare consigli o fare raccomandazioni ai genitori in tal senso può esporre il medico ad un processo con imputazione di concorso in omicidio), il medico, nel seguire l’eventuale desiderio dei genitori, non può rinunciare ad applicare misure eccezionali per salvare la vita del figlio anormale; col rischio, però, di sconfinare nell’accanimento terapeutico.

I genitori sono raramente in grado di decidere serenamente. Lo choc, insieme a sentimenti di colpa, vergogna e collera, li paralizza; tendono ad affidarsi al medico, pur sapendo che le conseguenze maggiori del trattamento o della sua omissione ricadranno su di loro. In questo contesto di incertezza e di smarrimento il ricorso a una istituzione come un Comitato di etica mostra tutta la sua valenza positiva. Non è auspicabile che il Comitato sia concepito come un’istanza etica superiore, alla quale medici e genitori possano, deresponsabilizzandosi, demandare le decisioni; ciò che gli si richiede è piuttosto di apportare un punto di vista più imparziale, offrendo un servizio di consulenza a coloro cui spetta il peso della decisione 71.

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Un’altra situazione tipica dello sviluppo biomedico contemporaneo può ancora essere indicata come luogo da cui nasce un appello alla formazione di un Comitato di etica all’interno di un’istituzione sanitaria: si tratta della ricerca che utilizza dei soggetti umani. Abbiamo già visto che l’allarme diffuso sulle possibili violazioni dei diritti umani nell’ambito della ricerca e delle sperimentazioni è stato il detonatore che ha fatto esplodere la denuncia contro le pratiche biomediche e ha indotto alla creazione di Commissioni di etica a dimensione nazionale. Dopo le Commissioni americane, anche il Comitato consultivo nazionale francese è stato sollecitato ad esprimere il suo parere sui problemi etici della sperimentazione dei farmaci sull’uomo.

Il documento, pubblicato nell’ottobre 1984, nei suoi contenuti non si discosta dai principi essenziali stabiliti da autorevoli prese di posizione di organismi preoccupati della deontologia medica, come le dichiarazioni dell’Associazione medica mondiale 72. Anche secondo il Comitato francese, una sperimentazione dei farmaci sull’uomo, per rispondere alle esigenze dell’etica, deve essere preceduta da ricerche di laboratorio, in vitro e su animali; il bilancio rischi/benefici deve essere considerato accettabile dal soggetto; il paziente deve fornire un consenso libero e informato; non si possono

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tentare nuovi metodi terapeutici su un paziente, se questi non garantiscono un beneficio almeno equivalente alle tecniche già approvate.

Ma la novità più rilevante proposta dal Comitato consultivo francese va ravvisata in una proposta operativa: l’istituzione di una rete di Comitati di etica, distribuiti su tutto il territorio nazionale, ai quali vanno sottomessi obbligatoriamente tutti i protocolli di ricerca con utilizzazione di soggetti umani. Tali Comitati dovranno esaminare tutti i problemi morali sollevati dalla ricerca nell’ambito della biologia, della medicina e della salute (anche la dichiarazione dell’Associazione medica mondiale sulle ricerche biomediche prevede che «il progetto e l’esecuzione di ogni fase della sperimentazione riguardante l’uomo devono essere chiaramente definiti in un protocollo sperimentale, che deve essere sottoposto a un comitato indipendente nominato appositamente a tale scopo per pareri e consigli»).

L’innovazione dei Comitati di etica ha la potenzialità di diventare, più che un organo di controllo e di repressione degli abusi, un aiuto positivo per il singolo ricercatore. Potrà assisterlo nei problemi etici che deve affrontare, in modo che le decisioni abbiano un carattere di collegialità e si instauri il costume della condivisione delle responsabilità. Questo aspetto partecipativo condizionerà fortemente il volto che potrà assumere la medicina di domani. Ovviamente il problema non riguarda tutti gli ospedali, ma quei presidi sanitari nei quali, oltre alla terapia, si conduce anche la ricerca, come possono essere gli istituti di ricerca o i policlinici universitari.

Qual è la situazione dei Comitati di etica ospedalieri in Italia? La prima osservazione da fare è che nel nostro Paese si registra un reale interesse verso questa nuova istituzione. C’è anche diffidenza e scetticismo, soprattutto negli ambienti medici; ma non si può negare la presenza di un desiderio di conoscerne il funzionamento, di valutarne le potenzialità e di predisporne l’utilizzazione. Tuttavia anche in coloro che sono più favorevolmente predisposti si nota una certa prudenza,

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soprattutto di fronte alla prospettiva di una costituzione capillare di Comitati di etica nelle Unità Sanitarie e nei presidi ospedalieri.

È troppo vivo in Italia il ricordo della vicenda dei Consultori familiari. Stabiliti per legge nel 1975, non hanno portato i frutti sperati: forse perché paracadutati dall’alto, senza l’adeguata predisposizione ad accoglierli che presuppone un’informazione e una richiesta; forse perché le modalità di funzionamento non sono state accuratamente collaudate; forse per l’estrema ideologizzazione delle istituzioni, prese nella spirale delle contrapposizioni tra pubblico e privato, religioso e laico. Forse per tutte queste cause insieme e altre ancora... Sta di fatto che gli stessi fautori dei Comitati di etica ospedalieri suggeriscono di procedere con prudenza, per non ricadere negli stessi errori.

Per il momento prevale il momento informativo, dando la precedenza al conoscere rispetto al fare. Vanno segnalate, in tal senso, le iniziative rivolte a stabilire i bilanci dell’esperienza dei Comitati di etica ospedalieri a livello internazionale. Primo in ordine di tempo è stato il Simposio internazionale svoltosi a Milano dal 23 al 25 maggio 1986, per iniziativa della Fondazione Internazionale Fatebenefrateili e del Centro Internazionale Studi Famiglia. Sono state ascoltate e valutate le esperienze statunitensi, canadesi e dei principali Paesi europei; dei Comitati di etica sono stati esplorati i presupposti filosofici, antropologici, psicologici, giuridici, teologici 73. Anche nel corso dell’edizione 1986 della rassegna «Milano Medicina», una giornata di studio, dedicata alla bioetica, ha preso in considerazione i Comitati di etica in ospedale, mettendo a confronto le esperienze europee con le prime realizzazioni italiane 74.

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Tra i Comitati già attivi, il primato spetta a quello che si è costituito nell’ambito degli Istituti Clinici di Perfezionamento di Milano. L’iniziativa è partita da un gruppo di medici degli Istituti ostetrico-ginecologici «Luigi Mangiagalli», già nel 1984. La loro richiesta riguardava un Comitato che fosse preposto alla valutazione etica di alcune pratiche connesse con la sperimentazione in campo umano e fetale (amniocentesi precoce, fetoscopie, prelievo di villi coriali, ecc.), a loro parere non scevre da rischi. Nel settembre 1985 veniva deliberata la costituzione di un «Comitato paritetico per la valutazione etica della sperimentazione in campo umano e fetale». L’ambito di intervento del Comitato, sempre con carattere consultivo, è stato individuato nel riferimento ai seguenti problemi: la sperimentazione clinica con finalità di ricerca su soggetti ammalati; il comportamento clinico-terapeutico nei confronti di pazienti con affezioni non guaribili o terminali; la soppressione della coscienza nel controllo del dolore; la regolazione della procreazione con metodi contraccettivi pericolosi per la possibilità di eventuali gravidanze future; la valutazione critica delle cure prestate in un ospedale.

Un secondo Comitato di etica già istituito e operante è quello dell’Istituto Scientifico H. San Raffaele, di Milano. A norma di regolamento, il Comitato è chiamato a definire questioni etiche connesse con le attività scientifiche, assistenziali, didattiche e amministrative dell'istituto. In pratica, ha il compito di valutare gli aspetti etici della sperimentazione farmacologica, della ricerca biologica e medica in generale; di valutare le decisioni economico-amministrative nei momenti in cui sono in gioco delicate questioni morali. Quanto alla composizione del Comitato, ne fanno parte, oltre ad esperti di discipline medico-biologiche, anche un giurista, un teologo, un esperto di deontologia medica e uno psicologo.

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Tra i Comitati in via di costituzione ne è stato annunciato uno presso la Facoltà di medicina dell’Università Cattolica, a Roma, con il compito esclusivo di sopraintendere agli aspetti etici della ricerca clinica e farmacologica.

La riflessione sviluppatasi sull’esperienza dei Comitati di etica in ospedale ci permette di ricondurre questo sviluppo così prolifico e multiforme di iniziative entro il quadro di alcuni modelli. Seguendo l’analisi fatta da Robert M. Veatch 75, possiamo distinguere quattro tipi generali di Comitati, a seconda delle funzioni che vengono loro attribuite. In primo luogo, i Comitati che valutano i risvolti etici delle decisioni di ordine clinico, riferite a singoli casi. Loro compito è quello di portare un giudizio sulla appropriatezza delle cure, arrivando a decidere se sono ragionevoli o no, ordinarie o straordinarie, proporzionate o no. Questo tipo di Comitato può essere chiamato in causa quando si tratta di decidere se sospendere o proseguire le cure nel caso specifico: per esempio, se staccare o no il respiratore artificiale in pazienti in coma irreversibile.

Un secondo modello è quello di un Comitato chiamato ad occuparsi di decisioni etiche e politiche di livello più generale: per esempio, i Comitati per la protezione dell’essere umano nella ricerca biomedica (il Comitato potrebbe deliberare se permettere o no una determinata ricerca, anche se il paziente è consenziente, in quanto troppo pericolosa o inutile) o per la distribuzione delle risorse limitate (il Comitato potrebbe essere coinvolto quando si tratta di stabilire criteri di priorità tra diversi pazienti bisognosi di emodialisi, o per decidere su quali potenziamenti delle istituzioni dirottare le risorse).

Un terzo tipo di Comitato può essere definito come «Comitato di consulenza», con la funzione specifica di offrire consulenza e sostegno a chi deve prendere decisioni difficili: sia ai medici, che ai pazienti e ai loro familiari. Deve essere

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composto prevalentemente da persone esperte nel counseling: psicologi, assistenti sociali, sacerdoti, esperti di etica. Un tale Comitato, specialmente se rappresentativo della sensibilità morale della comunità, potrebbe costituire la giusta cassa di risonanza per i dubbi degli operatori sanitari.

Una funzione particolare dei Comitati è quella di confermare una prognosi, conformemente a quanto prospettato nella sentenza relativa al caso Quinlan. Decidere sulla prognosi di un paziente può non essere una questione esclusivamente tecnica. Sempre più ci si rende conto che il confine tra fatti e valori è incerto. Il Comitato di prognosi, con la partecipazione di persone che non siano esclusivamente degli esperti in senso tecnico, permette di evitare di dipendere dalla valutazione di prognosi di un singolo medico. Tuttavia, riguardo alla funzionalità di un Comitato di etica così concepito, valgono le riserve fatte sopra.

A questi quattro modelli, identificati da Veatch, ne aggiungiamo un quinto, caratteristico di ambienti in cui prevalgono delle preoccupazioni di natura confessionale. Compito di Comitati di etica di questo genere è la difesa dell’identità delle istituzioni, contribuendo a chiarire quali pratiche sanitarie siano conciliabili o inconciliabili, dal punto di vista etico, con l’ideologia religiosa alla quale l’istituzione si richiama.

Pensiamo, in concreto, a un ospedale religioso e al conflitto che si origina quando ciò che viene richiesto (per es. pratiche di interruzione della gravidanza, fecondazione artificiale, sterilizzazione, eutanasia) è in contrasto con la morale a cui l’istituzione aderisce.

Come modello concreto, possiamo riferirci al Comitato di etica costituito, e da anni operante, nell’ospedale San Juan de Diós di Barcellona. Il Comitato risulta composto da membri d’ufficio (il superiore della comunità religiosa a cui appartiene l’ospedale, un esperto di etica, un rappresentante della pastorale ospedaliera, il direttore sanitario) e da membri numerari (due medici dell’ospedale, un rappresentante del servizio infermieristico, un rappresentante dell’area non

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assistenziale). Altri membri ad casum possono essere aggiunti, secondo i problemi presi in considerazione.

Le funzioni attribuite al Comitato sono tre: decidere nelle questioni strettamente etiche; dar pareri in quelle nelle quali possono essere implicati dei problemi etici; promuovere iniziative di formazione e informazione relativamente a problemi etici. La differenza tra le sue prime funzioni è essenziale. Essendo l’organismo creato appositamente per vigilare sull’identità cattolica dell’ospedale, il Comitato rivendica un potere decisionale quando sono in questione pratiche che contraddicano la morale cattolica (azioni eutanasiche, interruzioni della gravidanza, pratiche contraccettive, situazioni in cui possa essere compromessa la libertà di coscienza, problemi di discordanza flagrante tra l’indicazione terapeutica e l’accettazione familiare).

La seconda funzione, invece, rispetto alla quale il Comitato può essere interpellato in via consultiva, si riferisce a situazioni in cui la considerazione dei valori etici può arricchire una determinata problematica (pensiamo ai problemi di umanizzazione dell’ospedale, a quelli dei rapporti interpersonali e interprofessionali, alle questioni relative al lavoro, come contrattazioni, retribuzioni, promozioni. Senza, tuttavia, che il Comitato sostituisca le funzioni esecutive e di governo che spettano alle istituzioni apposite dell’ospedale),

La fisionomia di questo tipo di Comitato di etica, che si iscrive dentro la logica di un’istituzione confessionale, può essere resa problematica dal pluralismo circa l’interpretazione, all’interno dello stesso mondo di appartenenza, del ruolo e della funzione delle norme etiche. L’osservazione si applica anche a un mondo relativamente omogeneo come quello della Chiesa cattolica: esistono approcci significativamente diversi nel concepire il rapporto tra le norme ecclesiastiche e le concrete decisioni di etica medica, nonché circa il ruolo che spetta alla coscienza 76.

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Qualsiasi forma assuma un Comitato di etica, non sembra predestinato ad una vita facile. Verrà inevitabilmente a trovarsi al centro di un vortice, costituito da concezioni ideologiche, politiche e istituzionali non riconducibili a unità. Non sarà certamente la panacea del malessere pluriforme che travaglia la pratica della medicina; tuttavia potrà contribuire in modo singolare ad affrettare l’avvento di una medicina dal volto umano. Ancor più: l’azione dei Comitati di etica potrà valicare l’ambito delle pratiche biomediche e costituirsi come momento formativo per un’educazione al giudizio etico in generale. Proprio l’impatto delle nuove pratiche in sanità e dei nuovi problemi può avere un benefico effetto dirompente rispetto ad una morale concepita come semplice ricezione passiva di valori e modellamento del comportamento su standard prefissati.

I nuovi problemi che sorgono in campo biomedico non hanno lo svantaggio di altri aspetti dell’etica, già più volte arati in tutti i sensi dal dibattito filosofico e teologico, gravati dal peso della tradizione che ha già formulato i suoi giudizi di accettazione o di condanna. Ciò che viene penalizzato è la creatività necessaria perché il giudizio etico diventi davvero un prodotto umano.

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La «formazione morale» è troppo spesso concepita come la trasmissione dei giudizi morali elaborati dalle generazioni precedenti, ai quali le nuove sono invitate a uniformarsi. Ai nostri giorni, inoltre, bisogna registrare anche una collusione perversa tra questo tipo di formalismo morale e il linguaggio telematico, che costituisce l’ambiente naturale nel quale siamo immersi. Questo linguaggio è quello dello 0-1, del «sì» e del «no», con l’esclusione del «forse». È universalmente deprecato che oggi vengano formate persone che sanno usare le macchine, ma che non sanno pensare. Questa carenza è fatale in campo etico, in quanto la semplice osservanza delle regole morali,, considerate come regole di procedimento, non basta a creare il comportamento moralmente buono. Non si tratta d’imparare ad associare «giusto» o «sbagliato» a determinate risposte, saltando il momento creativo della «produzione» di etica.

Comitati di etica possono svolgere una funzione socialmente utile anche da questo punto di vista, costituendosi come laboratorio di formazione al giudizio etico. La riflessione etica che in essi si esercita, in clima di ricerca, di tolleranza e di ascolto reciproco, può diventare uno strumento pedagogico di formazione della coscienza, e quindi un autentico fattore di umanizzazione.

Il pluralismo sarà d’obbligo in una riflessione etica di questo genere: non possiamo illuderci che un Comitato possa giungere a conclusioni da tutti unanimemente considerate valide e obbliganti. Non potrà perciò produrre regole che valgono per tutti. Ma sarà già un risultato considerevole sviluppare, tutti insieme, una sensibilità che ci permetta di riconoscere i problemi etici nell’ambito della salute e delle scienze della vita, di risolvere quelli che è possibile risolvere, e di imparare a vivere con quelli che non ammettono soluzione.

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II 3 - il «dipartimento di scienze umane»: un progetto pilota

Il malessere della sanità

Guardando alla situazione attuale della sanità, dobbiamo costatare lo stato inequivocabile di malessere che vi regna. Da qualsiasi parte affrontiamo questo immenso pianeta, la collera dei malati e il disorientamento dei sanitari ci colpiscono sgradevolmente. Le diagnosi del male sono le più diverse. Potremmo quasi dire: tot capita, tot sententiae... Qualcuno individua le origini della deviazione nel profondo cambiamento verificatosi nel modo di concepire la sanità. Nel rapido volgersi di pochi decenni la medicina si è socializzata (con la conseguenza che oggi si può parlare di un diritto alla salute, o quanto meno a ricevere le cure sanitarie, non sulla base del censo o di altri privilegi, ma per il fatto stesso di essere cittadini portatori di bisogni), sindacalizzata (portando all’interno dell’ospedale la logica del confronto lavoratori/azienda, che è nata e si è sviluppata in fabbrica), politicizzata (soprattutto dopo la Riforma sanitaria, che ha fatto considerare la sanità come una provincia ulteriore, in cui si è estesa la lotta tra i partiti politici; di qui lo slogan tanto spesso ripetuto in questi giorni, considerato da alcuni come la formula magica del risanamento: «Fuori i politici dalla sanità!»).

Un altro aspetto della sanità spesso indiziato di essere la causa dei mali è la perdita dell’ideale filantropico e umanitario da parte di coloro che esercitano le professioni sanitarie, in primo luogo i medici. Accusati di essersi prostituiti al denaro e al successo, come ex-missionari che si siano messi a fare i mercanti, i medici sono spesso oggetto di passionali campagne moralizzatrici. Si vorrebbe veder splendere intorno alla loro testa un’aureola come — secondo l’iconografia tradizionale — attorno a quella dei santi Cosma e Damiano, quando si occupano dei malati... Da parte dei sanitari, invece, le lamentele sulla mancanza di virtù si ribaltano sui malati:

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sono essi che, con le loro richieste esorbitanti, le loro infantili pretese del «tutto e subito», le plateali infrazioni alle esigenze del vivere sano, frappongono ostacoli all’opera terapeutica.

Per altri ancora i mali della nostra sanità sono da individuare nell’arretratezza tecnologica e nell’inadeguatezza delle strutture medico-sanitarie esistenti. La via d’uscita, di conseguenza, è cercata nell’aumento del sapere scientifico e in maggiori investimenti per avere una tecnologia sempre più sofisticata.

Molte volte si ha l’impressione che la ricerca delle cause del malessere nella sanità non sia una vera ricerca, ma solo una tattica di autogiustificazione. Assomiglia, infatti, più all’individuazione di un capro espiatorio, sul quale riversare tutte le responsabilità, e poter proclamare così la propria innocenza. Per poter risolvere efficacemente i mali della sanità, il punto di partenza è costituito da una vera ricerca dei motivi della «malasanità».

Non basta però cercare: bisogna anche cercare nel posto giusto! Ci aiuta a formulare questa esigenza la vecchia storiella dell’ubriaco che, di notte, sta cercando per terra la chiave di casa sotto la luce di un lampione; alla guardia che gli chiede se è proprio lì che l’ha persa, risponde: «No, l’ho persa più lontano, ma là è buio...»!

Commentando la storiella, lo psichiatra americano P. Watzlawick vi vede una felice illustrazione di una delle «ricette per rendersi infelici», come le chiama con ironia. La ricetta è quella dell’«ancora la stessa cosa»: sotto la pressione del bisogno, si raddoppiano gli sforzi nella stessa direzione, facendo sempre più «la stessa cosa», nella convinzione che il male derivi dal non essersi ancora dati sufficientemente da fare... Cercare nel posto sbagliato, con sempre maggior zelo e accanimento, per la «buona» (?!) ragione che ci si vede meglio, è anche una efficace ricetta per rendersi infelici (e ignoranti...), quando si vuol proporre rimedi ai mali della sanità.

Se si vuol veramente tornare a casa, bisogna mettersi a cercare la chiave là dov’è stata effettivamente smarrita. Fuori

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di metafora, se la medicina è diventata disumana, è perché ha perso l’uomo; se la si vuol riumanizzare, bisogna individuare dov’è avvenuto lo scollamento tra l’opera sanitaria e i veri interessi dell’uomo. Bisogna cercare a monte, anche se ciò significa andare a tastoni nel buio...

Il recupero antropologico del soggetto

Il malessere della medicina è analizzato adeguatamente solo se si mette a fuoco la perdita dell’uomo some soggetto. L’inizio di questo processo va ricondotto al momento in cui la medicina si è strutturata come scienza della natura, nella prima metà del secolo XIX. Assumendo io statuto epistemologico delle scienze naturali, la medicina ha cercato di adeguarsi a quella forma particolare di conoscenza che è fondata sulla razionalità e si acquisisce con l’osservazione e l’esperimento, secondo una particolare metodologia «critica». In quanto scienza naturale, la medicina procede empiricamente. La sua base è costituita da fisiologia e patologia; disfunzione e malattia sono considerate come conseguenze di disturbi di processi materiali-organici.

In questa prospettiva, la malattia non è più qualcosa che capita all’uomo nel suo insieme, ma qualcosa che succede ai suoi organi. Lo studio delle cause della malattia si restringe alla ricerca di mutamenti locali nei tessuti, nelle strutture cellulari e nella stessa costituzione delle molecole biochimiche fondamentali. Il fatto morboso si ritiene compreso quando si può spiegare stabilendo il rapporto causa-effetto, sulla base delle leggi che regolano i fatti fisicochimici.

La razionalizzazione di tipo naturalistico porta a spogliare il fatto morboso di ogni carattere storico e personale. Esso è significativo per la medicina solo in quanto è un caso «tipico». La stessa organizzazione della clinica riposa sul modello organicistico: le malattie vengono suddivise per reparti, come le merci di un supermercato; e i medici, passando

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di letto in letto come tecnici a una catena di montaggio, si dedicano a scoprire le cause del guasto, per riparare l’organo malato. Questa medicina è la medicina dei pezzi; e, con la specializzazione crescente, di pezzi sempre più piccoli.

Da quando la medicina si è organizzata come scienza della natura, è cominciato per l’arte del guarire un periodo di splendore, sotto l’egida dell’efficacia. I. progressi della chirurgia, della batteriologia, della farmacologia non sarebbero stati ottenuti, se la medicina non si fosse allineata tra le scienze della natura. Proprio questi successi, fungendo da rinforzo positivo, portano a consolidare la convinzione che la strada imboccata era quella giusta, impedendo di rendersi conto dei pericoli insiti in essa. Senza misconoscere i momenti positivi della concezione natural-scientifica (in particolare il principio della ricerca empirica esatta e il significato fondamentale del lavoro di indagine di tipo fisiologico e biochimico), si deve però acquistare coscienza che, quando l’uomo è considerato semplicemente come un pezzo di natura tra gli altri, si opera una violenta mutilazione antropologica.

La crisi nella medicina non sarà superata finché non avremo rifiutato di considerare come esclusivo il punto di vista delle scienze della natura. L’«umanizzazione» da introdurre nella pratica dell’arte sanitaria è più radicale del semplice recupero degli aspetti filantropici da includere, oltre a quelli di competenza professionale, nel rapporto con il malato. La disposizione interiore dell’oblatività e le virtù personali sono ovviamente necessarie per l’esercizio dell’arte sanitaria: vir bonus, sanandi peritus, definiva il medico la tradizione ippocratica; le stesse esigenze valgono per chiunque — infermiere, tecnico, ausiliare — avvicini il malato. Ma questa bonitas non basta, da sola, a umanizzare la medicina, se questa non recupera la prospettiva della totalità dell’essere umano.

Ciò vuol dire, in pratica, che il sapere mutuato dalle scienze della natura deve essere abbinato con quello che è specifico delle cosiddette «scienze umane»; la storia, la sociologia, la psicologia, l’antropologia culturale, il diritto, la filosofia,

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la teologia, solo per menzionare le più importanti. Esse meritano il nome di «umane» perché considerano nell’uomo la formalità che lo specifica, ciò per cui l’uomo si differenzia dagli altri esseri animati: la sua storicità, interiorità, individualità, spiritualità. In una parola, l’uomo come soggetto. Mentre invece è procedimento tipico delle scienze della natura evacuare il soggetto, per considerare l’uomo come un pezzo di natura tra gli altri. Questo è un esito particolarmente infausto in medicina, dove invece è più evidente. Nel suo linguaggio codificato, il malato scompare; la sua presenza è puramente oggettuale. Com’è stato detto efficacemente, per essere più scienza, la medicina perde il malato. Con altra formula a effetto, qualcuno ha denunciato che la medicina rischia di morire di obesità scientifica...

Finché l’uomo malato non sarà considerato anche secondo il punto di vista delle scienze della natura, sarà sempre «mal-trattato», anche se, per ipotesi, il trattamento fosse irreprensibile dal punto di vista sia sanitario che deontologico.

La congiuntura culturale sembra oggi favorevole a una medicina che voglia ricucire lo strappo creatosi tra scienza della natura e scienze umane. Un primo fatto positivo da segnalare è la raggiunta maturità delle scienze umane, le quali non danno più segno di nutrire quel complesso di inferiorità che le ha tradizionalmente caratterizzate nei riguardi delle prime. Un secondo elemento congiunturale è la crisi in atto nelle scienze naturali: crisi non di disgregazione, ma di crescita.

Secondo l’analisi di Th. Kuhn, si sta registrando nelle scienze un tipico periodo di transizione dalla «scienza normale» al caos che precede il cambiamento di paradigma. L’epistemologia contemporanea ci ha reso consapevoli che le scienze non procedono per accumulo lineare di conoscenze, ma per rivoluzioni, nel corso delle quali ha luogo un cambiamento di paradigma. Si pensi al passaggio dalla fisica di Aristotele a quella di Newton, e da questa alla fisica di Einstein; al passaggio dal sistema geocentrico di Tolomeo all’astronomia di Copernico e di Galileo; alla transizione dalla

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teoria del flogisto alla chimica di Lavoisier: altrettanti esempi di una ristrutturazione del sapere sulla base di un «nuovo paradigma» che emerge dal caos 77. Lo stesso clima si può cogliere oggi nelle scienze biomediche.

È legittimo attendersi che nel nuovo paradigma emerga un’antropologia diversa da quella implicita nella medicina scientifica finora invalsa. Ciò comporta una rottura con il naturalismo, che considera l’uomo come un essere vivente in tutto e per tutto simile agli altri esseri viventi, e si attiene a una metodologia che esclude sistematicamente gli aspetti psichici, spirituali, storico-biografici e sociali dell’esistenza umana (o quanto meno non li ritiene rilevanti per il processo patologico e per quello terapeutico).

Un progetto di Dipartimento

I presupposti teorici per una medicina umana che abbiamo appena esposto non hanno nulla di originale: in questi stessi termini, o in altri poco diversi, sono stati ridetti un’infinità di volte. Ciò di cui si sente in maniera crescente il bisogno è piuttosto la progettazione concreta di un nuovo modo di fare medicina, che faccia seguito alle riflessioni di ordine teorico. È in risposta a questa esigenza che osiamo presentare il «Dipartimento di Scienze umane» dell’ospedale Fatebenefratelli all’isola Tiberina, a Roma, diretto dall’Ordine ospedaliero di S. Giovanni di Dio.

L’illustrazione del Dipartimento può essere prematura: essendo stato il progetto appena avviato, ha un bagaglio di realizzazioni quanto mai modesto da presentare. Se, malgrado ciò, decidiamo di esporre in pubblico questa creatura ancora balbettante, lo facciamo mossi dal bisogno di confronto. Da molte parti si sta tentando di rendere operativa la richiesta di una medicina più umana. Progetti intesi a questo fine devono emergere alla luce del sole. Per il conforto di coloro

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che si impegnano in questa direzione, anzitutto, e per vincere l’impressione di star conducendo isolatamente battaglie donchisciottesche... Per ricevere critiche e stimoli, in secondo luogo. Uscendo in pubblico quando ci si sente ancora un abbozzo imperfetto, si rischia di essere strapazzati. Ma un progetto di questo genere non assomiglia a un seme, che cresce per forza autonoma, e tanto più quanto meno lo si disturba; è simile piuttosto alla pasta, che riesce meglio quanto più è «malmenata»...!

La denominazione di Dipartimento non è occasionale. Fa piuttosto riferimento a una modalità organizzativa esplicitamente prevista dalla legislazione italiana in campo universitario e in quello sanitario 78. Secondo la Legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, gli ospedali vanno articolati in Dipartimenti, «in base al principio dell’integrazione tra le divisioni, sezioni, servizi affini e complementari, ... nonché a quello della gestione dei dipartimenti stessi sulla base dell’integrazione delle competenze» (Legge 833, art. 17).

La ragione principale dell’organizzazione ospedaliera su base dipartimentale risiede nel fatto che a livello operativo in una struttura sanitaria esistono una serie di attività comuni (ad es., organizzazione del lavoro, ricerca scientifica) e di risorse a gestione comune tra le diverse divisioni (ad es., sale operatorie, ambulatori) che, se coordinate, possono produrre effetti di accresciuta efficacia e di economia ben superiori a quelli di una gestione atomizzata e individualistica. Gli obiettivi principali che si propone l’organizzazione dipartimentale possono essere così descritti:

1) coordinare e integrare le diverse professionalità e conoscenze scientifiche presenti nell’ambito della stessa area dipartimentale;

2) realizzare economie di gestione e più efficaci controlli sui costi;

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3) partecipare in modo più attivo alle decisioni interne;

4) sviluppare in un modo integrato la ricerca scientifica, la didattica e l’aggiornamento;

5) allacciare collegamenti esterni con i Servizi territoriali.

Elevare quantitativamente e qualitativamente ii livello delle prestazioni e ridurre le spese di impianto e di esercizio sono, in sintesi, gli obiettivi dell’istituzione dei Dipartimenti medici di un ospedale 79. Questi si possono dire ispirati, in profondità, da una logica di efficienza e di razionalità.

L’ospedale Fatebenefratelli all’isola Tiberina si è dato struttura dipartimentale, istituendo Dipartimenti medici (chirurgico, di medicina interna, materno-infantile, dell’emergenza, della testa), dei servizi e il Dipartimento di Scienze umane. Se nell’organigramma dell’ospedale quest’ultimo è omogeneo agli altri Dipartimenti, diversa è però la logica che lo ispira. Non nasce, come gli altri, dalla volontà di portare anche in una struttura che si occupa di salute una mentalità manageriale, bensf dal progetto di rendere effettiva l'«umanizzazione» dell’ospedale.

Sul «progetto-umanizzazione» si è incentrato negli ultimi anni lo sforzo di rinnovamento dell’Ordine ospedaliero di S. Giovanni di Dio, che riconosce come suo specifico il carisma dell’«ospitalità», ovvero il servizio ai malati 80. Per calare

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nella vita ospedaliera quotidiana il messaggio dell’umanizzazione, nell’ospedale dell’isola Tiberina si è costituito, tra il 1984 e il 1986, il «Consiglio Socio-Istituzionale» 81. Esso ha costituito l’antecedente storico del Dipartimento, realizzando già fondamentalmente l’incontro e la collaborazione di varie figure professionali (lo psicologo, il sociologo, l’assistente sociale, il cappellano, il volontario ospedaliero), con intento interdisciplinare.

Il passaggio alla nuova fase istituzionale è stato favorito da una duplice maturazione. Ci si è resi conto, da una parte, che un organismo di consulenza — pronto, magari, ad essere coscienza critica di una struttura tendente alla disumanizzazione — doveva cedere il posto a un organismo più incisivo e ufficiale, presente ai livelli decisionali dell’ospedale. Parallelamente era avvenuto un approfondimento del concetto stesso di «umanizzazione»: il progetto «ri-umanizzante» appariva più chiaramente come la convocazione delle scienze umane a collaborare con quelle biomediche per ricomporre, in una prospettiva olistica, l’integralità del soggetto e dei suoi bisogni. L’ospedale appare, in questa prospettiva, come luogo designato per la rifondazione di un sapere teorico-pratico intorno all’uomo malato.

Come indica la delibera che istituisce il Dipartimento di Scienze umane, questo è costituito dall’aggregazione di diversi Servizi e attività svolti nell’ambito dell’ospedale: i Servizi di psicologia, di assistenza sociale, di assistenza spirituale, di bioetica, e l’attività di volontariato ospedaliero. Integrando l’attività assistenziale fornita da questo Dipartimento con quella dei Dipartimenti medici, l’ospedale si apre, a 360 gradi, sui bisogni dell’uomo malato nella sua singolarità.

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La pluralità dei bisogni dell'uomo malato

L’evento morboso non si consuma mai esclusivamente al livello del corpo: oltre a provocare un dissesto somatico, turba l’equilibrio emotivo e spirituale della persona e sconvolge i suoi rapporti sociali. Questi ultimi possono talvolta essere così rilevanti, che la persona colpita costituisce un «caso sociale». Il Servizio sociale è l’agenzia di sostegno appropriata in queste situazioni; gli assistenti sociali sono chiamati a fornire professionalmente una relazione di aiuto.

L’assistenza sociale si è sviluppata come professione dal contesto delle reti di solidarietà messe in atto dallo Stato assistenziale. Queste costituiscono dei sistemi organizzati di risorse per far fronte ai bisogni di cittadini particolarmente a rischio di emarginazione e di deprivazione economica e sociale. L’obiettivo di questo tipo di Servizi è di fornire un processo di aiuto individuale e collettivo a persone in difficoltà nei propri rapporti sociali.

Uno sviluppo del Servizio sociale già previsto dagli ordinamenti legislativi è quello che lo colloca all’interno delle istituzioni ospedaliere. Già la Legge di riforma ospedaliera n. 132 (del 12.2.1968) ha disposto che vi possa essere all’interno degli ospedali regionali e provinciali un «Servizio di assistenza sanitaria e sociale». In base ad essa, diversi ospedali hanno provveduto a inserire degli assistenti sociali nei propri organici.

In uno scritto che riveste un alto grado di ufficialità, il ruolo dell’assistente sociale nei presidi ospedalieri è indicato nei seguenti termini: «Rapporto con gli utenti (su segnalazione o per richiesta diretta) per interventi di consulenza socio-assistenziale volti alla soluzione di problemi che si evidenziano o nascono in concomitanza con il ricovero e al migliore utilizzo delle risorse presenti nella struttura o sul territorio, con particolare riferimento all’ambiente di provenienza, in modo che possano venire soddisfatti i bisogni di informazione, di rapporto, di non emarginazione dell’utente durante il

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periodo di permanenza nella struttura, e facilitato un positivo reinserimento sociale alla dimissione» 82.

Passando, in concreto, all’attività che svolge il Servizio sociale nell’ambito dell’ospedale Fatebenefratelli, si possono individuare diversi tipi di utenti: il malato ospedalizzato, quello ambulatoriale e il personale ospedaliero. Quanto al primo, il Servizio sociale è chiamato a intervenire sia al momento dell’accettazione (particolarmente importante è portare il malato a conoscenza dell’iter burocratico e aiutarlo a districarsi nel labirinto dell’ospedale: un compito che è facilitato da un apposito «Libretto del malato», il quale fornisce al malato le informazioni più importanti), sia durante il ricovero. L’operatore sociale può aiutare il malato a integrarsi con l’ambiente, assumendo i necessari cambiamenti di routine; può favorire e promuovere i contatti con il mondo esterno, particolarmente con i familiari; può aiutare il malato ad accettare diagnosi e trattamenti (con le minorazioni temporanee o permanenti che possono eventualmente far seguito). Al momento della dimissione, la relazione d’aiuto può concretarsi in un fattivo contributo a superare le difficoltà materiali e sociali che il malato può incontrare: difficoltà di una sistemazione logistica al di fuori della struttura ospedaliera o nell’iter burocratico relativo all’assistenza (pensione, riconoscimento di invalidità e varie altre risorse previdenziali e assistenziali).

Quanto agli interventi diretti al personale ospedaliero, il Servizio sociale offre attività di sostegno per affrontare eventuali problemi di natura professionale e familiare che possono avere un’incidenza negativa sull’attività lavorativa, e quindi sui rapporti interpersonali con i pazienti.

Il Servizio sociale, in sintesi, è l’espressione dell’obbligo che ha la società verso i suoi membri più indifesi e bisognosi. Integrando questo Servizio in modo organico nella stuttura ospedaliera, il concetto di salute risulta ampliato, in quanto

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include la capacità dell’individuo di provvedere ai propri bisogni fondamentali. Se questa condizione non si verifica, la persona non può essere considerata «sana», anche se da un punto di vista somatico può non abbisognare di cure. Soprattutto nella prospettiva di una popolazione ospedaliera costituita in misura crescente da malati cronici e anziani, l’intervento «sanante» dell’assistenza sociale diventa indispensabile. Il Dipartimento di Scienze umane, che permette di integrarlo nel contesto ospedaliero, lo valorizza pienamente e contribuisce a razionalizzare l’erogazione dei servizi al cittadino. Una seconda area di bisogni che integra quella sociale è la dimensione psico-emotiva del malato. All’interno del Dipartimento quest’area è occupata dal Servizio di psicologia. Istituito già nel 1982, tale Servizio è diventato un punto di riferimento costante per ogni tentativo di inserimento della psicologia in ospedale.

Va subito precisato che il Servizio si propone un ambito di azione più ampio della psicologia clinica in senso rigoroso, cioè quello proprio di quel ramo medico della psicologia che si occupa dei disturbi di natura mentale ed emotiva. Anche se ancora con diffidenza e ostilità, la psicologia clinica ha acquistato un diritto di cittadinanza in ambito sanitario relativamente alla cura di malattie diagnosticate come mentali. Il Servizio di psicologia ospedaliero prevede invece l’attività di uno psicologo che affianca e completa l’opera del medico presso malati organici che hanno particolari bisogni di ordine psico-emotivo. Pensiamo, per concretezza, a pazienti che devono subire interventi chirurgici invalidanti o che modificano l’immagine del proprio corpo (come l’amputazione di un arto, mastectomia o isterectomia per le donne); a pazienti in rianimazione 83, a pazienti con prognosi infausta, che hanno

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bisogno di essere accompagnati e assistiti per tutto il travagliato processo dell’elaborazione del lutto; al sostegno psicologico di cui hanno bisogno i genitori di bambini gravemente handicappati; al beneficio che ricevono le partorienti da un uso sistematico di metodi psicoprofilattici nella preparazione al parto.

L’elencazione non è certo esaustiva; è tuttavia sufficiente a individuare la presenza di problemi psichici anche nell’ambito di una malattia somatica. La psicologia in ospedale è chiamata perciò a occuparsi di ogni malattia, non solo di quelle etichettate come «mentali», e neppure di quella ambigua area grigia designata, spesso con molta approssimazione, come ambito della malattia «psicosomatica». L’istituzione di un Servizio di psicologia ospedaliera non è altro che la conseguenza operativa del principio stabilito con autorità da uno degli esperti di psicologia medica di maggior credito, Pierre Schneider: «L’uomo, quando è ammalato, lo è nella sua totalità. Egli reagisce affettivamente a qualunque modificazione dello stato fisiologico» 84.

L’aspetto emotivo è parte integrante del rapporto medico-paziente. I medici e l’altro personale sanitario, di conseguenza, non possono esimersi dal farsi carico dell’aspetto psicologico della malattia. Sarebbe uno sviluppo infausto, da questo punto di vista, se la presenza dello psicologo in ospedale fornisse il pretesto a un meccanismo di delega, che esoneri i sanitari dall’occuparsi del malato, anche dal punto di vista psicologico. Lo psicologo in ospedale non deve, perciò, abbassare mai la guardia, per evitare che della sua presenza si faccia un uso perverso, che porti a un ulteriore impoverimento del rapporto medico-malato. La sua principale attività sarà rivolta ai sanitari stessi, sensibilizzandoli alle dinamiche psicologiche che accompagnano ogni fatto morboso e costituiscono il tessuto più solido della relazione terapeutica.

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Una terza articolazione costitutiva del Dipartimento di Scienze umane è il Servizio pastorale, o di assistenza religiosa. Esso evidentemente non è nuovo, né tantomeno esclusivo cieli'ospedale Fatebenefratelli: di diritto e di fatto, esiste in tutte le istituzioni ospedaliere. L’opera del pastore in ospedale, tuttavia, è gravata di numerosi malintesi, spesso emarginata e di fatto screditata. Benché non negata per principio — salvo nei casi di flagrante anticlericalismo —, l’assistenza fornita dal ministro della religione viene scorporata dal complesso di Servizi che costituiscono, nella loro interezza, la «sanità». Assistenza sanitaria e Servizio pastorale solitamente corrono paralleli, senza agganci o interferenze reciproche. Cappellano da una parte, medici e personale infermieristico dall’altra, svolgono, per lo più ignorandosi rispettivamente, un’attività il cui senso e finalità non sembrano riconducibili a nessun comun denominatore.

Le diverse figure professionali sono concepite come finalizzate a obiettivi divergenti: i sanitari mirano a restituire la salute o, quanto meno, a prolungare il più possibile la vita; i ministri della religione sono per lo più chiamati «quando non c’è più niente da fare» e si ritiene giunto il momento di pensare alla salvezza dell’anima. Può avvenire che la differenziazione si approfondisca ulteriormente, fino a sfiorare la concezione caricaturale dell’antagonismo tra i due tipi di presenza e di servizio all’uomo malato: come se il personale sanitario si mobilitasse per restituire il malato alla vita, mentre l’intento del cappellano sarebbe quello di boicottare quest’opera, a vantaggio dell’«altra vita». In questo caso può avvenire che la presenza del ministro della religione sia più o meno apertamente osteggiata, oppure tollerata con sufficienza, salvo l’impegno per neutralizzare gli effetti demoralizzanti del passaggio della tonaca tra i letti della corsia...

Affinché l’assistenza spirituale al malato non decada in caricature di questo genere — con conseguente disaffezione dei pastori stessi per un lavoro caduto in discredito — bisogna che sia garantita la sua saldatura con la struttura funzionale dell’ospedale. L’integrazione di un Dipartimento può

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svolgere questa funzione, riscattando il Servizio pastorale da una certa marginalità, di cui soffre attualmente nelle istituzioni ospedaliere.

L’opera di colui che fornisce assistenza spirituale deve, a sua volta, svolgersi a un livello di seria professionalità. Ciò non si può affermare, purtroppo, se ci riferiamo a quanto si vede il più frequentemente in giro per gli ospedali. La prassi della fede è ridotta molto spesso a un’amministrazione routinaria dei sacramenti, tra i quali spicca, in ambiente ospedaliero, il viatico e l'«estrema unzione» (malgrado la rivalutazione teologica del sacramento dell’unzione degli infermi proposta autorevolmente dal Vaticano II e alcuni sporadici tentativi di rinnovarne la fisionomia liturgica, la più profonda comprensione spirituale di questo gesto sacramentale è lungi dall’essersi tradotta in atto. L’unzione continua, per lo più, ad essere sentita e praticata come l’atto che consacra il morire).

Anche il ministero dell’annuncio evangelico e della parola di conforto spesso si svolge in modo stanco e ripetitivo, non solo per le carenze umane, ma anche per la inaccurata teologia della sofferenza su cui si fonda. Il modello presupposto da un certo pietismo cristiano che parlava senza remore di rassegnazione e amore cristiano per la sofferenza oggi non ha più corso. All’inflazione di parole devozionali rivolte al cristiano malato è succeduto un silenzio imbarazzante: non il silenzio denso di presenza, nel comune ascolto del messaggio esistenziale e soprannaturale insito nel grumo del dolore umano, bensì l’ammutolimento di chi sente che le parole perdono il loro significato e scorrono via su una superficie impermeabile.

I modelli del passato di prassi pastorale presso i malati si rivelano sempre più rapidamente inadeguati. È un motivo ulteriore per sollecitare un’adeguata formazione per i pastori che si dedicano a questo ministero. La loro «professionalità» ha tutto da guadagnare se si demarca dai modelli generici, secondo i quali il cappellano è il referente per i bisogni «umani» indifferenziati: un «esperto in umanità» dotato

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spesso di buona volontà, ma senza la competenza adeguata. Se i Servizi specifici — come quello sociale, di psicologia e di etica, di cui diremo tra poco — vengono istituiti e incrementati, il Servizio pastorale ne trae beneficio, acquistando un volto più definito. Esso ha bisogno non della concorrenzialità, bensì dell’integrazione con gli altri Servizi rivolti al soggetto nella sua totalità.

Vecchi e nuovi bisogni etici nella sanità

All’interno della sanità gli interrogativi di tipo etico sono stati tradizionalmente rappresentali dalla richiesta, da parte delle istituzioni confessionali, che fossero rispettate le regole morali che derivano dal proprio credo religioso. Gli ospedali cattolici, in concreto, hanno rivendicato il diritto di poter seguire, anche nell’ambito della prestazione di cure sanitarie, i dettami della morale cattolica. Una pretesa legittima, che ha avuto anche la sua validazione giuridica nella legge che, introducendo in Italia l'interruzione volontaria della gravidanza, ha previsto la possibilità dell’obiezione di coscienza, tanto per i singoli, quanto per le istituzioni.

Chiunque sa, in pratica, che un ospedale cattolico non pratica interventi proibiti dalla morale religiosa, come aborti, sterilizzazioni contraccettive, somministrazione di contraccettivi condannati dalla Chiesa, eutanasia, fecondazione artificiale e simili. La difesa dell’identità confessionale domanda spesso una rigida demarcazione su questi punti della morale medica da posizioni che magari cittadini e sanitari onesti ritengono in coscienza compatibili con le proprie esigenze morali. Il problema sarà, semmai, quello della coerenza: affinché non avvenga che, a rigide posizioni morali su un fronte, facciano riscontro connivenze col male e compromessi su altri fronti...

L’emergenza tradizionale delle problematiche morali in campo sanitario non dovrebbe monopolizzare tutta l’attenzione del mondo cattolico, in modo da offuscare la nuova richiesta di riflessione etica. Questa è sorprendente, in quanto

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proviene proprio da quegli ambienti culturali che sembravano essere ormai irrimediabilmente sganciati dal riferimento a valori e a norme, in nome dell’oggettività e del sapere scientifico. Nel mondo della sanità si va facendo strada la consapevolezza che l’efficienza tecnica non basta: ci sono anche questioni di altro ordine, che non possiamo più evitare. La nuova domanda di etica è intrinseca alla promozione della salute, in quanto questa si presenta sempre più distintamente come un coagulo di valori che investono l’uomo nella sua totalità. La suprema questione etica che si presenta oggi in modo ineludibile in campo biomedico può sintetizzarsi in una domanda essenziale: l’enorme efficienza raggiunta è impiegata a vantaggio o a danno dell’uomo?

Sulla traiettoria di questo interrogativo si è costituita ― lo abbiamo già detto — in questi ultimi anni una disciplina, la «bioetica», come risposta alle provocazioni del progresso tecnologico, col compito di offrire orientamento e guida nelle situazioni conflittuali. Il progresso tecnologico ha reso infatti possibile interventi biomedici che suscitano perplessità e smarrimento. Basti pensare al prolungamento artificiale della vita, alle tecnologie applicate alla riproduzione, alla manipolazione farmacologica del comportamento, all’uso degli esseri umani per la ricerca e la sperimentazione, ai trapianti di organo e al ricorso agli organi artificiali, alle manipolazioni genetiche, alla diagnosi prenatale e agli interventi sulla vita intrauterina.

Sempre più esplicita si fa l’esigenza di una riflessione che accompagni le nuove acquisizioni, per non lasciarsi semplicemente aspirare dalla vertigine del possibile. Già prima che il progresso sviluppasse le potenzialità che conosciamo oggi, le menti più acute avevano visto il verme nascosto nella mela. Oggi non è più possibile chiudere gli occhi di fronte alla possibilità che la tecnologia, sganciata dai limiti che le impongono l’antropologia e l’etica, si risolva in un tradimento dell’uomo. Si avverte un senso del limite, oltre il quale si va contro l’uomo; e l’urgenza di fare delle scelte in armonia con la vita umana che auspichiamo.

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È innegabile ai nostri giorni l’interesse diffuso per queste problematiche etiche, straripato oltre gli ambienti religiosi, fino a coinvolgere tante persone che una vecchia etichetta ecclesiastica amava qualificare come «uomini di buona volontà». Non basta più richiamarsi alla scienza per conferire validità morale a tutto quello che si fa in suo nome. Sempre più la scienza, biologica o medica, va coniugata con la coscienza: vale a dire, con il senso di responsabilità.

Chi è animato dal senso cristiano di responsabilità per la vita non può che rallegrarsi di questa richiesta di riflessione etica che sorge in connessione con le situazioni-limite o inedite a cui ci ha condotto il progresso biomedico. Ne rispetta l’autonomia, non riducendo l’etica alla riflessione morale che si ispira alla luce della fede. La guarda con fiducia, senza vedervi un pericolo per la morale religiosa. Ma sarebbe riduttivo limitarsi solo alle questioni sensazionali, trascurando un bisogno di etica più fondamentale e quotidiano. L’etica è necessaria, infatti, per aiutare la medicina a uscire dalla crisi in cui versa, facendo ritrovare ai sanitari la loro giusta professionalità.

Non intendiamo con ciò indicare la necessità che chi lavora nella sanità eserciti la professione con altruismo e abnegazione: vale a dire, con quello spirito che, dagli ippocratici in poi, è designato come «filantropia». Questa è una necessità ovvia. Chiunque eserciti professioni molto esigenti dal punto di vista umano, ha bisogno di ripiegarsi periodicamente sulle intime motivazioni, contrastando l’inerzia che può nascere dalla routine o quel vizio dello spirito, che si forma spesso per un lento accumularsi di frustrazioni: il vizio che i maestri medievali chiamavano col nome di «accidia» (le scienze del comportamento americane parlano oggi in questi casi della «sindrome del burn-out»). Il richiamo alle virtù è opportuno: senza voler con questo «far la morale» a medici e infermieri...

Quando diciamo che l’etica è necessaria per sostenere la stessa professionalità dei sanitari, ci riferiamo piuttosto a quell’attività dello spirito umano che si interroga a quali

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condizioni l’azione umana ha carattere di «bontà» (o convenienza, giustizia, ecc.). Ora, nelle professioni sanitarie si è giustificatamente insinuato il dubbio che non tutto quello che si fa «per il bene del malato» sia effettivamente un bene per questi. I sanitari più riflessivi si interrogano sulla appropriatezza dei loro comportamenti, non solo nelle situazioni-limite a cui accennavamo più sopra, ma nella pratica quotidiana dell’arte del guarire. Alla loro insicurezza fa riscontro una diffidenza sempre più marcata da parte dei pazienti nei confronti di una medicina che pretende di fare il loro bene, dispensandosi però di mettersi al loro ascolto per sapere quali sono i loro bisogni.

Un caso emblematico è quello che sta avvenendo nell’area terminale della vita. Nelle malattie a prognosi infausta vengono routinariamente avviate dai medici delle pratiche terapeutiche che indirizzano il malato sul binario delle terapie intensive e dell’accanimento terapeutico. Di conseguenza, l’organizzazione medica della morte acquista un carattere sempre più disumano, perché si allontana dai bisogni emotivi, psicologici e spirituali del morente. Il compito dell’etica a questo livello non è quello di fornire orientamenti e regole di comportamento (dire o non dire la verità? Come ottenere un consenso informato alle strategie terapeutiche?), bensì, più fondamentalmente, quello di ricostituire l’alleanza terapeutica implicita in ogni atto sanitario. Se non permette al soggetto di esprimersi, il sanitario non saprà qual è il comportamento che risponde più adeguatamente — o meno inadeguatamente... — ai suoi bisogni. Senza questa condizione, anche l’atto medico più ineccepibile dal punto di vista tecnico non potrà essere «buono», nel senso di essere rivolto al bene della persona.

La questione cruciale non è tanto quella se sia o no opportuno introdurre l’etica nella sanità: l’etica vi sta di casa, di diritto e di fatto. Il punto determinante è piuttosto il modo in cui essa deve esprimersi. Sarebbe deleterio per il concetto stesso di etica, se la si importasse dalla filosofia (o dalla teologia morale) già confezionata, come un prodotto pronto

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per l’uso. Non sono pochi coloro che, quando invocano l’etica, hanno in mente solo regole da applicare, sulla base di una distinzione tra ciò che è lecito e ciò che è proibito. Oppure che la concepiscono come una serie di proibizioni, per dare bacchettate sulle mani ai biologi e medici più discoli...

Soprattutto in campo sanitario, è necessario che l’etica ritrovi il sapore del dialogo: un cercare insieme il Vero e il Bene, attraverso domande e risposte, con la fiducia che la coscienza dell’uomo è costitutivamente — un cristiano direbbe: così creata da Dio — aperta ai valori. Solo se è frutto di una ricerca comune, l’etica si sottrae al pericolo di diventare un ulteriore «bene di consumo».

Entro questi limiti, è comprensibile in ospedale anche un Servizio di bioetica, come luogo privilegiato per il dialogo che precede e accompagna la decisione etica, non come istanza autoritativa che si sostituisca alla coscienza. L’etica favorisce soprattutto il processo mediante il quale il malato ha accesso alla parola, reagendo a quella medicina muta che è per lo più sinonimo di oppressione della coscienza.

L’intelligenza del senso

Recuperato il soggetto, veniamo a scoprire una quantità di bisogni legati all’essere malato, che non entrano nei compiti dei sanitari; eppure, non si può dire che si stia facendo una «sanità» a misura d’uomo se non si risponde anche ad essi. Con la risposta professionale, quando ciò sia possibile: lo abbiamo visto considerando i bisogni sociali, psicologici, religiosi ed etici del malato; oppure in modo non professionale, nel senso che coinvolge dei professionisti, ma non per questo senza metodo. Questa prospettiva si applica in particolare a un ultimo bisogno che vogliamo considerare: il bisogno semantico, o di senso.

Nella concezione naturalistica prevalente si presuppone implicitamente che la malattia sia in-sensata. L’unico significato

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insito in essa è quello di essere effetto di una causa; è il significato che emerge quando il medico, con l’aiuto della biologia, della biochimica, o di un’altra scienza della natura, riesce a ricondurre il fatto morboso alle alterazioni organiche che lo provocano. Secondo questo modello, solo l’esperto, cioè colui che possiede il sapere biomedico, sa spiegare la malattia, mentre il malato sarebbe completamente all’oscuro rispetto a ciò che sta avvenendo in lui. Spiegare, in questo caso, non significa capire, nel senso esistenziale pieno della parola, ma solo mettere gli effetti patologici in rapporto con le cause, identificate nel piano fisico-chimico della realtà organica.

Se ci trasportiamo nel quadro dell’antropologia teologico-biblica, là dove la guarigione è iscritta dentro l’opera della salvezza, l’acquisizione del senso della malattia ci appare come un momento costitutivo del processo della soteria (una realtà più vasta della guarigione in senso clinico, in quanto confina con la «salvezza»). Mentre i contemporanei sollecitavano Gesù a dar loro il «perché» della malattia, egli li indirizza piuttosto verso la questione della finalità: verso il «per che cosa» della malattia-peccato-morte. È questa acquisizione di senso che può far si che nelle varie manifestazioni dell’«ombra» nell’esistenza umana si riveli la «gloria di Dio». L’acquisizione di senso ottiene che dalla passività distruttiva della malattia e della morte scaturisca una possibilità di crescita.

Il senso non può essere donato a nessuno: va trovato all’interno dell’esperienza; come una porta che si apre solo dal di dentro: nulla vale forzarla. Ma la ricerca può essere facilitata o impedita. In questa prospettiva proponiamo un Servizio del tutto particolare: il Volontariato ospedaliero. È noto lo spessore che le varie forme di volontariato stanno prendendo nei diversi campi della vita sociale. Ci sentiamo legittimati ad affermare che il fiorire delle attività di volontariato è un segno di maturazione sociale e spirituale: in ospedale come in carcere, nelle comunità terapeutiche e nell’assistenza domiciliare. Il Volontariato ospedaliero può

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essere interpretato in molti modi: da quello filantropico (compreso il valore di un semplice: «Fatti coraggio!»), a quello utilitaristico (supplire alle inevitabili carenze dell’organizzazione ospedaliera) 85. Tutte queste funzioni sono importanti e devono essere valorizzate, anche se è necessario vigilare costantemente che l’opera del Volontariato non sia utilizzata per delle supplenze inammissibili.

Offrire una buona parola al posto dei farmaci appropriati, del vitto caldo, delle lenzuola pulite, sarebbe una mistificazione.

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Nessuna parola di incoraggiamento deve servire a inculcare la rassegnazione a malati che si trovassero ad essere trattati in modo indecoroso e contrario al rispetto dei loro diritti come cittadini e come esseri umani. I malati non devono limitarsi ad aspettare che i sanitari si degnino paternalisticamente di tutelare i loro diritti; se è necessario, devono rivendicarli.

Ma la sanità non è solo l‘ambito di diritti e doveri reciproci tra malati e operatori della salute. È anche, e forse in primo luogo, lo spazio della solidarietà. Oltre a quella che si esprime mediante un aiuto professionale, esiste anche la solidarietà che non ha altro motivo per tradursi in atto che quello della comune umanità. E naturalmente il coinvolgimento nella sorte dell’altro che si fonda sulle parole di Gesù: «Ero malato e mi avete visitato...».

Se decidiamo di considerare il Volontariato in rapporto con la ricerca del senso, gli attribuiamo un ruolo eminentemente spirituale, pur rimanendo nell’ambito di ciò che è terapeutico. Il Volontariato cura mediante l’amicizia la dimensione socio-affettiva del malato. Quel «quasi nulla» che è la semplice disponibilità ad ascoltare — una merce così rara in una società tesa spasmodicamente al rendimento — opera miracoli: colui che sta attraversando il tunnel della prova, magari con l’oscura sensazione di star scivolando fuori della vita, può esprimere le sue emozioni, riorganizzare le proprie energie spirituali, scoprire magari per la prima volta il valore della gratuità nei rapporti interpersonali. La presenza del Volontario permette così che si crei un'atmosfera favorevole affinché il malato faccia il suo «lavoro semantico», cioè la creazione del senso della propria malattia.

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III. FIGURE DELL’ALLEANZA IN MEDICINA

III. 1 - la verità al malato

La verità e l'esigenza di una «nuova personalizzazione» della medicina

Il problema della verità nel rapporto tra medico e paziente si presenta sotto molte forme e in numerose situazioni. Tuttavia solo in un caso la comunicazione della verità assume aspetti che non è retorico chiamare drammatici: quando, cioè, si tratta di una malattia a prognosi infausta. Nessuno, neppure chi parla nella Chiesa e in nome della Chiesa, può pretendere di avere una ricetta per sciogliere il nodo di conflitti di coscienza che si stringe attorno al letto del malato, sulla cui testa pesa il destino di una morte imminente. Per quanto difficile, la ricerca del giusto atteggiamento è indilazionabile, se non si vuol prolungare il malessere che si addensa in misura crescente attorno alla fase terminale della vita.

Il giusto atteggiamento di fronte al malato senza speranza non è questione esclusiva di prescrizioni di tipo deontologico. Queste sono necessarie, ma non esauriscono da sole il problema cruciale: qual è la verità, di cui ha bisogno la persona umana per far fronte in modo positivo alle sfide che gli pone l’ultima malattia? La deontologia confina con l’etica, e questa a sua volta con la saggezza. È in questo contesto che la Chiesa si sente autorizzata e provocata a inserire la sua voce nella ricerca comune di un modo più umano di

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praticare la medicina. Il suo intervento non vuol essere un’intrusione indebita all’interno del rapporto medico-malato. Ma se ci orientiamo verso una medicina a misura d’uomo, preferendola a una medicina dominata dalla tecnologia pura e dall’efficientismo, incontriamo inevitabilmente l’esigenza che la relazione che si instaura tra il medico e il malato sia impregnata di valori etici.

La voce dell’insegnamento ufficiale della Chiesa cattolica è unanime in tale senso. Ci limitiamo a riportare due accenni del magistero pontificio recente. In un discorso del 27.10.1980, Giovanni Paolo li ricordava gli obiettivi della medicina ed esponeva i principi fondamentali dell’etica medica che ne conseguono. Tra questi attribuiva un posto privilegiato alla relazione interpersonale, che è parte essenziale del processo terapeutico: «È necessario impegnarsi in una “nuova personalizzazione” della medicina che, portando di nuovo a una considerazione più unitaria del malato, favorisca l’instaurarsi di un rapporto più umano con lui, in modo da non lacerare il legame tra la sfera psico-affettiva e il corpo sofferente. Il rapporto medico-malato deve basarsi di nuovo su un dialogo fatto di ascolto, di rispetto, di considerazione; esso deve essere di nuovo un incontro autentico tra due uomini liberi e, com’è stato detto, tra una “fiducia” e una “coscienza”».

Questo testo indica con chiarezza l’orizzonte entro cui si situa un intervento etico-sapienziale fatto in nome del cristianesimo: è quello di una concezione dell’uomo convenzionalmente nota come «personalismo». L’antropologia cristiana si oppone a ogni forma di dualismo e promuove l’unità della persona umana nella molteplicità delle sue dimensioni: corporea, psichica, spirituale e sociale.

In un discorso del 18.9.1975, rivolto ai medici partecipanti a un congresso di medicina psicosomatica, Paolo VI proponeva con determinazione il personalismo cristiano in campo medico: «Questa inclusione di tutte le dimensioni umane nel rapporto terapeutico ci sembra rispondere non solo alle più moderne esigenze scientifiche, ma anche alle richieste

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umane più profonde». Essendo l’uomo uno nella molteplicità delle sue dimensioni, il rapporto che si instaura nel processo terapeutico influisce nelle diverse direzioni: la cura somatica può portare conforto allo spirito del paziente, che spesso soffre più del corpo; la cura psicologica, morale o spirituale può rafforzare, d’altro lato, l’effetto somatico della terapia. Per questo motivo di fondo, una questione eminentemente etica e spirituale come quella della verità al malato costituisce un momento inevitabile di confronto per qualsiasi sanitario che abbia la preoccupazione di praticare una «buona» medicina.

Un’ultima osservazione preliminare: chi riflette sul problema della verità al malato dal punto di vista dell’antropologia cristiana trova una particolare consonanza con la situazione sanitaria in cui sorge questo tipo di problemi. La verità che il cristiano conosce per rivelazione e a cui si riferisce è qualcosa di diverso da ciò che evoca la nozione greca di verità (aletheia), cioè qualcosa che appare allo scoperto, che è espressa invece di essere tacita o nascosta. La Bibbia ha ereditato dal pensiero ebraico una nozione di verità correlata con la solidità, la sicurezza, la fedeltà, la costanza. «Dire la verità», in questo orizzonte semantico, evoca meno il problema dell’esattezza della dichiarazione, quanto la stabilità che deriva da un patto, dall’alleanza della salvezza. Così l’universo linguistico della Bibbia può parlare di un «uomo di verità» (Es 18,21), su cui si può contare; di una «pianta di verità» (Ger 2,21), da cui si ha diritto di aspettarsi un buon frutto; e la grazia di Dio è vera (1Pt 5,12), in quanto offre un fondamento sicuro.

Proprio questa concezione apparentemente più arcaica della verità appare, a un’analisi più attenta, più vicina a quella di cui è questione all’interno della situazione sanitaria. Il rapporto medico-paziente partecipa della natura di un’alleanza, e la verità che circola al suo interno è più di ordine salvifico che intellettuale. Un «dire la verità» che fosse solo la trasmissione di informazioni pur oggettivamente esatte da parte del sanitario, senza un impegno correlativo di solida

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fedeltà — «Sono con te e per te; non ti abbandono, comunque evolva la vicenda della tua malattia» — sarebbe solo una triste parodia della verità di cui ha bisogno il malato.

Parlare o tacere?

Se confrontiamo questi orientamenti di fondo con le opinioni correnti, ci rendiamo conto che queste ultime tendono a polarizzarsi intorno a due posizioni: quella che ritiene che comunicare diagnosi e prognosi al malato sia una inutile crudeltà, e quella che propende per un rapporto improntato alla franchezza e alla trasparenza. Trattenendoci dal correre frettolosamente a un giudizio di valore, cerchiamo prima di capire le ragioni dell’una e dell’altra posizione.

Chi nella prospettiva di una prognosi infausta propende per un comportamento improntato alla reticenza e alla menzogna, adduce come motivo gli inconvenienti della verità. Non sempre la diagnosi è esatta, e ancor meno la prognosi. Molti sostengono inoltre che dire la verità costituisca una crudeltà inutile nei confronti del malato. Lo shock della comunicazione di una malattia mortale può demoralizzare il malato e precipitarlo in una depressione in cui cessa ogni lotta per continuare a vivere. Vengono citati anche casi sporadici di suicidio di persone che la conoscenza della propria situazione clinica ha sprofondato nella disperazione. Sono numerosissimi i medici, forse la maggioranza della categoria, che da queste considerazioni si sentono autorizzati a concludere che non bisogna mai dire la verità al malato, qualora ciò significhi parlargli della sua morte.

Questo atteggiamento collude con la tendenza generale nella nostra società occidentale moderna a nascondere la morte. L’«umanesimo» del nostro tempo è incline a ritenere che guardare in faccia la propria morte sia un peso insostenibile per l’uomo d’oggi; proteggere, perciò, il morente da ogni avvisaglia della propria fine è considerato un gesto filantropico, quando non addirittura di carità fraterna. In questo

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spirito si sente talvolta i familiari di un defunto, commentando la sua morte, esclamare con orgoglio; «Non si è accorto di niente!». Attribuiscono così a se stessi e all’équipe sanitaria il merito di aver celato al proprio congiunto fino alla fine la cruda realtà della morte.

Ma il tacere non comporta degli inconvenienti? Chi prende partito per la franchezza con il malato a prognosi infausta sottolinea piuttosto gli effetti negativi del silenzio. Tacere instaura per lo più un clima di ipocrisia, con esiti dolorosi tanto per il paziente quanto per i suoi familiari. Colui che deve affrontare la fase terminale della propria vita e ha il presentimento della morte si sente abbandonato proprio nel momento più difficile della propria esistenza. Gli viene sottratta la possibilità di elaborare le proprie angosce, comunicandole a qualcuno. La sofferenza morale — fatta di solitudine, incomprensione, senso di incomunicabilità — è in questi casi maggiore di quella fisica. L’aneddotica ospedaliera può raccontare inoltre episodi in cui un malato grave, al quale tutti avevano nascosto la verità, viene a conoscerla casualmente; dalla cartella clinica, o da un’osservazione imprudente di qualcuno.

Un altro ordine di considerazioni è quello propriamente etico. Il diritto alla verità viene rivendicato come un diritto fondamentale della persona ed è espressione del rispetto che le si deve. Sottraendo la verità al malato grave, gli si impedisce di vivere l’ultima fase della propria vita da protagonista. Sapendo dell’avvicinarsi della fine, avrebbe forse preso delle decisioni importanti — che possono anche comprendere la regolazione di situazioni legali e finanziarie — e soprattutto avrebbe colto l’occasione per fare quel bilancio della propria vita che costituisce talvolta un momento di spiritualità particolarmente intenso.

La prospettiva della fine prossima può costituire un’ultima tappa di crescita: non solo dal punto di vista trascendente di un’altra vita, ma anche in un orizzonte di immanenza. Nella consapevolezza della morte si possono intrecciare quei dialoghi essenziali con il coniuge, i figli, gli amici, rinviati

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per una vita intera, e che costituiscono nella loro verità la più profonda consolazione di chi resta. E forse anche di chi è costretto a lasciare la vita.

La scelta della trasparenza

Se non ci fossero delle buone ragioni tanto per l’opzione del silenzio, quanto per quella della franchezza, sarebbe un falso conflitto. Invece parliamo della verità al paziente come di un problema, perché esso costituisce sovente un conflitto reale. Ciò non ci impedisce, tuttavia, di esprimere a chiare lettere la nostra preferenza per una linea di condotta che privilegi la trasparenza. In questa direzione si muove anche la consapevolezza degli obblighi professionali dei medici, che si esprime nelle codificazioni deontologiche.

Nel più recente Codice deontologico dei medici italiani (1978), tra le regole generali di comportamento che devono guidare i rapporti con il paziente viene esplicitamente menzionata la comunicazione della prognosi almeno alla famiglia e, in ogni caso, il rispetto della volontà del paziente: «Una prognosi grave o infausta può essere tenuta nascosta al malato, ma non alla famiglia. In ogni caso la volontà del paziente, liberamente espressa, deve rappresentare per il medico un elemento al quale ispirerà il suo comportamento» (art. 30).

La formulazione prudenziale del Codice deontologico indica con chiarezza che la comunicazione della verità al malato richiede l'esprit de finesse, più che l’esprit de géométrie. Tanto il diritto alla verità del malato, quanto il dovere corrispettivo del medico di comunicargliela, sono soggetti a limitazioni. L’esigenza etica della franchezza non va intesa come un assoluto. Il medico è tenuto, in ogni caso, a modulare il suo intervento in modo che non contraddica il proprio e fondamentale impegno che ha verso il malato: quello di fare il suo bene (un impegno che si può esprimere, negativamente, secondo l’assioma classico: primum, non nocere).

Ci sono casi in cui la verità — soprattutto la cruda verità, comunicata senza tatto — può essere pregiudizievole alla

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salute globale del malato, comportando crisi cardiache, stress intenso, angoscia, idee di suicidio. L’indicazione di operare «per il bene del malato», per quanto nobile dal punto di vista etico, può facilmente giustificare comportamenti paternalistici, quando questo «bene» viene stabilito unilateralmente dal medico, al posto del malato. In questo senso costituisce un prezioso correttivo l’accenno del Codice deontologico alla «volontà del paziente». Alcune volte questa è chiaramente espressa. Ci sono pazienti che dichiarano esplicitamente al medico di non voler sapere, se hanno un cancro o una malattia mortale. La libertà e l’autonomia della persona vanno rispettate. Un «accanimento» a far sapere la verità sarebbe in questo caso condannabile moralmente.

Tuttavia la persona può cambiare opinione. Le fasi psicologiche dell’evoluzione del malato grave, studiate e diffuse dalla dott.ssa Kübler-Ross, ci hanno familiarizzato con la conoscenza di un universo emotivo in trasformazione. Se il malato con il progredire della malattia evolve, il medico non deve restare congelato nell’atteggiamento iniziale. Anche l’alleanza tra il medico e il paziente, come quella salvifica che conosciamo dalla Rivelazione, è una realtà storica e mutevole. Ciò che non era legittimo ieri, può essere un’esigenza di oggi.

La volontà esplicita del malato — «Dottore, mi dica la verità; voglio sapere» — è non di rado una realtà insidiosa. Anche se il paziente non se ne rende conto esplicitamente, la domanda può essere costruita su una restrizione mentale: «Mi dica la verità, se mi è propizia; non me la dica, se è infausta». Il medico può essere confrontato a un vero e proprio problema ermeneutico, complicato dai diversi livelli della psiche. Non sarà in grado di stabilire che cosa il paziente vuol sapere veramente, se non ha una conoscenza generale previa della persona. L’interpretazione può esigere ripetuti colloqui.

Il diritto alla verità da parte del paziente riguarda inoltre le informazioni necessarie che gli permettono di fare una scelta illuminata circa la propria vita: il trattamento medico,

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l’amministrazione dei suoi beni, i suoi rapporti umani, le sue credenze religiose, ecc. Non implica la conoscenza di tutti i dettagli dell’evoluzione della malattia, né le statistiche sui casi simili, ancor meno la durata esatta della prognosi. La trasmissione di certi dettagli sortisce più l’effetto di scoraggiare e traumatizzare il malato, che di aiutarlo a prendere lucidamente le decisioni sulla propria vita.

In un documento dell’Episcopato tedesco (Morte degna dell’uomo e morte cristiana, 1978) il problema centrale nella comunicazione di diagnosi e prognosi viene opportunamente individuato come quello del sostegno che viene offerto al malato: «Ciò che è decisivo non è solo l’esattezza di ciò che si dice, ma la solidarietà nella situazione difficile, che va di pari passo con il prognostico inquietante di una malattia. Il punto più importante, in questo caso, è che il malato durante il corso dell’ultima tappa della sua vita non si senta lasciato solo da coloro che lo curano, nel momento stesso in cui comincia ad affrontare l’angoscia della morte. Molte testimonianze recenti dimostrano a quale punto la verità che si dice al malato possa avere una influenza liberatrice sulle relazioni tra il morente e coloro che lo assistono. Questo fatto ci autorizza a sperare che cresca la disponibilità ad affrontare la verità della morte. Questa è una condizione necessaria perché il morente possa vivere in maniera umana le ultime tappe della sua vita».

Aderiamo profondamente a questo orientamento e a questo auspicio. Ma mentre lo esprimiamo, ci rendiamo conto che la verità al malato non ha solo una dimensione etica e spirituale, ma anche una istituzionale. Per formulare più direttamente il problema: è possibile comunicare con il malato e crescere insieme a lui verso la verità in istituzioni ospedaliere che non sono organizzate in modo da favorire questo rapporto? Insieme a un impegno a cambiare l'ethos dominante negli ambienti sanitari, non dovremmo impegnarci anche a cambiare ambienti pensati per la guarigione, e non anche per garantire una morte umana a chi non può più guarire?

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III. 2 - l'alleanza con il morente

Perché una medicina per chi non guarisce?

Basta qualche affermazione, spigolata a caso nel contesto di quello che si presenta come lo scenario della medicina del futuro, per procurarci un senso di malessere morale; affermazioni come quella del prof. William Schwartz, dell’Università americana di Tufts, secondo il quale «la sola maniera di ridurre i costi è di privare certe persone delle cure mediche o di negare l’assistenza per certe malattie». Richard Lamm, governatore del Colorado, ha dichiarato che si spende troppo a mantenere in vita dei vecchi giunti all’ultimo stadio della malattia; è da preferire il sistema inglese, che ha già di fatto contingentato certe cure, ad esempio privando della dialisi i 2/3 dei sofferenti di insufficienza renale: i vecchi, ovviamente 86.

Istintivamente ci ribelliamo a programmi di questo genere, ritenendoli incompatibili con le esigenze etiche più fondamentali della nostra società. Ci sembra soprattutto inconcepibile che dall’ambito della medicina, che noi amiamo rappresentarci come un’impresa tutta tesa al prolungamento della vita, possano provenire proposte intese a porre dei limiti alla somministrazione delle cure. L’opera medica ci appare sottesa dall’impegno di fornire terapia anche a chi non ha possibilità di guarire: è un elemento costitutivo della nostra concezione della medicina, con quel carattere di evidenza che attribuiamo agli imperativi etici.

Questa «evidenza» non ha un carattere naturale, ma culturale: è legata alla nostra organizzazione del sapere sull’uomo e di quel fare che costituisce la vita sociale. Non la riscontriamo in altre culture, che si sviluppano in regime

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di sopravvivenza 87. Ma anche rimanendo nella nostra tradizione occidentale, può sembrare sorprendente che tale principio non facesse parte della medicina greca. Nell’etica platonica, ad esempio, la medicina era subordinata al bene della polis', di conseguenza, se il medico avesse sottratto alla comunità risorse, destinandole alla cura di chi, in quanto destinato a una morte certa, non avrebbe mai potuto restituire dei benefici alla comunità stessa, avrebbe infranto un suo preciso dovere professionale 88. Anche Aristotele impartisce al medico il consiglio di abbandonare il malato, la cui malattia sia inguaribile 89.

Il medico ippocratico — ma possiamo dire che ciò vale per il medico dell’antichità classica tout court — doveva ispirare la sua azione al principio sovrano della «necessità della natura» (ananke physeos), con l’obbligo di astenersi in caso di malattie ritenute incurabili «per necessità». L’astensione terapeutica in tali malattie non aveva solo un carattere etico, ma addirittura religioso; procedendo così, il medico rispettava con riverenza un decreto inappellabile della physis, alla quale veniva attribuito un carattere divino; accettando di limitare la propria arte, evitava di commettere la trasgressione tipica del peccato di hybris. Questo orientamento conferisce una connotazione particolare alla philan-thropia, che pur costituiva un ideale etico del medico greco. L’amore all’uomo era subordinato all’amore alla «natura» (physiophilia); il medico era «amico dell’uomo», in quanto era devoto della physis 90.

Avvenimenti della massima importanza, equivalenti in pratica a delle rivoluzioni, si sono frapposti tra la medicina

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dei Greci e la nostra concezione dei compiti del medico. L’avvento del cristianesimo è uno di questi. Il tema patristico del Christus medicus 91 ci permette di mettere a fuoco la differenza tra le due concezioni della medicina. I Padri si compiacciono di sottolineare che, a differenza del medico, il Cristo non offre la salvezza solo a qualcuno, ma a tutti. L’universalismo della salvezza, che propriamente è un assunto teologico, si riflette nella prassi sanitaria, in quanto i discepoli di Cristo non solo rifiutano di fare discriminazioni, ma offrono preferibilmente le loro cure proprio a coloro che sono abbandonati dalla medicina ufficiale. La cura degli inguaribili e l’attenzione agli emarginati è diventata ben presto un segno caratteristico della medicina messianica e della carità cristiana. Anche in una cultura secolarizzata come la nostra è rimasta una profonda traccia di ciò che concepiamo come un obbligo verso i più bisognosi (parafrasando Croce, si potrebbe affermare che, dal punto di vista dell’etica medica, «non possiamo non dirci messianici...»).

Una seconda variazione importante è il cambiamento intervenuto nel rapporto con la natura. Anche a questo proposito dobbiamo riferirci al filo della religione cristiana, intrecciato nella trama della cultura dell’Occidente. Al cristianesimo — più precisamente, all’asse giudaico-cristiano — è stata attribuita un’azione di demitizzazione e dissacrazione della natura. Max Weber ha parlato per primo della liberazione della natura dai suoi accenti sacrali ad opera della religione biblica come di un «disincanto». Tale disincanto, inteso non come disillusione ma come approccio della natura con intento operativo, avrebbe fornito la condizione preliminare assoluta per lo sviluppo della mentalità scientifica e della tecnica.

In epoca moderna gli uomini, pienamente svincolati dal mysterium fascinosum et tremendum che emanava ancora dalla physis della medicina ippocratica, si sentiranno, secondo la

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formula di Cartesio, maîtres et possesseurs de la nature. Le conseguenze in ambito sanitario di questo atteggiamento si sono rivelate con il tempo. La medicina è andata sempre più configurandosi come un’impresa professionale rivolta a sconfiggere la natura, nel suo fluire verso la morte. Dare scacco alla morte, conquistando sempre nuovi ambiti di intervento, non è percepito come un peccato di hybris, ma come il supremo vanto della nostra medicina: una grandezza che è al tempo stesso efficientistica e dell’ordine dei valori, quindi etica.

Non siamo troppo frettolosi nel rallegrarci incondizionatamente della più nobile concezione antropologica che caratterizza la nostra pratica terapeutica. In essa sono insiti dei limiti, che con l’accentuarsi del progresso hanno cominciato a dare frutti sempre più amari. L’efficacia della medicina scientifico-tecnologica ci obbliga a considerare che non sempre l’aumento quantitativo produce un aumento qualitativo. Ciò si verifica anche nell’ambito del prolungamento della vita. Non ci riferiamo solo ai problemi sociali che derivano dall’invecchiamento della popolazione, dai costi crescenti della cura dei malati cronici e anziani e dall’impossibilità di curare tutti nella misura del desiderio soggettivo: è l’angolatura da cui provengono le proposte di economia sanitaria citate all’inizio, e che abbiamo trovate inaccettabili secondo il comune senso etico. Ma c’è qualcosa di più e di diverso: il rifiuto di una medicina intesa a dare il massimo delle cure e a prolungare la vita ad ogni costo può venire dall’individuo stesso al quale le cure sono rivolte.

Due situazioni in particolare — rare, forse, dal punto di vista statistico, ma molto significative per i problemi di fondo che sollevano — vengono a sconvolgere la pratica medica di routine: la richiesta di morire e il rifiuto delle misure terapeutiche standard. «Dottore, mi faccia morire»; «Dottore, non voglio essere curato»: due domande che pongono il medico non solo di fronte a tormentosi problemi etici, ma a una frontale rimessa in discussione dell’alleanza terapeutica. Presuppongono implicitamente che l’adoperarsi del medico

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per prolungare a tutti i costi la vita del malato non sia a suo vantaggio, ma contro di lui.

Appellarsi semplicemente agli obblighi deontologici, che proibiscono al medico di praticare l’eutanasia e gli impongono di usare i ricorsi terapeutici atti a scongiurare la morte del malato, può costituire una scorciatoia, attraverso la quale però si evita di incontrare il malato. Prendendo invece sul serio le due domande, il terapeuta — e chiunque, a qualsiasi titolo, si trovi accanto al malato inguaribile — è obbligato a confrontarsi con questioni scomode che riguardano il senso e i limiti dell’azione terapeutica.

Il discernimento della volontà di morire

L’inequivocabile problema etico maggiore della vita a termine è la volontà di morire. Non sempre, infatti, la volontà intende ciò che le parole esprimono. Sollecitare la morte può significare un rimprovero rivolto a familiari e sanitari, o un disperato richiamo ad aspetti della propria situazione, come dolore fisico persistente o solitudine, che vengono disattesi. In questi casi, quando la richiesta implicita nella domanda di morte viene soddisfatta — per esempio, il malato riceve la terapia del dolore adeguata o l’attenzione che richiede — il morente recede dal suo desiderio di affrettare la morte. Ma non possiamo escludere che la volontà di morire possa essere anche una ricerca determinata e seria di porre fine alla propria vita, quale si manifesta nel modo più chiaro nella volontà di suicidarsi.

L’etica biomedica è chiamata in causa per chiarire l’obbligo di prevenire il suicidio. Esiste il dovere morale di salvare la vita di un altro essere umano contro la sua volontà? In questo caso entrano in conflitto due specie di obblighi: quello di difendere la vita e quello di rispettare la libertà, secondo il principio dell’autonomia personale; mentre il primo giustifica l’intervento, il secondo richiede la non interferenza (nel caso in cui si sia moralmente certi che la decisione

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suicidaria è stata presa in effettiva libertà, e non sotto costrizione). Pensiamo, in concreto, al conflitto in cui viene a trovarsi un medico chiamato a fornire l’alimentazione forzata a un detenuto politico che abbia deciso lo sciopero della fame a oltranza, facendo così fallire la deliberata intenzione del suo gesto.

Solo poche voci isolate propongono il rispetto assoluto della volontà di commettere il suicidio come condizione per salvaguardare la dignità umana. Più generalmente l’Occidente ha dato la preferenza all’obbligo di salvare la vita del suicida: in passato ricorrendo per lo più alle argomentazioni religiose che riferiscono il comandamento «non uccidere» anche alla vita del soggetto stesso; oggi prevalentemente con motivazioni mutuate dall’etica laica, ivi compreso il principio giuridico secondo cui il diritto alla vita va inteso come un diritto «assolutamente indisponibile», tutelato dallo Stato anche contro la volontà dell’individuo.

Con particolare mitezza si tende oggi a valutare i tentativi di porre fine alla propria vita da parte di persone che intendono sfuggire ai dolori intollerabili e ai trattamenti disumani nella fase terminale della malattia. Anche in questi casi non sussiste, almeno dal punto di vista dell’etica cristiana, alcun valido motivo per riformulare il giudizio morale che ritiene illecito ogni attentato contro la propria vita 92. Ma non dovremmo sentirci dispensati dal riflettere sul significato profondo di tali gesti suicidiari, nei quali molto spesso si riversa una vibrata protesta contro le condizioni di vita a cui sono costretti i malati terminali.

La prevenzione del suicidio non può ridursi allora alle misure coercitive; deve estendersi piuttosto alla modifica di quelle forme più generali di malessere le cui radici vanno fatte risalire all’organizzazione sanitaria del morire. Quando

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una persona giudica la propria vita come invivibile, non basta impedirgli di porvi fine: bisogna offrirgli l’aiuto necessario perché la sua vita ritrovi la qualità umana.

Appurato che si tratti di una vera volontà di morire, un’altra opera di discernimento è affidata all’etica: la distinzione tra la volontà sana e quella patologica. Non tutti accettano che possa esistere una sana volontà di morire. Per lungo tempo qualsiasi progetto autodistruttivo nei confronti della propria vita è stato etichettato come moralmente perverso. I comportamenti sociali verso i suicidi, comprendenti perfino il rifiuto delle esequie religiose, avevano prevalentemente una funzione di deterrente, affinché non si innescasse il fenomeno dell’imitazione; la valutazione morale era, in ogni caso, di condanna. A questo atteggiamento ha fatto seguito l’epoca dell’indulgenza, ma solo perché al gesto di chi si toglie la vita è stato attribuito un carattere patologico 93. La conoscenza delle radici socio-psicologiche del comportamento suicida ha aperto la strada a un atteggiamento di maggior comprensione. Peccato... pazzia...: la volontà di morire non può essere coniugata anche con la salute, sia morale che mentale?

L’istinto naturale per la vita e l’obbligo morale di preservarla sono indubbiamente il punto di partenza dell’etica della vita fisica. Ma la volontà di morire non può essere esclusa in assoluto dal progetto di vita umana. Essa può esprimere la positiva accettazione della propria umanità, come essenzialmente limitata nel tempo. La fantasia dell’immortalità è legata all’io; talvolta ne esprime l’ipertrofia: allora è la fantasia di immortalità, non la volontà di morire, ad avere carattere patologico 94. Quando l’individuo lascia che si

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sviluppi anche la dimensione traspersonale che trascende l’orizzonte dell’io, l’abbarbicamento esasperato alla vita corporea viene superato. A un certo livello di autorealizzazione, la persona si apre a una ispirazione mistico-unitiva con il Tutto, anche al di fuori dell’esperienza formalmente religiosa.

La volontà di morire può avere anche un risvolto di ribellione all’idolatria della vita, caratteristica della cultura immanentista nella quale siamo immersi. Quando la vita fisica è considerata il bene sommo e assoluto, al di sopra della libertà e della dignità, l’amore naturale per la vita si tramuta in idolatria. La medicina implicitamente promuove tale culto idolatrico, organizzando la fase terminale come una lotta a oltranza contro la morte. Ribellarsi a tale organizzazione — che per lo più espropria il malato di ogni autonomia, sottoponendolo ai rituali chirurgici e rianimatori dell'ostinazione terapeutica — può essere anche un gesto di disobbedienza mentalmente e moralmente sano 95. Dovremmo aspettarcelo soprattutto dal credente, che la fede ha reso libero dai miti

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(l’immortalità) e dagli idoli (la vita corporea come supremo valore).

Il compito dell’etica relativamente alla vita terminale si configura in maniera crescente come un’apertura di orizzonti antropologici e spirituali. Si ha l’impressione che finora abbia predominato la funzione normativa dell’etica, stabilendo limiti e fornendo, con un lavoro in continua evoluzione, le categorie per discriminare la qualità morale dell’azione, terapeutica e umanitaria insieme, che si rivolge al morente. Le trasformazioni del morire nella nostra cultura ci forniscono stimoli e provocazioni per far emergere dal patrimonio sapienziale cristiano contributi nuovi e più creativi. Questo processo di ampiamento di orizzonti — sia detto per inciso ― corrisponde esattamente agli obiettivi che il Vaticano II attribuisce alla teologia morale, in quanto destinata a «illustrare l’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di portare frutto nella carità per la vita del mondo» 96.

I problemi etici non si concentrano solo sul momento della morte, ma su tutto il periodo che la precede. Se questo non acquista il senso di «vita da vivere» fino all’ultimo istante, acquisendo qualità umana, i problemi dei malati ai quali la medicina non può più offrire la guarigione possono diventare insolubili. Senza un progresso significativo nella gestione della vita terminale, l’eutanasia rischia di apparire a molti come la sola soluzione umana a una situazione intollerabile.

Tra i compiti sapienziali prioritari dell’etica c’è il discernimento della volontà di morire. La saggezza consiste nel trovare il giusto punto di flessione, che corrisponde alla dinamica intrinseca al flusso stesso della vita. Ciò dovrà avvenire né troppo presto, né troppo tardi. Quando la volontà di vivere fosse debilitata da cause contingenti removibili, il fratello in pericolo va sostenuto (secondo le parole del poeta St. John Perse: «Et si un homme auprès de vous vient à manquer à son visage de vivant, qu’on lui tienne de force la face

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dans le vent»). Ma quando, al contrario, il naturale movimento verso la morte, che può diventare anche un’esplicita «volontà di morire» — almeno nel senso dell’accettazione dell'inevitabilità della propria fine —, fosse ostacolato artificialmente, il fratello morente va aiutato ad appropriarsi del suo destino, fino a vedere in esso una chiamata del Signore della vita. In questo compito chi assiste i morenti può rischiare di scontrarsi con l’organizzazione medico-ospedaliera del morire, centrata sulla negazione della morte e sul prolungamento forzato della vita biologica.

L’ethos dell’uomo contemporaneo nei confronti della morte è costruito intorno a due punti: il controllo di essa e l’eliminazione del dolore, compreso il dolore morale di rendersi conto di star morendo. Questa antropologia ha eliminato due dimensioni molto valorizzate in passato, specialmente in ambito cristiano: la morte come pathos (una passività di valore positivo, come occasione della crescita umana suprema); il dolore come prova, che acquista significato attraverso la simbolizzazione (croce) e l’etica (accettazione). Gli eccessi di queste posizioni, identificabili nel provvidenzialismo e nel dolorismo, andavano corretti, ma senza evacuare i valori sottesi. Riproporli, può essere il compito profetico dell’etica cristiana del morire adatta al nostro tempo.

III. 3 - la deontologia professionale dello psicoterapeuta

Spero che la serietà del discorso non sia pregiudicata, se l’avvio ci è fornito, invece che da considerazioni accademiche, da due osservazioni riconducibili all’«insostenibile leggerezza»... del fare (più che dell’essere!). La prima è desunta da un’inchiesta svolta in America, mediante l’invio di un questionario a oltre cinquemila psichiatri scelti a caso tra gli iscritti all'American Medical Association. Oggetto dell’inchiesta: le relazioni sessuali degli psichiatri con i propri pazienti. Secondo le compagnie di assicurazione professionale, negli

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ultimi tempi si sarebbe registrato un aumento di denunce nei confronti dei professionisti per questo reato. I dati sono confermati dall’inchiesta. L’indagine indica, infatti, che il 6,4 per cento degli intervistati aveva allacciato contatti sessuali con i propri pazienti. In genere si tratta di psichiatri coinvolti con un solo paziente; ma non mancano casi di recidivi. Gli autori della ricerca ne deducevano la necessità di inserire nei piani di formazione degli psichiatri specifici programmi sui rischi di abuso sessuale dei pazienti.

In questo luogo ci interessa piuttosto rilevare il commento grafico fatto dal giornale italiano che ha riportato la notizia. Il testo è accompagnato da una vignetta: uno psichiatra invita, con un gesto della mano, la paziente a sdraiarsi sul classico divano psicoanalitico; la paziente lo guarda perplessa, con un gran punto interrogativo: qual è il significato dell’invito?

Lasciamo per ora il mondo fantasmatico della nostra paziente e rivolgiamoci a quello dello psicoterapeuta. Anche qui possiamo trovare germi di dubbio e di perplessità. L’esercizio di una professione di aiuto non è disgiunto dalla paura appena abbozzata, o forse neppure emergente a livello della coscienza, di «prostituirsi». Già da più di vent’anni gli studi sociologici della scuola neo-chicagoana hanno messo in evidenza la sovrapposizione tra fenomeni devianti e fenomeni normali nella società. Si sono rilevate, in particolare, le rassomiglianze tra prostituzione e scambio sessuale normale, come avviene, per esempio, nell’ambito del matrimonio. È un tema che è stato ripreso e sbandierato dal femminismo militante.

Ma il parallelo può essere ripreso e ampliato: c’è un’analogia sconcertante tra la prostituzione e l’esercizio di una professione, comprese quelle di aiuto. Nella prostituzione, infatti, si riscontrano tre caratteristiche: la concessione di favori sessuali in cambio di un guadagno materiale; compiacenza indiscriminata nei confronti di molte persone; dissociazione delle emozioni più profonde dell’atto fisico. Questi stessi elementi si riscontrano, mutatis mutandis, nell’esercizio

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di una qualsiasi professione: prestazione di un servizio per un onorario; assenza di discriminazione nella scelta della clientela; neutralità affettiva, che porta a dissociare i sentimenti più profondi dal servizio prestato. In forza di questo parallelismo strutturale, la prostituzione è spesso chiamata la più antica professione del mondo. In forza della stessa analogia, possiamo dire che i professionisti hanno sempre paura di prostituirsi.

Ci sentiamo autorizzati a immaginare, perciò, una perplessità dello psicoterapeuta speculare rispetto a quella della paziente, che abbiamo considerato prima. Ed è precisamente questo mondo di fantasmi che noi identifichiamo come il luogo proprio della deontologia professionale. È a questo livello che emergono le questioni della legittimità, prioritarie rispetto a quelle della legalità.

La deontologia, ovvero le condizioni di legittimità

Il dibattito avvenuto negli ultimi anni sull’esercizio professionale della psicoterapia è stato monopolizzato dal problema di un quadro legislativo che offra alla psicoterapia il carattere di legalità istituzionale. Questa esigenza non va certamente sottovalutata: la situazione attuale fa pesare sull’attività psicoterapeutica l’ombra dell’abusivismo; questo, pregiudicando l’immagine sociale di colui che si occupa della guarigione dei mali di natura psichica ed emotiva, nuoce sia ai professionisti che ai loro pazienti. Prima o poi verranno varate le adeguate misure legislative che conferiranno all’esercizio della professione psicoterapeutica l’auspicata legalità.

Tuttavia l’attuale deregulation, insieme a molti svantaggi, offre anche un’opportunità: quella di approfondire le condizioni che rendono legittimo l’esercizio della professione. Non essendo garantiti dalla legge, gli psicoterapeuti sono provocati a cercare una garanzia più profonda, derivante dal senso e dalla finalità della professione. La legittimità non si

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identifica, infatti, con la legalità. Quest’ultima richiede la conformità con le condizioni richieste dalla legge. Quando la normativa fisserà con chiarezza le condizioni di esercizio della psicoterapia, basterà attenervisi per sfuggire all’accusa di abusivismo nell’esercizio della professione; «ma non avremo allora — paventa già qualcuno — l’invasione di ciarlatani garantiti dalla legge?». La legalità non produce automaticamente la legittimità, che si pone a monte.

Entriamo nell’ambito della questione della legittimità quando cerchiamo di rispondere alla domanda: «Con quale diritto fai quello che stai facendo?». La divaricazione tra legalità e legittimità è evidente nei confronti del potere politico, almeno in alcune situazioni: certi comportamenti possono essere legali, in quanto conformi a leggi tirannicamente imposte, ma cadono sotto la condanna morale che ne denuncia l’illegittimità. È qui che interviene la deontologia, nella sua preoccupazione primaria di garantire le condizioni di legittimità nell’esercizio della professione.

La prima professione che si è seriamente preoccupata di elaborare le regole deontologiche che definiscono la modalità corretta del proprio esercizio è quella medica. Anticipata dal glorioso giuramento di Ippocrate e dalla tradizione che imponeva al medico norme di comportamento obbliganti in determinate situazioni, la deontologia del medico ha ricevuto nel secolo scorso una sua codificazione precisa. Il primo Codice medico ufficiale è, in ordine cronologico, quello emanato dall’American Medical Association nel 1847.

Ben presto il riferimento al Codice deontologico diventava il principale strumento per demarcare i medici seguaci della scienza medica ufficiale — unici detentori, in pratica, della delega da parte della società di esercitare l’arte sanitaria — dai «guaritori» di vario genere, non autorizzati. L’elaborazione di un Codice deontologico medico ha giocato una parte non irrilevante nella divisione presso l’opinione pubblica dei sanitari in due categorie: i medici attendibili e i ciarlatani.

Tenendo presente il modello medico, ci rendiamo conto

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che la deontologia professionale svolge un ruolo molteplice: legittima socialmente una modalità di esercizio della professione, differenziandola dalle altre; serve a costituire un corpo professionale omogeneo, grazie all’impegno di solidarietà e lealtà reciproche che assumono coloro che si astringono all’osservanza delle stesse norme; esplicita le «regole del gioco» che reggono la professione; favorisce un rapporto di fiducia presso gli utenti, i quali sanno così quali comportamenti possono aspettarsi dai professionisti «seri».

La medicina ha sentito la necessità di elaborare delle regole deontologiche per la natura particolare della professione, che prevede l’accesso di un estraneo nell’area dell’intimità corporea di un’altra persona. Nel caso della psicologia clinica il rapporto tra la deontologia e il lavoro professionale è ancor più serrato. La realtà che viene «manipolata», infatti, in questo caso non è il corpo, bensì quel supremo foro dell’interiorità che chiamiamo psichismo: pensieri, emozioni, ricordi, sentimenti.

Oltre al pudore che ci fa difendere il corpo, non esiste un’altra forma a protezione della sfera psichica della nostra realtà. Il rapporto psicoterapeutico ha una particolare delicatezza e fragilità per le interferenze fantasmatiche che in esso si realizzano. Un fiume sotterraneo di paure lo attraversa nei due sensi: paura dello sfruttamento e della seduzione, dello smantellamento di sé e della perdita dell’autonomia, dell’utilizzazione strumentale e del plagio, della violenza che passa per le vie tortuose del ricatto affettivo e della persecuzione.

Nei confronti di tali paure paranoiche le regole deontologiche agiscono in senso preventivo e profilattico, impedendo che si solidifichino e acquistino maggiore consistenza. Come tutte le norme di natura deontologica, servono a incrementare un rapporto di fiducia tra l’utente e il professionista, indispensabile per l’esercizio armonioso della professione stessa.

Mantenendoci ancora nell’ambito generale del concetto stesso di deontologia professionale, possiamo aggiungere che questa si colloca tra la legge e l’etica, senza identificarsi né

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con l’una, né con l’altra. Il termine in se stesso può essere fuorviarne, se lo prendiamo nella sua accezione etimologica. Nel suo conio originario (il primo a usarlo è stato il filosofo Jeremy Bentham nell’opera Deontology, or the science of morality, pubblicata nel 1834) aveva una valenza filosofica: tracciava i contorni dell’etica come scienza del «conveniente». Bentham intendeva proporre il principio utilitaristico come origine e fine del diritto, sostituendo la norma morale con la tendenza a seguire il piacere e a fuggire il dolore. Una sfumatura utilitaristica è rimasta nell’accezione moderna di deontologia, in quanto è finalizzata al vantaggio della professione che la elabora; tuttavia non equivale a una dottrina etica che si propone di normare l’agire umano secondo dei criteri di bontà morale.

Più di recente è prevalso l’uso giuridico del termine, che fa della deontologia l’equivalente del diritto professionale, ossia dell’insieme di diritti-doveri che impone ai professionisti l’esercizio della loro professione. Il concetto di deontologia che proponiamo non si lascia ridurre né all’etica, né alla legge. Le osservazioni precedenti sulla legalità e legittimità dovrebbero aver chiarito a sufficienza che la deontologia non si limita a esplicitare le condizioni in cui l’esercizio della professione è conforme alla legge. Un altro elemento di differenziazione è costituito dal fatto che le norme deontologiche non sono imposte da un’istituzione giuridica: esse sono elaborate dai professionisti stessi, attraverso gli organi rappresentativi: decidono di seguirle per una valutazione autonoma delle condizioni ottimali di funzionamento della professione.

L’etica, da parte sua, riflette sui principi ai quali ispirare il comportamento umano, in relazione alle domande sul bene e sul male, il giusto e l’ingiusto, il doveroso e il lecito. È chiaro che un’alta ispirazione morale è qualificante per professioni, quali sono quella del medico e dello psicoterapeuta, in cui ci si rapporta a un’altra persona sofferente per restituirla al benessere. Non è compito, tuttavia, della deontologia creare o alimentare tale atteggiamento ideale. Essa

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potrà essere chiamata, piuttosto, a porre un freno al possibile degrado patologico della volontà di far del bene, quando questa minacciasse di violare l’autonomia della persona che si trova in stato di bisogno fisico o psichico.

L’apporto della deontologia alla formazione della professionalità dello psicoterapeuta

Che cosa autorizza il professionista della salute mentale a intervenire con la terapia nel mondo psichico di un’altra persona? Sotto la trama delle norme, apparentemente arbitrarie, che costituiscono un Codice deontologico, individuiamo l’intenzione profonda di rendere ragione di ciò che costituisce la specifica professionalità dello psicoterapeuta, e quindi di giustificare perché fa quello che fa.

La volontà di aiutare non è una condizione sufficiente per giustificare l’intervento psicoterapeutico. La morale individuale a cui si aderisce può prevedere l’obbligo di assistere, con le proprie risorse materiali e spirituali, il prossimo in necessità. Ma lo spirito missionario, anche se espressione autentica di un essere umano che ha superato il narcisismo solipsistico per aprirsi alla dimensione della reciprocità, non conferisce di per sé un diritto a entrare nello spazio psicologico dell’altro. La professione psicoterapeutica non si può fondare sulla missionarietà: correrebbe il rischio di trasformarsi, prima o poi, in sottili forme di terrorismo. Le regole deontologiche costituiscono un contrappeso alle buone intenzioni, impedendo loro di scivolare verso la china delle relazioni «infernali».

Esclusa la missionarietà dell’operatore, la fondamentale condizione di legittimità della relazione terapeutica in quanto rapporto professionale rimane la richiesta di aiuto da parte del cliente. Subito si affaccia una questione di primaria importanza: basta il consenso, o è necessario un appello esplicito, che esprima un desiderio personale di entrare nel rapporto terapeutico? La questione del consenso

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«informato» 97 ritorna in tutti i Codici deontologici degli psicologi che svolgono la ricerca (particolare sensazione e divergenza di opinioni suscitano i procedimenti degli psicologi sociali che presuppongono l’inganno sistematico del soggetto sperimentale) 98.

La deontologia degli psicologi clinici, preoccupata di definire le condizioni che rendono possibile la relazione terapeutica, deve tener conto di una molteplicità di situazioni: clienti adulti o non ancora maggiorenni, ricoverati in istituti di cura o accedenti di propria iniziativa allo studio dello psicoterapeuta che esercita la libera professione, pazienti nevrotici o psicotici, con l’intervento o meno di un terzo pagante... In genere ci si allinea sulla condizione che all’inizio ci sia almeno il consenso. Lo psicoterapeuta si impegna, perciò, a rifiutare le situazioni in cui la sua opera costituirebbe una collusione con quanti esercitano una pressione — giuridica, psicologica o morale — sul paziente. La psicoterapia equivale a un’alleanza stabilita non con chi detiene di fatto l’autorità, ma col paziente.

I «contratti terapeutici», invalsi nella prassi di diverse scuole psicoterapeutiche, vogliono esprimere precisamente tale ancoraggio del rapporto terapeutico a una volontà previa del cliente, indipendentemente sia da quella del committente, sia da quella dello psicoterapeuta. Questi è consapevole che l’alleanza terapeutica è una realtà molto meno lineare e univoca di quello che vuol sembrare: è insidiata in profondità da reticenze, opposizioni, rifiuti, volontà inconscia di far fallire il terapeuta, oltre che da tutti i problemi controtrasferali di quest’ultimo; la domanda originale, inoltre, può — anzi, spesso deve — trasformarsi nel corso del processo terapeutico.

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Tutto ciò ci rende avvertiti che la corrispondenza tra la domanda e l’offerta in psicoterapia è di natura particolare, non equiparabile a quella che si realizza in altri tipi di transazioni. Tuttavia l’aggancio alla domanda, o più germinalmente al consenso, rimane una prima fondamentale condizione di esercizio legittimo della psicoterapia. Due comportamenti, di conseguenza, rimangono deontologicamente inammissibili: la subordinazione strumentale a chi detiene l’autorità e la manipolazione del paziente per suscitare un consenso con lo psicoterapeuta.

Una seconda condizione fondamentale legittima la professione della psicoterapia; la competenza dello psicoterapeuta. Il dibattito sull’inquadramento legale della professione è valso a mettere in evidenza che le condizioni requisite dalla legge per garantire una buona professionalità devono riposare su un accordo previo circa la competenza necessaria per instaurare il rapporto terapeutico. Non basta una conoscenza esaustiva delle realtà psicologiche per costituire tale competenza. Neppure il più ineccepibile sapere scientifico, ratificato da lauree universitarie, diplomi o attestati, può da solo fornire la garanzia della professionalità dello psicoterapeuta.

Da questo punto di vista, è pienamente comprensibile la richiesta, emersa dal dibattito recente, che l’accesso alla professione psicoterapeutica non dipenda unicamente dal conseguimento di una laurea, ma sia subordinato a un training didattico formale. Il rapporto di familiarità con le realtà psicologiche che conferisce una competenza psicoterapeutica è solo quello che si acquisisce sottoponendosi personalmente al processo della terapia. Per mutuare una formula a effetto attribuita a Cari Whitaker, chi pretende di stare nella posizione one up, senza essere prima stato in quella di one down, dà prova di malafede.

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Codici deontologici di psicoterapeuti

La deontologia non si costituisce mediante affermazioni di principi generali, dedotti da un sistema etico. Le norme deontologiche derivano, piuttosto, da una riflessione concreta sulla prassi professionale e sono finalizzate al buon funzionamento della professione. Di qui l’importanza dei Codici deontologici. Ancora una volta la professione medica costituisce un riferimento privilegiato 99. Essa ha elaborato il suo Codice deontologico prima di altre professioni, lo ha periodicamente aggiornato o riformulato, vigila mediante gli organismi appropriati affinché sia osservato dagli iscritti all’Ordine.

Gli psicologi italiani soci della SIPs hanno elaborato anch’essi un proprio Codice deontologico (approvato dall’assemblea generale il 24.9.1981). Comprende «l’insieme dei principi e degli orientamenti a cui ogni psicologo deve ispirarsi e delle regole che egli deve osservare nell’esercizio del suo lavoro e della sua professione». I doveri deontologici dello psicologo sono suddivisi, secondo uno schema già presente nelle opere di deontologia medica del XIX secolo, in rapporto all’utenza, alla committenza, ai colleghi e alla società.

Nel campo della professione psicoterapeutica non mancano esempi di Codici deontologici, sia in Italia che all’estero. Tra i più recenti, segnaliamo quello elaborato dall’Associazione Psicoterapeuti Italiani (depositato legalmente nel settembre 1985). Anche alcune scuole psicoterapeutiche hanno elaborato un Codice riconosciuto dai propri membri: così l’Associazione Europea di Analisi Transazionale

Le norme deontologiche più ricorrenti sono quelle relative agli ambiti che nella pratica professionale si sono rivelati a più alto rischio: la tutela della confidenzialità, il pericolo dello sfruttamento economico, la gestione delle pulsioni sessuali

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e aggressive. A titolo esemplificativo, nel Codice deontologico dell’ASPI leggiamo: «Lo psicoterapeuta deve attenersi alla regola del segreto professionale» (art. 9, con la specificazione casistica delle situazioni in cui la rivelazione del segreto è consentita); «Lo psicoterapeuta si opporrà ad ogni atto di violenza, dannoso a persone o a cose. Inoltre, consapevole dei contenuti distruttivi, rispetterà la regola di non passare mai, in ogni caso, all’atto sessuale, data la situazione transferenziale del cliente e la necessità di tutelare l’affidabilità della terapia» (art. 16); «È vietato qualunque accordo che favorisca l’invio di altri clienti dietro corrispettivo economico» (art. 27).

La formulazione tipica di un Codice deontologico è fatta, come si può osservare, nei termini prescrittivi dell’etica (lo psicoterapeuta «deve», «non deve», «è illecito», «è vietato», ecc.). L’intento, tuttavia, è quello che abbiamo più sopra indicato come caratteristico della preoccupazione deontologica: non tanto indicare il comportamento «buono» in senso morale, bensì quello «corretto» in senso professionale. In altre parole, le norme deontologiche circoscrivono il comportamento al quale il professionista intende attenersi, in quanto coerente con la concezione che egli ha maturato del fine della professione stessa, degli atteggiamenti che lo agevolano e di quelli che lo ostacolano.

L’elaborazione di un Codice di deontologia professionale, nel quale il più alto numero di psicoterapeuti, al di là dei diversi indirizzi e scuole di appartenenza, possa riconoscersi, appare il compito più pressante, rispetto alla situazione che sta attraversando la psicoterapia nel nostro Paese. Proprio perché la questione della legittimità è prioritaria rispetto a quella della legalità, l’accordo su un Codice di deontologia precede in urgenza la costituzione di un Albo di psicoterapeuti e la stessa legalizzazione dell’esercizio della professione. Il lavoro di elaborazione di un Codice ha un valore pedagogico per i professionisti che esercitano la psicoterapia: li obbliga a riflettere sulle condizioni di fondo che costituiscono la loro professionalità, crea una base di consenso sugli

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standard professionali e contribuisce a socializzare nella professione i nuovi psicoterapeuti.

Tutto è, dunque, roseo e innocente nell’ambito della deontologia professionale? Non sarà fuori luogo, prima di concludere queste considerazioni, fare almeno un cenno evocativo della parte che spetta all’avvocato del diavolo... L’interesse per le codificazioni deontologiche può servire anche cause meno nobili, come gli interessi corporativistici dei professionisti. La correttezza deontologica può costituire, com’è stato detto efficacemente, un sistema raffinato per «essere morali in luoghi immorali»... 100.

L’ipocrisia, che minaccia ogni persona e ogni gruppo organizzato, acquista in questo caso il volto concreto del doppio standard: sotto la patina della correttezza formale, a cui si attengono i professionisti, la professione brulica di incoerenze e trasgressioni rispetto alle esigenze morali. Il «buon» professionista può diventare così «l’uomo buono nel peggior senso della parola», di cui parla Mark Twain!

La deontologia professionale può trasmutarsi in una caricatura dell’etica: questa eventualità va tenuta presente. Non per rinunciare all’impresa di costruire dei parametri deontologici per gli psicoterapeuti solidi e trasparenti, bensì per non cadere negli inganni dell’impresa stessa.

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FONTI

Indicare le fonti in cui alcuni dei contributi che costituiscono il libro sono già stati pubblicati è per l’Autore più che un obbligo di correttezza: è un dovere di riconoscenza. La spinta centrifuga, infatti, che viene dalle diverse sollecitazioni, se da una parte distoglie dalla realizzazione di un progetto di lavoro più sistematico e profondo, dall’altra costituisce una notevole fonte di stimoli: dà concretezza alla riflessione, la feconda di nuovi punti di vista, la protegge dal solipsismo mediante l’obbligo del confronto.

― La malattia e la saggezza del corpo: costituisce una comunicazione tenuta al congresso di psichiatria «Le Psicosi e la Maschera» e pubblicata nel volume di atti omonimo, Roma 1986, pp. 259-256.

― Dimensioni spirituali del corpo: è la nuova stesura, in parte modificata, di un contributo all’opera collettiva: B. Calati (a cura di), Spiritualità. Fisionomia e compiti, Roma 1981, pp. 203-211.

― Il corpo e il rito: rielaborazione di una riflessione richiesta dall’istituto di Liturgia Pastorale per il convegno di studio su «Comunicazione e ritualità» (Torreglia, 6-8 maggio 1985), proposta originariamente con il titolo: «Il linguaggio del corpo e la comunicazione rituale».

― I comitati per un'etica del dialogo: pubblicato originariamente nella rivista «FPM. Giornale Italiano per la Formazione Permanente del Medico» 15 (1987), n. 2, pp. 118-133,

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col titolo: «I comitati di etica: funzione sociale e pedagogica».

― L’alleanza con il morente: il capitolo rielabora in parte una relazione tenuta al congresso dei moralisti italiani (Firenze, 1-4 aprile 1986) sul tema dell’eutanasia. La relazione è stata pubblicata per intero nel volume di AA.VV., Eutanasia, ed. Dehoniane, Bologna 1987, pp. 101-120.

― La deontologia professionale dello psicoterapeuta: relazione tenuta nella giornata di studio organizzata dall’Associazione Psicoterapeuti Italiana (Roma, 20 marzo 1987) sul tema della deontologia professionale.

― Gli ideali etici nella professione del medico, ieri e oggi: il capitolo ripropone il materiale confluito nella voce «Medico», redatta per il Nuovo dizionario di teologia morale, ed. Paoline (in corso di stampa).

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INDICE

INTRODUZIONE - Un’arte della guarigione per l’epoca postmoderna

I. UN’ALLEANZA NUOVA CON IL CORPO

1 - Il corpo come espressione e come comunicazione

17 2 - La malattia e la saggezza del corpo

17 Malattie per guarire

20 La malattia come evento biografico

26 «Io sono la mia malattia»

29 3 - Dimensioni spirituali del corpo

29 Spiritualità del corpo: una contraddizione in termini?

30 Il corpo nella cultura olistica della salute

30 Salvezza per il corpo nel rinnovamento carismatico

39 L’uomo e i suoi corpi: la conoscenza esoterica

41 Verso una spiritualità cristiana del corpo

46 Riflessioni conclusive

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47 4 - Il corpo e il rito

47 La liturgia sul modello della comunicazione angelica

50 Coscienza religiosa di sé e rifiuto del corpo

51 Ritualità e inconscio

54 Corpo e comunicazione

57 II. LA MEDICINA SOTTO IL SEGNO DELL’ALLEANZA

57 1 - Gli ideali etici nella professione del medico, ieri e oggi

49 Medico ippocratico e/o medico cristiano

63 Christus medicus: le implicazioni etiche di un tema teologico

68 Essere medico nella prospettiva messianica

74 Essere medico nella cultura della complessità

79 2 - I Comitati per un’etica del dialogo

79 Attraverso i Comitati, l’etica rientra in medicina

91 Comitati nazionali

99 Comitati di etica negli ospedali

113 3 - Il «Dipartimento di Scienze umane»: un progetto pilota

113 Il malessere della sanità

115 Il recupero antropologico del soggetto

118 Un progetto di Dipartimento

122 La pluralità dei bisogni dell’uomo malato

128 Vecchi e nuovi bisogni etici nella sanità

132 L’intelligenza del senso

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137 III. FIGURE DELL’ALLEANZA IN MEDICINA

137 1 - La verità al malato

137 La verità e l’esigenza di una «nuova personalizzazione» della medicina

140 Parlare o tacere?

142 La scelta della trasparenza

145 2 - L’alleanza con il morente

145 Perché una medicina per chi non guarisce?

149 Il discernimento della volontà di morire

154 La deontologia professionale dello psicoterapeuta

156 La deontologia, ovvero le condizioni di legittimità

160 L’apporto della deontologia alla formazione della professionalità dello psicoterapeuta

163 Codici deontologici di psicoterapeuti

167 FONTI

[quarta di copertina]

La piena salute propone testi che, pur nascendo sul terreno della medicina, della psicoterapia o della teologia pastorale, tengono presenti le esigenze dell'essere umano nella sua totalità e concepiscono l’impresa terapeutica come un’opera di sintesi, da cui non è esclusa la dimensione spirituale dell’uomo.

Fino a pochi anni fa, l'etica sembrava rilevante solo nei comportamenti della vita privata e in alcuni aspetti della vita sociale (guerra, giustizia sociale); oggi, invece, essa è riferita alla biologia e alla medicina, anzi è divenuta una delle questioni maggiori nel dibattito culturale, assurgendo al rango di disciplina, la «bioetica», come risposta alle sfide del progresso tecnologico, sempre più sofisticato, e con il compito di suggerire orientamento in situazioni conflittuali.

Secondo l'Autore, docente di Bioetica presso l’Università di Firenze e direttore del «Centro Studi Famiglia», la medicina deve recuperare la prospettiva della totalità dell’essere umano, ossia deve considerare il paziente come persona dall’unità psicosomatica che non può essere settorializzata. Ma se è vero che il medico deve considerare il paziente nella sua totalità, anche quest’ultimo deve prendere coscienza della propria unità psicofisica e valutare la malattia che lo colpisce non solo come una «follia», ma anche come «saggezza» del corpo. Questo il significato dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente, che è poi il senso del guarire nell’epoca contemporanea.

In altri termini, l’Autore si batte per una nuova cultura della salute che rifiuti la «cosificazione» del paziente e il soffocamento dell'arte medica per «obesità scientifica». In questo libro, scritto in uno stile fluido e gradevole, si parla anche dei «Comitati di etica a livello nazionale e ospedaliero» sorti oramai in molti Paesi, i quali si rivelano interessanti e utili servizi di consulenza e di condivisione umana a quanti spetta a volte di prendere gravi decisioni.

1 D. Morris, L’uomo e i suoi gesti, tr. it., Milano 1978.

2 Pensiamo, per es., alla fortunata opera di J. Fast, Body language, 1970, (tr. it., Il linguaggio del corpo, Milano 1977), a cui si deve la popolarità del termine «linguaggio del corpo». Dello stesso Fast si veda anche Il corpo parla, tr. it., Milano 1979. Numerose sono le opere dello stesso genere. Ci limitiamo a ricordare: R. Kurtz - H. Prestera, Il corpo rivela, tr. it., Milano 1978 e J. Dropsy, Vivere nel proprio corpo, tr. it., Milano 1981.

3 D. Morris, La scimmia nuda, tr. it., Milano 1975.

4 S. Spinsanti, Il corpo nella cultura contemporanea, Brescia 1982.

5 Si veda in particolare W. Pasini - A. Andreoli, Eros et changement. Le corps en psychotherapie, Paris 1981.

6 D. Beck, La malattia come autoguarigione, tr. it., Assisi 1985.

7 Per la descrizione del contenuto e della dinamica dei seminari si veda E. Kübler-Ross, Working it through, New York 1982.

8 V. von WeizsäckerKörpergescheben und Neurose, Stuttgart 1947. Si tratta questa di una riedizione successiva, fatta dietro sollecitazioni di Alexander Mitscherlich. Per la prima volta fu pubblicato nella «Internationale Zeitschrift fiir Psychoanalyse», diretta da Freud, nel 1932.

9 V. von WeizsäckerNatur und Geist, Göttingen 1945, pp. 134 s.

10 V. von WeizsäckerBegegpungen und Entscheidungen, Stuttgart 1949, p. 58.

11 La lettera di Freud, non inclusa nel suo epistolario, è riportata integralmente da V. von Weizsäcker in Natur und Geist, cit., p. 125. Altre lettere di Freud a von Weizsäcker sono andate purtroppo distrutte durante la Seconda Guerra mondiale.

12 Già agli inizi del movimento psicoanalitico in una lettera a Fliess Freud aveva formulato il principio metodologico del «come se». «Non tendo affatto a conservare l’elemento psicologico senza la base organica. Tuttavia, oltre alla convinzione, non ho nulla, né di teoretico né di terapeutico, su cui fondarmi, e perciò devo comportarmi come se fossi di fronte solamente a fattori psicologici»: S. Freud, Le origini della psicoanalisi, Lettere a Wilhelm Fliess 1877-1902, Torino 1968 (lettera 96).

13 V. von WeizsäckerMeines Lebens bauptsächliches Bemühen, in H. Kern (a cura di), Wegweiser in der Zeitwende, München-Basel 1955, pp. 257 s.

14 V. von WeizsäckerWege psychophysischer Forschung, in Arzt und Kranker, Leipzig 1941, 1, p. 198.

15 V. von WeizsäckerPathosophie, Göttingen 1967, p. 346.

16 Cf. V. von WeizsäckerDer Kranke Mensch, Stuttgart 1951, p. 352.

17 V. von WeizsäckerGrundfragen medizinhcher Anthropologie, Tübingen 1948, p. 27.

18 Cf. J. Sarano, Significato del corpo, tr. it., Roma 1975, pp. 47 ss. Oltre che il fondamento filosofico dell’atteggiamento dualista, Sarano ne illustra la funzionalità. Il dualismo può svolgere il ruolo di momento e di strumento della totalità personale. La supremazia del Sé sul corpo anima l’impegno etico della lotta contro la malattia.

19 Si veda, come una chiara indicazione di tendenza, The holistic health handbook. A tool far attaining wholeness of body, mind and spirit, Berkeley 1979.

20 A. Ancelin-Schutzenberger - M.J. Sauret, Il corpo e il gruppo, tr. it., Roma 1978, p. 126.

21 La letteratura sul rinnovamento carismatico comincia ad essere notevole. Con speciale riferimento alla situazione italiana si veda M. Panciera, Il rinnovamento carismatico in Italia, Bologna 1977, corredato di abbondante bibliografia. Le opere più autorevoli sul ministero delle guarigioni sono quelle di E. Mac Nutt, Il carisma delle guarigioni, tr. it., Alba 1977, e M. Scanlan, Inner Healing, New York 1974. Un esauriente capitolo dedica all’argomento R. Laurentin, Il movimento carismatico nella Chiesa cattolica. Rischi e avvenire, tr. it., Brescia 1976, pp. 120-151.

22 Tuttavia alcuni teologi riformati hanno continuato ad interessarsi al carisma delle guarigioni. Vedi: B. MartinDie Heilung der Kranken als Dienst der Kirche, 1949; D. HochHeil und Heilung, 1954; H. DoerertDas Charisma der Krankenheilung, 1960.

23 Per un bilancio storico delle esperienze di guarigioni carismatiche agli ambienti di lingua inglese della Riforma si veda L.D. Weathernead, Psychology, Religion and Healing, New York 1951.

24 D. GelpiPentecostalism: a theological viewpoint, Paranus 1971, p. 154.

25 Cf. J. Pichler, I carismatici cattolici. Ricerca sociologica, tr. it., Brescia 1976, pp. 152 s.

26 R. Laurentin, op. cit., p. 121.

27 Il tema della guarigione interiore (o della rilevanza della fede per l’equilibrio e la guarigione) è stato trattato da teologi di indirizzo esistenzialista, in particolare P. Tillich.

28 La guarigione può essere considerata anche come un processo di restaurazione dell’unità della persona, che domanda interventi differenziati. «La guarigione si produce quando tutte le condizioni sono realizzate. Ci sono anche condizioni di ordine emozionale che possono essere rese presenti da quelli che sono formati in psicoterapia; e finalmente la guarigione richiede condizioni di natura spirituale, che non possono essere pienamente viste e facilitate che da quelli che sono formati e sperimentati nella viva tradizione della Chiesa cristiana. Tutti questi uomini, insieme, possono costituire un’“equipe” utilissima per il servizio del Signore». M. Kelsey, Healing and Chrhtianity, New York 1973, p. 359.

29 Le opere di Carlos Castaneda hanno avuto in Italia un notevole successo di pubblico. Va segnalata in primo luogo la trilogia: A scuola dallo stregone (1970), Una realtà separata (1971), Viaggio a Ixtlan (1972), integrata dalle opere successive L'isola del Tonai (1975) e Il secondo anello del potere (1978).

30 La teosofia ha diffuso la nozione della pluralità dei corpi, nei quali l’uomo abita, e la dottrina del «corpo sottile», secondo cui il corpo fisico sarebbe solo l’esteriorizzazione di un’invisibile incorporazione della vita psichica; anche il corpo sottile sarebbe di ordine materiale, ma di una natura più dinamica della sua cornice fisica sensibile, cf. G.R.S. Mead, The doctrine of the subtle body in Western tradition, London 1967; A. Besant, Man and his bodies, London 1896. Un’esposizione molto informativa sull’insieme delle dottrine esoteriche sul corpo è offerta da D.T. Tansley, The subtle body, London 1977.

31 Una rassegna completa delle dottrine arcane ed esoteriche del corpo, secondo le varie membra, nel volume enciclopedico di B. Walter, Body magic, London 1979.

32 La Preghiera per domandare a Dio il buon uso delle malattie, di B. Pascal, è il capostipite illustre di una straripante letteratura ascetico-consolatoria, che non ha conservato la nobiltà e l’equilibrio che pur erano presenti in Pascal. L’immagine del corpo che traspare in quelle opere rasenta talvolta il manicheismo. Per un’analisi di tale letteratura, cf. S. Spinsanti, Etica cristiana della malattia, Roma 1971. In quella sede abbiamo anche ricostruito le dipendenze della letteratura ascetica sulla malattia dalla scuola di spiritualità che fa capo.a P. de Berulle.

33 Cf. D. GeorgeCorps (spiritualité et hygiene), in Dict. de Spirit., II-2, Paris 1953, c. 2342.

34 Specchio di perfezione, n. 27, in Fonti francescane, I., Assisi 1977, pp. 1333 s.

35 Per un esempio dell’assimilazione delle istanze dello human potential movement in un progetto di spiritualità cristiana, cf. T. Rowe, Wholeness. Body, mind and spiritual man, London 1976. L’antropologia biblica, costruita su una triplice scansione dell’umano — corpo anima e spirito — offre possibilità integrative maggiori di qualsiasi antropologia dualistica. Cf. B. De Geradon, Le coeur, la langue, les mains. Une vision de l’homme, Paris 1974.

36 Si veda il capitolo dedicato all’integrazione del corpo in V. Truhlar, Concetti fondamentali di teologia spirituale, Brescia 1971, p. 72: «Bisogna inserire anche il corpo nella ricerca della via esperienziale, mettere anch’esso nell’impegno generale dell’uomo intero, affinché non sia un ostacolo, ma piuttosto un elemento che porta all’esperienza e che si unisce armonicamente nella percezione del proprio essere e dell’essere assoluto, nonché nell’estensione di questa percezione e di questo senso, in tutti i campi della vita umana... All’interno della realtà umana anche il corpo viene percepito e come penetrato dal senso dell’assoluto (Dio)».

37 H. Rosso - C. Chabaguier, L’expression corporelle, Paris 1974, p. 27.

38 J. Salk, La sopravvivenza dei più saggi, tr. it., Roma 1977.

39 Cf. A. Guy, Donner corps à la voix, in «Esprit», n. 62, febbraio 1982 (numero monografico dedicato a Le corps... entre illusion et savoirs), pp. 200-205. A questa luce va considerata tutta la tradizione iconografica che attribuiva agli angeli la musica strumentale. Lo strumento musicale illustra la concezione «strumentale» del corpo, che la Scolastica ha assunto dall’aristotelismo. Attribuito all’angelo, lo strumento musicale diventa il simbolo più felice di questi esseri senza corpo, che sono tuttavia dei punti di trasmissione del messaggio.

40 La metafora del figlio generato dall’orecchio risale a una formula di sant’Agostino: maritus sermo est et uxor auricola.

41 Un giudizio storico documentato si veda in F. Bottomley, Attitudes to the body in western Christendom, London 1979.

42 Cf. l’esemplare trattazione della corporeità di Gesù ad opera di H. Wolff, Gesù, la maschilità esemplare, tr. it., Brescia 1979, con il ricorso agli strumenti offerti dalla psicologia dinamica di Jung.

43 Per una rassegna di tali movimenti, cf. S. Spinsanti, Corporeità, in AA.VV., Diakonia; si veda anche D. Kamber - Ch. Wulf, Die Wiederkehr des Körpers, Frankfurt 1982.

44 Si veda U. Voelker (a cura di), Humanistische Psychologie, Weinheim-Basel 1980, specialmente il cap. «Der Körper und die gesunde Persönlichkeit», pp. 219-226. Una chiara presentazione della psicologia transpersonale è il volume di K. Wilber, Oltre i confini, tr. it., Assisi 1985.

45 Questo uso del corpo per sperimentare la trascendenza non è che un caso particolare di una più vasta penetrazione della cultura nel corpo stesso: «Il corpo sociale esercita una pressione sul modo in cui il corpo fisico è percepito. L’esperienza fisica del corpo, sempre modificata dalle categorie sociali attraverso le quali esso è conosciuto, conferma un particolare modo di vedere la società. C’è un continuo scambio di significato tra questi due generi di esperienza corporea, sicché ognuno rafforza le categorie dell’altro»: M. Douglas, Natural symbols: explorations in cosmology, London 1970, p. 65. Il corpo fisico come noi lo percepiamo è dunque un segmento della nostra «costruzione sociale della realtà». Ma malgrado la restrizione delle percezioni e dei processi cognitivi ad opera della società, attraverso il mio corpo talvolta capisco di più di quello che so attraverso la mia società.

46 Cf. A.H. MaslowReligions, values, and peak-experiences, New York 1970.

47 La distinzione tra inconscio inferiore e super-inconscio, o inconscio superiore, teorizzata da Roberto Assagioli, è comunemente assunta nell’ambito della psicologia transpersonale, che vuol essere una «psicologia dell’altezza», oltre che del profondo: cf. R. Assagioli, Psicosintesi, Roma 1977, pp. 170 s.; si veda anche L. Boggio Gilot, Uomo moderno e nevrosi, Cinisello Balsamo 1987/3.

48 Cf. J. Benthall - T. PolhemusThe body as a medium of expression, London 1975.

49 Una buona sintesi è Il corpo vissuto, un’antologia di scritti di M. Merleau-Ponty a cura di F. Fergnani, Milano 1979.

50 Eph., 7.

51 Acta apostolorum apokrypha, a cura di R.A. Lipsius e M. Bonnet, Leipzig 1983, vol. II, p. 2060.

52 Cf. Sermo 88, 7; PL 38, 543.

53 Sermo 155, 10; PL 38, 846 s.

54 Gerolamo, Dial. contrPel. III, 11; PL 23, 608.

55 Ambrogio, Ps 40, 14; CSEL 64, 237.

56 Cf. Sermo 302, 3; PL 38, 1387.

57 Opera III, 1, 1.

58 Contra Celsum 7, 60.

59 In laudem Basilii, 43.

60 Cf. STh., I-II, q. 95, a. 3.

61 Cf. STh., I-II, q. 91, a. 2.

62 R. Savatier, Déontologie, in Encyclopaedia Universalis, Paris 1971, vol. V, pp. 436-439.

63 Una raccolta della codificazione relativa alla pratica medica è fornita dal volume Documenti di deontologia e etica medica (a cura di S. Spinsanti), Cinisello 1985.

64 È la posizione rappresentata da M. Barni - G.A. Morelli, L'insegnamento dei diritti dell’uomo: tra etica e deontologia medica, in «Federazione medica», 37, n. 1 (1984), pp. 83-85. Trattandosi di una relazione ufficiale alla XXXV Assemblea Medica Mondiale, nella giornata di studio dedicata all’etica medica (Venezia, 28 ottobre 1983), la posizione può essere considerata rappresentativa del mondo medico italiano. La tesi sostenuta è che, essendo la deontologia la disciplina di quanto realizza un dovere per il medico, «anche i principi che si ispirano all’etica e alla morale medica devono essere in essa ricompresi»; alla deontologia va ricondotto «ogni argomento che ispiri ed obblighi un “giusto” comportamento professionale». La preoccupazione concreta che trapela dietro la difesa della portata onnicomprensiva della deontologia è quella che non venga introdotto un insegnamento autonomo dell’etica medica, accanto a quello della medicina legale: «È alla medicina legale, in estrema sintesi, che spetta il compito di insegnare la deontologia medica, e quindi l’etica medica che in essa si esprime».

65 In questi termini ne abbiamo parlato in occasione del convegno sull’etica medica organizzato dall’istituto Italiano di Medicina Sociale a Roma il 12 aprile 1983. Gli atti, L’etica medica, Roma 1983, sono stati pubblicati a cura dello stesso Istituto.

66 Cf. Documenti di deontologia..., cit., p. 36.

67 C. Iandolo, L’etica medica negli anni '80, in L’etica medica, cit., Roma 1983, pp. 17-27.

68 Da inchieste condotte in diversi Paesi risalta che tra gli studenti di medicina l’emorragia di idealismo lungo la strada della formazione è più vistosa che altrove: «All’inizio dei suoi studi lo studente si sente ancora chiamato ad aiutare l’ammalato, ma alla loro conclusione è diventato uno che raramente, come nessun membro di altri gruppi studenteschi, nutre pensieri di preoccupazione per gli altri uomini» (H. Küng, Vita eterna?, Milano 1983).

69 Cf. M.S. Yesley, La tâche accomplie par la Commission pour la protection des sujets humains, in AA.VV., Médecine et Expérimentation, Les Presses de l’Université de Laval, Québec 1982, pp. 195-209.

70 A.R. Jonsen - J.V. BradyL'éthique en recherche: l’expérience des Etats Unis, in AA.VV., Médecine et Expérimentation, cit., pp. 211-231.

71 Le possibilità offerte da un Comitato di questo genere sono valutate da un articolo, apparso su «Pediatrics» (1986, 78, pp. 566 ss.), che stabilisce il bilancio dell’attività del Comitato di bioetica dell’ospedale pediatrico di Pittsburgh, negli Stati Uniti, Il Comitato offre un servizio di consulenza su casi singoli. In dodici anni di attività, almeno il 30 per cento dei medici operanti nell’istituto ha richiesto almeno una volta il parere del Comitato, che ha valore consultivo. L’intervento è stato apprezzato sia dai medici, che dai genitori, perché ha rivestito una funzione di sostegno esterno, in occasioni particolarmente difficili. I quesiti più frequentemente sottoposti al Comitato hanno riguardato soprattutto casi di ventilazione assistita e valutazione dell’opportunità di instaurare o proseguire programmi di nutrizione parenterale totale.

72 Si veda soprattutto la Dichiarazione sulle ricerche biomediche, redatta inizialmente nel 1962, modificata a Helsinki nel 1964 e sottoposta ulteriormente a revisione a Tokyo nel 1975: S. Spinsanti (a cura di), Documenti di deontologia..., cit., pp. 39 ss.

73 Un volume, che raccoglie buona parte delle relazioni del simposio, è in corso di stampa presso le Edizioni Paoline (I Comitati di etica negli ospedali). La rivista «Famiglia Oggi» ha pubblicato un supplemento con una sintesi dei lavori dello stesso simposio (nel n. 23, settembre/ottobre 1986).

74 Gli interventi del convegno sono riportati nella rivista «Sanare infirmos» 5 (1987), n. 1; il fascicolo monografico, con un’ampia sezione dedicata all’etica, contiene articoli di Ch. Velia, J.F. Malherbe, E. Sgreccia, S. Spinsanti, A. Craveri, N. Lery.

75 R.M. VeatchHospital Ethics Committees: Is There a Role?, in The Hastings Center Report, Dec. 1983, pp. 22-25.

76 Una chiara esemplificazione di questa affermazione si può trovare nell’art. di B. HaringReligious Directives in Medical EthicsRoman Catholic Directives, in Encyclopaedia of Bioethics, Washington 1978, vol. IV, 1431-1435. L’illustre moralista istituisce un confronto istruttivo tra le «Direttive etiche e religiose per le istituzioni sanitarie cattoliche» emanate dai vescovi degli Stati Uniti nel 1971 e l’analoga «Guida medico-morale» dei vescovi canadesi del 1970, pur trattando le stesse questioni (pratiche contraccettive, sterilizzazione, masturbazione per analisi dello sperma, inseminazione artificiale, gravidanza ectopica), il ruolo attribuito al giudizio e alla decisione dell’operatore sanitario sono diversi: secondo le direttive statunitensi, le decisioni mediche sono una diretta applicazione delle norme ecclesiastiche e viene esclusa qualsiasi forma di pluralismo dottrinale, mentre quelle canadesi riconoscono una differenza tra il livello della norma e quello della concreta decisione. Secondo Häring, le norme «sono formulate in un modo che riflette il presente consenso, ma permette e incoraggia la libertà e la responsabilità personale in materia di legittimo dissenso». È prevedibile che queste ed altre divergenze di natura teologica ed ecclesiale si traducano in tensioni all’interno di Comitati di etica di ospedali cattolici.

77 Cf. ThKuhnThe Structure of scientific revolutions, Chicago 1962.

78 L’organizzazione dipartimentale dell’assistenza e quella della ricerca scientifica e didattica sono disciplinate rispettivamente dall’art. 17 della Legge n. 833 (23.12.1978) e dal D.P.R. n. 382 (11.7.1980), artt. 83-86.

79 A norma di regolamento, al Dipartimento dell’ospedale vengono demandate le seguenti funzioni: la gestione dei budgets, il coordinamento dell’uso di risorse comuni, l’organizzazione del personale medico, infermieristico e ausiliario, il lavoro di gruppo e interdisciplinare, lo sviluppo della ricerca scientifica e il miglioramento della qualità dell’assistenza, la programmazione annuale, l’individuazione e il controllo degli obiettivi di funzionalità.

80 Un’azione propositiva di grande significato in questa direzione è stata svolta dal Priore generale, padre Pierluigi Marchesi. Si veda, in particolare: L'umanizzazione, risposta del religioso di S. Giovanni di Dio a una svolta storica, ed. della Curia Generalizia dei Fatebenefratelli, Roma 1981; L’ospitalità dei Fatebenefratelli verso il 2000, Ufficio Stampa dell’Ordine ospedaliero di S. Giovanni di Dio, Roma 1986.

81 Un’informazione precisa su questa istituzione è offerta da uno dei suoi principali animatori, L. Canestrini: «Revisione critica di un approccio pratico all’umanizzazione ospedaliera», in: Ospedale Miulli, Ospedali più umani: come?, Acquaviva delle Fonti 1984, pp. 373-376.

82 Professioni sociali e università, Ministero dell’interno, novembre 1986.

83 Si veda lo studio esemplare di C. De Bertolini - G. Rupolo, La sofferenza psicologica in rianimazione, Bologna 1986. Analizzando le reazioni dello staff medico, dei pazienti e dei familiari in un’Unità di terapia intensiva, gli Autori giungono alla conclusione che è necessario dare un supporto «umanistico» alla cultura tecnico-biologica che domina in questo tipo di reparti, per permettere sia ai pazienti che agli operatori una migliore elaborazione dei fantasmi del dolore e della morte.

84 Cf. P.B. Schneider, Psicologia medica, Milano 1972.

85 Cf. E. Teresa Biavati, Quando arrivano i «Fatt’ curagg», Bologna 1986. A esemplificazione della chiarezza dei compiti istituzionali e del rigore necessario per un buon Servizio di volontariato, riportiamo alcune norme tratte dal «mansionario» dell’Associazione Volontari Ospedalieri Fatebenefratelli, che operano nell’ospedale dell’isola Tiberina: «Il volontario sii che l’efficacia del suo servizio è collegata ad un’armonica intesa con gli operatori sanitari, il servizio sociale, il servizio religioso, il consulente religioso ed i responsabili della associazione; per deontologia professionale, osserva l'assoluta riservatezza sulle notizie o confidenze apprese nel corso del suo servizio relativo sia alla persona ricoverata sia al funzionamento della struttura sanitaria; non può fornire notizie sulle condizioni fisiche della persona ricoverata tratte da eventuali informazioni o documenti di cui sia venuto a conoscenza, in quanto le medesime sono di esclusiva competenza del corpo medico; non è autorizzato a portare medicine alle persone ricoverate né a prendere disposizioni di ordine terapeutico da chicchessia. Nel caso di richiesta specifica di generi alimentari o di conforto, da parte della persona ricoverata, aderisce alla richiesta soltanto previo consenso del personale responsabile del reparto; non può ricevere dal personale ospedaliero alcuna disposizione di ordine gerarchico e vincolante né sostituirne i ruoli previsti dalla normativa legislativa e contrattuale, pur essendo aperto, per il bene della persona ricoverata, ad ogni tipo di collaborazione possibile con lo stesso; starà attento ad essere moderato e semplice in tutte le sue manifestazioni durante il servizio, convinto che la qualità e l’efficacia del suo operato sono legate al suo comportamento, al suo modo di presentarsi ed all’autenticità con la quale si mette a disposizione; vivrà i problemi che la persona ricoverata manifesta in maniera tale che, instaurato un rapporto aperto, improntato alla reciproca fiducia, possa esserle di aiuto nelle difficoltà che dovrà affrontare; contribuirà, come elemento di promozione umana, conscio dell’unicità ed irripetibilità della persona, a stimolare il mantenimento di tutte le attività quotidiane possibili (cura della persona, interessi culturali, ecc.); favorirà, nel periodo della degenza, lo scambio di rapporti interpersonali, sia con i familiari sia con le altre persone ricoverate».

86 Cf. F. Foschi, Lettera a un giovane del 2000 sulla salute, Abano Terme 1987, p. 189.

87 È la situazione rispecchiata dal film giapponese La ballata di Narayma, ripresentato dì recente con grande successo dal regista Imamura.

88 Cf. Conv., 186 b-c.

89 Cf. Eth. Nic., 1165 b 23-25.

90 Questi aspetti della medicina greca sono stati particolarmente approfonditi dagli studi storici di P. Laín Entralgo: cf. in particolare il suo saggio La etica medica hipocratica, in AA.VV., Deontologia, Derecho, Medicina, Madrid 1975, pp. 217-225.

91 Cf. J. HübnerChristus medicus. Ein Symbol des Erlösungsgeschehens und ein Modell ärztlichen Handels, in «Kerygma und Dogma» 31 (1985), n. 4, pp. 324-335.

92 L’ultimo richiamo in tale senso, in ordine di tempo, è quello contenuto nella dichiarazione sull’eutanasia della S. Congregazione per la dottrina della fede (1980): «La morte volontaria, ossia il suicidio, è inaccettabile al pari dell’omicidio: un simile atto costituisce, infatti, da parte dell’uomo, il rifiuto della sovranità di Dio e del suo disegno di amore».

93 Anche il documento pontificio citato concede che «talvolta intervengano dei fattori psicologici che possono attenuare o addirittura togliere la libertà».

94 Da un punto di vista psicologico, la «naturale» aspirazione alla morte è stata difesa dalla corrente junghiana, che vede nella morte una tappa del processo di autorealizzazione del Sé: cf. M.-L. von Franz, La morte e i sogni, tr. it., Torino 1986.--

95 Valore esemplare in tale senso possiamo attribuire alla testimonianza fornitaci da P. Noli, Sul morire e la morte, tr. it., Milano 1985. Di fronte alla diagnosi di un cancro metastatizzato alla vescica, Noli preferisce le metastasi al differimento meccanico della morte. «“Speranza” — annota lucidamente — per i medici appare essere qualsiasi possibilità di prolungamento della vita. Io ho un altro concetto della speranza» (p. 50). Rifiuta l’operazione per non finire nella macchina chirurgico-radiologica, che gli avrebbe fatto perdere pezzo a pezzo la sua libertà: «Se avessi consentito all’operazione sarei diventato un paziente, mi sarei adeguato definitivamente nel ruolo di paziente per il resto della mia vita. Così invece non sono un paziente; non sono sanissimo, sono anzi mortalmente malato, ma non sono un paziente» (p. 104). Sperimenta così che la vita è più umana se la si vive così com’è, limitata nel tempo. Nella postfazione al libro autobiografico lo scrittore Max Frisch mette in evidenza come la decisione di Peter Noli sia stata segretamente ispirata dall’essere Noli un «cristiano disobbediente», nel senso in cui Gesù stesso è stato disobbediente ai poteri costituiti del suo tempo. La testimonianza di uomini liberati, che osano sapere quello che sanno circa la morte, svolge un ruolo critico nei confronti del rituale medico-tecnico del morire, uno dei poteri odierni che nessuno osa mettere in discussione.

96 Decreto sulla formazione sacerdotale, Optatam totius, 16.

97 W.E. VinackeDeceiving experimental subjects, in «American Psychol.» (1954), pp. 155 ss.

98 Norme etiche dell’Associazione degli Psicologi Americani (1972), in S. Spinsanti (a cura di), Documenti di deontologia e etica medica, Roma 1985, pp. 218-225; E.C. Kennedy (a cura di), Human rights and psycological research, New York 1975.

99 Cf. D. Konold - R.M. Veach., Codes of medica Ethics, in Encyclopaedia of Bioethics, Washington 1978, vol. IV, pp. 162-180.

100 G.F. ReedOn being moral in immoral places, in «Social Science and Medicine», 1981, pp. 19-26.

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