La comunicazione medico-paziente

Book Cover: La comunicazione medico-paziente
Parte di Rapporto professionista-malato series:

Associazione Medici Cattolici Italiani - Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori Sezione provinciale di Belluno

LA COMUNICAZIONE MEDICO-PAZIENTE

Appunti di un corso di formazione

a cura di Francesco Laveder e Gianelda Ferro Catello

Presentazione di Sandro Spinsanti

Belluno 2004

pp. IV-VII

IV

PRESENTAZIONE

Where is the wisdom we lost in knowledge?

Where is the knowledge we lost in information?

T. S. Eliot

«Dov’è la sapienza che abbiamo perso, facendola diventare conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo perso, facendola diventare informazione?». I versi di Eliot declinano uno scenario che in inglese si chiamerebbe slippery slope, ovvero “china fatale”. Diversi aspetti della realtà sanitaria attuale sembrano confermare l’analisi. L’incontro tra chi soffre di una patologia e chi offre servizi finalizzati alla guarigione diventa sempre più spesso uno scontro, con la tendenza a spostarsi dall’ospedale e dall’ambulatorio alle aule dei tribunali; la comunicazione è frequentemente un dialogo tra sordi; l’informazione invece sembra essere diventata centrale nel rapporto clinico, soprattutto sotto forma del cosiddetto “consenso informato”. È ormai routine sottoporre al paziente che deve affrontare un intervento diagnostico invasivo, un’operazione chirurgica o un trattamento terapeutico un modulo da sottoscrivere, nel quale ― nella migliore delle ipotesi ― è descritta la natura dell’intervento medico, le indicazioni e controindicazioni, gli effetti collaterali, le alternative possibili. Nella peggiore delle ipotesi, che poi nella realtà è la più frequente, le informazioni sono sommarie, mentre tutto l’interesse appare finalizzato ad avere il consenso del paziente, materializzato nella firma in calce al modulo. Se qualcuno avanzasse proteste, potrebbe ricevere come risposta: «Che cosa vuole, queste sono le esigenze della bioetica!».

Ma è proprio questa la pratica che il movimento della bioetica intendeva promuovere? Il dubbio è più che legittimo. Ripercorrendo la strada fatta dalla bioetica in trent’anni ― aiutati anche da un anniversario: il neologismo è stato proposto nel 1971 dal ricercatore oncologo Van Rensslaer Potter con l’opera Bioethics: a bridge to the future ― ci rendiamo conto che molte delle ispirazioni originarie sono andate perdute per strada. Il terreno di coltura del movimento è stato il richiamo alle humanities. Riflettendo sulla crisi della medicina che, a dispetto degli spettacolari successi terapeutici e tecnologici, si stava già profilando, alcuni spiriti dotati di quella genialità innovativa che gli americani chiamano “vision” proposero la cura delle humanities. Il sapere che nasce dal tronco della tradizione umanistica aveva bisogno

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di rivendicare la sua importanza per la società. La medicina e i professionisti della sanità, da parte loro, dovevano riconoscere l’incompletezza dei loro sforzi, se orientati unicamente ad accrescere il sapere scientifico. L’idealismo dei pionieri ― tra i quali ci limitiamo a menzionare il solo Edmund Pellegrino, della Georgetown University ― era sostenuto economicamente dal “Fondo nazionale per le humanities” mediante un sostanzioso stanziamento destinato a promuovere un riavvicinamento tra formazione umanistica e formazione tecnologica, non solo in medicina ma anche in altri ambiti professionali.

L’analisi da cui era partita la vigorosa azione promossa dal “Fondo nazionale” aveva identificato, con un senso di allarme, lo scollamento tra la cultura scientifico-tecnologica e quella umanistica: la prima sembrava andare per conto proprio, come sorretta da una metafisica di autogiustificazione, senza alcun bisogno di analisi concettuale e di verifica delle sue finalità e del rispetto di esigenze etiche; la cultura umanistica, da parte sua, era completamente isolata, incapace di incidere nella società, riluttante a impegnarsi in un confronto serrato con gli scopi, i metodi e le pratiche scientifiche. Le conseguenze del distacco erano particolarmente sensibili e preoccupanti in campo medico: la conoscenza e il potere si erano estesi così rapidamente da distanziare la capacità di riflessione. Con riferimento al distico di Eliot, il problema individuato era uno scivolamento progressivo dalla sapienza verso la conoscenza (applicata).

Il neologismo “bioetica” era destinato a raccogliere le spinte del movimento delle medical humanities e a rappresentarle presso l’opinione pubblica. La scelta è stata quasi casuale. Come ha raccontato Warren Reich, lo studioso cui si deve la prestigiosa Encyclopedia of Bioethics (1978), che ha consacrato il termine e fondato la disciplina, fino all’ultimo ha esitato se chiamare l’opera progettata di “bioetica” o di “etica medica”. Ha preferito alla fine il neologismo perché gli ha attribuito la potenzialità di introdurre una nuova pratica di riflessione, caratterizzata dall’interdisciplinità: si aspettava che la nuova denominazione favorisse un dialogo, finora inedito, tra la scienza, la medicina, la filosofia morale, la religione e le altre discipline afferenti alle humanities. Il neologismo ha poi stravinto. Ma è legittimo avanzare l’interrogativo su quanta parte del progetto originario si sia persa per strada.

Metterebbe anche conto chiedersi quanto sia responsabile la bioetica ― specialmente quella prodotta dall’attivissima fucina dei centri e degli studiosi statunitensi ― di un’enfasi eccessiva posta sul principio dell’autonomia, promosso a fulcro della nuova pratica medica. L’autodeterminazione del paziente è stata considerata come “l’uscita dalla minorità imputabile a se

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stessi” che, secondo Kant in Che cos’è l’Illuminismo?, costituisce l’ingresso della modernità. Dalla centralità del principio dell’autonomia deriva l’esigenza dell’informazione, considerata come il presupposto necessario al consenso (“Dov’è la conoscenza che abbiamo perso, facendola diventare informazione?”, sarebbe l’amaro commento di Eliot).

La deriva verso l’informazione, sempre più lontana dalla comunicazione e dall’incontro interpersonale, è molto marcata nella realtà culturale italiana. La bioetica non è scaturita da un movimento analogo a quello delle medical humanities americano. Le iniziative recenti di promozione degli studi umanistici ― basti citare la Scuola superiore di studi umanistici di Bologna, diretta da Umberto Eco, e l’istituto internazionale di studi umanistici di Firenze ― non lambiscono neppure marginalmente il mondo della medicina. Bisogna riconoscere che impulsi determinanti per lo sviluppo della bioetica sono venuti piuttosto da quel cambiamento di rapporti tra pazienti e professionisti sanitari che ha reso questi ultimi sempre più esposti sul fronte giudiziario. In questo senso la vicenda della diffusione di quella pratica che ha assunto il nome di “consenso informato” è emblematica.

Quando nel 1992 il Comitato nazionale per la bioetica proponeva il documento Informazione e consenso all'atto medico, nel quale il consenso informato veniva descritto come «una più ampia partecipazione del cittadino alle decisioni che lo riguardano», la federazione Nazionale degli Ordini dei medici rispondeva ufficialmente di non sentirsi vincolata da quelle indicazioni, che contrastavano con il dettato del Codice deontologico. Questo infatti attribuiva ancora al medico la discrezionalità nel fornire o no le informazioni al paziente, a seconda che le ritenesse opportune a favorire la salute del paziente. Nel giro di pochi anni, nelle successive revisioni del Codice del 1995 e 1998, la formulazione cambiava radicalmente. Veniva riconosciuto il diritto esclusivo del cittadino di essere informato, rafforzato dalle disposizioni legali di tutela della privacy. L’impressione tuttavia è che i comportamenti dei sanitari non siano stati influenzati dalle norme deontologiche, quanto piuttosto dal timore di procedimenti giudiziari. Sentenze clamorose hanno visto la condanna di medici che avevano preso decisioni regolandosi, secondo la classica formulazione, “in scienza e coscienza”, omettendo di informare il paziente e di ottenerne il consenso. La ricerca di una medicina “sicura” è diventata una priorità e ha spianato la via a un uso del consenso informato ― per lo più ridotto a modulistica da sottoscrivere ― in senso difensivo. Così appare conclusa la parabola che dall’incontro tra medico e paziente ― che ancora per Karl Jaspers costituiva una situazione di suprema densità antropologica ― porta al nudo processo informativo: senza

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coinvolgimento empatico e senza esigenze di virtù, senza richiesta di relazione e sostanza etica, che non sia quella del rispetto formale dei diritti.

Speculare e contrapposta alla slippery slope, è necessario immaginare un’altra via: dall'informazione alla comunicazione, dalla comunicazione all’incontro, come una ricerca del centro di gravità che conferisce equilibrio e forza alla pratica della medicina. L’informazione ― che ormai costituisce la struttura portante dell’empowerment del cittadino che accede ai servizi sanitari ― dobbiamo immaginarla in un contesto comunicativo, dove l’ascolto attivo gioca un ruolo fondamentale. Sullo sfondo, quale meta ideale, intravediamo quel denso incontro che non è solo uno scambio tra chi è portatore di un bisogno e chi ha risposte efficaci, ma uno scambio tra coscienze.

Questa è la via intrapresa dal Corso di formazione sulla comunicazione tra medico e paziente, curato da Francesco Laveder e Gianelda Ferro Catello. In un felice equilibrio tra teorizzazione delle pratiche comunicative e guida empirica nelle situazioni di maggiore difficoltà ― i medici sicuramente sapranno apprezzare di essere quasi presi per mano per essere condotti, gradino dopo gradino, a comunicare efficacemente cattive notizie ― la comunicazione viene ricollocata al centro della pratica medica. La centralità del paziente cessa così di apparire come una esortazione morale: è un sapere applicato, che si può apprendere.

L’auspicio che accompagna la presentazione del corso, diventato libro, è che un gran numero di medici lo accolgano come un amichevole vademecum.