Terapia genica e miglioramento della natura umana

Sandro Spinsanti

Terapia genica e miglioramento della natura umana

in Concilium

Roma, n. 2, 1998, pp. 36-46

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TERAPIA GENICA E MIGLIORAMENTO DELLA NATURA UMANA

Interrogativi etici

1. Stagioni della genetica, stagioni dell'etica

Nessuna forma di potere che l'uomo ha potuto esercitare in passato sulla natura è paragonabile al dominio sulla vita che è stato reso possibile dalle scoperte recenti nel campo della genetica e dalla messa a punto di tecnologie che permettono di intervenire nel substrato più profondo della natura vivente. A questo traguardo non siamo giunti improvvisamente. Possiamo riconoscere periodi ben differenziati

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nello sviluppo della genetica, ai quali corrispondono altrettante stagioni dell'etica. Ogni fase, infatti, della crescita del sapere e del potere dell'uomo sul meccanismo della trasmissione della vita ha mobilitato la riflessione etica in modo differente.

La genetica quale scienza dell'ereditarietà, tenuta a battesimo dall'abate Mendel poco più di un secolo fa, non ha mostrato subito le potenzialità di cui era dotata. Le scoperte di Mendel, riconosciute come leggi generali dell'ereditarietà solo all'inizio del secolo XX, sono apparse portatrici di conseguenze pratiche solo per i fondatori dell'eugenismo. Questo movimento è nato come un progetto per migliorare la specie umana mediante un controllo della procreazione, favorendo la trasmissione dei caratteri ereditari auspicati e impedendo la riproduzione di quelli valutati come negativi. Il dizionario Larousse del XX secolo, pubblicato nel 1928, attribuiva come finalità alla "nuova scienza" dell'eugenismo di «eliminare gli indesiderabili e di conservare e perfezionare gli elementi sani e robusti».

Le basi scientifiche dell'eugenetica erano tutt'altro che solide. È bastata, tuttavia, la sola patina di scientificità perché nel periodo tra le due guerre mondiali programmi eugenetici fossero intrapresi dal governo nazista in Germania ― che si servì dell'eugenismo per giustificare la sua criminale politica razzista ― e altri ne fossero realizzati nei Paesi Scandinavi e negli Stati Uniti (con la stessa inconsistenza scientifica e nullità di risultati quanto al miglioramento della specie, ma con il totalitarismo nazista in meno). Gli errori del passato hanno gettato il discredito sui programmi eugenetici autoritari, inequivocabilmente condannati anche dal punto di vista morale, in quanto violano il fondamentale diritto della persona all'autodeterminazione. Le pratiche basate sull'eugenismo non sono scomparse, ma hanno prolungato quasi clandestinamente la loro esistenza. La legge che permetteva la sterilizzazione per motivi eugenetici in Svezia è stata abolita solo nel 1976. Notizie di cronaca recenti calcolano circa 100.000 il numero delle donne alle quali nei Paesi Scandinavi sarebbe stato negato, in modo coercitivo, il diritto alla riproduzione.

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Se le scoperte di Mendel corrispondono alla preistoria e l'eugenismo alla storia antica della genetica (il miglioramento della specie mediante l'eliminazione dei tarati era, del resto, la politica sanitaria corrente anche a Sparta, con risultati molto meno brillanti, a quanto ci dice la storia della civiltà, di quelli ottenuti ad Atene...), la storia moderna della genetica comincia a metà degli anni '50 del nostro secolo, con l'identificazione del modo in cui si trasmettono i cromosomi e la scoperta della struttura molecolare del DNA. Gli anni seguenti furono segnati dal progressivo, paziente studio del modo in cui il "messaggio" ereditario, contenuto nel DNA dei cromosomi sotto forma di una successione di geni, poteva essere tradotto in proteine. Si trattava però ancora di conoscere il processo come avviene in natura, senza mettervi le mani.

La "manipolazione" segna l'ultima tappa del progresso della genetica. Sono passati appena 25 anni ― i primi lavori di questo genere sono del 1973 ― da quando gli scienziati hanno messo a punto una tecnica per introdurre all'interno del patrimonio ereditario di una cellula un frammento di DNA estraneo, ottenuto mediante sintesi chimica. Tecnicamente si parla in questo caso di "DNA ricombinante". Si tratta di molecole di DNA costruite al di fuori delle cellule viventi, che vengono congiunte a segmenti di DNA, al fine di farli replicare in una cellula vivente.

Impadronirsi della chiave con cui si trasmettono i caratteri ereditari significa poter smontare la catena del DNA e pilotarne la ricostruzione a volontà. Le applicazioni possibili sono apparse le più varie: incroci tra piante diverse, nonché tra cellule vegetali e cellule animali; creazione di nuove specie vegetali, con caratteri modificati; realizzazione in laboratorio di animali transgenici ― per così dire "su misura" ― per disporre di modelli sperimentali per la ricerca e l'osservazione in vitro dei meccanismi di azione di determinate patologie a base genetica; nel settore diagnostico-terapeutico, infine, creazione di sostanze organiche ― come l'interferone e l'ormone che regola la crescita ― e interventi terapeutici, grazie ai quali si trasferiscono geni tra organismi diversi per correggere, attivare o disattivare un gene difettoso o inserirne

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uno mancante perché trasmetta in modo corretto il suo codice.

Tuttavia, insieme alle promesse che fanno balenare l'ingegneria genetica come l'Eldorado dell'era tecnologica, si evidenziarono ben presto i dubbi circa la sicurezza di questi interventi. Il primo allarme nasceva nell'ambito stesso degli scienziati che si occupavano di ingegneria genetica. Nel luglio 1974 un gruppo di specialisti lanciava con una lettera aperta un appello all'autoregolazione e gli esperimenti di modificazione genetica degli organismi venivano congelati da una moratoria. Ma alla conferenza di Asilomar, in California, tenutasi nel 1975, veniva decisa la ripresa dei lavori. In seguito le regolamentazioni e le misure precauzionali prese dai governi si sono succedute con ritmo discontinuo: a restrizioni e severi controlli hanno fatto seguito edulcorazioni permissive.

Per quanto riguarda le regole internazionali sulla genetica e le biotecnologie elaborate da organismi sovranazionali (Consiglio d'Europa e Comitato internazionale di bioetica dell'UNESCO), una mappa dettagliata è tracciata da Adriano Bompiani 1. I risultati sono nell'insieme deludenti: a fronte di riaffermazioni enfatiche di princìpi (quali: dignità della persona umana, libertà della ricerca, solidarietà tra gli uomini), non si riscontrano conclusioni generalizzabili, da tradurre in precise norme legislative. L'impressione formulata da Bompiani è che «la continua, frammentata e sterile discussione avviata su molteplici organismi non faccia altro che favorire il mantenimento dello "statu quo'', propizio alla ricerca scientifica non controllata» (p. 133).

Una nuova fase dell'appello all'etica nell'ambito della genetica si è aperta nella primavera del 1997, con la notizia della clonazione di un mammifero a partire da una cellula differenziata di adulto (la pecora Dolly), ottenuta nei laboratori del Roslin Institute di Edimburgo (notizia apparsa su Nature del 27 febbraio 1997). La risonanza mondiale dell'evento è stata favorita dall'ipotesi di una applicazione agli esseri umani della stessa tecnologia, per produrre a questo punto

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degli "uomini su misura" 2. La reazione generalizzata, tanto di istanze religiose ― come l'intervento del magistero cattolico nella persona del pontefice Giovanni Paolo II ― quanto di quelle politiche e secolari ― come il Presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, che ha istituito una commissione per indagare sull'eticità di queste procedure e ha annunciato una moratoria sul finanziamento pubblico delle ricerche sulla clonazione umana ― è stata di condanna. In questa fase l'etica è apparsa sulla scena principalmente sotto forma di ampio coinvolgimento dell'opinione pubblica, mobilitazione di emozioni, pressioni per il controllo dell'attività degli scienziati, piuttosto che come ricerca di orientamenti per l'azione attinti dalla riflessione filosofica.

2. La riflessione bioetica: nella continuità o nella novità?

Se ci limitiamo a osservare il tono generale del discorso etico che accompagna il vertiginoso sviluppo della genetica, sia tra filosofi e teologi di professione che tra il grande pubblico, possiamo ricondurre gli atteggiamenti prevalenti nei dibattiti a due modelli di fondo: il primo più centrato sulla novità dei problemi etici posti dalla nuova genetica, il secondo più sensibile alla continuità. Coloro che si orientano secondo il primo modello tendono a sottolineare la rottura con il passato costituita dalla decodificazione del codice genetico dei viventi, con la possibilità tecnologica di intervenire in esso. Questo approccio inclina verso una enfatizzazione delle conseguenze della nuova biologia: tanto positive (l'ingegnerizzazione della vita costituisce un salto di qualità nella lotta contro le patologie e permette di modellare i discendenti secondo i propri desideri, scegliendo i caratteri genetici dei nascituri), quanto negative (riassumibili nell'espressione "bomba biologica", che fa immaginare conseguenze tanto catastrofiche quanto quelle della bomba atomica).

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Il secondo modello ideale ama, invece, sottolineare la continuità: ciò che sta avvenendo con il contributo dell'ingegneria genetica non è essenzialmente diverso da quanto l'umanità ha conosciuto in passato. Questa visione induce a gettare acqua sul fuoco tanto degli entusiasmi, quanto delle preoccupazioni. Rispetto alle premesse mirabolanti, si fa notare che, in un riscontro preciso, la realtà dei fatti subisce un forte ridimensionamento. Di molte specie vegetali modificate con la biotecnologia ― per fare un esempio ― non sappiamo che uso farne: quelle selezionate nel corso del tempo sembrano rispondere ai nostri bisogni meglio di quelle ingegnerizzate. Nell'ambito delle applicazioni cliniche, l'intervento su cui si sono concentrati i maggiori sforzi, cioè la terapia genica del cancro (terapia in senso lato, in quanto gli interventi non mirano a ripristinare una normale funzione genica neoplastica, ma a potenziare le terapie esistenti, rendendo i soggetti meno sensibili alla tossicità dei chemioterapici) non hanno portato finora i risultati sperati. Forse anche le minacce connesse con queste tecnologie non sono così gravi come si era paventato in un primo momento. Del resto, se ci manteniamo in una prospettiva storica, non riusciamo a prevedere niente di così tremendo che l'uomo non abbia già fatto senza l'ingegneria genetica. Ricordando gli orrori che l'umanità è stata capace di produrre, possiamo sentirci autorizzati a ritenere che il peggio non stia davanti a noi, ma piuttosto alle nostre spalle.

Questa sommaria tipologia di due orientamenti di fondo nei confronti della genetica si rivela utile soprattutto se ipotizziamo che esistano corrispondenti atteggiamenti rispetto all'etica. Nel primo modello viene enfatizzato il bisogno di una nuova etica, adeguata alla situazione inedita che si è venuta a creare. La "bioetica" ― neologismo che ha la stessa età anagrafica dell'ingegneria genetica, essendo stato proposto per la prima volta nel 1971 ― viene a gran voce invocata come l'adeguata risposta al fatto che i progressi della biologia, e della genetica in particolare, ci hanno fatto entrare in una "No man's land", in una terra di nessuno che richiede nuove regole etiche. La bioetica comporta una revoca del mandato che la società ha tradizionalmente concesso a biologi

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e medici di autoregolare i propri comportamenti, per passare a una negoziazione pubblica delle norme etiche e giuridiche.

Il secondo atteggiamento che abbiamo individuato propende, invece, a minimizzare il bisogno di un'etica specifica, tagliata su misura della nuova biologia. Semmai è l'etica di sempre che è necessaria, per richiamare tutti i soggetti, secondo i diversi livelli di operatività, ad agire con senso di responsabilità.

Può essere sensato e opportuno farsi attraversare da una vena di sospetto nei confronti dell'interesse con cui, in diversi ambienti, viene promossa la bioetica, quale nuova prassi di dibattito etico all'interno della società. La bioetica potrebbe essere piegata a svolgere una funzione ideologica, servendo ― come ogni ideologia ― a interessi camuffati. L'ideologia offre una spiegazione deformata della realtà, non in quanto dice delle cose in sé false, ma perché nasconde i rapporti di potere su cui la realtà si fonda. La bioetica sembra assecondare quel movimento che tende a pilotare lo sguardo nel terreno dell'intimo, dei piccoli gruppi, delle relazioni corte o delle questioni ultime (dalle manipolazioni genetiche, alle tecniche di riproduzione medicalmente assistita, all'eutanasia), lasciando però in ombra ciò che appartiene al terreno politico e sociale. Ciò che sta avvenendo nell'ambito della nuova biologia andrebbe forse più utilmente esplorato mediante interrogativi che nascano dall'etica dell'informazione (come si parla della tecnologia genetica? quante false notizie vengono diffuse? in che modo il pubblico viene informato su benefici e rischi propri delle biotecnologie? come viene manipolata l'opinione pubblica per ottenere il consenso su progetti faraonici, scavalcando il momento del dibattito scientifico?), oppure richiamandosi all'etica economica (in base a quali criteri vengono distribuiti i fondi per la ricerca? come vengono stabilite le priorità degli investimenti?).

Le legittime riserve nei confronti di un uso ideologico e strumentale della bioetica non devono, tuttavia, indurci a trascurare le possibilità insite in un dibattito che sottolinei la novità, piuttosto che la continuità. La bioetica ― intesa, in senso estensivo, come riflessione che nasce dall'impatto che

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i progressi nelle scienze biologiche e le loro applicazioni tecnologiche hanno nell'ambiente, nella pratica medica e nei comportamenti sociali ― può essere vista come un'occasione per imparare a esercitare la riflessione etica.

3. Nuova genetica e funzioni dell'etica

Nella nostra società non c'è solo un pluralismo di sistemi etici, ma anche una pluralità di funzioni dell'etica. Antonio Autiere nella presentazione dell'edizione italiana del volume curato da E.E. Shelp, Bioetica e Teologia 3 ipotizza tre funzioni dell'etica: di controllo, di gestione e di legittimazione. L'ipotesi si trova confermata dall'analisi fenomenologica degli appelli all'etica nell'ambito della nuova genetica. All'etica si domanda di definire i confini da non oltrepassare; di valutare prezzi da pagare e rischi da correre in rapporto ai benefici sperati; di stabilire un legame fra il piano operativo e gli alti valori ideali. Queste tre funzioni dell'etica possono offrire sinergicamente un orientamento efficace nell'ambito degli interventi genetici sull'uomo.

La funzione di controllo è diventata prioritaria nella fase attuale dello sviluppo della genetica e delle possibilità di intervento sulla struttura del vivente. Il controllo, con linee chiaramente tracciate tra ciò che si può fare e ciò che non si deve consentire, deve impedire che la fattibilità diventi la sola ragione per cui una cosa sia fatta. La funzione di controllo dell'etica confina con la legge e tende a confondersi con essa. È una vicinanza svantaggiosa per l'etica, che rischia di non saper far valere la sua specificità. La legge morale non può sottostare alle regole della maggioranza, come avviene in regime di democrazia. La norma giuridica è a sua volta sottoposta a un giudizio etico, così come deve confrontarsi con un'istanza eccedente la legge, ad esempio i diritti dell'uomo.

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Malgrado le difficoltà di procedere a una delimitazione concreta del lecito, a causa delle diverse antropologie, un consenso di fondo si sta delineando in Occidente proprio sulla linea della difesa dell'uomo da interventi di manipolazione in contraddizione con i valori che sono riconosciuti tanto dalle tradizioni religiose, quanto da quelle secolari. La barriera posta a voce unanime alla clonazione dell'essere umano è un esempio chiaro di tale consenso.

Nell'ambito della funzione di gestione attribuita all'etica, il contributo che questa può dare è quello di rendere esplicite le scelte e i criteri sui quali si fondano. Più che porre divieti o linee da non oltrepassare, come fa l'etica nella funzione di controllo, la gestione chiede all'etica di sviluppare norme capaci di regolare un ordinato svolgimento delle nuove pratiche.

Per quanto importante sia il criterio della responsabilità nel valutare il passaggio all'azione ― come ha ripetutamente proposto Hans Jonas proprio nell'ambito della nuova biologia 4 ― non bisogna sottovalutare la continua urgenza di sottoporsi al criterio della razionalità. L'etica è e deve rimanere un luogo privilegiato dell'esercizio di una spietata ragione critica. Questo scrupoloso esercizio della ragione pratica domanda anzitutto lo sforzo di distinguere il vero dal falso. Non è un compito semplice, come sembrerebbe a prima vista. Lo dimostrano clamorose "gaffes" di notizie diffuse per vere e rivelatesi successivamente delle mistificazioni.

Un secondo esercizio di razionalità consiste nel distinguere l'importante dall'accidentale. L'elenco di ciò che è possibile ottenere mediante l'ingegneria genetica assomiglia alla "lista della lavandaia", dove troviamo mescolati i capi di abbigliamento più disparati. Scegliere il colore degli occhi dei propri figli ― supposto che sia tecnicamente possibile ― non può essere messo sullo stesso piano della possibilità di prevenire una grave anomalia genetica. La stessa scelta del sesso della propria discendenza, intervenendo nella selezione dei gameti che portano i cromosomi desiderati, ha un significato diverso se si vuol evitare la trasmissione di una patologia

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legata al sesso, oppure si intende in tal modo esercitare una preferenza arbitraria. Tuttavia tracciare una linea tra interventi terapeutici e non terapeutici non è così facile come sembra e molti temono la logica del piano inclinato ("slippery slope"), una volta che si accetti il principio del miglioramento della natura quale obiettivo eticamente perseguibile.

È necessario inoltre differenziare il giudizio dalle emozioni. Di ingegneria genetica e affini si parla per lo più con un linguaggio evocativo-mitologico: opera di "apprendisti stregoni", "bomba biologica", creazione del super-uomo e dello "scimpanzuomo", produzione di "chimere". È un linguaggio per lo più intimidatorio, finalizzato a creare forti emozioni ― che inclinano ad arrendersi alla ricerca quando prevale la speranza, o a condannare in blocco l'ingegneria genetica quando prevale la paura ― piuttosto che riflessione critica. Di fronte a stati d'animo di questo genere la funzione di "gestione" dell'etica è destinata a naufragare clamorosamente.

La terza funzione dell'etica ― quella che abbiamo chiamato di legittimazione ― ci porta a correlare le conoscenze genetiche di base e le applicazioni della bioingegneria con i più alti ideali umani. Questi registrano un consenso generale circa l'alto valore morale della terapia. La possibilità di correggere un difetto genetico mediante l'inserimento nel genoma di un individuo di una copia sana del gene difettoso ha aperto una nuova etica nella storia della medicina. Esiste un accordo generalizzato, espresso da documenti ufficiali di comitati etici e da regolazioni legislative, a limitare ― almeno provvisoriamente ― tali interventi alle cellule somatiche, escludendo le cellule della linea germinale (una modifica del genoma di questo genere trasmetterebbe l'alterazione alla progenie). I motivi dell'esclusione sono di natura prudenziale: questi interventi non hanno una base sperimentale sufficientemente solida, tale da giustificare l'applicazione all'uomo. La terapia genica umana sulla linea germinale non può essere però esclusa per principio 5.

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Per quanto riguarda la legittimazione degli interventi di ingegneria genetica che tendono al miglioramento della natura umana, ci muoviamo nell'ambito di quell'aspirazione al "Bonum” che è carattere essenziale dell'Essere, insieme al "Verum" e al "Pulchrum"; ci troviamo così in una regione che confina con l'aspirazione metafisica e religiosa. In quanto ricerca del "vivere bene" possiamo identificare una dimensione fondamentale dell'esistenza umana con la quale la nuova genetica deve confrontarsi. Essa deve preoccuparsi di tutelare il valore personale, ovvero di garantire a ciascuno di poter aver stima di sé. Una condizione essenziale per questo è che all'uomo sia attribuito un valore personale senza altre qualificazioni, sulla base della semplice appartenenza alla specie umana. Ciò impedisce che chiunque possa avanzare la pretesa di farsi giudice e decidere per chi valgono i diritti umani. Non si è cooptati come membri della società umana sulla base di determinate quantità, bensì ognuno vi entra in forza di un proprio diritto. La nuova biologia deve vigilare su questa condizione, che possiamo chiamare "proibizione di una definizione".

Coloro che fossero trovati carenti rispetto ai criteri assunti dalla cultura come ideali, devono trovare una tutela grazie alla virtù della pietas e della sollicitudo. È una prospettiva molto familiare alla visione profetica dell'uomo proposta dal cristianesimo, per il quale proprio la pietra scartata dai costruttori è diventata la testata d'angolo (cf. Mt 21,42).

1 A. Bompiani-E. Brovedani-C. GrottoNuova genetica, nuove responsabilità, San Paolo, Cinisello 1997.

2 J. HarrisWonderwoman & Superman, Baldini e Castoldi, Milano 1997.

3 A. AutieroPrefazione all'edizione italiana di E.E. Shelp (ed.), Teologia e Bioetica, Dehoniane, Bologna 1989.

4 H. JonasIl principio responsabilità, Einaudi, Torino 1990.

5 R. Munson-L. H. Davis, Germ-line Gene Therapy and the Medical Imperative, in Kennedy Institute of Ethics Journal 2, n. 2 (1992) 137-158.