Problemi etici nella fisiopatologia della riproduzione

Sandro Spinsanti

PROBLEMI ETICI NELLA FISIOPATOLOGIA DELLA RIPRODUZIONE

in Tecniche di fecondazione assistita: aspetti etici e giuridici, a cura di G.B. Massi e S. Pellegrini, Università degli Studi di Firenze, Clinica Ginecologica ed Ostetrica

FRS Firenze 2014

pp. 6-10

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Il mio compito è, nello stesso tempo, modesto ed esigente. È modesto, perché devo fare da introduttore agli illustri studiosi chiamati a riferire sugli aspetti giuridici ed etici delle tecniche di fecondazione assistita. Sono soltanto un Giovanni Battista che indica qualcuno che viene dopo di lui ed è più grande di lui... Ma nello stesso tempo non è semplice, in questo ruolo introduttivo che si astiene dall’entrare nel merito dei problemi, indicare l’orizzonte di senso del nostro discorso. Che significato ha appellarsi all’etica e al diritto nell’ambito delle tecniche biomediche che permettono la fecondazione in presenza di ostacoli naturali? La domanda di etica e di normazione giuridica nell’ambito della biomedicina ha bisogno di un discernimento. Ora, a me sembra di poter identificare tre diverse funzioni attribuite all’etica e al diritto nell’ambito della tecnologia applicata alla riproduzione: di controllo, di gestione e di legittimazione. Consideriamo queste tre funzioni separatamente. La funzione di controllo è la più diffusa, e anche la più comprensibile al senso comune. Deriva dalla preoccupazione diffusa rispetto al futuro dell’uomo e alla sua dignità, in considerazione del fatto che queste tecnologie permettono delle modalità di intervento inedite nella generazione stessa dell’essere umano. Quando ci si appella all’etica e a una legislazione, la richiesta può essere per lo più tradotta in una chiara definizione dei limiti da non oltrepassare. Dall’etica e dalla legge ci si aspetta che prendano in mano le redini del controllo dei limiti.

Anche se ambedue queste istanze hanno una funzione di controllo, la loro modalità di azione è completamente diversa. La legge interviene mediante la sanzione. Non è detto che questa equivalga solo e necessariamente alla pena di detenzione. L’abbiamo visto di recente, nel caso della bambina Serena Cruz, che era stata adottata con procedimenti non conformi alla legge. Ci siamo resi conto che la legge può intervenire nel mondo degli affetti in modo ancora più repressivo che non con sanzioni pecuniarie o detentive: togliere il bambino a chi procede contro la legge può essere una forma di sanzione di gravità estrema.

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L’etica non manda in prigione, non mette le multe; i suoi strumenti di azione sono fondamentalmente il senso di colpa e il senso di vergogna. L’etica religiosa ha in più un'altra risorsa repressiva: il ricorso alle sanzioni divine (l’inferno, la scomunica, o chi più vuole...).

È chiaro che l’etica può utilizzare questi suoi strumenti in modo scorretto. Il senso di colpa, per esempio, può essere suscitato dalle agenzie che si richiamano all’etica in una maniera che dobbiamo denunciare come manipolatoria. Forse nessun caso è più evidente dell’uso terroristico del castigo di Dio applicato all’AIDS. Ma anche nell’ambito del nostro tema non mancano esempi di cattivo ricorso all’etica con funzione di controllo. Ciò avviene quando si cerca di colpevolizzare le coppie che ricorrono alle tecnologie riproduttive. Leggo, per esempio, un moralista che qualifica queste pratiche nel loro insieme come «frutto di una menzogna iniziale», «adulterio commesso con tecniche veterinarie». Non posso trattenermi dal dire che qui l’etica gioca sporco, agisce sulle emozioni in maniera terroristica. Non è questo, a mio avviso, l’uso giusto dell’etica.

Ma c’è una questione più fondamentale rispetto al controllo, alla quale non si è soliti dedicare una attenzione almeno pari a quella relativa all’uso corretto della legge e dell’etica. La potremmo formulare nella seguente domanda: il controllo funziona veramente cosi come i controllori pretendono o si auspicano che funzioni? Dobbiamo — credo — gettare uno sguardo disincantato sulla funzione di controllo sia della legge che dell’etica, tenendo conto che l’interlocutore di queste tecniche di riproduzione assistita è la famiglia, e che la famiglia funziona come vuole, piuttosto che come vorremmo che funzionasse.

Negli ultimi decenni è avvenuta sotto i nostri occhi una specie di rivoluzione silenziosa che ha prodotto un tipo di famiglia diverso. Con una definizione di Pier Paolo Donati, la chiamerei la famiglia «autopoietica». Il movimento si è accentuato negli anni ’80.

Questa famiglia, in altri termini, è andata per conto proprio, non ha corrisposto alle attese sociali di chi l’ha guardata e in qualche modo ha voluto guidarla dall’esterno. Non ha seguito nè le aspettative istituzionali (si pensi alla riforma del diritto di famiglia e alle altre misure legislative che intendevano promuovere una famiglia comunitaria, democratica, socialmente partecipativa); nè ha obbedito alle aspettative di quei movimenti sociali che invece avevano altri progetti (il movimento femminista o di liberazione giovanile, che negavano la famiglia come istituzione e la dichiaravano morta). La famiglia è andata per conto suo. I tentativi di riportarla a qualsiasi ordine sono falliti. Che fossero tentativi di ispirazione religiosa — è inevitabile riferirsi alle vicende dei referendum sul divorzio e l’aborto — oppure di natura laica — come i tentativi di imporre un certo ordine e disciplina alla famiglia attraverso il planning familiare.

La radiografia della famiglia «autopoietica» o post-moderna, quale possiamo desumerla dal primo rapporto sulla famiglia in Italia, condotto da diversi studiosi e centri di ricerca e coordinato da Pier Paolo Donati per conto del

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Centro Internazionale Studi Famiglia (ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1989), ci parla di un organismo che ben poco si adatta all’esterno; è sempre più un sistema chiuso, che con l’esterno scambia solo stimoli, sollecitazioni, disturbi. Dall’esterno la famiglia può ricevere indicazioni come valori e norme, ma non le farà diventare proprie «sic et simpliciter», così come sono suggerite o comandate. Questa famiglia autopoietica, in altri termini, elabora norme e valori secondo proprie modalità di comunicazione autoreferenziali.

Questo discorso è molto importante riguardo alle tecnologie di riproduzione. Il ricorso all’intervento biomedico per ovviare agli ostacoli della generazione è il caso più emblematico di quella razionalizzazione privatistica dei mondi vitali che va avanti senza rispondere ad altro che a se stessa.

Sempre più in questo campo è la famiglia che vuole regolare se stessa.

Noi ci diciamo oggi che la società non può semplicemente stare a guardare di fronte al moltiplicarsi di queste tecniche e invochiamo precisamente la legge e l’etica con funzione di controllo, Per Porre dei limiti che non devono essere superati. Ma anche se la società farà qualcosa nel senso del controllo, credo che realisticamente dobbiamo attenderci che al massimo potrà mettere delle regole e dei divieti, sapendo in anticipo che non potrà farle rispettare se non in minima misura.

La seconda funzione del diritto e dell’etica che vorrei ricordare è quella che possiamo chiamare di gestione. Nel ricorso alle tecniche, sempre più raffinate e sofisticate, ci sono dei prezzi da pagare. Per esempio: un investimento di energie, cominciando da quelle economiche. Ci sono rischi possibili: in termini di salute o biologici, ma anche e soprattutto in termini antropologici. C’è il pericolo di smarrire le coordinate di riferimento costituite dal modo socialmente organizzato di strutturare la parentela, di deformare alcune dimensioni di vita relazionale che siamo abituati a considerare come essenziali alla natura umana. Senza dimenticare il rischio di una circolarità tra domanda e offerta in questo tipo di interventi.

Ebbene, gestione vuol dire calcolare qual è la ragione di utilità da raggiungere. A quali condizioni questa utilità può offrire il massimo grado possibile di vantaggi. L’etica, più ancora della legge esercita un’utile funzione quando fornisce le regole della gestione dell’agire.

Il principale interrogativo che in questa dimensione mi pongo è il seguente: l’etica a ispirazione religiosa e l’etica laica possono collaborare nell’elaborazione delle regole di gestione? La difficoltà principale a mio avviso non è il pluralismo delle antropologie, e neppure il diverso procedimento di fondazione nei giudizi etici. Da sempre sappiamo, ad esempio, che nello stesso ambito dell’etica razionale esistano diversi e irriducibili sistemi metaetici, con una divergenza inconciliabile tra l’ etica di tipo deontologico e quella di tipo teleologico. La difficoltà principale è piuttosto quella di un atteggiamento di fondo che possiamo caratterizzare come una sfiducia reciproca che attraversa l’etica religiosa e quella laica, un giudizio inespresso — talvolta invero anche esplicito — di inattendibilità dell’altro.

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Il panorama è sconfortante, soprattutto se ci riferiamo alla situazione italiana. I credenti non di rado sono ritenuti incapaci di portarsi negli spazi operativi della ragione, quando si tratta di elaborare giudizi morali nel campo della bioetica. Come se non fossero in grado di distinguere gli appelli della fede dagli apporti a una soluzione di problemi bioetici sulla base della calcolazione razionale. Nel pensiero laico non mancano presentazioni caricaturali dei credenti, come esseri costituzionalmente eteronomi, cioè totalmente dipendenti da una istanza esterna, incapaci dunque di essere dei partners di dialogo a livello razionale.

Ma anche tra i credenti dobbiamo registrare spesso atteggiamenti profondamente negativi nei confronti di un’etica laica. I laici sono tutt’al più trattati, con un atteggiamento di condiscendenza, come «uomini di buona volontà», e non come uomini «di volontà buona». Non lasciamoci ingannare dal procedimento apparentemente irrilevante dello spostamento dell’aggettivo: tra l’una e l’altra concezione c'è un abisso! Succede frequentemente che in ambito di etica religiosa si senta rivendicare una specie di esclusività, come se essa solo fosse in grado di difendere i valori della vita, mentre dell’etica laica si parla come dei barbari che premono fuori delle mura di una città assediata, come di un nemico della sacralità della vita.

Questa è la contrapposizione che, a mio avviso, tende sempre più a radicalizzarsi nella situazione italiana. Mi sembra che al pessimismo della ragione, costretta a registrare i fallimenti del dialogo, tenda ad abbinarsi un pessimismo della volontà. Costretti in due territori demarcati, che inconsapevolmente si trasformano in due ghetti, non riusciamo neppure più a parlarci. Eppure parlarsi è un punto fondamentale per una gestione umana dei nuovi problemi creati dalla riproduzione medicalmente assistita.

Se l’etica religiosa e quella laica si dispongono alla gestione delle scelte ottimali l'una contro l’altra armata, portano già in sé i presupposti per il fallimento. Dobbiamo piuttosto accingerci a questo compito comune con un atteggiamento diverso.

Se coloro che si orientano ai valori etici religiosi o laici hanno la volontà di vedersi con occhi diversi, al di fuori degli schematismi, possono avere delle piacevoli sorprese. Magari quella di scoprire un amico o un alleato là dove temevano la presenza di un nemico. Permettetemi soltanto un flash. Che non si riferisce tematicamente solo al problema di bioetica che ci sta occupando, ma si estende a tutto il vasto ambito della cura della vita. Voglio riferire un apologo, attribuito a Chateau- briand. Lo scrittore immagina un cristiano che, incontrato un povero ignudo, lo copre con un mantello. Accanto a lui un pagano vede il gesto e gli dice: «Certamente lo hai fatto perché hai visto in lui un dio». E il cristiano risponde: «No, ho visto in lui un uomo». In questo apologo c’è una potenzialità rivoluzionaria per cambiare i clichés che deformano ciò che per inerzia di pensiero siamo soliti considerare come tipicamente religioso o tipicamente laico. L’apologo è anche una sfida a impegnarci per l’uomo al di fuori degli schematismi.

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Lasciatemi aggiungere ancora un brevissimo accenno ad una terza importantissima funzione dell’etica oltre quella di controllo e di gestione: la funzione di legittimazione. Un richiamo esplicito in questo senso lo abbiamo ascoltato in apertura di convegno nelle parole del prof. Massi. Chi si muove in territori di confine fa appello all’etica per garantirsi l’appoggio dei valori ideali per avere un aiuto in un lavoro così complesso e anche pericoloso.

L’etica e la legge, da questo punto di vista, sono invocati in funzione di legittimazione. È comprensibile ed è accettabile.

Chi lavora in questo ambito di frontiera ha pienamente diritto a non voler correre il rischio di andare in prigione...! Non vuole neppure andare allo sbaraglio, con il rischio di trovarsi magari al di fuori di ciò che il sentire comune giudica eticamente accettabile. È comprensibile e accettabile il ricorso all’etica e alla legge in funzione di legittimazione. Purché — lasciatemi aggiungere — si domandi anche all’etica, allo stesso tempo, un esercizio di ragione critica, non pretendendo semplicemente che legittimi tutto, ma che possa esercitare anche il suo ruolo di discernimento tra le tante possibilità che si sono aperte all’agire umano nell’intervento sulla procreazione.