L’infanzia nell’evoluzione della bioetica

Sandro Spinsanti

BIOETICA DEI PICCOLI, BIOETICA DEI GRANDI

L'infanzia nell’evoluzione della bioetica

in Oggi comando io, Associazione Italiana di Ematologia e Oncologia Pediatrica AIEOP

Raffaello Cortina Editore, Milano 2003

pp. 81-105

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Lo sguardo che la bioetica ha gettato sull’infanzia è appropriato o è affetto da qualche distorsione? È la domanda che pare essere contenuta, in modo implicito, nella contrapposizione tra bioetica “dei grandi” e bioetica “dei piccoli”. Sia come movimento che come disciplina, la bioetica ha considerato l’infanzia e la fase iniziale della vita umana quale oggetto privilegiato del suo sapere. Ancor più: i problemi legati alle decisioni cliniche in neonatologia hanno contribuito in modo decisivo a dare avvio alla bioetica stessa, sul finire degli anni Sessanta negli Stati Uniti.

Una culla privilegiata è stata il Kennedy Institute, presso la Georgetown University, a Washington. All’epoca vi troviamo un ginecologo olandese, André Hellegers, che godeva di buona fama sia sul versante della scienza, sia su quello della religione, tanto che nel 1964 Paolo VI lo aveva chiamato a far parte della commissione pontificia sul controllo delle nascite. La famiglia Kennedy si lasciò convincere da Hellegers a finanziare un’iniziativa che studiasse la biologia dal punto di vista etico, collocata presso la prestigiosa Università retta dai gesuiti. Il passaggio dal centro di ricerca sulla riproduzione al Kennedy Institute è dovuto a uno di quei felici intrecci che talvolta il caso e la necessità sanno combinare.

Nel 1969 era successo al Johns Hopkins Hospital di Baltimora un fatto riconducibile al problema della legittimità di trattamenti e astensione dall’intervento in medicina: un bambino con sindrome di Down non era stato sottoposto, per espresso desiderio dei genitori, a un’operazione chirurgica necessaria, cosicché era deceduto. Sulla vicenda venne girato un documentario, che fu proiettato nel corso di un simposio tenuto alla

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Georgetown University nell’ottobre 1971 su “Human rights, retardation and research”.

Il film fece un certo scalpore. Era riuscito a imporre all’attenzione pubblica il nuovo tipo di problemi morali che i progressi della medicina stavano creando. Al caso faceva riscontro la necessità di riflettere sistematicamente sulla dimensione etica dei nuovi poteri sulla vita che il progresso biomedico rendeva possibili. In occasione del simposio, la Georgetown University annunciò la creazione di un Istituto che collegasse la biologia con l’etica, mediante quel legame formale che di lì a poco si sarebbe imposto con il nome di bioetica. Il centro di ricerca finanziato dai Kennedy diventava così il “Joseph and Rose Kennedy Institute for the study of human reproduction and bioethics”. Hellegers ne fu nominato direttore. Dietro il suo impulso ― purtroppo Hellegers è deceduto, prematuramente, nel 1979 ― l’istituto doveva diventare un laboratorio di nuovo genere: un think tank dal quale sarebbe nata la bioetica come disciplina.

Una tappa fondamentale in questo sviluppo è stata la creazione della Encyclopedia of Bioethics, principalmente per opera di studiosi che afferivano all’istituto, sotto la guida di Warren Reich. Lopera, in quattro volumi, richiese sei anni di lavoro, dal 1972 al 1978, e contribuì in modo decisivo a dare rilievo alla nuova disciplina e al nome stesso ― bioetica ― con cui si cominciò a designarla.

Nell'Encyclopedia i problemi etici dell’infanzia sono presentati da due voci principali: “Children and biomedicine” e “Infants”. Una nuova redazione dell’opera si è resa necessaria dopo appena una decina d’anni: non semplicemente aggiornata, ma ridisegnata da capo a fondo. La nuova Encyclopedia of Bioethics 1, anch’essa curata da Warren Reich, è apparsa, in cinque volumi, nel 1995. Anche questa dedica ampio spazio all'infanzia, in particolare nella voce “Children”. Un confronto tra le due redazioni si rivela molto fruttuoso. Emergono tratti sia di continuità che di innovazione nei problemi bioetici identificati come specifici dell’infanzia. Le ampie trattazioni sono sbilanciate più nel senso dell’etica procedurale che in quella sostantiva.

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In altre parole, prevale la preoccupazione rivolta a decidere chi deve prendere le decisioni e quanto e quale coinvolgimento del minore debba essere previsto. Il modello concettuale che prevale è quello dei diritti dei bambini, che devono essere tutelati anche quando i minori non possono farlo come soggetti autonomi. Uno spazio sempre maggiore acquistano inoltre i problemi della ricerca condotta sui bambini.

Per quanto l’infanzia sia presente nell’agenda della bioetica come nuova disciplina, non tutti gli studiosi sono soddisfatti della qualità della riflessione etica che ha come oggetto la nascita e le prime fasi dello sviluppo. Una voce autorevole è quella di Warren Reich, che delle due edizioni dell’Encyclopedia americana è stato il curatore. Proponendo di recente un bilancio di trent’anni di bioetica, denunciava una distorsione sistematica dello sguardo che ha per oggetto l’infanzia:

“I problemi legati ai minori rappresentano un esempio significativo della modalità con cui alcune tematiche sono state ignorate. Dopo aver analizzato ciò che la letteratura bioetica ha detto negli ultimi cinque anni a proposito di minori, ho scoperto che il 95% riguardava il consenso del minore e il consenso per il minore. La bioetica nel suo complesso ha trascurato molte altre questioni legate ai minori, quali l’abuso fisico, sessuale e psicologico dei bambini in tutto il mondo e l’assenza di cure adeguate che hanno comportato lesioni, malattie e minacce per la vita stessa dei bambini. La vera ragione di questa negligenza deriva dal fatto che la bioetica era imprigionata in una struttura concettuale altamente restrittiva, dominata dal principio di autonomia che ha escluso ogni considerazione sul vissuto esperienziale del minore, dei suoi familiari e di coloro che lo assistevano. C’è, inoltre, un’ulteriore ragione per spiegare questa esclusione. La riflessione bioetica è stata costruita, sia dal punto di vista filosofico che scientifico, su un modello conoscitivo di natura scientifica, non comparabile con le ragioni e la logica che plasmano la nostra comprensione del significato socio-culturale dell’esperienza del minore e delle altre persone deboli. Il modo in cui il modello scientifico ha negativamente influito sulla nostra comprensione dei minori e delle persone

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vulnerabili in genere spiega anche perché siano state escluse altre esperienze morali rilevanti in altri campi della bioetica contemporanea” 2.

La proposta di Warren Reich è quella di ripensare la bioetica stessa a partire dall’infanzia (e da altre condizioni umane di fragilità), piuttosto che considerare la bioetica della vita agli inizi come un capitolo separato di un sistema bioetico costruito a misura di persone nel pieno della loro autonomia. Su questa linea di sviluppo ci conduce il documento programmato del Comitato Nazionale per la Bioetica: Bioetica con l’infanzia, 1994.

Già il titolo stesso qualifica la riflessione bioetica che intende proporre non come riferita a un “oggetto” (identificato nella natura, o in casi patologici, in scelte tragiche o in nuove tecnologie), ma a un “soggetto”: il minore. “I minori cui si fa riferimento nel documento non sono i futuri adulti; sono persone in sé, che partecipano alle dinamiche relazionali di cui è intessuta l’esperienza intersoggettiva”. La bioetica con l’infanzia proposta non discende da una “metafisica dell’innocenza” ― ovvero del riconoscimento del fatto che i minori sono soggetti costitutivamente deboli ― quanto dall’esigenza che si sappia correttamente impostare le dinamiche relazionali che li coinvolgono:

“La bioetica che è in gioco non è il decidere dei singoli, quanto il loro entrare in relazione, il loro costruire dinamiche relazionali antropologicamente vere, capaci di dare cioè senso all’esistere. Le dinamiche relazionali tra adulti e minori, proprio perché costitutivamente asimmetriche sul piano dell'equilibrio delle forze, delle pretese, della stessa esprimibilità linguistica, costituiscono il prototipo (almeno in senso cronologico, ma probabilmente in senso ontologico) delle relazioni umane tout court”.

Anche se la proposta metodologica del Comitato Nazionale per la Bioetica ha avuto più il carattere di una dichiarazione di intenti che di un programma di esplorazione metodica dell’orizzonte che si apre a una bioetica

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che faccia proprio il paradigma dell’infanzia, cercheremo di farne tesoro nelle considerazioni seguenti. Tra i numerosi problemi che pone il trattamento medico dei piccoli, ne evidenziamo tre: la raccolta di informazioni biologico-genetiche sul nascituro; il trattamento dei neonati affetti da gravi handicap; l’informazione e il consenso dei minori nelle decisioni che li riguardano.

Prima della nascita: sapere o ignorare?

I molteplici usi delle indagini genetiche prenatali evocano diversi scenari. Ognuno di essi ha significati medici e sociali specifici, e anche implicazioni morali diverse. Il primo scenario è quello della cura. È quello più tradizionale in medicina, anche se del tutto nuova è la possibilità di curare qualcuno prima che venga al mondo. È un’ipotesi che segna una vistosa differenza nei confronti della pratica impotenza della medicina ostetrica del passato. I momenti di maggior tensione emotiva ― e anche etica ― che questa conosceva erano legati al dilemma: “la madre o il bambino?”. Nell’impossibilità pratica di salvare l’uno e l’altro, si profilavano scelte tragiche.

Il senso comune propendeva per privilegiare la vita della madre, anche se i moralisti più rigorosi non trovavano argomenti per avallare l’uccisione attiva del feto, per salvare la madre. La scomparsa di conflitti di questo genere è un indicatore chiaro dei progressi tecnici fatti dalla medicina ostetrica e neonatologica. Non solo: oggi la medicina può trattare il bambino anche nella fase di vita intrauterina, anche con interventi chirurgici, conferendogli lo status di paziente prima ancora di essere partorito. A questo scopo è finalizzata la diagnosi prenatale.

Bisogna tuttavia riconoscere che le finalità di cura sono state rapidamente sopravanzate da quelle relative alla prevenzione. Questa è la categoria che giustifica l’inserimento delle diagnosi prenatali nelle politiche di sanità

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pubblica. Così ― per riferirci a una formulazione autorevole per il nostro Paese ― il Piano Sanitario Nazionale per il triennio 1998-2000, nel considerare le fasi della vita e della salute che richiedono una speciale protezione, individuava il momento critico della procreazione. Tra gli obiettivi proposti sui quali la sanità pubblica era chiamata a impegnarsi c’era quello di “favorire programmi di prevenzione e controllo delle malattie genetiche dazione appropriata, secondo il documento programmatorio, consiste nell’“assicurare interventi preventivi di provata efficacia in epoca pre- e perinatale”.

Questa prospettiva implica un vigoroso governo clinico della diagnostica prenatale. Le indagini devono rimanere sotto il controllo dei medici, che sono responsabili dell’uso appropriato dei test. È compito medico la valutazione dei rischi e dei benefici connessi con le diverse metodiche. I criteri suggeriti dalle diverse società medico-scientifiche sono finalizzati a evitare interventi diagnostici non strettamente necessari. È questa la raccomandazione del Comitato Nazionale per la Bioetica espressa nel documento Diagnosi prenatali (1992):

“Si deve escludere in ogni caso un uso indiscriminato e non giustificato da una vera e propria indicazione medica, pur nell’ampiezza che ha assunto oggi questo concetto. La donna dovrà quindi essere informata sia sui rischi che sulle alternative possibili, così da prestare un consenso libero e pieno. L'informazione dovrà riguardare anche e diffusamente il coinvolgimento del feto, essendo primario interesse della donna di conoscerne il destino” 3.

Anche le Linee guida per i test genetici proposte dal gruppo di lavoro istituito presso l’istituto Superiore di Sanità (1998) insistono sul governo clinico dell’offerta dei test in fase prenatale, stabilendo due principi:

- “I test genetici scientificamente validati e di provata utilità clinica devono essere accessibili a tutti coloro per i quali vi è una indicazione, indipendentemente dalla possibilità di sostenerne le spese e dalla copertura assicurativa".

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- “La richiesta, da parte di uno dei genitori, di un test genetico sul feto al fine di accertare una condizione non patologica non deve essere accolta, a meno che la condizione non sia connessa con un aumentato rischio di malattia per il feto” 4.

La spiegazione che il documento fornisce di quest’ultimo principio è molto istruttiva. Il riferimento alla generica “condizione non patologica” viene esplicitato come una richiesta di informazioni relative al sesso del feto: “L'accertamento del sesso del nascituro è stato utilizzato nella prevenzione di patologie genetiche legate al cromosoma X per le quali non si disponeva ancora di test specifici. Questa analisi ha perso di interesse a seguito dei progressi nella mappatura dei geni-malattia. Tuttavia, esso si presta a usi impropri, come la selezione del sesso dei figli per finalità socio-economiche o affettive. Esiste un generale consenso internazionale nel vietare questo uso improprio della diagnosi prenatale”.

L'annotazione permette di cogliere i confini sfumati tra la finalità terapeutica delle diagnosi prenatali (individuare una patologia in atto nel feto, per poterla curare tempestivamente) e la prevenzione. Anche quest’ultima, a sua volta, subisce una trasformazione di significato. In medicina si parla di prevenzione, in senso generale, quando si adottano comportamenti che mantengono la salute e impediscono l’insorgenza di malattie. La prevenzione riferita alla diagnostica prenatale tende invece a essere intesa come un’azione rivolta a impedire la nascita di bambini portatori di malformazioni o di patologie, avviando tempestivamente interventi abortivi. Evidentemente siamo qui di fronte a un cambiamento sostanziale del concetto di prevenzione. Quando poi con l’accezione allargata di prevenzione si lascia intendere che si vuol sottrarre alla famiglia e alla società il peso di un disabile, prevenendo la sua nascita, la prevenzione viene di fatto a coincidere con un programma di eugenetica.

Ma anche questo terreno della prevenzione è scivoloso e tende a sfociare nella richiesta di conoscenze non riferite alla patologia, ma a condizioni ritenute desiderabili dalla coppia genitoriale. Avere un figlio dell’uno o dell’altro sesso è l’esempio più chiaro degli “usi impropri” ai quali si può prestare

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la diagnostica prenatale. L'aumento delle conoscenze che si possono ricavare dall’esame di un corredo genetico di un embrione ha creato aspettative a tutto campo. Oltre a conoscere lo stato di salute attuale, si richiede di sapere se è portatore di malattie genetiche a insorgenza tardiva, nonché dati relativi a caratteristiche personali (dal sesso al quoziente intellettuale). Dalla medicina ci si aspetta che risponda alla “bulimia conoscitiva” della nostra società, sfociando in una vera e propria capacità di predizione. La risposta appropriata a questa tendenza incontrollata ad avere tutte le informazioni possibili potrebbe essere la proposta di un “ascetismo conoscitivo”.

Con il termine “ascetismo” vogliamo indicare un atteggiamento di deliberata rinuncia alla fruizione di cose lecite, per un fine spirituale. Possiamo applicare la nozione non solo al cibo e ad altre condizioni di comfort corporeo, ma anche alle conoscenze che si possono acquisire. Il tema è presente nella letteratura. Lo sviluppo più noto lo troviamo nei Canti 42 e 43 dell’Orlando Furioso. Un cavaliere che ospita Rinaldo in fine di cena invita il suo ospite a bere in un bicchiere che ha, per via di magia, una singolare proprietà: il marito la cui moglie gli sia infedele non può bervi, perché il vino gli si verserebbe sul petto. Rinaldo ha già in mano il bicchiere e sta per accettare la prova; ma ci ripensa, dichiarando che l’uomo, per voler conoscere troppe cose, si priva della sua felicità e tranquillità:

lasciarti star mia credenza come stasse.

Sin qui m’ha il creder mio giovato, e giova;

che poss’io migliorar per farne prova?”.

Il cavaliere loda la decisione di Rinaldo, che, a differenza di tanti altri ospiti, ha rinunciato a una conoscenza che avrebbe potuto avere:

Tu tra infiniti sol sei stato saggio,

che far negasti il periglioso saggio”.

Il tema è ripreso anche da Cervantes nel Don Chisciotte della Mancha, nel

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Capitolo 33, con la novella chiamata del “Curioso impertinente” (tradotto come “il Curioso fuor di luogo” o “l’incauto sperimentatore”). Riferendosi alla prova del bicchiere di Rinaldo, Cervantes osserva: “Per quanto questa non sia che una finzione poetica, racchiude in sé segreti morali degni di essere rilevati, intesi e imitati”.

L'ascetismo conoscitivo si può estendere oggi a ben altri ambiti che alle infedeltà coniugali. Possiamo conoscere ― senza far ricorso alla magia, ma alla scienza ― con buona approssimazione il nostro futuro patologico. Una saggezza analoga a quella di Rinaldo potrebbe indurci a rinunciare ad acquisire conoscenze dalle quali la nostra vita non riceverebbe nessun miglioramento. Ma oggi far valere il “diritto di non sapere” non è facile: limitare le conoscenze che si possono acquisire non è più considerato un comportamento accettabile ― o addirittura lodevole ― ma viene socialmente sanzionato come un comportamento colpevole.

Nella visione religiosa tradizionale la malattia era suscettibile di essere associata con sensi di colpa in quanto patologie e handicap erano considerati come punizioni di peccati. Nella visione laica e secolarizzata della medicina il senso di colpa viene mantenuto vivo attraverso altri percorsi. Le campagne di educazione sanitaria, ad esempio, non sono una neutra esposizione di fatti; per convincere a modificare comportamenti e abitudini dannose per la salute, non esitano a ricorrere a sottili forme di manipolazione. I più efficaci programmi “educativi” riescono a far sentire in colpa o a disagio il soggetto quando assume comportamenti giudicati non sani. Oppure quando non fa quanto è in suo potere per prevenire malattie e handicap.

La società che considera la malattia come una colpa era stata anticipata, in chiave parodistica, nel celebre romanzo di Samuel Butler: Erewhon (1872) 5. Nella sua visione utopica di un mondo capovolto, il malato era indotto a sentirsi colpevole per la sua malattia; e ciò appunto “per prevenir il diffondersi del decadimento fisico e delle malattie”, come spiega il giudice che nel Capitolo XI del romanzo condanna il malato per “il grave delitto di tubercolosi

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polmonare”. Oggi il fenomeno della colpevolizzazione del malato si designa con il termine inglese victim blaming, che indica appunto un atteggiamento di disapprovazione riferito alle vittime delle vicende morbose, in quanto ritenute responsabili di quanto è loro capitato.

In epoca di medicina preventiva ogni deficit alla nascita tende a essere attribuito a una omissione in qualcuna delle fasi della catena delle decisioni riproduttive. La fisiopatologia della riproduzione sta modificando il concetto stesso di normalità, in quanto tende a identificarlo con la perfezione: se il bambino alla nascita non è sano (o perfetto), i genitori non vengono compianti, ma più o meno apertamente accusati di trascuratezza. Per opporsi a questa tendenza i genitori del nostro tempo hanno bisogno, oltre che di una forte motivazione personale a valorizzare le vite che nascono dal loro progetto riproduttivo, indipendentemente da ciò che la società li induce a considerare come vita accettabile, anche di un forte sostegno di operatori sanitari orientati nella stessa direzione.

Trattare o non trattare i neonati malformati?

Si è affacciata appena alla vita. Il freddo con cui è stata accolta non le ha permesso di restare sulla terra che pochi giorni. Eppure ha lasciato una traccia importante, a cominciare dal suo nome: la bambina Doe (Baby Doe). Anche dopo vent’anni ― la vicenda che la riguarda ha avuto luogo nel 1982, negli Stati Uniti ― è un punto di riferimento. Era nata con sindrome di Down ― mongolismo ― e con una fistola tra la trachea e l’esofago. I genitori furono informati che il difetto poteva essere corretto chirurgicamente, “con normale possibilità di successo”; se invece non si fosse fatto l’intervento sulla fistola, questa avrebbe condotto in poco tempo la bambina alla morte per inanizione o per polmonite. I genitori, che avevano già due bambini sani, decisero di non fornire alla neonata né cibo, né trattamento chirurgico; preferivano che “la natura facesse il suo corso”. La bambina

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morì sei giorni dopo la nascita, mentre i medici cercavano di ottenere dal tribunale un’autorizzazione a procedere chirurgicamente. I genitori furono incriminati.

Un mese più tardi il Dipartimento per la Salute e i Servizi umani americano inviò una circolare a tutti gli ospedali che ricevevano fondi federali per ricordare che “è illegale [...] non somministrare a un bambino affetto da handicap le sostanze nutritive e il trattamento medico e chirurgico necessario per correggere delle condizioni che minacciano la vita, se: 1) l’astensione è basata sul fatto che il bambino è handicappato; 2) l’handicap non rende il trattamento e la nutrizione controindicate dal punto di vista medico”. Queste indicazioni sono ancor oggi ricordate come “regolamentazioni Baby Doe”.

La storia di Baby Doe ha un forte impatto emotivo, in quanto rievoca il fantasma del programma eutanasico realizzato dal regime nazista. Vittime del programma furono, oltre ai lungodegenti degli ospedali psichiatrici, molti neonati con deficit genetici. La differenza tra lasciar morire e porre fine attivamente alla vita, nonché tra una decisione presa dallo Stato oppure dai genitori, non modifica la sostanza del problema: si tratta di una selezione fatta alla nascita tra le vite “degne di essere vissute” e quelle che non corrispondono a questo criterio. Le “regolamentazioni Baby Doe”, frettolosamente predisposte dal governo federale americano, sembrano nascere dal malessere che suscita il pensiero che si possa, in qualche modo, incamminarsi per la stessa strada.

Il programma eutanasico nazista a cui sono stati sacrificati i neonati portatori di handicap, a lungo rimosso, tende a riaffiorare in superficie. Il dolore di una madre, che si è vista togliere e “pietosamente uccidere” dalle autorità sanitarie naziste il proprio bambino, la cui colpa era quella di essere nato con la sindrome di Down, riemerge dopo molti anni attraverso una storia romanzata: Il piccolo Adolf non aveva le ciglia 6. Il racconto è stato scritto da Helga Schneider, che ha raccolto le memorie della madre reale del piccolo Adolf (la mancanza di ciglia è uno dei segni che annunciano il mongolismo del neonato). Non meno inquietante del clima dell’epoca,

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con lager camuffati da cliniche e programmi di uccisione spacciati per cure specialistiche, è la rievocazione delle granitiche convinzioni ideologiche trasmesse dal regime. Partecipare alla soppressione di vite senza valore era considerato un atto che esprimeva alte virtù civiche. Nel racconto di Helga Schneider il padre del piccolo Adolf ― un fanatico nazista che aveva dato a suo figlio il nome del Führer ― quando si rende conto che il bambino è affetto da handicap si dichiara orgoglioso di obbedire a un ordine che prevede l’eliminazione dell’infante: “Sono lieto di vivere in una nazione che si assume il carico morale, politico e pratico, di sollevare i propri cittadini da certi impegni gravosi che condizionerebbero negativamente il resto della loro vita".

È opportuno diventare consapevoli che le decisioni da prendere quando nasce un bambino affetto da gravi handicap non saranno mai serenamente razionali: interferiscono pesantemente le emozioni, soprattutto quelle evocate dalla possibile somiglianza di queste decisioni con quelle teorizzate o praticate da programmi esplicitamente eugenici. Tuttavia non possiamo lasciarci guidare unicamente dalle emozioni. Se analizziamo lo scenario che ci offre la neonatologia attuale, non possiamo ignorare i numerosi nodi conflittuali che si concentrano intorno al bambino già nato, la cui vita dipende esclusivamente dall’intervento medico. La protezione e il sostegno della vita sono sempre e assolutamente giustificati? C’è un punto in cui possono rivolgersi contro il migliore interesse di colui a cui sono rivolti, diventando disumani? Il diritto alla vita è anche obbligo alla vita, in qualsiasi condizione? Tra i principi etici e gli interessi in conflitto, è possibile trovare un orientamento di soluzione?

È necessario in primo luogo cogliere la novità di questa problematica. Fino a un passato molto recente, la situazione dei bambini che nascevano con gravi malformazioni si risolveva molto rapidamente con la morte. In futuro ― ci sentiamo autorizzati a credere ― i progressi della medicina potranno offrire trattamenti efficaci e risolutivi, addirittura prima che il bambino nasca, con terapie intrauterine. Ma nella fase intermedia, in cui ci troviamo,

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la presente situazione sanitaria pone dilemmi angosciosi ai genitori, ai medici, alla società civile.

Molti neonati malformati possono, grazie a un’attenzione chirurgica o medica di routine, rimanere in vita. Sopravviveranno magari per lunghi periodi, ma gravemente handicappati nel loro potenziale di soddisfazione umana e di comunicazione. Pensiamo ai casi di malformazioni aperte della colonna vertebrale (“spina bifida”), in seguito alle quali i bambini non saranno mai in grado di camminare o di controllare la vescica e l’intestino. Oppure ai neonati che, per lesioni cerebrali da mancata ossigenazione o da emorragia, saranno completamente spastici, incapaci persino di muoversi nel letto. Oppure ai bambini affetti da grave idrocefalia, che comporta ritardi mentali profondi e cecità. In certi casi è possibile essere assolutamente certi dell’esito infausto; in altri, invece, la prognosi è incerta. Inoltre coloro che soffrono di menomazioni usufruiranno dei benefici della medicina che prolungheranno loro la vita. È appurato, ad esempio, che tra i bambini Down affetti da un difetto cardiaco, i quali resistono già con gli antibiotici ad affezioni un tempo mortali, uno su tre vedrà il proprio cuore corretto con un intervento chirurgico.

La morale pubblica ufficiale ― quella rappresentata dalle leggi, dai codici deontologici medici, dalle posizioni morali religiose ― afferma il principio della difesa della vita e inorridisce di fronte all’ipotesi di scelte come quelle che nell’antichità classica avevano adottato gli spartani, di lasciare morire i non adatti. Ma se si passa da ciò che si predica a ciò che si pratica, la divaricazione è notevole. È vero che sono pochi i casi in cui positivamente si decide di sopprimere un neonato o di lasciarlo morire con un procedimento di eutanasia passiva; tuttavia sempre più raramente l’assunzione del compito di far crescere un handicappato fisico o psichico profondo è considerata un valore. Socialmente prevale un atteggiamento contrassegnato dall’ipocrisia, per cui a un’affermazione formale di tutela della vita, in tutte le sue forme, non fa assolutamente riscontro un efficace sostegno alle famiglie che si trovano schiacciate dai problemi dell’assistenza, abbandonate

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in una società in cui dominano incontrastati i modelli competitivi che non lasciano posto a chi si trova sotto lo standard, sprovviste di adeguati sussidi medico-pedagogici.

La prassi medica, abitualmente guidata dal principio di “fare il bene del paziente”, che si traduce nell’impegno a conservare la vita e a vincere le malattie, si trova confrontata con la possibilità che la sua opera non sia un “beneficio” per l’interessato. Come ai tempi di Ippocrate, anche attualmente la prima regola della condotta medica è di non procurare del male: primum non nocere; ma oggi il “fare un danno” può essere più sottile che in passato. Può addirittura passare attraverso il suo apparente contrario, cioè le tecnologie che salvano la vita.

La scelta etica non può prescindere da una riflessione antropologica: qual è il meglio, e per chi? Qual è l’interesse del bambino, della sua famiglia, della società? Il migliore interesse del bambino sembra includere, a priori, la conservazione della vita. Ma questa certezza comincia a incrinarsi se si considera anche la sua futura qualità della vita, che comprende il benessere fisico, la capacità intellettuale e l’adattamento sociale. Se si vuole prendere in considerazione questa prospettiva, non si può più procedere aprioristicamente; bisogna piuttosto considerare in modo differenziato le diverse categorie di deficit che si presentano alla nascita.

Due sono le principali variabili: la qualità della vita mentale associata all’handicap fisico e la speranza di vita. Completamente diverso appare, per esempio, il profilo di un caso con difetto fisico in condizioni statiche (come cecità, deformità ecc.) associato a intelligenza normale, e quello di condizioni fisiche progressive, non trattabili, associate a grave ritardo mentale. In questo caso il vigore della lotta contro l’inevitabile morte precoce non può essere paragonabile a quello richiesto da un’affezione fisica non progressiva. E ciò senza mettere in discussione il principio del valore di ogni vita umana.

Parlando degli interessi in conflitto, bisogna tener presenti le diverse parti in causa. Quando si prende una decisione “nell’interesse del paziente” ―

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― in questo caso di un paziente che non è in grado di parlare per sé e di esprimere le sue preferenze ― si fa sempre un’opera di interpretazione. In pratica, equivale a domandarsi: se fosse in grado di esprimersi, il bambino che si trova in quelle condizioni chiederebbe l’impiego di sistemi artificiali di prolungamento della vita? Dicendo che la qualità della vita del bambino sarà tollerabile o intollerabile, noi proiettiamo di fatto la nostra esperienza. Questo processo ci può portare anche molto lontano dalla reale esperienza dell’interessato.

Rimane comunque l’angosciosa situazione di dover prendere delle decisioni che riguardano un’altra persona, quella del bambino, con il rischio che questi possa trovare la qualità della sua vita assolutamente inaccettabile. Si immagini la situazione che si crea nei casi di poliomielite acuta, quando si salvano mediante il polmone di acciaio bambini i cui muscoli respiratori sono paralizzati, e che quindi per la loro esistenza dipenderanno perpetuamente da una macchina. Oppure l’incontinenza fecale persistente presso un’adolescente che fu salvata alla nascita, ma il cui sfintere anale fu perduto nell’operazione di salvataggio... “E se un giorno ci maledicesse per averlo fatto vivere?”, si domanderanno angosciosamente alcuni genitori.

L'interesse della famiglia è più difficile da esprimere. Ci può essere una vera resistenza ad ammettere che l’impegno ad assistere un bambino gravemente handicappato può essere sentito come un gravissimo peso rispetto agli altri figli, alla vita coniugale, alla situazione economica della famiglia. Dimostrerebbe, comunque, ben poca empatia chi ritenesse che, dal punto di vista dei genitori, non possono esistere seri motivi per negare il trattamento; oppure chi volesse colpevolizzare le famiglie per aver, magari con lo spirito straziato, preso una tale decisione. Un vero dilemma sorge per il medico quando la famiglia, valutando che i propri interessi abbiano maggior peso degli interessi del neonato, abbia optato per il non trattamento. Anche gli interessi della società non vanno minimizzati. È chiaro che la decisione dei medici e dei genitori sarà fortemente condizionata dalle risorse pubbliche disponibili per l’assistenza e l’educazione dei bambini handicappati.

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Se la società vede il proprio interesse esclusivamente nel favorire le forme di vita più adattate, secondo un giudizio di valore che privilegia l’efficienza e la produttività, l’interesse affettivo dei genitori a far vivere il proprio bambino, anche se handicappato, si scontrerà con le scelte sociali. Solo gli interessati possono valutare se hanno possibilità di reggere il confronto con una società, o se rischiano di soccombere in un conflitto impari. Con spirito realistico va ricordato che le risorse per l’assistenza a lungo termine sono scarse in tutto il mondo. Di fronte all’alternativa se impiegare somme ingenti nell’assistenza, o impegnarsi nella prevenzione della nascita di bambini malformati, la scelta di qualsiasi politica cadrà inevitabilmente sulla seconda ipotesi.

Chi deve prendere la decisione se curare o lasciar morire un neonato gravemente malformato? Dal momento che il bambino non può decidere per se stesso, la decisione sulla sua vita spetta ad altri. Il medico ha più informazioni: sa, ad esempio, la qualità di vita che spetta a un bambino affetto da “spina bifida” o il decorso di una malattia a prognosi infausta. Nell’insieme i medici sono piuttosto inclini, per l'ethos professionale e per i possibili risvolti penali del non-trattamento, ad attenersi a una linea di intervento a ogni costo. Dal momento che negare il trattamento è illegale (anche dare consigli o fare raccomandazioni ai genitori perché si orientino a mettere fine alla vita del bambino può esporre il medico a un processo con imputazione di concorso in omicidio), il medico, anche se volesse porgere ascolto al desiderio dei genitori, non può rinunciare ad applicare misure eccezionali per salvare la vita del figlio neonato.

I genitori sono raramente in grado di decidere serenamente. Lo shock, insieme a sentimenti di colpa, vergogna e collera, li paralizza; tendono ad affidarsi al medico, pur sapendo che le conseguenze maggiori del trattamento o della sua omissione ricadranno su di loro. Nei paesi anglosassoni si fa talvolta ricorso in questi casi ai comitati etici. Senza pretendere che questi costituiscano un’istanza etica superiore, alla quale medici e genitori possano, deresponsabilizzandosi, demandare le decisioni, non si può negare che tale

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organo possa apportare un punto di vista più imparziale e offrire un servizio a coloro cui spetta il peso della decisione.

Un altro espediente è quello di nominare un difensore che rappresenti gli interessi del bambino nelle discussioni tra genitori e medico. Anche questo sistema può essere utile, purché non comprometta il rapporto tra medico e genitori, che deve basarsi sulla riservatezza e la fiducia. Il ricorso a terzi, tuttavia, dovrebbe avere sempre il carattere di consulenza. In ultima istanza, la decisione deve provenire dalla diade medico-genitori, chiamata a decidere, caso per caso, che cosa si deve fare e che cosa è opportuno omettere.

Qualora la decisione di non sottoporre a trattamento un neonato malformato sembri la più appropriata, subentrano i problemi etici connessi con l’eutanasia. Anche se si valuta il non-trattamento come equivalente a un atto di eutanasia passiva e non attiva, sarà molto difficile giustificare gli sforzi fatti per mantenere in vita un neonato che si è deciso di lasciar morire; porre fine direttamente alla vita, evitando sofferenze inutili, sembrerà facilmente la soluzione più umana all’interno di una scelta che, secondo altri parametri legali ed etici, va considerata disumana: probabilmente, “la scelta migliore fra scelte peggiori”. Sapendo, tuttavia, che in questo caso agire come si ritiene corretto secondo coscienza vuol dire andare contro la legge, ed essere esposti ai suoi rigori.

Coinvolgere i bambini nelle scelte terapeutiche?

Il consenso informato in pediatria è un tema che va oltre l’interesse professionale dei medici che hanno a che fare con bambini e adolescenti.

Riflettere su questo aspetto della pratica del consenso è un test cruciale per
tutti i sanitari, quale verifica critica del loro modo profondo di pensare il consenso: tendono a farlo gravitare nell’orbita giuridico-difensiva o in quella clinica? Usano il consenso come misura di autotutela o come strumento

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per stabilire una migliore relazione con il paziente, in vista di una pratica medica che risponda alle esigenze della modernità? Per dirlo in estrema sintesi: mentre la medicina paternalistica tende a trattare gli adulti come bambini, l’introduzione del consenso informato in pediatria mira a considerare anche il bambino come un adulto (almeno in misura proporzionale alla maturità raggiunta).

Il Comitato Nazionale per la Bioetica nel documento Informazione e consenso all’atto medico (1992) lancia una sfida ancora più difficile: nel paragrafo dedicato al consenso informato in pediatria 7 invita a considerare questo aspetto del consenso non come un caso particolare, con caratteristiche del tutto peculiari, del consenso informato ottenuto con gli adulti. Propone, invece, la cultura pediatrica, in quanto capace di “dare un contributo alla cultura del consenso informato”, trasponendo in un ambito più generale ciò che i pediatri sanno, grazie al loro rapporto con bambini e adolescenti. Il che implica di spostare l’accento dal consenso alla comunicazione. È proprio nell’ambito comunicativo che la pediatria è più ricca di insegnamenti.

In termini strettamente giuridici, potremmo pensare che nel caso di minori sia completamente fuori luogo parlare di consenso informato. Per la tradizione giuridica, infatti, fino alla maggiore età la persona è considerata incapace di esercitare personalmente i diritti di cui è titolare. Questi vengono esercitati da un “legale rappresentante”: normalmente i genitori, oppure ― nel caso in cui siano deceduti o decaduti dalla potestà ― da un tutore nominato dal giudice. Questo schema lineare era perfettamente adeguato finché i beni che la legge intendeva tutelare erano quelli patrimoniali: il codice garantiva la gestione dei beni del minore, mentre tutti gli altri suoi interessi erano affidati alla “patria potestà”. Il pratica, era il padre ― non i genitori, si noti bene, ma il padre: il paternalismo tradizionale privilegiava la figura maschile e non attribuiva lo stesso valore alla volontà della madre ― che deteneva il potere e prendeva le decisioni per il bene del figlio minore. Naturalmente si correva il rischio che l’interesse perseguito fosse il

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proprio ― o della famiglia ― piuttosto che quello personale del figlio. Nelle società patriarcali (vedi le situazioni descritte da Padre padrone di Gavino Ledda) era piuttosto la regola. Il diritto, rispecchiando quella situazione culturale, non teneva conto dei beni personali ― come l’istruzione, la salute, l’autorealizzazione ― ma solo dei beni patrimoniali.

L'impostazione del diritto è cambiata negli ultimi decenni. La riforma del diritto di famiglia in Italia (1975) ha riconosciuto la pari dignità di tutti i componenti della famiglia (la potestà è dei genitori, non del padre). Inoltre il contenuto stesso di tale potestà è cambiato: essa è finalizzata alla cura e all’educazione dei figli “tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli” (art. 147 c.c.). La potestà riconosciuta ai genitori lo è esclusivamente nell’interesse dei figli, in relazione alla loro relativa maturità. Coerentemente con questa impostazione acquistano il massimo rilievo le responsabilità dei genitori nei confronti della salute dei figli.

Mentre è comprensibile una disposizione normativa che riconosca la capacità giuridica di gestire il patrimonio solo al raggiungimento di una data età (il diciottesimo compleanno!), non è pensabile di adottare questo schema per quanto riguarda i diritti personali. L'incapacità dei minorenni di riconoscere i propri interessi, esprimere preferenze e fare scelte è solo relativa: è proporzionale al grado di maturità. In particolare, va riconosciuto al minore il diritto alla tutela della salute, anche indipendentemente dalla volontà dei genitori, e il diritto di essere coinvolto, nella misura in cui è possibile e appropriato, nelle scelte che lo riguardano. Mentre per legge il diritto alla decisione autonoma è acquisito solo a 18 anni, la capacità di capire i problemi di salute che riguardano il giovane è presente prima di quella data (una lunga storia di malattia conferisce spesso una maturità maggiore di quella dei coetanei).

È vero che, in linea generale, ogni attività terapeutica che riguardi un minore richiede il consenso di chi esercita su di lui la potestà (i genitori) o la tutela (come avviene quando il magistrato revoca la potestà per incapacità

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dei genitori di decidere nel migliore interesse del minore). Ma, anche se formalmente il consenso deve essere chiesto agli adulti che hanno la legale rappresentanza del minore, questi non può essere ignorato. Dal momento che le scelte mediche riguardano suoi diritti personalissimi e inalienabili, la volontà del minore non può essere esclusa per principio. Nella misura in cui gli riconosciamo una personalità, con propri valori e preferenze, non è lecito privarlo del diritto di far sentire la sua voce in merito a scelte di importanza vitale determinante. In questo senso il consenso informato ha diritto di cittadinanza anche in pediatria.

Accontentarsi di acquisire il consenso ― da parte dei genitori o del tutore ― senza che si sia fatto quanto è possibile e necessario per coinvolgere il minore nel progetto terapeutico che lo riguarda, deve essere considerato lesivo della sua dignità. Talvolta la durezza della legge dovrà prevalere, come nel caso di rifiuto del consenso dei genitori a trattamenti per il minore che i sanitari giudicano necessari (caso più tipico e frequente è il rifiuto di trasfusioni sanguigne per i figli da parte di testimoni di Geova). I sanitari dovranno allora ricorrere al Tribunale per i minorenni, che disporrà le misure necessarie per limitare la potestà dei genitori che si traduca in danno alla salute per i figli. L'obbligo è esplicitamente previsto dal Codice deontologico dei medici italiani (1998): “Il medico, in caso di opposizione dei legali rappresentanti alla necessaria cura dei minori e degli incapaci, deve ricorrere alla competente autorità giudiziaria” (art. 29). Tuttavia le motivazioni che inducono i genitori a rifiutare le cure per i figli devono essere ascoltate con attenzione, sia dai giudici che dai medici.

Accettando l’invito del Comitato Nazionale per la Bioetica a non considerare il consenso informato in pediatria come un capitolo a parte ― o un caso eccezionale ― del consenso informato in generale, cerchiamo piuttosto di ripensare quest’ultimo a partire da quanto ci insegna il rapporto con bambini e adolescenti malati. Il punto di partenza non può essere che la consapevolezza della complessità dei rapporti che si stringono attorno a un bambino. Il bambino ― non meno che il consenso ― vive immerso

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in un tessuto di relazioni interpersonali, delle quali ha una immediata conoscenza intuitiva.

Il sapere relazionale del bambino è enormemente sviluppato. Sfrutta al massimo la comunicazione non verbale e sa raccogliere informazioni per vie che gli adulti non immaginano. Un esempio letterario ― ma più credibile di qualsiasi resoconto stilato da uno psicologo ― è fornito dal seguente dialogo, immaginato dallo scrittore Wolfdietrich Schnurre (fa parte di una raccolta che contiene ipotetici dialoghi tra bambini; in questo siamo indotti a immaginare

Camera singola

Che cosa hai?

Qualcosa di latino. E tu?

Non ho più l’appendicite

Io ce l’ho ancora

Che cosa fai qui?

Io muoio

Quando?

Presto

Accidenti. E fino ad allora?

Sono contento di vivere ancora

Ce l’hai da molto tempo?

Abbastanza

Fa male?

È sopportabile

Come fai a saperlo?

Te ne accorgi

Nessuno te l’ha detto?

No; sono troppo vigliacchi

Fanno scena?

Si fanno in quattro

Sono radiosi?

Tutti. Dalle infermiere al professore

Hai ragione: questo è sospetto

Fa proprio vomitare

E i tuoi genitori?

Mio padre si limita a mandar giù in silenzio

E tua madre?

Non può farlo

Strano

Aspetta un bambino

Sta male?

Non è mai stata così bene

E allora perché non viene?

È troppo sensibile

Hai qualcosa contro i fratelli?

Al contrario: li ho sempre desiderati

E allora? Non sono venuti?

No: non li hanno voluti

E perché allora li vogliono adesso?

Indovina

che il dialogo si svolga sulla soglia di una camera d’ospedale, in cui un bambino fa visita a un altro che è ricoverato in una camera singola) 8: Sinteticamente, si è soliti designare la trama di rapporti che si stringono intorno a una persona malata come alleanza terapeutica. L'alleanza è tanto più efficace quanto più rispetta tutti i protagonisti nella loro specificità.

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Quando ha a che fare con il minore, il medico può sbagliare inclinando in due direzioni opposte: può dare o un peso eccessivo o nessun peso al ruolo che sono chiamati a svolgere i familiari. Nel primo caso, il medico delega i familiari a essere gli interlocutori con il minore, coloro che spiegano e fanno accettare le decisioni mediche. Il medico diventa così per il minore una figura distante, chiusa nell’ambito della professionalità. Nel secondo caso i sanitari tendono a escludere i genitori ― o per risparmiare loro il peso emotivo delle decisioni, o perché li ritengono un elemento di disturbo ― e a rivolgersi direttamente al minore, scavalcando le sue figure di riferimento. L'obiettivo a cui deve tendere l’alleanza terapeutica non è di dividere e contrapporre le figure coinvolte, ma di tenerle insieme. Non diversa dovrebbe essere la strategia anche nel caso di un consenso informato che ha come protagonisti degli adulti.

Un secondo elemento qualificante del consenso informato pediatrico è che non può limitarsi a un atto isolato, avulso da tutto il processo comunicativo. È la relazione che conta, e questa si costruisce con il tempo, mediante piccoli gesti e comportamenti apparentemente irrilevanti. Anche una piccola bugia o una reticenza di scarso rilievo possono compromettere la relazione con un bambino. E la relazione ― con il bambino, non meno di quella con l’adulto ― comincia con l’ascolto, prima che con l’informazione. Il clinico impara soprattutto con il bambino che per comunicare efficacemente (con tutto il groviglio di problemi che gli si pongono: che cosa dire e che cosa omettere; come spiegare; come trovare un accordo su quanto intende proporre) deve innanzi tutto ascoltare la persona alla quale vuole trasmettere le informazioni. In questo processo è artificiale distinguere le piccole decisioni dalle grandi: il processo comunicativo è unitario; può essere incrementato o compromesso anche da aspetti periferici rispetto a quelle scelte di grande rilievo che si ritiene esigano il consenso informato a sé stante. Il paradigma operativo che presuppone di considerare la comunicazione come un processo unitario è anche l’approccio più corretto per il consenso informato con gli adulti.

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In terzo luogo l’ambito pediatrico rende manifesto come sia facile scambiare il consenso con l’assenso. La comunicazione complementare (quella che si esprime nella relazione one up/one down) è quasi connaturata alla minore età e soprattutto all’infanzia. Finché si mantiene questo tipo di relazione è abbastanza agevole indurre chi sta in posizione subordinata a fare ciò che ha deciso ― per il suo bene ― chi occupa la posizione di potere sovrastante. Con le buone (seduzione, lusinghe, ricatti affettivi: il comportamento della Fata nei confronti di Pinocchio che non vuole prendere la medicina è l’esempio letterario più illustre) o con le cattive. La tentazione autoritaria è presente in medicina, così come in tutto il vasto ambito dell’educazione. Ma l’assenso così ottenuto è ben lontano dal consenso inteso come partecipazione attiva alle decisioni.

Nel documento Informazione e consenso all’atto medico troviamo un’opportuna differenziazione della capacità di arrivare a un consenso in base alle fasi di sviluppo cognitivo. Prima dei 6-7 anni non possiamo parlare di un consenso autonomo:

“Il consenso è in qualche modo concepibile tra 7 e 10-12 anni, ma sempre non del tutto autonomo e da considerare insieme con quello dei genitori. Solo entrando nell'età adolescenziale si può pensare che il consenso diventi progressivamente autonomo”.

Di conseguenza dopo i 7 anni va ricercato il consenso del bambino e dei genitori, e dopo i 14 è prioritario il consenso dell’adolescente. Dobbiamo considerare un fallimento clamoroso della gestione della decisione consensuale con un giovane se prevale la logica giuridica (a 18 anni meno un giorno non è autorizzato a prendere decisioni su di sé, mentre può farlo a compimento formale della maggiore età...), a danno dell’alleanza terapeutica, dell’insieme unitario del processo comunicativo, della conquista comune di un punto di accordo negoziato con il minore stesso.

A conclusione possiamo citare, come esemplare, il percorso fatto dai clinici

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dell’Associazione Italiana di Ematologia e Oncologia Pediatrica (AIEOP) per introdurre il consenso informato inteso come una più consapevole partecipazione del malato (dei genitori) alla comprensione e condivisione di una decisione in un ambito così delicato come le malattie oncologiche di bambini e giovani 9. Un ruolo centrale è riconosciuto al colloquio: un incontro che richiede tempo ― non inferiore alla mezzora, e spesso molto di più ― che è tuttavia compensato da un consolidato rapporto di fiducia che facilita i rapporti successivi con la famiglia.

Può essere utile riportare lo schema formale proposto dall’AIEOP per ottenere un consenso consapevole in oncologia pediatrica:

Colloquio:

1. in un ambiente riservato

2. con la presenza di:

- entrambi i genitori (o di chi ne fa le veci)

- il medico di famiglia (se gradito e disponibile)

- un operatore sanitario, preferibilmente l’infermiera caposala (non tanto come testimone ma come esperto che può rielaborare successivamente il colloquio con i genitori)

- il primario o un medico da lui delegato

3. vengono illustrate le opzioni possibili, con relativi vantaggi e svantaggi (nel colloquio dovrebbero essere fornite tutte le informazioni ritenute necessarie perché i genitori comprendano).

Che cosa annotare nel diario della cartella clinica:

- problema oggetto del colloquio

- sede dove è avvenuto il colloquio

- tempo di inizio e fine del colloquio

- nome e qualifica dei presenti

- breve sintesi e conclusione del colloquio (diagnosi, prognosi, alternative terapeutiche)

- la nota nel diario va firmata dal medico che ha eseguito il colloquio (possibilmente, a giudizio del medico ― ma non strettamente necessaria ― la firma dei genitori).

Segue

1. eventuale firma del documento ufficiale di autorizzazione (se esiste)

2. informazione e conseguimento di “assenso” del minore.

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BIBLIOGRAFIA

1 Reich W., Encyclopedia of Bioethics, NewYork, Macmillan, FreePress, 1978 e 1995.

2 Reich W., Dai principi alle persone: evoluzione (necessaria) della bioetica, Janus 2002; 8:9.

3 Diagnosi prenatali, Comitato Nazionale per la Bioetica, 1992.

4 Linee guida per i test genetici, Istituto Superiore di Sanità, 1998.

5 Butler S., Erewhon, Milano, Adelphi 1975.

6 Schneider H., Il piccolo Adolf non aveva le ciglia, Milano, Rizzoli 1998.

7 Informazione e consenso all’atto medico, Comitato Nazionale per la Bioetica, 1992, pp. 49-54.

8 Schnurre W., Ich frag ja bloss, Frankfurt, Kinder unter sich, Ullstein 1977.

9 AA.VV., Tutti Bravi. Psicologia e clinica del bambino portatore di tumore, a cura di R. Saccomani, Milano, Raffaello Cortina Editore 1998, p. 247.