Paternità/Maternità: fino a qual punto l’uomo può intervenire sulla natura?

Sandro Spinsanti

PATERNITÀ/MATERNITÀ: FINO A QUAL PUNTO L'UOMO PUÒ INTERVENIRE SULLA NATURA?

in Cellule, embrioni, uomini

Atti del Convegno organizzato dalla Biblioteca del Duomo di Pontedera (PT)

20 aprile 1985, Pisa - Ets Editrice, Pisa 1986

pp. 131-139

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Lo scandalo ci sarebbe, anche senza quel gran soffiare sul fuoco ad opera dei mass media e la pubblicità clamorosa che talvolta vien fatta ai protagonisti. Uno scandalo giustificato: quello che sta avvenendo nell’ambito della procreazione non ha antecedenti nella storia dell’umanità. La tecnologia applicata alla medicina sconvolge il nostro modo abituale di pensare la maternità-paternità e la figliolanza. Intorno alla procreazione le società hanno posto delle regole morali e delle norme giuridiche, che costituiscono come una griglia che protegge la delicata funzione di trasmettere la vita dagli abusi e dalla licenza. Le cose non sono sempre andate nel migliore dei modi: adultèri, procreazioni illegittime, disconoscimento dei figli sono storie vecchie quanto la memoria dell’umanità; ma nell’insieme ci si poteva accontentare. Le barriere che ai nostri giorni vengono infrante non sono più soltanto quelle del diritto e della morale, bensì quelle che sembravano più inamovibili, perché poste dalla biologia stessa. Per fare un figlio era pur sempre necessario un rapporto sessuale tra un uomo e una donna, per quanto clandestino e irregolare potesse essere. Oggi non è più così. Il legame tra sessualità, corpo e riproduzione si è sciolto. Inseminazione artificiale, fecondazione in vitro, dono del seme o dell’ovulo, trapianto degli embrioni, locazione dell’utero, inseminazione post mortem: le «vicende dell’amore e del caso», che erano il tradizionale bersaglio delle farse sul matrimonio, impallidiscono di fronte a ciò che i metodi di procreazione artificiale hanno reso possibile.

E pazienza se si trattasse solo di farse o di rebus per i giuristi

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(di chi è figlio il bambino concepito in provetta con l’ovulo di una donna, impiantato nell’utero di un’altra donna portatrice e partorito da questa, per essere consegnato alla committente?). Talvolta purtroppo le commedie sfociano in drammi. Succede, infatti, che il bambino, concepito per inseminazione artificiale ricorrendo al seme di un donatore anonimo, col consenso del marito, venga successivamente disconosciuto come proprio figlio da quest’ultimo: il bambino si troverà così a non avere padre. Ancor peggio, il bambino può venirsi a trovare nella situazione di non avere né un genitore maschile, né uno femminile. È successo in alcuni casi in cui il bambino, «commissionato» a una donna locatrice del proprio utero, è nato malformato ed è stato rifiutato tanto dai committenti, quanto da colei che lo aveva generato. In casi più benevoli il neonato è stato conteso dalla committente e dalla madre per procura, convertitasi alla maternità durante la gravidanza. Quanto basta, insomma, per convincere della necessità di intervenire con misure legislative in un campo così nuovo, soprattutto per tutelare i bambini procreati con i metodi artificiali.

Trovare leggi giuste e sagge è certamente un’urgenza del momento. Ancor più importante appare però l’inizio di una valutazione morale serena delle tecnologie applicate alla riproduzione. Proprio qui incontriamo invece le maggiori difficoltà. Quello che tende a prevalere è un giudizio emotivo, agitato da più o meno espliciti fantasmi. Il fantasma dello Splendido mondo nuovo del romanziere Aldous Huxley, tanto per citare il più noto. Già nel 1932 Huxley aveva ipotizzato un mondo costruito su premesse scientifiche. In questo Mondo Nuovo da incubo i bambini sarebbero stati prodotti artificialmente in bottiglia e condizionati biologicamente ai diversi ruoli a cui sarebbero stati adibiti nella società. Il risultato del progresso scientifico nell’utopia negativa di Huxley è un rigido totalitarismo e la completa disumanizzazione. È questo il mondo in cui la diffusione delle pratiche di tecnologia applicata alla riproduzione ci sta introducendo? Dopo la minaccia dei fisici, ecco spuntare quella proveniente dai biologi,

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accusati di contribuire alla distruzione dell'umanità con le loro manipolazioni del substrato biologico. Bisognerà dunque ammanettare i biologi?

Giustificate o no che siano le preoccupazioni degli umanisti che si interrogano sul futuro, questa angolatura rischia di travisare irrimediabilmente le pratiche di procreazione artificiale. La loro demonizzazione, in nome del fantasma del totalitarismo tecnologico, risulta irritante per coloro che sono coinvolti in queste pratiche. Le quali vogliono essere essenzialmente una risposta all’infertilità. Questa prospettiva getta un’altra luce sull’insieme delle procedure in questione. Bisogna tentare anzitutto di immaginare la portata di una sofferenza legata all’assenza di un bambino, quando è ardentemente desiderato. Per rimediare a questa tragica incapacità di generare, ci sono uomini e donne disposti a tutto. E questa non è solo una caratteristica dei nostri contemporanei. Viene spontaneo in questo contesto ricordare le mogli dei patriarchi biblici. Sara, sterile, ordina ad Abramo di darle un figlio unendosi alla propria schiava Agar: «Vedi, il Signore mi ha impedito di dare alla luce dei figli; va’, ti prego, dalla mia serva; forse potrò avere prole da lei» (Gen. 16, 1). Dopo due generazioni, la stessa strategia è ripetuta da Rachele. Il dramma intimo della sterilità è per lei ancora più drammatico: «Dammi dei figli — dice a Giacobbe — altrimenti ne morirò». E anche lei propone al marito: «Ecco la mia serva Bilha: unisciti a lei; essa partorirà sulle mie ginocchia e io pure avrò figli per mezzo di lei» (Gen. 30, 1-3).

La sofferenza spirituale per l’impossibilità di avere un figlio è dunque la stessa, oggi come ieri. Con in più, per gli uomini e le donne del nostro tempo, il rifiuto della frustrazione dei propri desideri e l’abolizione della parola «rassegnazione» dal vocabolario. Per chi vuole un figlio ad ogni costo, non c’è prezzo che lo trattenga. C’è chi paga un prezzo in lunghi ed estenuanti esami medici, peregrinazioni presso gli specialisti del mondo intero, operazioni chirurgiche ripetute. E c’è chi è disposto a pagare un prezzo in denaro. L’aspetto economico di certe maternità per procura è in sé un elemento secondario, che però suscita grande

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sensazione e rischia di monopolizzare tutto il discorso. L’opinione pubblica è rimasta molto scossa alla notizia che ci sono uomini che offrono il loro seme per l’inseminazione artificiale dietro compenso; e ancor più che delle donne si lasciano fecondare per conto di una donna sterile e si fanno pagare per portare il bambino fino alla nascita. L’immagine della maternità diventata una merce provoca uno shock: la concezione sacrale della madre, che fa parte del nostro retaggio culturale, viene brutalmente modificata. In un mondo dove tutto si compra e si vende, si vorrebbe che almeno la generazione dei figli rimanesse immune dal denaro. L’assunto implicito è che tutto ciò che dipende da rapporti di denaro sia corrotto, mentre la relazione gratuita fa cadere le obiezioni.

L’atteggiamento del rifiuto del denaro, in particolare per remunerare la madre sostituta, ha indubbiamente una parte di verità istintiva. È doveroso però ascoltare le controargomentazioni dei fautori della maternità per delega. I quali rifiutano l’etichetta svalutante di «uteri in affitto» affibbiata alle donne che accettano di portare un bambino per conto di una donna che non può farlo (per mancanza di utero, per esempio). In realtà, non si può parlare né di affitto, né di prestito. Si tratta di una donna che si separa per sempre da un bambino che ha portato, con cui ha scambiato delle informazioni biologiche e tessuto dei legami, che è vissuto in lei e ha risposto alle sue sollecitazioni. È una donna che si autorizza ad avere una gravidanza, una gestazione e un parto, senza accettare di essere madre dopo il parto. Questo, e non tanto il denaro che eventualmente entra nella transazione, è il cuore del problema.

Finora la maternità era un tutto composto di alcuni elementi concatenati: produrre un ovulo, essere fecondata, portare il feto per i nove mesi della gestazione e partorirlo, allevare il bambino. Ora è possibile scindere la sequenza che tradizionalmente costituiva il «fare un figlio». Donne diverse possono intervenire in ciascuna delle fasi; l’aspetto biologico si scinde da quello volitivo-affettivo-spirituale. È questa la vera posta in gioco, che modifica

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il modo abituale di concepire la maternità. Su questo tema dovremmo essere chiamati a confrontarci e a decidere se far entrare questa prassi nei nostri costumi, senza lasciarci troppo suggestionare dal ruolo, tutto sommato secondario, che può giocarvi il denaro.

Qualora si accettasse la separazione tra l’elemento biologico e quello relazionale nella maternità, non è detto che il denaro avrebbe necessariamente una funzione del tutto negativa. Un rapporto quasi anonimo tra donatori e riceventi, sanzionato da un compenso economico per un servizio reso o come indennizzo che copra le spese di maternità e la perdita del lavoro professionale, potrebbe evitare gli inconvenienti di una relazione troppo stretta e invischiante.

Ma prima di dibattere sui vantaggi del far entrare il denaro nella procreazione, dovremmo avere chiare le conseguenze, a breve e a lunga scadenza, del primato dato alla generazione attraverso il cuore e lo spirito. Le maternità sostitutive dietro pagamento non fanno che rendere più esplicito un fenomeno che è già ampiamente presente nella nostra società: la disponibilità di alcune persone a passare sopra alla paternità-maternità biologiche, a favore di quella adottiva, educativa, affettiva. È un atteggiamento al quale viene attribuito un carattere di nobiltà, quando si esprime attraverso l’adozione, oppure di turpitudine, quando ricorre all’acquisto illegale di un bambino da rendere proprio figlio. La compravendita dei neonati è un fenomeno sommerso, ma tutt’altro che raro. Diminuite o rese più difficili giuridicamente le possibilità di adozione, la volontà di avere un figlio a ogni costo non recede neppure di fronte a pratiche condannate dalla legge e dalla sensibilità morale comune. La società, chiamata a decidere se dare o no diritto legale di cittadinanza alle nuove tecnologie riproduttive, si trova confrontata in primo luogo non con l’avidità e il cinismo dei mercanti, ma con il desiderio esasperato di maternità-paternità, disposto ad ignorare i legami che una volta si dicevano della carne e del sangue, e che oggi si chiamano genetici, a favore dei legami del cuore.

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Che la generazione spirituale sia possibile lo dimostrano gli innumerevoli casi di adozione felicemente riuscita. E non saranno certo i cristiani a dimenticarlo, che hanno in Gesù e nella «Sacra Famiglia» la più clamorosa trasgressione alla concezione biologica della generazione! Le nuove pratiche ci inducono a riflettere più profondamente sull’adozione che è implicita in ogni processo generativo. Intanto perché un padre e una madre che mettono in comune la metà del proprio patrimonio cromosomico per avere un figlio non ottengono mai un bambino come copia identica di sé stessi, ma il risultato di una roulette genetica. Questo bambino, in parte simile e in parte diverso — a cominciare dal sesso, che è anch’esso parte di questo gioco delle probabilità —, dovranno poi in qualche modo «adottarlo», perché diventi figlio proprio. Ma affinché la generazione riesca e sia completa, l’«adozione» è necessaria anche dall’altra parte. Il figlio, che non ha scelto i propri genitori, dovrà «adottarli»: e perché questo avvenga, i genitori dovranno dimostrarsene degni.

Questa dimensione affettiva e spirituale fa parte integrante del processo della trasmissione della vita umana. La separazione dell’aspetto biologico da quello relazionale, resa possibile dalle nuove tecnologie, ci aiuta a ricordarlo. Ma, in quanto umanità, siamo così evoluti da poter impunemente sganciare la generazione spirituale da quella biologica? Siamo talmente «Figli del Regno» da poter considerare nostri padri-madri-fratelli-sorelle coloro che fanno la volontà di Dio, piuttosto che quelli con i quali condividiamo una manciata di cromosomi? La litigiosità meschina tra genitori che, stando alle cronache, si sviluppa intorno a bambini nati con l’aiuto della tecnologia ci avverte che questo traguardo spirituale l’umanità non l’ha ancora conseguito.

A intravedere le tappe della crescita aiuta il documento pubblicato dai vescovi francesi nel novembre 1984: Vita e morte su richiesta. Secondo il documento, non si può arrivare a una serena valutazione etica delle nuove tecnologie applicate alla riproduzione se prima non si supera l’ostacolo costituito dalla «logica del sentimento». Una donna che voglia a ogni costo un bambino,

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oggi ha i mezzi tecnici per realizzare la sua attesa: perché dovrebbe rinunciarvi? «Si accetta sempre meno — afferma il documento — un principio regolatore del desiderio: non gli si riconosce altra regola che esso stesso. Per liberarci di questa logica del sentimento ci è necessario, con fatica, prendere della distanza per riconoscere ciò che è veramente buono e costruttivo per l’uomo e la comunità umana, al di là del desiderio apparente e, se necessario, contro di esso».

Un altro ostacolo a una valutazione etica equilibrata di questi problemi è costituito, sempre secondo i vescovi francesi, dalla «logica tecnica». «La scienza e la tecnica, secondo la loro logica propria, tendono a spingersi all’estremo. Se possiamo realizzare un tale esperimento, in nome di che cosa impedirci di farlo? Non è questo un riflesso di paura? L’uomo domina a poco a poco la natura: perché non la ‘propria’ natura? In realtà c’è un equivoco sul concetto di dominio. E ci vuole una lucidità e un coraggio singolari per superare la tentazione tecnocratica. Per fortuna molti specialisti ne sono diventati consapevoli: vogliono essere dei tecnici e non dei tecnocrati. La riflessione comune dei biologi, psicologi, medici, filosofi e di tutti gli uomini di buona volontà deve permettere di distinguere meglio tra l’uno e l’altra. Ma ci vuole una grande circospezione. Spesso, infatti, la qualifica morale (cioè la vera portata umana) d’un comportamento non appare subito chiaramente. Solo esaminando le ripercussioni sugli altri e le conseguenze a lungo termine se ne scopre la fondatezza o, al contrario, gli ‘effetti perversi’. È necessaria anche una grande libertà di spirito, perché non ci si libera facilmente dalla duplice logica del sentimento e della tecnica».

In armonia con questa impostazione, il documento esamina la diffusione del fenomeno della «paternità e maternità incondizionali», ponendo degli interrogativi di ordine antropologico e sociale. Nessuna condanna di queste pratiche; i punti interrogativi prendono il posto dei punti esclamativi. I vescovi francesi hanno delle riserve, e non le nascondono, sul fatto che queste pratiche costituiscano un progresso in umanità. Ma preferiscono illuminare

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il sottofondo umano e morale di quelle situazioni molto delicate, favorendo così una vera maturazione etica, piuttosto che far cadere dall'alto giudizi che rischiano di non sfiorare neppure le persone che sono i veri protagonisti di queste pratiche.

Se la crescita morale domanda tempo, affinché tutti gli aspetti umani di un problema emergano, ci possono essere situazioni in cui non si può rimandare l’azione. L’opinione pubblica di diversi paesi è sufficientemente allarmata dal diffondersi delle pratiche di riproduzione artificiale perché le autorità pubbliche possano rinunciare a intervenire con i mezzi che sono loro propri. In Francia, ad esempio, ha preso posizione il «Comitato etico nazionale per le scienze biologiche e della salute», istituito dal Presidente della Repubblica. In un parere, reso pubblico nel novembre scorso, il Comitato ritiene che, applicando la legge attuale, le pratiche delle madri per procura (o donatrici) sono illecite: sia perché i compensi proposti possono essere assimilati al commercio dei bambini, sia perché in questi casi c’è sempre l’incitazione all’abbandono del bambino: due reati che sono puniti dalla legge francese. Il motivo per cui il Comitato ritiene illecito questo modo di rispondere all’infecondità è che esso «contiene in potenza l’insicurezza per il bambino, per i genitori che desiderano una nascita, per la donna che mette al mondo un bambino e per le persone che intervengono in queste operazioni».

La più drastica in materia è stata la liberale Svezia. Ha varato una legge che obbliga a schedare e identificare il donatore di sperma per l’inseminazione eterologa, in modo che possa essere rintracciato quando il bambino nato col suo contributo avrà raggiunto il diciottesimo anno d’età. È ovvio che questa misura stronca radicalmente la pratica: chi vorrebbe trovarsi padre di un numero imprecisato di figli, anche se non deve mantenerli perché maggiorenni?

In Italia una circolare del ministro della sanità ha recentemente ristretto la pratica dell’inseminazione artificiale, negli ospedali e strutture pubbliche, ai coniugi e conviventi; viene perciò esclusa l’inseminazione con donatore esterno alla coppia. Una commissione

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è nel frattempo al lavoro per preparare una legge che tuteli la dignità della persona umana e la salute psico-fisica del nascituro nei confronti di situazioni di paternità e maternità ignota o incerta.

La funzione principale della legge è di sottrarre il bambino al gioco sinistro di appropriazioni che può scoppiare tra i genitori e impedire che, per eccesso opposto, resti sprovvisto di una tutela genitoriale. Il compito della riflessione etica che accompagna le nuove pratiche della riproduzione artificiale è invece più ampio: deve ricordare che non è tanto il contenuto materiale dell’atto ciò che conta, quanto piuttosto i valori che lo sottendono. Deve anche favorire l’azione responsabile, che è quella in cui, prima di agire, ci si domanda quali beni e quali mali quell’atto procurerà a tutte le persone che vi sono interessate. Questa riflessione etica non l’attendiamo da alcuni specialisti, ma da tutta la comunità civile, coinvolta in una trasformazione culturale di enorme portata.