INTERVISTA AL PROF. SANDRO SPINSANTI
tratto dalla rivista “Cura” n. 2 giugno 2020
D – L’epidemia ha messo in evidenza le deficienze del nostro sistema sanitario. Il cittadino aveva diritto a un’adeguata preparazione nelle strutture e nell’organizzazione territoriale della sanità?
R – Una premessa. Nella fase di declino della pandemia, in cui attualmente ci troviamo, viene spontaneo fare dei bilanci. Che cosa è andato bene, che cosa male? È una valutazione pienamente comprensibile, che può avere la sua utilità. Ma è possibile spingere la riflessione più in profondità, rispetto all’erogazione di voti sulla pagella. È vero che non vediamo l’ora di chiudere il capitolo dell’emergenza e di tornare alla normalità. Ma considerare l’emergenza solo come il momento eccezionale, che richiede risposte pronte e audaci – emergenziali, appunto – significa non sfruttare a pieno le sue potenzialità. In senso etimologico, l’emergenza comporta un “emergere”, ovvero un affiorare di ciò che era nascosto. Così intesa l’emergenza permette di vedere ciò che nella condizione di normalità era presente, ma non in vista. Per cui, finita l’emergenza, l’auspicio non è di tornare allo stato precedente, ma fare dei cambiamenti strutturali profondi. Il ritorno alla normalità è legato a una trasformazione.
Tenendo sullo sfondo questo paradigma del rapporto emergenza/normalità, riandiamo con il pensiero a ciò che abbiamo vissuto, alle situazioni di cui siamo stati protagonisti e vittime. È indubbio che lo scoppio della pandemia ci ha trovato impreparati. Sono emerse carenze di personale sanitario, di posti in terapia intensiva, di strumenti per proteggersi dal contagio per gli operatori, di programmi per contenere la situazione emergenziale. Mancanza di preparazione? Diciamo piuttosto di “preparedness”. È questo il termine tecnico inglese con cui si designa la capacità di affrontare eventi imprevisti; comprende la pianificazione, la predisposizione di risorse e competenze, la capacità di intervenire. Significa predisporsi ad affrontare situazioni catastrofiche mediante un’attenta pianificazione, identificando le eventuali lacune.
Se dal punto di vista personale possiamo capire che qualcuno preferisca assumere un atteggiamento scaramantico (del tipo: “Io speriamo che me la cavo” …) e adarsi alla fortuna; non accettiamo invece un comportamento di questo genere da parte del Servizio sanitario pubblico. La predisposizione di risorse e piani operativi per eventi catastrofici fa parte integrante della sua agenda. I cittadini hanno diritto di esigerlo.
D – La situazione, nella sua drammaticità ha spinto a scelte dicili, anche a “discriminazioni” per età sfavorendo necessariamente i malati più anziani. Cosa si può dire in merito?
R – La caratteristica dell’emergenza è proprio di richiedere scelte rapide. Se poi avvengono in un contesto di risorse insufficienti per rispondere a tutti i bisogni, le scelte diventano “decisioni”, nel senso suggerito dall’etimologia della parola, che rimanda al latino “caedo”, cioè taglio. Come, appunto, decidere chi avviare in terapia intensiva se si hanno due pazienti che ne necessitano e un solo posto.
Nel contesto della pandemia di COVID 19 ha fatto sensazione il documento della società scientifica SIAARTI degli anestesisti e rianimatori, in cui hanno esplicitato le raccomandazioni etiche per l’ammissione di pazienti contagiati a trattamenti intensivi e per la loro sospensione; “in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili”, hanno specificato. Una lettura superficiale e tendenziosa ha voluto vedere in questo documento, in particolare nell’indicazione di “privilegiare la maggiore speranza di vita”, il suggerimento di escludere dalla terapia intensiva i pazienti più vecchi, a favore delle persone più giovani.
Senza entrare nella polemica della corretta interpretazione del documento, la prospettiva di emergenza/normalità che abbiamo adottato ci induce in considerazioni inusuali circa ciò che avviene in ambito clinico, non solo in condizioni di emergenza. Il documento ci ha presentato un gruppo di medici, particolarmente esposto a decisioni tragiche, che mette, nero su bianco, i criteri con cui opera le scelte cliniche. In situazione di emergenza, certo; ma a ben vedere questo scenario non prende forma solo in tempo di pandemia. La scarsità delle risorse rispetto alle richieste di cure è endemica. E lo sarà sempre di più, nella misura in cui la più lunga speranza di vita e il prevalere delle multimorbidità in condizioni di malattie croniche farà aumentare esponenzialmente il bisogno di cura.
Ebbene, in condizione sia di emergenza che di normalità, abbiamo bisogno di conoscere i criteri con cui i sanitari prendono le loro decisioni. Noi cittadini, figli della modernità, non vogliamo più adarci ciecamente a un professionista sanitario, confidando nella sua “scienza e coscienza”. Il modello: “Dottore, mi metto nelle sue mani: decida lei secondo quello che lei sa essere il mio bene” non rispecchia più il nostro tempo. Abbiamo il diritto – e il dovere – di essere informati e di essere parte attiva nelle decisioni che ci riguardano.
Per questo auspichiamo che il documento della SIAARTI sia la prima di numerose prese di posizione in ambito clinico, con cui i sanitari rendono trasparenti le regole clinico-etiche che sopraintendono all’erogazione delle cure, esplicitando quello che i medici sono orientati a fare e ciò che decidono sia più ragionevole omettere. Perché la promessa con cui è stata reclamizzata l’introduzione del Servizio Sanitario Nazionale in Inghilterra, ormai 70 anni fa: “Dalla culla alla tomba ci pensa lo Stato”, non può essere mantenuta nella forma del tutto a tutti. Il diritto a ricevere le cure necessarie si deve coniugare con la partecipazione consapevole dei cittadini alle scelte inevitabili. Le scelte non vanno fatte sul malato, ma col malato. Nell’emergenza come nella normalità.
D – La decisione di trasportare persone appena dimesse nelle RSA è stata terribile: non si poteva immaginare che una scelta di quel tipo avrebbe portato a un disastro?
R – L’utilizzo inappropriato delle RSA, dove sono state fatte confluire persone ancora infette, provocando in modo irresponsabile l’ecatombe dei residenti, è uno degli aspetti più problematici della gestione della pandemia. A posteriori si è dimostrata una decisione catastrofica.
Ma, ancora una volta, cerchiamo di appuntare la nostra attenzione su ciò che la situazione ha fatto emergere. Si tratta soprattutto di un’organizzazione delle cure concentrata negli ospedali e di una pratica irrilevanza delle cure territoriali e domiciliari. I malati possono essere assistiti a casa solo se si dispongono servizi appropriati. E la rete dei medici di medicina generale è dotata di personale, con particolare attenzione agli infermieri che si recano a domicilio, di ambulatori, di risorse. È proprio questa l’organizzazione che la pandemia ha rilevato essere in braghe di tela. È soprattutto in questo contesto che diciamo: fine dell’emergenza e ritorno alla normalità?! No: perché è proprio la normalità che è malata! Non è che nell’emergenza le cose sono andate storte: erano già storte nella normalità, anche se non eravamo consapevoli quanto questa fosse sbagliata.
L’organizzazione ospedaliera è attrezzata per curare le acuzie; ma è la cronicità che costituisce la stragrande maggioranza dei bisogni e della domanda. Spostare il centro di gravità dell’oerta sanitaria dall’ospedale al territorio; privilegiare la gestione della cronicità: ecco il cambiamento da introdurre in quella che possiamo chiamare la normalità. “Il medico che ti salva la vita”, secondo il convincente saggio di Atul Gawande, non è il grande chirurgo o lo specialista, ma il medico generico che ti segue nel tempo e pratica la “medicina incrementale”. È una modifica epocale quella che è richiesta alla nostra organizzazione sanitaria. I presupposti esistevano già prima della pandemia; questa li ha portati alla luce. Ora ci viene chiesto di non ignorare ciò che siamo stati costretti a vedere e di investire le nostre risorse nel cambiamento del sistema delle cure.