Evocare l’etica nella cura: un pentagramma di modalità

Diamo per scontato che ci troviamo d’accordo su che cosa sia l’etica. Certo, una concessione generosa, che salta a piè pari secoli di riflessioni e di dibattiti. Concentriamo piuttosto la nostra attenzione sulla modalità in cui viene proposta, soprattutto nel contesto delle relazioni di cura, sia informali che soprattutto professionali. Ci rendiamo conto che i modi in cui l’etica viene evocata sono molteplici; e molto differenziati tra loro.

L’etica ideologica

La modalità che conosciamo meglio è quella ideologica. Può essere sintetizzata nella convinzione soggettiva di sapere per certo che cosa sia auspicabile e che cosa sia riprovevole nella cura dal punto di vista etico. La giustificazione può essere molto diversificata. Nei contesti religiosi non si esita a evocare la volontà divina; le argomentazioni razionali – dietro le quali non di rado si intravedono motivazioni religiose – vertono sul rispetto della natura umana, o delle esigenze della persona, o della difesa della sua dignità (inevitabile il riferimento al programma proclamato dal Ministero per la repressione del vizio e la promozione della virtù in Iran, dove la repressione dei comportamenti indesiderati delle donne viene giustificata appunto con: “Vogliamo che le nostre sorelle vivano con dignità”…). Il fanatismo ideologico può sconfinare nella violenza. Pensiamo ai sostenitori “pro life” e antiabortisti che negli Statio Uniti organizzano attentati alle cliniche dove vengono fatte interruzioni di gravidanza e si spingono fino all’omicidio di medici che assistono le donne in queste circostanze.

Anche senza raggiungere estremi di questo genere, e tantomeno quello dei regimi teocratici islamici, dove si rischia di essere impiccati “per inimicizia con Dio”, i sostenitori dell’etica ideologica possono anche proporla in modo irenico e dichiararsi disposti a discutere; purché alla fine la conclusione sia sovrapponibile alle loro convinzioni. Perché le posizioni si reggono su principi che, esplicitamente o meno, sono considerati non negoziabili. Ciò vale per le posizioni ideologiche di ispirazione religiosa come per quelle che si nutrono di laicità. Quando questa modalità prevale, possiamo dire che l’etica percorre il territorio della cura calzando scarponi chiodati, che lasciano il segno dove camminano.

L’etica giuridico-amministrativa

Diversa è la modalità giuridico-amministrativa. In questo scenario l’etica viene a circoscrivere l’ambito dei comportamenti leciti; ancor più, costituisce in sé una legittimazione. Esemplari in tal senso sono i comitati per la sperimentazione dei farmaci e le ricerche in ambito bio-medico. Per quanto sia solida e motivata la convinzione del ricercatore sulla appropriatezza della ricerca che vuol intraprendere, deve sottoporla all’approvazione da parte di questo organismo. È un vincolo ineludibile. Possiamo alla fine concludere che la ricerca è etica perché approvata dal comitato; o, inversamente, non è etica e quindi è giuridicamente illecita se il comitato non ha concesso il suo benestare, in base ai criteri sia scientifici che umanistici che devono guidare la ricerca e vanno valutati, da questo punto di vista, da chi è abilitato a concedere l’autorizzazione.

Di recente il passaggio attraverso un comitato, o organismo analogo, è stato previsto anche per l’accesso al suicidio medicalmente assistito, nel perimetro delle situazioni circoscritte dalla sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019. La commissione è chiamata a valutare l’appropriatezza della richiesta, il farmaco da somministrare, eventualmente la compatibilità con un “contesto operativo decoroso”. La connotazione etica del procedimento viene a sovrapporsi alle condizioni che ne giustificano la legittimità.

L’etica esortativa e l’etica della consulenza

Del tutto diversa è l’etica che si presenta in modalità parenetica, ovvero esortativa. Distante da ogni intento giuridico-amministrativo, agisce piuttosto attivando il registro della “moral suasion”. Il topos più celebre in tal senso è la parabola evangelica del Buon Samaritano, che si conclude con l’esortazione: “Va e fa anche tu lo stesso”. Siamo nell’ambito delle buone pratiche, che meritano di essere conosciute e imitate. È il terreno privilegiato della medicina narrativa. Esemplari in tal senso le storie slow, pubblicate nel sito di Slow Medicine. Il loro scopo è di dare concretezza ai tre parametri della buona medicina promossa dal movimento omonimo: cure sobrie, rispettose, giuste (1). In questo contesto l’etica è essenzialmente un’articolazione delle medical humanities.

Un’ulteriore modalità della presenza dell’etica nel territorio della cura è quella della consulenza. La complessità delle scelte etiche determinate dagli sviluppi recenti della bio-medicina ha indotto a introdurre il ricorso a esperti di etica, soprattutto sotto forma di comitati appositi. Diversi, per composizione e finalità, dai comitati per la sperimentazione, questi organismi sono colloquialmente identificati come comitati etici per la pratica clinica. Nati per promuovere la riflessione etica nelle situazioni complesse, sono stati qualificati come “comitati etici”, piuttosto che come comitati per l’etica nella pratica clinica. Può sembrare una connotazione irrilevante; non lo è, se la qualifica intende giustificare una specie di monopolio dell’etica da parte del comitato stesso. Chiamando etico questo tipo di organismo, si suggerisce la conclusione che una determinata scelta sia conforme all’etica in quanto è stata validata dal comitato. Tanto più se incombe la prospettiva della consulenza, che in medicina evoca una conoscenza più esperta: si ricorre alla consulenza di uno specialista quando la situazione eccede le conoscenze cliniche abituali. È quanto dire che il comitato determina ciò che è etico, rivendicando un’autorità superiore in questo ambito. Ovvero: una scelta è etica perché l’ha decisa il comitato etico, che la riveste della sua autorevolezza.

Viene spontaneo associare questa procedura a un caso che ha molto impressionato l’opinione pubblica, tempo fa: se fosse o no etico tentare l’operazione chirurgica per separare due gemelline siamesi, con il rischio di causare la morte di una delle due. A lungo si è dibattuto; ma soprattutto si è rimasti in attesa del responso del comitato, convocato per prendere una decisione in merito. La sua decisione è stata recepita come un via libera in nome dell’etica. Un effetto secondario, ma non irrilevante, di un uso del comitato per responsi di questo genere è di indurre i professionisti della cura a delegare a un organismo apposito decisioni conflittuali o che generano perplessità, come se esulassero dalla loro competenza.

Attualmente sono pochi i sistemi sanitari regionali che hanno attivato la rete di questo tipo di comitati. Sono sollecitati soprattutto in casi nei quali si prospetta la desistenza terapeutica, la sedazione palliativa o cure intensive neonatali. La loro attivazione è auspicabile, purché non legittimi un’espropriazione della competenza etica dei soggetti coinvolti nella cura – malati, professionisti, caregiver – riservando l’etica a organismi specialistici, dai quali ricevere a richiesta indicazioni da mettere in pratica.

L’etica in modalità di counseling

È soprattutto sull’ orizzonte della pratica clinica che vediamo profilarsi un ulteriore scenario: l’etica in modalità di counseling. Per evitare possibili equivoci, sarà bene premettere alcuni chiarimenti. Il primo riguarda la traduzione italiana del termine inglese. Può essere fuorviante se, a orecchio e con approssimazione, counseling è inteso come “consigliare”. Per motivi filantropici, l’area della malattia e della cura è sovente ricca di consigli, tanto da giustificare il detto: a chi è malato potrebbero mancare i farmaci, ma mai i consigli… Il counseling rimanda invece a un rapporto strutturato, che si differenzia sia dalla benevola vicinanza solidaristica sia dall’indicazione terapeutica che fornisce chi è dotato di sapere e competenza specifici. Fa riferimento implicitamente ad alcune caratteristiche antropologiche sottostanti. La prima è stata formulata da Abraham Maslow (2) come una scala di valori, che si eleva progressivamente: da quelli più basilari, che caratterizzano l’esistenza nella sia dimensione fisica, ai valori di più alto profilo etico e spirituale. L’ascesa di questa scala è una caratteristica personale: la si può favorire, ma non attuare per un altro. Il presupposto dell’attività di counselling è però una fiducia nella capacità dell’individuo di trovare il percorso, se il counselor fornisce l’aiuto esterno per risolvere situazioni di disagio esistenziale. Le radici profonde del counseling si nutrono della fiducia nella potenzialità dell’essere umano, che è propria della psicologia umanistica e transpersonale, di sciogliere i nodi in soluzioni creative.

Un secondo elemento caratteristico di questo approccio è la consapevolezza che di fronte ai problemi bioetici la situazione più comune è quella di essere “stranieri morali”, secondo la definizione coniata dal bioeticista americano Tristam Engelhardt (3). Ciò vale anche per persone che condividono lo stesso universo di valori sociali; anche tra intimi dal punto di vista familiare e amicale. Con questa estraneità morale bisogna imparare a convivere, lasciando cadere l’illusione di soluzioni morali a misura unica. Senza che ciò implichi un ripiegamento nel relativismo morale o, ancor peggio, nell’agnosticismo etico.

Un terzo presupposto è la transizione dell’etica in medicina dall’unidimensionalità alla tridimensionalità. In concreto: il criterio con cui valutare la qualità etica di un trattamento sanitario è stato tradizionalmente quello del beneficio da procurare alla persona in cura. Un beneficio, in più, sottoposto al giudizio unilaterale ed esclusivo del curante, che si autodetermina “in scienza e coscienza”. La tridimensionalità in cui siamo entrati chiede di considerare, oltre al bene del malato, anche il rispetto della sua autonomia – esigendo che le decisioni siano prese non sul malato, ma con lui, tenendo conto dei suoi valori e della sua concezione della qualità della vita – e della capacità della comunità di predisporre equamente delle risorse e di rispondere con giustizia ai bisogni non solo degli abbienti, ma di tutti quelli che hanno bisogno di cure. I principi etici di beneficità, autonomia e giustizia chiedono che le cure siano – contemporaneamente – “sobrie, rispettose e giuste”, per appoggiarci ancora all’architettura concettuale della Slow Medicine.

Questa etica tridimensionale si rivela molto più complessa di un’etica a dimensione unica. Richiede una molteplicità di competenze e raramente conduce a una decisione univoca e perentoria. Qui appunto vediamo emergere la necessità di far ricorso alla competenza di molteplici soggetti, professionisti e no, che intervengono in un progetto di cura. La modalità di counselling per l’etica nella clinica è la più appropriata. Richiede dialogo, talvolta negoziazione. Il suo punto di partenza è l’ascolto, piuttosto che la rigida applicazione di principi. Piuttosto che importare dall’esterno l’etica nella pratica clinica, ne favorisce l’esplicitazione da parte dei soggetti coinvolti, in particolare dai clinici. Assomiglia più a un’opera di tessitura, in cui si incontrano ordito e trama, che a una rigorosa operazione intellettuale. Qualcuno l’ha chiamata bedside ethics (4), contrapponendola alla armchair ethics: etica da capezzale, piuttosto che da insegnamento universitario.

 Ognuna delle diverse modalità di far intervenire l’etica nel contesto della cura ha la sua appropriatezza e anche i suoi rischi di deragliamento. È giunto il momento di essere più differenziati, quando invochiamo una medicina che sappia abbracciare l’etica e farsi guidare da essa.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  1. Bonaldi A, Vernero S. Slow Medicine: un nuovo paradigma in medicina, Recenti Prog Med 2015; 106: 85-91.
  2. Maslow A. Motivazione e personalità, tr. it. Armando, Roma 1973.
  3. Engelhardt HT. Manuale di bioetica, tr. it. Il Saggiatore, Milano 1991.
  4. Ingelfinger FJ. Bedside ethics for the hopeless case. New Engl J Med 1973 ; 289 ; 914-5.

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