I professionisti della cura nei confronti del fine vita: pluralità di posture

  • L’interfaccia con le professioni di cura

Il messaggio che la cultura della modernità porta con sé è certamente arrivato a chi abbia avuto la disponibilità a riceverlo: la saggezza necessaria non solo per vivere, ma anche per morire bene richiede di abbandonare l’affidamento passivo, per assumere un atteggiamento attivo nel rapporto di cura. In particolare, qualunque sia l’aggettivo con cui vogliamo qualificare la morte auspicabile – naturale, dignitosa, umana… – avrà bisogno di un impegno personale per strutturarla in armonia con i più intimi valori personali. Come se non bastassero le spinte della cultura e dell’etica, attualmente anche la legge rafforza l’autodeterminazione e autorizza la partecipazione attiva nelle decisioni di cura (cfr. Legge 219 del 2017: Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento).

Per quanto sia riuscito il nostro personale progetto di morire in braccio alle Grazie e ai valori indicati programmaticamente dai loro nomi – Eufrosine o la consapevolezza, Aglaia o la serenità, Talia o la pienezza (1) – se la vita si conclude in un contesto sanitario, come avviene nella maggioranza dei casi, dovremo mettere in conto, oltre all’abbraccio delle Grazie, anche un confronto con i professionisti della cura. Volenti o nolenti, dovremo interfacciarci con i curanti, con le loro decisioni su che cosa fare o omettere di fare, con il loro modo personale di gestire la cura, sia con le parole che con interventi terapeutici.

Nel dibattito pubblico l’attenzione si è focalizzata soprattutto su grandi temi affrontati dall’etica. Per esempio, il confronto sull’eutanasia e sulla possibilità di anticipare la morte. Certo, sarebbe importante sapere quale posizione assumerebbero i medici, infermieri e altri professionisti della cura ai quali sarò affidato nel mio fine vita nel Dialogo sul suicidio medicalmente assistito, promosso dalla Consulta scientifica del Cortile dei Gentili (2); ma questa è solo una piccola parte di ciò che determina il profilo che avrà la mia personale conclusione della vita nel contesto clinico. L’interfaccia con questi professionisti è ben più ampio delle questioni di pertinenza della bioetica e del diritto, soprattutto se ci si riduce a muoversi entro schemi polarmente contrapposti, come gli schieramenti “pro vita” o “pro choice”.

Cerchiamo di ricostruire il complesso scenario dell’interfaccia con i professionisti assumendo come punto di partenza una presa di posizione espressa in un contesto clinico. Ci spostiamo in un ospedale inglese, reparto di ostetricia. Protagonista Adam Kay, un giovane specializzando, travolto da un peso dell’assistenza che sconvolge la sua vita personale. Ne ha vissute tante che decide di scrivere un libro. Come titolo sceglie la frase che era solito dire alle donne che assisteva nel parto: Le farò un po’ male. Sottotitolo: Diario tragicomico di un medico alle prime armi (3). Il libro ha tanto successo che ne viene tratta una serie televisiva: This is going to hurt. Mostra il dietro le quinte della professione medica, uno scenario che sfugge completamente a chi si trova nello stato di malato in cura: la posizione che assume chi svolge una professione di cura. Ci introduce un’osservazione marginale di Adam Kay:

“Prima o poi arriva il momento di decidere che tipo di medico essere. Non in senso tecnico, per esempio se vuoi diventare urologo o neurologo, ma per quanto riguarda il tipo di atteggiamento che vuoi avere con i pazienti. Durante la specialità il tuo personaggio si evolve, ma in genere ci vogliono due o tre anni per assumere un modo di fare coerente che manterrai durante la carriera da specialista. Sei sorridente, simpatico e ottimista? Silenzioso, contemplativo e scientifico? Penso sia lo stesso bivio di fronte al quale si trovano gli agenti quando scelgono se diventare poliziotti buoni o cattivi (o poliziotti razzisti). Ho deciso di essere uno “che va dritto al punto”: niente scemenze, niente chiacchiere, andiamo al succo della questione, con un pizzico di sarcasmo per completare la ricetta”.

Quello che lo specializzando tratteggia è il tipo di atteggiamento che gli esperti delle discipline comportamentali chiamano “postura”. Per lui si tratta di decidere “che tipo di ostetrico” diventare; è una scelta che tutti professionisti della cura fanno propria, assumendo una postura che li caratterizza, indipendentemente dalle specializzazioni che abbracciano.

  • Le componenti della postura professionale

Con il termine postura facciamo riferimento a un modo di porsi che, analogamente alla postura del corpo, tende a mantenersi e a consolidarsi nel tempo; ma, a differenza della postura fisica, non riceve adeguata attenzione e impegno per eventuali correzioni necessarie. Alla postura in senso psicologico e sociale hanno dedicato attenzione alcuni studiosi delle scienze sociali. Con questo termine intendono riferirsi, in senso ampio, al look, al gesto, alla messa in scena, allo stile; a quell’atteggiamento personale, abitualmente adottato, che caratterizza il nostro modo di essere al mondo e di comunicare con gli altri. Il sociologo e filosofo francese Pierre Bourdieu, particolarmente interessato all’insieme delle relazioni che costituiscono la realtà sociale, riconduce la postura a un habitus (4). In quanto tale, è destinato a strutturare in modo permanente le interazioni con l’ambiente sociale. In modo più analitico, Laura Formenti con linguaggio psicopedagogico ha definito il concetto di postura come “un sistema di disposizioni durevoli e trasponibili che, integrando tutte le esperienze passate, funziona come matrice di percezioni, valutazioni e azioni e rende possibile svolgere compiti infinitamente differenziati, grazie al trasferimento analogico di schemi che permettono di risolvere problemi simili e che si autocorreggono grazie ai risultati ottenuti” (5).

Non sempre la postura si assume in modo consapevole, come suggerisce il medico specializzando. È piuttosto come un vestito che ci si abitua progressivamente a indossare, per lo più senza rendersene conto: è come se, con un movimento bidirezionale, la persona si adattasse all’abito e l’abito alla persona, finché si ha la sensazione di trovarsi a proprio agio solo quando lo si indossa. Ciò vale in particolare per il modo in cui si esercita una professione; per quello che a noi interessa, una professione di cura. La forza trainante che spinge verso l’adottare una postura può essere costituita dalla pressione dell’ambiente di lavoro o dal modello positivo costituito da personalità carismatiche che ci si trova ad avere come tutor e che, più o meno consapevolmente, inducono all’imitazione. Alla fine del processo il professionista della cura – così come coloro che esercitano altre professioni – si trova a praticare la professione a partire da una certa postura. Questa è una miscela di diversi elementi eterogenei. Anche se qualche tratto può spiccare più di altri, nella postura confluiscono diverse componenti. Cerchiamo di mettere in evidenza le principali.

Con riferimento alla postura con cui si esercita la cura, possiamo distinguere almeno quattro elementi costitutivi. In primo luogo poniamo la spinta motivazionale. Il ventaglio di motivazioni che inducono il professionista a dedicarsi alla cura è molto ampio: per considerare alcuni estremi, possiamo andare dall’orientamento idealistico-filantropico – che può indurre a prestare la propria opera in organizzazioni come Medici senza frontiere o il Cuamm: Medici con l’Africa – all’aspirazione ad accumulare guadagni, che può suggerire di virare verso la medicina estetica. Una categoria di professionisti riconducibile a motivazioni prevalentemente economiche è quella di chi si inserisce nel sistema delle cure con la qualifica di “gettonista”, offrendo prestazioni concentrate in un tempo limitato e ben retribuite.

Entusiasmi, delusioni, eventi rimotivanti: il percorso della spinta motivazionale è decisamente a ostacoli. Esperienze negative sul versante di accuse, denunce e vicende processuali possono modificare la postura iniziale, così da dare la priorità alla sicurezza giuridica del professionista: agirà secondo il principio di “non volere responsabilità” e di tutelarsi preventivamente, per evitare di correre rischi. Se la spinta motivazionale non si spegne del tutto – come avviene con il burn out – deve essere costantemente ricaricata da ciò che ha costituito l’impulso iniziale.

La postura si nutre di una dotazione epistemica. Con questa espressione ci riferiamo al sapere sul quale si fa affidamento per erogare le cure. Che è quello fornito dal corso universitario richiesto per diventare medico, infermiere o qualsiasi altro professionista sanitario; ma implica spesso un’esplicita predilezione per il versante delle scienze hard o per il sapere che proviene dalle Medical Humanities. Considerare queste due modalità di sapere come contrapposte o come sinergiche costituisce una variante molto significativa nella postura. Di conseguenza, si tenderà ad attingere prevalentemente dall’uno o dall’altro ambito. Nelle posture sanitarie molto marcate nelle quali ci si riconosce in un determinato sapere si riscontra talvolta un senso di superiorità rispetto al sapere coltivato nell’altra sponda e un sistematico evitamento dei territori conoscitivi rispetto ai quali ci si sente estranei. In parole povere, il professionista sanitario “scienziato” tende a prendere le distanze da quello “umanista”; e viceversa. È quella spaccatura che il clinico Claudio Rugarli     ha identificato come l’origine di “medici a metà” (6); ove più frequentemente a prevalere è la metà scientista, a scapito di quella umanistica.

In terzo luogo nella postura confluiscono i modelli etici di riferimento. In termini estremamente essenziali, si tratta di demarcare la buona medicina rispetto a quella di cattiva qualità, che va evitata. Siamo consapevoli che su questa questione sono state date nel tempo risposte diverse. L’etica medica tradizionale è stata terremotata dal movimento rappresentato dalla bioetica; l’asse portante si è spostato dall’atteggiamento paternalista – secondo il quale il professionista sanitario sa qual è il bene della persona malata e lo persegue facendo le scelte cliniche che ritiene appropriate, mediante decisioni prese “in scienza e in coscienza”, senza il bisogno di confrontarsi con la soggettività della persona che richiede le cure – verso il rispetto per l’autodeterminazione del malato stesso.

Lo spostamento dei valori etici di riferimento nella pratica della cura non è avvenuto in modo lineare. Ci sono professionisti che si trovano a proprio agio nel modo di porsi tradizionale, caratterizzato da un paternalismo benevolo (sottotraccia: “Fidati di me; ho giurato di fare il tuo bene”); altri oscillano verso un autonomismo estremo (del tipo: “Per la terapia c’è la pillola bianca e quella rossa; questi sono i rispettivi vantaggi e svantaggi. Scegli quella che vuoi – e non dimenticare di firmare il modulo di consenso informato!”). Fra questi due estremi sono riconoscibili una quantità di posture preferenziali, nelle quali il centro di gravità dell’etica assume 50 sfumature di colore…

Un elemento ulteriore che caratterizza la postura è costituito dalla collocazione nel sistema della cura. Differenze macroscopiche sono rilevabili tra i professionisti che operano all’interno di un sistema di sanità pubblica universalistica, vi aderiscono e lo difendono, rispetto a quelli che si domiciliano nel privato commerciale. Senza dimenticare quanto può essere diversa la postura di un libero professionista da quella di un dipendente del sistema sanitario.

  • Una carrellata di posture

Prima di delineare in concreto alcuni profili posturali prevalenti nei confronti del fine vita, è necessaria una precisazione importante: non si tratta di catalogare le posture in buone o cattive. Se alcuni tratti caratteristici estremi servono per identificarle, l’intento non è caricaturale. In realtà ogni postura è costituita dalla mescolanza dei diversi elementi che abbiamo evidenziato. Ognuna può essere utilizzata in maniera appropriata o nel suo contrario; tutte possono essere soggette a deformazioni che incidono profondamente con l’interfaccia con la persona in cura. La consapevolezza dei limiti di ogni postura dovrebbe indurre chi l’assume a privilegiare i tratti utili e a evitare quelli deprecabili.

Premessa l’assoluta arbitrarietà delle denominazioni proposte, sottolineiamo che la loro funzione è quella di aiutare a riconoscere, nell’infinita e personalissima caratterizzazione delle posture che assumono i professionisti sanitari, alcuni tratti dominanti. Da questi dipendono gli atteggiamenti di fondo che assumono in tutto il percorso di cura: la postura incide sulle informazioni – se vengono o non vengono date, nonché sulla modalità con cui vengono comunicate – e sulla capacità della persona malata di prendere delle decisioni relative al come, quanto, dove della cura stessa. Il vantaggio di riconoscere la postura dei professionisti per le persone che le cure le ricevono è quello di destreggiarsi meglio nel labirinto del sistema sanitario, facendo scelte più consapevoli e funzionali. È soprattutto nel contesto della cronicità, delle cure palliative e del percorso di fine vita che la postura del curante incide in modo determinante. Ci sono posture compatibili con il percorso auspicato e altre decisamente contrarie. Potersi interfacciare con professionisti caratterizzati da un profilo posturale compatibile con le proprie aspirazioni ideali di cura è indispensabile per chi vuole affrontare il vivere e il morire in modo consapevole.

La postura scientista

Questa postura per lo più si abbina al riduzionismo biologico, assumendo le scienze hard come unica guida per il professionista. La cura viene intesa come riparazione di un organismo malfunzionante. Sono pertinenti a questo proposito le osservazioni critiche che Tiziano Terzani rivolge ai professionisti di un centro oncologico americano di grande eccellenza, al quale aveva fatto ricorso per la cura del suo cancro; qualifica i medici delle struttura terapeutica come “aggiustatori”, del tutto disattenti alle dimensioni personali della malattia:

 “Io ero un corpo, un corpo ammalato da guarire. E avevo un bel dire: ma io sono anche una mente, forse anche uno spirito e certo sono un cumulo di storie, di esperienze, di sentimenti, di pensieri e di emozioni che con la mia malattia hanno probabilmente avuto un sacco a che fare! Nessuno sembrava volerne o poterne tener conto. Neppure nella terapia. Qual che veniva attaccato era il cancro, un cancro ben descritto nei manuali, con le sue statistiche di incidenza e di sopravvivenza, il cancro che può essere di tutti. Ma non il mio (…) A me come persona i bravi medici-aggiustatori chiedevano poco o nulla. Bastava che il mio corpo fosse presente agli appuntamenti che loro gli fissavano per sottoporlo ai ‘trattamenti’” (7).

Senza mettere in dubbio la competenza clinica dei professionisti che aveva scelto, Terzani come malato riteneva che non rispondessero al bisogno di cura che era il suo. E soprattutto per assicurare alla fine della propria vita un profilo personale doveva seguire un ben diverso percorso: quello che i lettori di Un altro giro di giostra hanno imparato ad apprezzare.

Una fattispecie estrema di questa postura è il comportamento clinico di coloro che danno l’assoluta priorità all’osservanza delle linee guida. A loro avviso basta seguire le indicazioni validate con rigore scientifico per praticare una buona medicina, senza alcuna attenzione al vissuto soggettivo del malato. L’oncologo Alberto Scanni li qualifica come “protocollisti”. Nel libro in cui racconta la malattia del proprio figlio, colpito da un carcinoma che, malgrado le terapie ricevute, lo ha condotto alla morte, si sofferma su una particolare fase in cui il tumore si è dimostrato resistente al trattamento:

 “I medici dell’Istituto decisero di sospendere le cure. Nei due anni trascorsi qualche vantaggio l’avevano dato. Ma ora non funzionavano più. E glielo dissero con la grazia tipica dei ‘protocollisti’: “Il protocollo non è più efficace, sospendiamo tutto. Firmi qui la chiusura dello studio”. Le cose vanno così, la delicatezza degli istituti di ricerca è quella che è. Qualche riflessione al riguardo, chi gestisce la sanità pubblica la dovrebbe avere. Sentirsi dire frasi del genere, per un malato è come sentire pronunciare una sentenza di morte” (8).

Anche senza questo tipo di estremo e arido rigore procedurale, può rientrare in questa postura la tendenza ad attenersi a comportamenti standardizzati. Tipico in questo senso l’aneddoto che prende forma intorno a una divergenza tra un primario e gli altri medici della sua équipe. Questi dissentono da un ennesimo prelievo di sangue per indagini diagnostiche da un malato che sta morendo; il primario insiste: “Se uno muore nel mio reparto, deve morire con il potassio in ordine!”.

Una variante in questa strategia posturale è attenersi scrupolosamente alle linee-guida come mossa preventiva di autodifesa, in previsione di possibili contestazioni giuridiche o medico-legali.

La postura vitalista

Presumiamo che l’interesse per la vita del malato che predomina in questa postura sia sincero; resta tuttavia predominante, se non esclusivo, e non disposto a confrontarsi con altri valori. Una delle narrazioni più esplicite che dà voce a questo atteggiamento è la pagina del romanzo I Buddenbrook di Thomas Mann dedicata alla morte della madre del senatore. L’anziana signora è in agonia; invoca – “per pietà” – dai dottori qualcosa per dormire:

“Ma i medici conoscevano il loro dovere. Bisognava in ogni caso conservare ai parenti il più a lungo possibile quella vita, mentre un calmante avrebbe subito provocato la resa dello spirito senza più opposizione. I medici non sono al mondo per facilitare la morte, ma per conservare la vita a qualunque prezzo. In favore di ciò spingono anche certi principi religiosi e morali, dei quali avevano sentito parlare all’università, anche se in quel momento non se li ricordavano bene… Al contrario rafforzarono il cuore con diverse medicine e provocarono più volte, con il vomito, un momentaneo sollievo” (9).

Posture vitaliste di questo genere sono presenti anche nei “medical drama” delle serie televisive del nostro tempo. Un rappresentante convinto che questo sia l’atteggiamento più appropriato per il professionista è il Dottor House. Nel nono episodio della prima serie, ad esempio, intitolato “Rianimazione vietata”, salva la vita a un paziente che pur aveva preventivamente disposto un DNR, ovvero l’ordine di non rianimarlo. All’obiezione dei colleghi il Dottor House controbatte che lui vuol solo praticare la medicina, senza perdersi nei dibattiti etici. Per chi assume la postura vitalista il compito della medicina è uno e uno solo: prolungare la vita del malato. Non stupisce che in questo contesto la morte del malato sia vissuta come una catastrofe per la medicina e un fallimento personale del curante.

I professionisti orientati in senso vitalista si sentono talvolta sostenuti dalla richiesta dei familiari, che richiedono di “fare tutto il possibile” e sono impermeabili al monito secondo cui less is more (ovvero, secondo il progetto promosso dal movimento della Slow Medicine in Italia, che “fare di più non significa fare meglio”).

La postura specialistica             

La specialistica in medicina è un punto di forza, dal momento che è impossibile per un professionista far proprio tutto lo scibile dell’arte terapeutica. E naturalmente anche il cittadino si sente confortato quando sa che il professionista al quale si rivolge è uno specialista nell’ambito appunto in cui emerge il problema che richiede la cura. Allo stesso tempo, però, la specialità può costituire una fragilità del sistema se, da una parte favorisce l’ultraspecialismo (secondo lo schema: to know more and more about less and less…), mentre dall’altro alza barriere tra uno specialista e l’altro. Se viene a mancare il professionista che tira le fila tra i vari saperi nel tessuto della cura, il ritirarsi nella propria specialità diventa una difesa per il professionista e una trappola per la persona malata.

Su questo scenario un momento particolarmente delicato è costituito dal considerare l’attività del palliativista come una specialità tra le altre nell’ampio spettro delle cure sanitarie. Ciò può comportare che, a un certo punto del percorso di cura, lo specialista d’organo – il cardiologo o l’oncologo, il neurologo o il nefrologo – si ritira, invocando l’intervento di un ulteriore specialista: il palliativista, appunto. Secondo lo schema: “Non c’è più niente da fare: chiamate il palliativista”. O, in alternativa, come capita di sentire nei contesti ospedalieri, rinviando il più tardi possibile il passaggio alla competenza allo specialista in cure palliative: “È troppo presto per rivolgersi al palliativista”…

Questo atteggiamento di passaggio di consegne, oltre a validare una concezione residuale della palliazione – vera e propria costruzione caricaturale delle cure palliative, considerata come un’alternativa ai trattamenti curativi, invece che una modalità costitutiva della cura stessa – garantisce al malato un vissuto di abbandono. Espressioni come: “Adesso è arrivato il momento di ricorrere alla palliazione” dovrebbero essere messe al bando nel contesto clinico: presuppongono infatti una concezione delle cure palliative come una staffetta in cui il testimone passa da uno specialista all’altro. Le cure palliative non siano un’alternativa ai trattamenti curativi, ma sempre e soltanto cura; ciò che le caratterizza è solo una diversa modalità, che dovrebbe svilupparsi simultaneamente (simultaneous care).

La postura filantropica

Qui la nostra attenzione si sposta da posture caratterizzate da una prevalente freddezza o distanza del professionista verso un atteggiamento di segno opposto, nel quale prevale una vicinanza empatica al malato. L’insidia in questi casi può consistere nel voler proteggere la persona da notizie devastanti. Le prognosi infauste vengono allora comunicate ai familiari di riferimento, ma risparmiate alla persona interessata. Anche se ormai la congiura del silenzio, messa in atto in passato con le migliori intenzioni, non è più legittimata dalle regole deontologiche di professionisti medici e infermieri, non è infrequente che culturalmente goda di una certa visione benevola, in quanto pratica filantropica.

Parole non oneste, da parte di persone oneste, trovano talvolta una giustificazione nell’intento benevolo di protezione. Anche generose rassicurazioni, invece di un aiuto nell’accompagnare la persona malata nell’oneroso cammino della consapevolezza, possono costituire un tratto della postura filantropica.

Un’illustrazione convincente delle insidie connesse è fornita, in modo autocritico, dall’oncologo americano Jerome Groopman nel suo saggio, ricco di riferimenti clinici autobiografici, Anatomia della speranza (10). Il punto di partenza è costituito dai propri errori nell’apprendimento empirico di come vanno comunicate le notizie di segno negativo che ha dovuto affrontare durante la sua pratica professionale, perché dall’università non aveva ricevuto nessuna formazione in tal senso (diremmo che ha dovuto imparare a proprie spese; più correttamente, a spese dei pazienti…). Nel primo caso clinico che riporta la benevolenza mostra i suoi frutti amari: si rende conto che la paziente sta confondendo “remissione” dei sintomi oncologici con “guarigione”. Rinuncia a chiarire l’equivoco, per non provocare disincanto nella malata che si ritiene guarita. Salvo causarle una caduta catastrofica del suo slancio vitale quando i sintomi del cancro le si ripresentano. Bisogna avere il coraggio di ammettere, in questo contesto, che si può causare danno agli altri non solo con la cattiveria, ma anche con la bontà, anche se sostenuta dalle migliori intenzioni.

È pur vero che le regole deontologiche attuali, che prevedono l’obbligo dell’informazione al malato, tendono piuttosto a rovesciare l’atteggiamento protettivo del passato. Emerge allora l’informazione a oltranza, indipendentemente dal vissuto emotivo di chi riceve le notizie. Quanto mai opportuno risulta allora l’ammonimento di Paul Kalanithi, che ha dato come sottotitolo al suo racconto autobiografico: Un medico, la sua malattia e il vero significato della vita: “Una zuppiera di tragedia andrebbe servita un cucchiaio alla volta” (11). Un’esortazione quanto mai opportuna per introdurci alla postura seguente.

La postura conversazionale

Per dare corpo a questa postura ci appoggiamo alla definizione che ne propone Paolo Trenta con la voce “Postura narrativa” nel Dizionario di Medicina Narrativa (12) e successivamente sviluppata nel volume La postura narrativa. I modi di essere nella cura (13). Questa postura può essere definita come “un modo di essere e di porsi con le persone malate, un modo di abitare la professione e il ruolo, un atteggiamento che adottiamo per essere realmente curati, cioè per aver cura accogliendo i bisogni, le storie, le emozioni di chi ci sta di fronte e anche le nostre, che inevitabilmente emergono in ogni relazione tra persone”.

Sarebbe riduttivo far confluire questo modo di porsi del professionista nel vasto contenitore qualificato come “umanizzazione” della medicina. Soprattutto se con questo termine si intende porre l’accento sui buoni sentimenti che devono accompagnare l’agire del curante: gentilezza, rispetto, empatia. Diamo per scontato che certi comportamenti di segno contrario (uno tra tutti, emerso nelle cronache giornalistiche: il medico che scrive un referto esprimendo la sua ostilità al malato, qualificandolo come “paziente scassamaroni”…) sono incompatibili con una professionalità corretta. La postura conversazionale che proponiamo si colloca entro ben altro orizzonte che quello della buona educazione e della correttezza. Presuppone fondamentalmente un cambio di prospettiva: il curante non si pone “al di sopra” del malato, ma “di fronte” a lui; intende la cura non come qualcosa da fare “su di lui”, bensì “con lui”.

La differenza non è di poco conto. Comporta dare la priorità, ancor prima dell’informazione, all’ascolto attivo. Solo conoscendo chi è il malato, la sua collocazione nell’arcobaleno dei valori che strutturano la sua vita – compreso il termine di essa – si può modellare la cura in maniera sartoriale. Se la genetica ci mette di fronte agli aspetti personalizzati della patologia e della cura, le Medical Humanities, evocando la psicologia e le scienze comportamentali, l’etica e il diritto, hanno fatto della personalizzazione della cura l’obiettivo della loro proposta di un diverso approccio al malato. Si tratta di guardare in faccia, con coraggio, la crisi che investe i rapporti clinici così come erano stati strutturati e di proclamare che la medicina può essere salvata solo dalla conversazione (14). Prima di qualsiasi svolta verso la medicina del futuro – informatizzata, digitalizzata, robotizzata … – è necessario promuovere un rapporto diverso rispetto al paternalismo che era consolidato tra i professionisti e chi riceve le cure. Tutto ciò è sostanzialmente evocato e incluso nella postura conversazionale.

  • Conclusione

Decidere che tipo di professionista della salute essere: da questa sfida nasce il profilo posturale che si assume nel rapporto di cura. I codici deontologici delle diverse professioni usano il singolare: il medico, l’infermiere, il fisioterapista ecc. fa/non fa, deve/non deve… La realtà è invece quanto mai plurale. Le posture assunte – dove confluiscono conoscenze e valori, oltre che le proprie convinzioni sul mondo e la decisione di come collocarsi in esso – incidono profondamente sul modo in cui si svilupperà la cura. In particolare hanno un grande impatto sul profilo che prendono le cure di fine vita. Si tratta di assumerne la consapevolezza, da una parte come dall’altra dello scenario della cura. E se il percorso di fine vita si sviluppa in modalità di accompagnamento, scegliere, per quanto possibile, i compagni di viaggio appropriati.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  • Sandro Spinsanti: Morire in braccio alle Grazie. La cura giusta nell’ultimo tratto di strada, Il Pensiero Scientifico, Roma 2017.
  • Consulta scientifica del Cortile dei Gentili: Dialogo sul suicidio medicalmente assistito, Cnr Edizioni, Roma 2024.
  • Adam Kay: Le farò un po’ male. Diario tragicomico di un medico alle prime armi, tr. it. Lastarìa Edizioni, Roma 2018.
  • Pierre Bourdieu: Sul concetto di campo in sociologia, tr. it. Armando Ed., Roma 2011.
  • Laura Formenti: Formazione e trasformazione. Un modello complesso, Raffaello Cortina Ed., Milano 2017.
  • Claudio Rugarli: Medici a metà. Quel che manca nella relazione di cura, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017.   
  • Tiziano Terzani: Un altro giro di giostra. Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo, Longanesi, Milano 2004.
  • Alberto Scanni: Quel che resta di te. Un padre racconta la malattia del figlio, ed. Ancora, Milano 2023.
  • Thomas Mann: I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia, tr. it. Einaudi, Torino 2014.
  • Jerome Groopman: Anatomia della speranza. Come reagire davanti alla malattia, tr. it., Vita e Pensiero, Milano 2005.
  • Paul Kalanithi: Quando il respiro si fa aria. Un medico, la sua malattia e il vero significato della vita, tr. it. Mondadori, Milano 2016.
  • Paolo Trenta: “Postura”, in Massimiliano Marinelli (a cura di): Dizionario di Medicina Narrativa, ed. Scholé, Brescia 2022.
  • Paolo Trenta: La postura narrativa. I modi essere della cura, Castelvecchi, Roma 2024.
  • Sandro Spinsanti: La medicina salvata dalla conversazione, Il Pensiero Scientifico, Roma 2018.

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