Il mio psicoterapeuta si chiama “AI”

L’Intelligenza Artificiale non cessa di stupirci. E di preoccuparci. Il suo campo d’azione si amplia di giorno in giorno. Ora siamo invitati a portare la nostra attenzione su un suo sottoprodotto, che potremmo chiamare “la gentilezza artificiale”. La qualifica di artificiale affibbiata alla gentilezza non ha nulla a che fare con un eventuale atteggiamento ipocrita di chi la manifesta. È collegata all’AI, più precisamente ai chatbot con cui si può dialogare, previo invio del prompt adeguato. La notizia che circola è che molti giovani ricorrono a questi strumenti informatici come partner per una conversazione. A loro chiedono consiglio, supporto; si interfacciano con l’algoritmo, in una dimensione che sentono intima e protetta. La segretezza è considerata il grande valore di questo rapporto. Niente a che vedere con le situazioni di vita quotidiana, in cui gli interlocutori con cui confrontarsi sono i genitori e gli insegnanti. Non solo la famiglia ma anche la comunità educativa rischia di essere disintermediata dal rapporto individuale con l’AI.

Quando il dialogo con la “gentilezza artificiale” ha per oggetto problemi emotivi e disagi psicologici, e la ricerca di una risposta ad essi, entriamo in un ambito che ha stretti rapporti con la psicoterapia. Cresce esponenzialmente il numero di giovani – e di non più giovani – per i quali l’AI prende il posto del terapeuta a cui affidarsi per risolvere le proprie situazioni esistenziali problematiche. Sempre disponibile, il chatbot dispensa consigli. Senza le scomodità, i vincoli e i costi di un rapporto con il professionista della cura psicologica. Certo, dobbiamo considerare che, secondo la felice definizione dello psichiatra Irvin Yalom, la psicoterapia si svolge all’interno di un rapporto “artificialmente vero”. Verità e artificio – costruzione di una relazione all’interno di regole standardizzate – si bilanciano per condurre a un cambiamento. L’artificio di un rapporto di psicoterapia, e in senso più ampio con tutti i professionisti della cura, non è parente dell’AI. Ha a che fare con un comportamento controintuitivo, diverso da quello che teniamo abitualmente con le persone con le quali veniamo in contatto. Noi distinguiamo tra amici e nemici, gente da frequentare e altra da evitare. Soprattutto facciamo giudizi sugli altri, qualificandoli moralmente. L’artificiosità della relazione professionale del terapeuta richiede la sospensione del giudizio sul profilo biografico e sulle qualità della persona: buoni e cattivi vengono trattati allo stesso modo. A questa artificiosità i professionisti della cura danno il nome di regole deontologiche. Al suo interno avviene però l’incontro con la persona reale del terapeuta: questo è l’elemento di verità. Tutto ciò viene a mancare nell’interscambio esclusivo con l’AI. La sua facilità è illusoria. Manca l’elemento di “verità” che invece è veicolato dall’interscambio personale.

 Se coloro che tengono le fila del SSN fossero indotti a vedere nella psicoterapia affida all’AI una soluzione a portata di mano, in epoca di scarse risorse per lo stato sociale, rischieremmo un degrado catastrofico della tutela della salute mentale affidata alla sanità pubblica.  


Leggi l’articolo sul Corriere della Sera:

https://www.corriere.it/salute/figli-genitori/adolescenza/25_ottobre_04/quali-sono-i-rischi-della-gentilezza-artificiale-940f3013-0b70-4fc7-8750-2e94e0415xlk.shtml

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