“Non eravamo preparati”: è uno dei temi ricorrenti tra le innumerevoli analisi della pandemia che abbiamo ascoltato. La capacità di far fronte all’emergenza ha un termine tecnico: preparedness, in inglese. Prevista teoricamente dai programmi ministeriali, di fatto la preparedness del nostro sistema pubblico non è mai stata messa in grado di funzionare. L’insufficienza di preparazione è stata per lo più postra in rapporto con le risorse tecniche (dispositivi di protezione, posti in rianimazione, farmaci …) e di personale sanitario. Non ci siamo però spinti a domandarci se la medicina praticata in clima di normalità era adeguata a far fronte allo tsunami che ci avrebbe travolto. La questione non è secondaria. Perché se la normalità aveva già in sé i presupposti per far deragliare la pratica della cura, la nostra aspirazione non può essere semplicemente quella di chiudere la parentesi dell’emergenza per tornare alla normalità precedente: dobbiamo aspirare a una “diversa normalità”. E questo non solo nell’ovvia predisposizione delle risorse necessarie, ma nel rapporto stesso tra professionisti della cura e cittadini.
Tra i tanti aspetti meritevoli di considerazione, ne isoliamo due: la distanza fisica e l’informazione. Il distanziamento è stato uno degli aspetti più spettacolari della pandemia. I curanti hanno dovuto avvicinarsi ai malati di covid ricoverati nei reparti appositi, privati di una risorsa fondamentale nel rapporto con il malato: la vicinanza fisica. Mentre prima si presentavano rivestiti di un leggero camice bianco, ora sono bardati – cuffia, calzari, camice impermeabile, maschera filtrante, visor, doppio paio di guanti – come astronauti, distanti anni luce dagli altri esseri umani, o come palombari che emergono dagli abissi. Le parole stesse stentano a passare attraverso la barriera della maschera. Per non parlare dell’esclusione della comunicazione non verbale, che nella normalità trasmette più informazioni delle parole stesse. Le tute, impenetrabili al virus, sembrano esserlo anche alle parole e tendono a soffocare i sentimenti.
E che dire dello sguardo? Nella situazione di isolamento creato dall’emergenza, sembra essere restato il canale privilegiato. Quattro medici che durante la prima emergenza sono stati in servizio nell’ospedale san Giovanni Bosco di Torino hanno raccontato le loro esperienze dando al libro un titolo molto efficace: Abbracciare con lo sguardo (Il Pensiero Scientifico, 2020). Una delle sfide più difficili che hanno dovuto affrontare è stato trovare modi inediti per essere vicini ai pazienti, ricorrendo appunto allo sguardo. Ma proprio il contatto oculare è quanto sentiamo carente in condizioni di normalità. Faceva notare acutamente la linguista Lucia Fontanella, proponendo riflessioni sulla comunicazione in ambito clinico sulla base dei propri ricordi ospedalieri: “Se siete stati in ospedale, soprattutto da malati, avrete notato quante strategie sanno usare i medici e gli infermieri per non incrociare lo sguardo dei pazienti. Hanno paura di essere ‘arpionati’, hanno paura di una domanda, hanno paura di incontrare le persone che sono i malati” (La comunicazione diseguale, Il Pensiero Scientifico, 2011). Ancor più provocatoriamente, Pino Roveredo nel romanzo Ci vorrebbe un sassofono (Giunti, 2019) mette in bocca a una paziente la domanda pungente rivolta con cortesia al suo medico: “Scusi se mi permetto, sa per caso di che colore sono i miei occhi?”. Siamo nell’ambito delle lagnanze tante volte ascoltate da parte dei malati nei confronti dei medici che per tutta la durata della visita non hanno mai staccato gli occhi dallo schermo del computer, dove erano riportati i dati clinici delle analisi a cui il malato è stato preventivamente sottoposto.
L’emergenza della pandemia può avere questo insperato effetto benefico: distogliere i curanti dalla fascinazione crescente esercitata su di loro dalla comunicazione digitale, per riportarli sul terreno solido di una cura che passa attraverso i sensi. La vista in primo luogo. In competizione con l’udito: perché l’ascolto è il primo atto di un processo comunicativo. Precede la parola e l’accompagna nella conversazione. È esattamente il contrario della medicina “sordomuta” che prevale tristemente nella normalità. E naturalmente il tatto, a cui affidiamo il bisogno di vicinanza, soprattutto quando le risorse terapeutiche hanno toccato il fondo e il bisogno prevalente è quello di essere accompagnati nell’ultimo tratto di strada. È allora che la medicina scopre quanto l’high touch prevalga sull’high tech.
Questo ammonimento diventa tanto più urgente nel contesto culturale denunciato da Giampaolo Collecchia e Riccardo De Gobbi: Intelligenza artificiale e medicina digitale (Il Pensiero Scientifico, 2020). Il decadimento della relazione medico-paziente non può che essere accelerato dalla perdita della fisicità, sostituita dalla digitalizzazione. A cominciare dalla diagnosi, affidata ad algoritmi. A loro avviso, “la diagnosi non è solo mettere un’etichetta a ciò che il paziente presenta, ma un evento sociale tra due persone che si confrontano e arrivano a costruire e condividere il significato di ciò che sta accadendo”. Se la priorità data al fattore umano va a scomparire, il professionista sanitario assomiglierà sempre più a un operatore di call center.
Un secondo tratto problematico della normalità, sul quale non siamo soliti fissare la nostra attenzione, è quello dell’informazione ai cittadini che si sottopongono ai trattamenti. Lo spunto ci è fornito dal consenso informato nella pratica delle vaccinazioni anticovid. Merita davvero che dedichiamo attenzione a un aspetto così marginale della lotta alla pandemia? Talvolta sono proprio dei piccoli fatti fuori asse, che cogliamo con la coda dell’occhio, a fornirci spunti istruttivi. Per iniziare dai fatti: chi si accosta al vaccino si aspetti che gli verrà sottoposta una documentazione cartacea di tutto rispetto. Moduli di cosiddetto consenso informato da firmare, anzitutto. Come ormai è routine, porrà la sua firma (per lo più senza leggere…) e il modulo rimarrà nelle mani di chi glielo ha sottoposto. Probabilmente chi firma ha fatto propria l’informazione più importante: che le eventuali conseguenze negative ed effetti collaterali ricadranno su di lui/lei, perché chi fa fornito il vaccino mediante la firma si è procurato un preventivo scarico di responsabilità. Ormai è questo il messaggio che la pratica diffusa è riuscita far passare: “Firmo. Così, se succede qualcosa, la responsabilità non è vostra, perché me lo avevate detto che mi poteva capitare!”. Anche per questo al firmatario non viene rilasciata copia: tanto serve a chi deve tutelarsi, non a chi rischia. Il vaccinato riceve invece un “allegato 1 al modulo di consenso”: tre fogli densi, con un elenco di possibili reazioni avverse – molto comuni, non comuni e rare – con l’avvertenza che l’elenco non è esaustivo. I primi a ricevere il vaccino sono stati i medici; si presume che, almeno per loro, l’informazione sia trasparente. Ma che cosa avviene quando in fila si mettono i cittadini più anziani e meno acculturati? E quando tocca agli ospiti delle RSA, magari con più o meno marcati deficit cognitivi?
Consenso estorto, con l’inganno o con la reticenza? L’emergenza ha fatto affiorare un problema che esisteva ben prima dell’epidemia e oltre il consenso alla vaccinazione: la perdita di fiducia nei medici e nella medicina. Coloro che cercano di smontare le esitanze vaccinali presenti anche in percentuali preoccupanti di operatori socio-sanitari raccolgono come motivazione più frequente: ”Io non mi fido” (dei medici, di Big Pharma, degli scienziati vari, dei dirigenti ed amministratori sanitari…). Solo questione di ignoranza? Certo, è opportuno il richiamo fatto dalla Commissione Regionale di Bioetica al detto di Machiavelli: ”Dove men si sa, più si sospetta” (Parere n. 2, 2021: “Campagna vaccinale COVID 19”). Le radici sono tuttavia più profonde: si tratta del crollo della fiducia. È il tarlo insidioso che rode la medicina dall’interno e rischia di sfasciare l’intero edificio della cura che abbiamo ereditato.
C’è chi pensa che la terapia del male nascosto della medicina possa consistere in un ritorno alla relazione che in passato si instaurava tra i sanitari e i malati. In Francia è appena stato pubblicato un libro-manifesto: Je ne tromperai jamais leur confiance (Ed. Gallimard, 2021). Lo propone Philippe Juvin, un medico che gode di alto prestigio e che si appresta a entrare nell’agone politico. Appoggiandosi esplicitamente a una formulazione da giuramento ippocratico – “Non ingannerò mai la loro fiducia” – evoca un’epoca in cui il rapporto di cura richiedeva due atteggiamenti simmetrici: la “scienza e coscienza” del curante e l’appoggiarsi fiducioso a lui da parte della persona in cura. Si era soliti chiamare questo rapporto “alleanza terapeutica”. Ebbene, è quanto mai ora di rendersi conto che quel modello è definitivamente superato. Soprattutto se lasciamo risuonare nel concetto di alleanza la dimensione sacrale che lo caratterizza nella tradizione ebraico-cristiana. Quel tipo di alleanza non è un contratto tra parti uguali per potere e per iniziativa: è chi sta in alto – la divinità – che concede l’alleanza alla controparte umana; e pone anche le condizioni/comandamenti da osservare per poter restare nell’alleanza. Se l’eco di questa concezione poteva ancora essere percepita nella pratica medica del passato, è del tutto anacronistica ai nostri giorni. L’alleanza è solo concepibile come realtà laica, su un piano di parità. È stretta tra parti consapevoli, non concessa per benevolenza. Comporta impegni reciproci e trasparenti tra i partner.
È ben vero che l’asimmetria – di sapere e di potere – resta intrinseca alla relazione terapeutica. Ma andrà gestita diversamente rispetto al passato. Soprattutto è necessario rimettere in discussione il cammino per il quale ci siamo avviati, eloquentemente raffigurato dal moltiplicarsi della modulistica tra i professionisti e le istituzioni che offrono la cura e i cittadini che la ricevono. Quella montagna di carte è il simbolo stesso della diffidenza che ha preso il posto della fiducia. Il primo passo è dunque riconoscere, con onestà, che stiamo percorrendo con tenacia la strada sbagliata. Moltiplichiamo pervicacemente moduli su moduli, senza accorgerci che stiamo ottenendo l’esatto contrario di ciò di cui abbiamo bisogno: reciproca ostilità, invece di apertura; distanziamento, invece di vicinanza; sistematico sospetto, invece di trasparenza.
Come costruire un nuovo rapporto di fiducia in medicina? “Si parva licet componere magnis”, suggerirei di prendere in considerazione le strategie che la lettera enciclica Fratelli tutti (n. 231) immagina circa la costruzione della pace. Le sintetizza in due percorsi: architettura e artigianato. L’architettura rimanda a solide, ma chiare, strutture legali e deontologiche. La fiducia ha bisogno di essere difesa da un disegno delle responsabilità, che faccia anche diminuire l’incombere minaccioso delle cause legali. Una medicina sicura deve esserlo, in primo luogo, per il professionista. Non può esercitarla se si sente continuamente sotto il ricatto di possibili denunce, qualora l’esito della cura non corrisponda ai desiderata di chi la richiede. L’artigianato, invece, evoca il lavoro quotidiano di promozione della partecipazione informata e consapevole al percorso di cura. È il tessuto di una relazione fatta di ascolto e interrogazione, narrazione e informazione recepibile secondo i diversi livelli di cultura (“Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”: Legge 219/2017 Norme sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento). Quello che può produrre una “conversazione” paziente non può essere sostituito dalla più furba modulistica di stampo difensivo.
E della catasta di moduli, che ne facciamo? Modesta proposta: un falò, attorno a cui si scaldino i pionieri di un nuovo modello di fiducia in medicina, decisi ad abbandonare il modello burocratico-difensivistico e a immaginare una diversa “normalità” in futuro.
-pubblicato in TOSCANA MEDICA n.5/2021