Sommario
Abbinare la spiritualità alla palliazione richiede, prima ancora di un’organizzazione appropriata, alcuni chiarimenti concettuali rivolti a dissipare possibili malintesi. A cominciare dal fatto che l’accompagnamento spirituale non si identifica con pratiche religiose tradizionalmente abbinate al fine vita: ha una portata più ampia, che nasce anche da prospettive laiche e immanenti. È radicato inoltre nella cura, nella sua triplice valenza di trattamenti clinici di natura medico-professionale, di legami di appartenenza familiare e sociale, e di ricerca personale di autorealizzazione. La cura può così assumere la qualificazione di “spirituale” seguendo molteplici e differenziati percorsi, nella modalità dialogica di un accompagnamento rispettoso. Questa prospettiva ci fa trovare in sintonia con la dizione anglofona che tratta la spiritualità non come un sostantivo, ma come un aggettivo, presentandola come “spiritual care”.
La pubblicazione di un documento da parte della Federazione Italiana di Cure Palliative sul ruolo del volontariato nell’assistenza spirituale nel percorso di palliazione offre l’occasione per una riflessione sul tema. Soprattutto sollecita a fare una puntualizzazione di scenario. Siamo consapevoli, infatti, che ci muoviamo in un ambito soggetto a molti malintesi. Alcuni di questi riguardano i concetti stessi di palliazione e di spiritualità; altri dipendono dal loro modo di rapportarsi. Sulle cure palliative grava l’ombra della residualità, che scatta quando vengono intese come presa d’atto che “non c’è più nulla da fare” e si traducono in un invito ai professionisti sanitari a passare la mano a chi accompagnerà il malato a morire. La spiritualità, poi, rischia di essere confinata nei rituali religiosi che circondano la morte. In passato era standardizzato il modello del ritiro del medico dallo scenario della cura per lasciare il posto al prete, quando la situazione clinica evolveva fino al punto critico, che richiedeva la sostituzione del professionista della cura con uno che rappresentava l’accompagnamento spirituale con i suoi specifici punti di riferimento (anima vs. corporeità, vita eterna vs. esistenza terrena, rituali appropriati allo scenario del morire e delle esequie). L’immagine caricaturale della spiritualità al letto del malato si acuisce quando al funzionario della religione si attribuisce un comportamento manipolatorio, che approfitta della debolezza psicologica dell’infermo per indurre un cambiamento che successivamente verrà proclamato come conversione “in articulo mortis”. Purtroppo macabre e disgustose prevaricazioni di questo genere gravano sulla spiritualità come componente del percorso di fine vita e possono compromettere la ricezione della proposta di un accompagnamento spirituale.
Il peso del passato si traduce quanto meno in una diffidenza, quando si invoca l’abbinamento della spiritualità con la palliazione: significa un ritorno a quel modello di sostituzione della cura medica con qualcosa d’altro o un approccio nuovo e diverso? La riflessione dovrà iniziare con qualche chiarimento di fondo, rivolto a dissipare i possibili equivoci.
- La palliazione radicata nella cura
Per palliazione coloro che la praticano correttamente – soprattutto come cure precoci e simultanee – intendono un modo di continuare la cura, non un’alternativa alla cura stessa. Questa non cessa di essere tale, anche quando sono esaurite le risorse terapeutiche; anche se non può prolungare la vita che rimane, la cura può ancora renderla vivibile; dignitosa e umana, permettendole di essere vita auspicabile finché si conclude con la morte.
Il secondo concetto da mettere bene a fuoco è quello di spiritualità. Questa non ha solo una faccia religiosa, tanto meno se intesa come un insieme di ritualità riservate a chi si trova sull’estrema soglia della vita. Nell’ambito della spiritualità confluiscono molte esperienze umane, che possono svilupparsi al di fuori del riferimento alla divinità e alle pratiche di una religione. Resistendo alla seduzione di partire da una definizione, possiamo quanto meno circoscrivere la spiritualità nell’ambito di un’esistenza umana vissuta con la massima tensione di autorealizzazione e di trascendimento, come un alzarsi sulla punta dei piedi sulla terra.
Anche dando – ottimisticamente – per scontato che i concetti fondamentali di palliazione e spiritualità siano acquisiti, il nostro compito di chiarificazione è tutt’altro che terminato. Soprattutto se la spiritualità è concepita come una realtà da aggiungere alle cure palliative (naturalmente dopo aver fatto i conti con la correttezza clinica assicurata dalla scienza, con l’organizzazione sanitaria che garantisce assistenza a tutti quelli che hanno diritto e bisogno, con il rispetto dei valori personali e della dignità come insegna la bioetica). Per chiarire il nostro approccio, avviciniamoci al tema con una piccola modifica linguistica: piuttosto che parlare di spiritualità – intesa come sostantivo – pensiamola come un aggettivo. La cura palliativa è il sostantivo e “spirituale” l’aggettivo che la qualifica. Ci troviamo così in perfetta sintonia con la caratterizzazione anglofona del nostro tema, che parla di “spiritual care”: le cure e il prendersi cura come sostantivo, e lo spirituale come aggettivo qualificativo.
- La cura clinica in armonia con la qualità spirituale
Non si tratta di un escamotage linguistico, ma di un invito ad affacciarci a più ampi orizzonti rispetto a quelli che confinano trattamenti curativi e spiritualità in ambiti diversi e isolati. A cominciare dalla nozione stessa di cura. Quella assicurata dalla pratica clinica e dai suoi professionisti è solo una parte della cura stessa. Nell’ambito delle patologie che richiedono la palliazione è ovviamente il primo punto di riferimento. Se questa modalità di cura è carente degli elementi essenziali che permettono di inquadrarla come buona cura, non la possiamo qualificare come spirituale, qualunque sia la forma della spiritualità che immaginiamo di aggiungere.
Per essere concreti, nella definizione di buona cura sanitaria possiamo appoggiarci alla definizione proposta dal movimento della Slow Medicine, che richiede alle cure di essere “sobrie – rispettose – giuste”. La sobrietà ha a che fare con la giusta misura. Né troppe, né troppo poche; e la giusta misura non è solo stabilita da linee giuda e da protocolli da seguire pedissequamente, ma va modellata sartorialmente sulla singola persona malata. Non possiamo immaginare di qualificare come spirituale un intervento che violasse questo criterio fondamentale. Immaginiamo un malato inchiodato in una situazione di sopravvivenza dolorosa e indesiderata, che a suo giudizio violi la propria dignità: come potremmo giustificare, in nome della spiritualità, interventi che si innestano su una cura fuori misura? Sappiamo purtroppo che alcune visioni ideologiche, religiose e laiche, in nome della indisponibilità della vita proclamano l’indifferenza della clinica nei confronti della volontà del malato di mettere dei limiti agli interventi curativi. Non possiamo assolutamente qualificare come spirituale una medicina che rifiutasse di “astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili e sproporzionati” (legge n. 219 del 2017). E ancor meno se facesse mancare i trattamenti rivolti a prolungare la sopravvivenza desiderabile del malato.
In secondo luogo le cure sanitarie possono essere qualificate come rispettose se hanno nel loro background una competenza comunicativa. Immaginiamo quanto sia dissonante un’informazione ridotta a: “La sua patologia non risponde più a trattamenti curativi. Passiamo a cure palliative”, magari accompagnata dalla chiusura di un rapporto, lungo e consolidato, con lo specialista d’organo a cui il malato si è magari per lungo tempo riferito e dal rinvio allo specialista della palliazione… La competenza comunicativa deve riguardare tutto il rapporto di cura, con continuità. E naturalmente non può mancare a chi si assume il compito di un accompagnamento spirituale. Anche in questo caso la competenza comunicativa inizia con l’ascolto, non con l’informazione. Niente è più lontano da un accompagnamento spirituale auspicabile di un rapporto che si presentasse come un indottrinamento.
Le cure sanitarie, inoltre, sono giuste se non sono riservate a forme di privilegio, se non discriminano, se sono espressione di un servizio sanitario universalistico. La diversità della copertura delle cure palliative sul territorio nazionale ci interpella fortemente; né l’accompagnamento spirituale può essere un surrogato di cure palliative carenti. In una sanità che non rispondesse a criteri di equità e giustizia, violando il diritto alle cure palliative di tutti i cittadini già riconosciuto dalla legge n.38 del 2010, l’assistenza spirituale suonerebbe come una stonatura. Non vorremmo che l’acuirsi dell’attenzione per la spiritualità abbinata alle cure palliative mettesse in ombra il fatto che la loro diffusione è carente a livello nazionale e non rispetta i criteri della giustizia sociale. In tal modo la spiritualità rischia di apparire come una spolveratina di zucchero a velo su una torta, che però è macroscopicamente carente. Sarebbe piuttosto da denunciare come un fenomeno di “spirituality washing”…
- Quando la spiritualità è sinonimo di rete di relazioni
Un’altra dimensione della cura, oltre a quella clinico-professionale, è quella sociale. È importante in tutto il percorso esistenziale, ma lo è in particolare nel segmento di vita di competenza delle cure palliative. La malattia nella forma di acuzie crea per lo più un senso di emergenza e mobilita interventi sia nell’ambito della comunità familiare, sia socialmente. Al contrario di ciò che avviene quando prevale la cronicità. L’isolamento, l’allentamento dei legami, il senso di abbandono: sono tutte forma di patologia a cui risponde l’accompagnamento spirituale. Può comportare aspetti rituali e pratiche culturalmente qualificate. Pensiamo, per esempio, quanto è importante per certe culture presenti nel nostro territorio un trattamento di fine vita e di riti funebri espressi dalla propria comunità di appartenenza.
A illustrazione rievochiamo una stanza messa in scena nella pièce teatrale Nachlass (Lascito) dal regista svizzero Stefan Kaegi, rappresentata anche in Italia. A partire da un’inserzione in un giornale, rivolta a “persone in fin di vita disposte a intrattenersi su questa esperienza”, sono state raccolte numerose testimonianze. Tra queste ne sono state scelte otto e messe in scena in altrettante stanze, che lo spettatore era invitato a visitare per raccogliere i diversi lasciti. Un campionario di varia umanità, con un solo denominatore comune: tutte le otto persone selezionate si trovavano con un piede sull’ultima soglia, sospinti dall’età, dalla malattia o dalla volontà di concludere la vita. Una delle stanze era riservata a un immigrato turco, vissuto lungamente in Svizzera. La sua volontà era riassunta nell’aspirazione che il suo corpo defunto fosse trattato con i rituali propri della tradizione religiosa e culturale islamica e fosse poi riportato in patria. Solo così la sua vita sarebbe stata degnamente conclusa.
Altre forme sono di carattere più psicologico: come riallacciare un rapporto compromesso, chiedere perdono, lasciare uno specifico ricordo. Nel romanzo di Delphine de Vigan: Le gratitudini (1) la protagonista, che sta vivendo la fase conclusiva della sua vita in una residenza per persone non più autosufficienti, ha un ultimo desiderio: qualcosa che in psicoterapia si chiamerebbe un unfinished business, un compito che vorrebbe portare a termine. Ha lasciato in sospeso un gesto di ringraziamento verso la famiglia che l’ha ospitata da bambina. Durante l’occupazione nazista della Francia, lei ebrea rischiava di essere deportata. La madre l’ha affidata a una coppia incontrata casualmente, prima di finire lei stessa in un campo di sterminio. La coppia ha nascosto la bambina per tre anni, a proprio rischio. Ora Michka, prima di concludere la sua vita, vorrebbe far giungere il suo ringraziamento ai suoi salvatori. Sulla base dell’esperienza acquisita sul campo, un operatore della struttura le dice:
“Crediamo sempre di avere il tempo di dire le cose, poi all’improvviso è troppo tardi. Due o tre cosette di commiato… ‘È stato bello’, ‘Felice di averla conosciuta’, ‘Onoratissimo’, ‘Piacere’, ‘Buon viaggio’, ‘Buona continuazione nell’ignoto’, ‘Grazie di tutto’, non so!”
Per Michka la parola da dire è una sola: “Grazie”. E riesce, con l’aiuto di chi l’assiste benevolmente, a farla arrivare alla donna che l’ha accolta e protetta, ormai centenaria e ospitata a sua volta in una residenza per anziani. Il racconto Le gratitudini è costruito intorno al “Grazie” di Michka. Non è una semplice formula di cortesia; ha una valenza tutta speciale: è la spina dorsale che tiene in piedi la narrazione di una vita intera. Attraverso la gratitudine, la sua esistenza aveva preso forma completa. L’accompagnamento che aiuta ancora a dare forma ai legami familiari e sociali, quando la vita li sta per infrangere irreparabilmente, merita a pieno diritto la qualifica di spirituale.
- La propria vita in sintesi
Una terza – e suprema – forma di cura è quella che potremmo chiamare esistenziale. Equivale a ciò che ognuno è chiamato a fare della propria vita, ciò a cui riesce a dar forma. O fallisce nel realizzarla. Quando il vivere, o anche il tirare a campare, sta scivolando verso la chiusura del sipario, giunge il momento dei bilanci. Come quello che Lev Tolstòj immagina che faccia Ivàn Il’ic nel romanzo che porta il suo nome: non solo un capolavoro letterario, ma un’opera rilevante per descrivere il ruolo della spiritualità nella conclusione della vita. Nel momento supremo, prima di precipitare nel tunnel dell’incoscienza, Ivàn Il’ic getta uno sguardo retrospettivo sull’insieme della propria vita, così come l’ha vissuta, avvolta nel morbido tessuto dei suoi valori borghesi, ma irrilevante da un punto di vista superiore. “Sì, tutto è stato come non avrebbe dovuto essere, ma non importa”, sono le parole che gli mette in bocca il romanziere (2). Anche riconoscere il proprio fallimento esistenziale permette al protagonista di passare serenamente la soglia.
A questi bilanci di autorealizzazione alcuni danno una forma religiosa (esemplare in questo senso la sintesi negativa della propria vita che traccia sulla croce il buon ladrone, conclusa con una promessa che si apre sulla trascendenza: “Ti assicuro che oggi sarai con me in paradiso”: Luca 23,42); altri si mantengono in un orizzonte di laicità e immanenza. Sia all’uno che all’altro percorso possiamo attribuire la qualifica di spirituale. Un’efficace metafora di questa spinta verso una sintesi esistenziale è quella offerta da Elisabeth Strout nel suo romanzo: Raccontami tutto (3). Sono in scena due donne, una scrittrice e l’altra un’anziana semplicemente curiosa della vita degli altri. Tra loro si instaura una gara a raccontarsi storie di persone che hanno conosciuto o delle quali hanno sentito parlare, perché “in ogni vita c’è qualcosa che vale la pena di essere raccontato”; soprattutto nelle vite ignorate, che non hanno lasciato traccia. Per trovare il senso che abbia avuto qualsiasi vita – concordano la due donne disposte a raccontarsi tutto – bisogna cercare “il punto”. Questo, a loro avviso, è lo stesso in tutte le storie. Concludono le due protagoniste: “Il punto è lo stesso in tutte le storie che ci siamo scambiate. Le persone soffrono. Vivono, hanno qualche speranza, a volte anche un amore, ma soffrono lo stesso. Nessuno escluso. Chi pensa di non aver sofferto, si sta mentendo”. Successo, fallimento, amore avuto o negato: questo punto di vista superiore – che talvolta si presenta come punto di svolta, altre come punto di sintesi – riesce a iscrivere una vita intera dentro una parabola che acquista un senso.
Nessuna idealizzazione, tuttavia, in questa ricerca del punto focale. Molti bilanci sono difficili da tracciare. E soprattutto non tutte le persone hanno la capacità e la volontà di affrontare questo compito. Perciò qualsiasi forma di accompagnamento spirituale in questo ambito deve partire da un ascolto attento della disponibilità della persona a intraprendere il percorso: perché la spiritualità non si può trapiantare nella vita di un altro, ma se ne può solo secondare la crescita.
Una traduzione operativa di questa ricerca personale di una sintesi è la “terapia della dignità”, proposta dallo psichiatra canadese Harvey Chochinov. L’obiettivo è aiutare la persona che si trova sul crinale dell’ultima fase della vita a lasciare un documento che sintetizzi il proprio percorso e rafforzi i legami che con la morte prenderanno la fisionomia del ricordo. “Parole per il tempo che rimane”, come riassume chiaramente la procedura il sottotitolo del manuale che la illustra. Nonostante le categorie psichiatriche utilizzate da questo approccio, l’obiettivo è sintonico con quell’accompagnamento che si qualifica come spirituale. Il creatore del metodo si dichiara ottimista circa il suo impatto positivo sulla qualità del fine vita:
“La terapia della dignità non è in nessun senso una panacea, e ci sarà ovviamente qualcuno che non richiederà e non avrà bisogno di quest’approccio che valida il paziente e valorizza il senso. Tuttavia, nel caso di pazienti e familiari che sono propensi a utilizzarla, non ho il benché minimo dubbio che rimarrete impressionati e stupefatti da quello che la terapia della dignità può aiutare loro a ottenere. I vostri pazienti, le persone amate che lasceranno e probabilmente anche le generazioni future ve ne saranno perpetualmente grati” (4).
Conclusione
Filosofia, religione, psicoterapia, arte: molti sono i territori che confinano con quello che sfugge a una definizione, pur qualificandosi come ambito della spiritualità. Ci siamo approcciati seguendo i percorsi di cura, più specificamente delle cure palliative, nella loro molteplicità e complessità. Siamo diventati consapevoli di essere di fronte a una delle dimensioni dell’esistenza umana più difficilmente definibili. La spiritualità che tracima dagli aspetti pratici della cura, qualificandola come spirituale, è una modalità della cura stessa. Un obiettivo ambizioso, che non cessa di sfidarci tutti: professionisti sanitari, caregiver e persone che non cessano di voler dare un senso compiuto di autorealizzazione alla propria vita.
RIFERIMENTI BIBIOGRAFICI
- Delphine de Vigan: Le gratitudini, tr. it. Einaudi, Torino 2020.
- Lev Tolstòj : La morte di Ivàn Il’ic, in Tutti i racconti, vol. 2. Mondadori, Milano1991.
- Elisabeth Strout: Raccontami tutto, tr. it. Einaudi, Torino 2015.
- Harvey M. Chochinov: Terapia della dignità. Parole per il tempo che rimane, tr. it. Il Pensiero Scientifico, Roma 2015.