La medicina narrativa sul palcoscenico dei premi letterari

La piccola tribù dei cultori di medicina narrativa ha un buon motivo per festeggiare: un libro che può essere considerato un prodotto tipico del proprio ambito è stato insignito del prestigioso premio Strega 2023. Si tratta di Come d’aria, di Ada d’Amico (ed. Elliot, 2023), resoconto di un duplice percorso di malattia: della propria figlia, affetta da una gravissima cerebrolesione fin dalla nascita, e del carcinoma che ha colpito l’autrice stessa, portandola a concludere la sua vita prima di poter ricevere il riconoscimento letterario. A rallegrare chi guarda con interesse alla medicina narrativa in esergo del libro troneggia una citazione di Rita Charon, considerata la più autorevole rappresentante del movimento: “È necessario raccontare il dolore per sottrarsi al suo dominio”. Un libro, dunque, pienamente inseribile nell’ambito degli interessi che la medicina narrativa promuove.

Se ci rivolgiamo alla letteratura, non mancano narrazioni che hanno fatto della malattia, delle cure sanitarie, della dolorosa convivenza con la patologia e dello stesso percorso verso la morte l’oggetto del loro racconto. Come tutte le forme d’arte, possono contribuire ad ampliare il nostro orizzonte interiore e fornirci una comprensione più profonda del tessuto di corpo e spirito che costituisce la nostra realtà umana e che si estende sulla trama del vissuto esistenziale. Nel libro che ha appena ricevuto il riconoscimento del premio letterario Strega – insieme a numerosi altri: premio Campiello, premio Mondello, premio internazionale Flaiano speciale di narrativa 2023 – siamo di fronte a una sottospecie particolare di narrazione che si distanzia da quella che siamo soliti associare alla letteratura. È una narrazione che affonda le radici non nel progetto di creare qualcosa iscrivibile nel territorio dell’arte, ma nel bisogno di condividere un vissuto. In inglese queste narrazioni hanno il nome di “misery report”; in italiano le chiamiamo “racconti del dolore”. Una denominazione quanto mai appropriata: esattamente come indica la citazione di Rita Charon, sono finalizzati a imbrigliare il dolore, incanalandolo in un racconto delle proprie vicende.

Se è vero che abbiamo tutti una storia da raccontare, chi attraversa certi territori desolati si sente più giustificato di altri. E ne riceve un beneficio. Ada d’Amico si appoggia all’autorevolezza di Annie Ernaux, premio Nobel per la letteratura 2022, nel giustificare il libro dedicato all’interruzione della sua gravidanza: aver vissuto una cosa conferisce il diritto inalienabile di riferirla. Le narrazioni del dolore hanno un obiettivo terapeutico: per il narratore stesso in primo luogo, che condivide il beneficio con coloro che il racconto lo ricevono da ascoltatori-lettori. Ciò differenzia, in linea di principio, i racconti del dolore dalle narrazioni letterarie, il cui fine è fondamentalmente estetico. Si può essere più o meno d’accordo sul valore letterario di un “misery report”: il suo obiettivo è quello di riportare una tribolazione vissuta, e di raccontarla in un modo che suscita un’intensa partecipazione.

Il documento prodotto dalla conferenza di consenso promossa dall’Istituto Superiore di Sanità: “Linee di indirizzo per l’utilizzo della Medicina Narrativa in ambito clinico-assistenziale” (2014) nell’introduzione descrive accuratamente le due modalità narrative che abbiamo chiamato narrazione letteraria e racconti del dolore, differenziandole da quella appropriata per l’ambito clinico-assistenziale. Il tributo riservato al libro di Ada d’Amico sovverte la diligente ripartizione: in un contesto di premiazione di un’opera letteraria il posto d’onore è stato attribuito a un libro dal marcato profilo autobiografico di narrazione del dolore, che appare di per sé estraneo alla fucina dei prodotti letterari. Chi si avventura in un racconto del dolore non lo fa abitualmente con l’intenzione di partecipare a un concorso letterario: il racconto è fine a sé stesso; o piuttosto mira al beneficio psicologico che se ne può ricavare. Non possiamo che salutare con entusiasmo l’evento, che fa emergere un’attenzione a un genere di narrazione di per sé considerato non riconducibile ai canoni dell’estetica letteraria. Il libro è stato considerato bello, indipendentemente dalla sua utilità. L’apprezzamento per questa modalità di medicina narrativa può essere salutato come un progresso per la cultura letteraria, che non disdegna ciò che la scrittrice chiama “la banale normalità della malattia” e trova qualità estetica in un prodotto che esula dal perimetro della letteratura. Ovviamente la letteratura può trarre ispirazione da qualsiasi materia. Come afferma la poetessa Anna Achmatova, “Se sapeste da che spazzatura nascono i versi”. La vicenda biografica e clinica di Ada d’Adamo è particolarmente cruda. Meriterebbe un commento con le parole di Lev Tolstoj: “Se c’è qualcuno che dirige le cose della vita vorrei rimproverarlo. È troppo difficile e spietata”. Ma può sempre essere tradotta in un cammino di autorealizzazione; e diventare una narrazione, alla quale è possibile attribuire una qualifica letteraria.

A questo punto i cultori di medicina narrativa si sentono autorizzati a chiedersi: quale immagine emerge dal libro di Ada d’Amico della terza accezione di narrazione in medicina, quella fatta propria dal documento dell’ISS citato? Nell’ambito clinico-assistenziale con questa denominazione si intende una modalità d’intervento basato su “una specifica competenza comunicativa”; la narrazione – precisano le linee di indirizzo – è “lo strumento fondamentale per acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura”, così da pervenire alla costruzione condivisa di un percorso di cura personalizzato. In altre parole, siamo confrontati con un modo di praticare le cure sanitarie che si profila diverso da quello che si è sviluppato sotto il segno di un arrogante paternalismo, che ignora “il punto di vista” – ovvero il tessuto vitale – di chi le cure le riceve. Nel racconto di una madre caregiver nei confronti di una bambina che affronta la vita dal versante degli svantaggiati e malata lei stessa di una patologia molto aggressiva ci piacerebbe che affiorasse una pratica medica che ha fatto proprie le esigenze della modernità: una sanità praticata da professionisti che hanno abbandonato il modello di una pratica sordomuta, a favore di una cura sostanziata di parole e attenta al vissuto delle persone in cura. E in primo luogo capace di ascolto.

Sia chiaro: il racconto di dolore di Ada d’Amico non è un cahier di doléances contro la malasanità. Non si profila come un libro di denunce; tuttavia lascia affiorare, a tratti, episodi che sconcertano. Come il ginecologo che l’ha seguita durante la gravidanza e al quale lei si rivolge quando riceve la diagnosi della gravissima patologia cerebrale della neonata: “Gli comunicai quella prima, parziale diagnosi, gli chiesi di informarsi con i suoi colleghi di reparto, lo pregai di richiamarmi per darmi notizie. In cuor mio speravo che mi avrebbe rassicurato, invece reagì freddamente. Non mi telefonò, né quel giorno né mai”. Il caos nel quale è precipitata è segnato dal fenomeno che chiama la Grande Fuga: non solo nell’ambito sanitario, ma più in generale nei comportamenti sociali. Si trova ad affrontare per lo più da sola il percorso nel “lato oscuro della vita”, come lo ha chiamato Susan Sontag. Si deve frequentemente confrontare con professionisti sanitari maldestri nella comunicazione e avari di parole di conforto, che riducono la cura a prestazioni.

Senza eccedere in recriminazioni e accuse, l’autrice non manca tuttavia di lanciare qualche freccia nei confronti della “crudeltà di certi medici e l’inciviltà imperante”. Esattamente quelle modalità di cura e assistenza che la medicina narrativa in ambito clinico si propone di contrastare. Mentre sogniamo una cura in modalità di conversazione, ci scontriamo con una sanità affossata dalla maleducazione, prima ancora che dall’incapacità di relazionarsi. Alla scadenza di quasi un decennio dalle linee guida proposte dall’ISS, è urgente farle scendere dall’empireo dei buoni propositi per modificare la pratica quotidiana della medicina. Ben venga, dunque, il premio letterario che incorona un libro riconducibile al fecondo cantiere della medicina narrativa. Lo salutiamo come un passo significativo verso il grande cambiamento che è l’obiettivo ambizioso del movimento della medicina narrativa: dar corpo a una cura sobria-rispettosa-giusta, come la propone il movimento della Slow Medicine ed è nelle aspirazioni di tutti. Ci rendiamo conto, tuttavia, che l’obiettivo non può essere soddisfatto dall’attirare l’attenzione di una giuria su un racconto che ci fa partecipare a una via crucis biografica. Dietro la marmorea epigrafe di medicina narrativa c’è in realtà un corpo caldo: quello di una cura che non ignori quel vissuto, fatto di emozioni, decisioni conflittuali, rapporti familiari che si lacerano o si rinsaldano, percorsi autorealizzativi di cui Ada d’Amico ha saputo farci partecipi; insieme a tanti altri che la loro storia hanno deciso di non seppellirla nelle pieghe di una sanità impersonale, ma di raccontarcela in maniera contagiosa, con la rigogliosa fioritura dei racconti del dolore. Questa diversa pratica della cura rimane un obiettivo da realizzare che ci interpella tutti, professionisti e cittadini.

Comment 1

  • Anna molinariLuglio 18, 2023 alle 18:22

    Come paziente che nella narrazione ho visto via per risolvere i miei “nodi”
    Come medico che con l’Ascolto della narrazione ho tentato proposte per i malati
    Come figlia che tuttora rimpiango come mamma non abbia potuto, nei primi anni sessanta, trovar maniera di imbrigliare e incanalare il suo dolore evitando di sviluppare Malattia
    Come mamma che ancora non trovo modo di aiutare mio figlio ad esprimere il suo dolore se non attraverso la sofferenza del corpo …

    GRAZIE a Spinsanti, a Bert, … a quanti lavorano e lavoriamo per costruire un diverso modo di fare medicina

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