La mente, il cuore, le mani: le vie della cura

Ben venga la cura, quando è il suo tempo. Vale a dire, sempre. Almeno secondo la vulgata del mito narrato dallo scrittore latino Igino, secondo cui “finché l’uomo vive è di cura”. Benvenuta la cura in particolare quando la patologia invade il corpo e diventa una sgradita convivente, decisa a non mollare la presa finché non avrà spento ogni soffio vitale. Ma oltre al tempo della cura merita un’attenzione privilegiata la parabola che essa disegna nel suo sviluppo. Possiamo immaginare che la cura penetri nella nostra intimità attraverso tre varchi: la mente, il cuore e le mani.

Secondo l’autorevole testimonianza dello scrittore Javier Cercas, che ha seguito papa Francesco nel viaggio in Mongolia e ha scandagliato a fondo il suo pensiero, il pontefice riteneva che “mente – cuore – mani” dovesse essere il percorso obbligato per il missionario che intende annunciare il Vangelo (1). Con meno ambizione della proposta di salvezza, possiamo adottare la stessa strategia per il perseguimento della salute. Seguiremo il percorso segnato dalle tre parole, proponendoci anzitutto una pulitura semantica. Sono infatti termini molto usati e non di rado abusati; su di essi tende a posarsi una polvere che va spazzolata.

Le vie della cura che passano per la mente, il cuore e le mani coinvolgono simultaneamente sia i professionisti curanti che le persone avvolte dalla cura. Un’esigente riflessione deve avvenire da una sponda come dall’altra della cura stessa, affinché questa abbia il profilo auspicabile. E soprattutto le vie della cura si devono integrare. L’insidia peggiore è costituita da un loro rapporto avversativo: o l’una o l’altra. Hanno bisogno invece di rapportarsi con una “e” che le unisce: la cura deve passare per la mente e per il cuore e per le mani.

  • La mente

Nell’ambito della cura la mente ha diverse valenze. In senso generale rimanda alla razionalità, che deve assicurare le decisioni appropriate. Appellarsi alla mente rimanda al ragionamento. Siamo figli di una cultura che tende più al fare che al pensare. Tanto più nell’ambito del sapere specialistico, affidato agli esperti. Nel settore delle cure mediche prevale il riferimento alla scientificità, che garantisce che le cure non deraglino in pratiche esoteriche e superstiziose. Il giro di vite della razionalità ai nostri giorni è assicurato dall’intelligenza artificiale.

Sganciata dal “cuore” – assumiamo per ora il termine in senso intuitivo, prima di sottoporlo a un’indispensabile analisi – la mente può costituire un’insidia. Limitiamoci a immaginare un medico che riversi sul malato i dati di diagnosi e prognosi di una patologia, attendibilissimi dal punto di vista clinico – decorso della malattia, statistiche e percentuali di sopravvivenza, effetti collaterali indesiderati – senza alcuna considerazione delle risorse psicologiche ed emotive del malato per gestire l’informazione. La mente non è solo la sede di capacità computazionali, ma anche dei neuroni specchio, che permettono di condividere ciò che passa in un’altra persona. Se la mente è utilizzata esclusivamente nella sua funzione di calcolo, viene meno la capacità del pensiero nelle sue possibilità più inclusive. Avremmo una scienza medica impiegata ottimamente per “spiegare”, ma disattivata quanto al “capire”. Il solo calcolo non può comprendere le emozioni, che sono parte integrale della cura.

La mente in tutta la sua potenzialità chiede anche di essere attivata in chi le cure le riceve. Un richiamo ironico al ruolo che gioca la mente del malato è contenuto nel romanzo a valenza autobiografica di Mattia Torre: La linea verticale (2). Il cappellano dell’ospedale, di fronte ai modi inappropriati con cui molti malati affrontano la propria condizione, è solito ricorrere a una frase stereotipata: “È tutta questione di testa”; ed esorta insistentemente le persone verso le quali riversa le sue cure pastorali a “metterci la testa” (salvo poi, quando è il suo turno di ricevere una diagnosi di cancro, andar fuori di testa…).

Il significato profondo di questo appello alla mente è un invito alla “adultità”. Possiamo tradurre con questo termine più intuitivo l’empowerment che viene spesso evocato nel contesto sanitario. Si tratta di introdurre nel rapporto di cura un atteggiamento antitetico a quello tradizionale, che tendeva a “infantilizzare” tutti i malati, compresi gli adulti. Salutiamo con entusiasmo l’adultità quando riesce a portare nella vita di chi è colpito dalla malattia una consapevolezza nuova, un punto di vista diverso che induce a ristrutturare la propria esistenza, a darle magari una forma diversa da quella che aveva avuto finora.

Troviamo testimonianze in questo senso nei racconti autobiografici che ai nostri giorni abbondano quando qualcuno si trova a percorrere il cammino segnato dalla patologia.. “Ne scriverai?” (della tua malattia), chiedevano gli amici a Herman Koch, scrittore olandese. Proprio con questo titolo ha pubblicato la narrazione del suo percorso nella malattia (3), dichiarando che quando si è scoperto invaso dalla metastasi del cancro è cambiata la sua prospettiva su quasi tutto. La malattia non si aggiunge semplicemente al mondo come era prima, ma lo sconvolge. La psicologia della percezione qualificherebbe questo evento come un cambio di Gestalt, ovvero di rapporto figura – sfondo: ciò che prima costituiva lo sfondo diventa la figura, modificando completamente l’intero campo visivo. Sono rivoluzionamenti esistenziali che nessuna terapia medica produce autonomamente; perché avvengano è richiesto un impegno a tutto campo della mente del malato.

  • Il cuore

Far appello al cuore come via della cura è spontaneo, ma è insidioso. Il cuore, come la mente e le mani, e ancor più di queste due altre vie, ha bisogno di chiarimenti. Certo, il cuore ha una posizione centrale non solo nell’architettura del corpo e nella cura, ma anche nella vita quotidiana. Lo descrive eloquentemente Vittorio Lingiardi, dettagliando il corpo umano:

“Il cuore è nelle frasi di tutti i giorni: a cuor leggero, avere a cuore, col cuore in mano, un cuore di pietra, mi scalda il cuore, mi spezza il cuore, ha un cuore grande, cuor di leone, una stretta al cuore, occhio non vede cuore non duole. È nelle nostre parole: batticuore, crepacuore, rincuorare, malincuore; ma anche (da cor, cordis) cordiale, ricordo, coraggio. Il cuore è nei versi che amiamo: dall’ora dantesca “che volge il disio ai navicanti e’ntenerisce il core lo dì c’han detto ai dolci amici addio” (Purg. VIII. 1-3), al magistero umile e altissimo di Emily Dickinson: “se impedirò a un cuore di spezzarsi non avrò vissuto vanamente”. La nostra vita trascorre tra i dolori del cuore, le alterazioni del ritmo: quante volte ci siamo domandati se il suo cuore reggerà? Dopo lo scompenso, durante l’anestesia. E se reggerà il nostro, nel battito sordo del lutto” (4).

L’appello al cuore come parte nevralgica della cura è spesso implicito quando si invoca l’”umanizzazione” della medicina. Il rischio è che l’umanizzazione venga trascinata nell’ambito della filantropia e ridotta a buoni sentimenti, quando non a buone maniere. Invocare il cuore implica molto di più. Tanto per il curante quanto per il malato.

Il percorso più istruttivo nasce dall’abbinamento della mente con il cuore. Ci lasciamo introdurre in questo percorso da un’annotazione di un celebre anatomo-patologo, l’americano Franz Gonzalez-Crussì. Nel suo libro Organi vitali (5) racconta una piccola vicenda personale. Un giornalista gli chiede un sommario bilancio della sua vita professionale, passata a sezionare cadaveri. Sconcertato, il medico risponde: “L’esperienza mi ha insegnato che la nostra vita è legata a un filo, e vola via”. Al che il giornalista replica, senza batter ciglio: “In questo caso, dottore, lei non ha imparato un bel niente, perché questo lo sapevamo già”. Continua l’anatomo-patologo:

“A quel punto la mia confusione era al colmo e non seppi più che dire. Solamente in seguito, dopo molto riflettere, mi resi conto che il mio intervistatore aveva mancato di compiere una distinzione fondamentale; intendo dire la distinzione tra due modalità cognitive, dette sovente, metaforicamente, comprendere “con la testa” e “con il cuore”. Tramite la prima, quella intellettuale, tutti sappiamo bene che la vita è fugace e vulnerabile, ma questa nozione è una consapevolezza fragile ed embrionale, e dunque di tipo inferiore. Solo un ‘esperienza realmente sconvolgente, quale osservare per la prima volta un cadavere umano che viene dissezionato, o subire un lutto, è in grado di consegnarci la conoscenza piena – quella che viene dal cuore – circa la provvisorietà e labilità della vita”.

Questo sapere vissuto, che si produce quando mente e cuore si abbinano, è una risorsa per il curante, come lo è per qualsiasi persona. La percezione della fragilità e della condizione di precarietà fa parte del percorso sapienziale. “Quando siamo giovani, tutti sappiamo che moriremo, ma si tratta di un sapere intellettuale”; diverso è quando, in una casa di riposo per anziani, gli ospiti si salutano la sera augurandosi “A domani” e qualcuno, raggiunto da questa consapevolezza, risponde “Speriamo”. È la scena di un romanzo ambientato in una residenza per persone molto coinvolte con l’incombere della fine, per le quali la mortalità non è un sapere astratto. “Tutti sappiamo che esistono stelle più grandi del sole, è un fatto inconfutabile, ma saperlo non ci riguarda più di tanto. Perché non le vediamo. Perché non ci assorbono con la loro massa. Perché non ci bruciano da vicino”: è la spiegazione che un ospite della residenza dà a un altro, per spiegargli la differenza tra la mortalità come sapere astratto e il conoscerla con il cuore (6).

Una stroncatura sarcastica della pretesa di far equivalere la finitezza che si conosce intellettualmente con quella che si sente in modo esistenziale è offerta dal film Non ci resta che piangere (1984), di Roberto Benigni e Massimo Troisi. Quando quest’ultimo si sente rivolgere da un predicatore di stampo savonaroliano l’ammonimento: “Ricordati che devi morire!”, reagisce con un: “Mo’ me lo segno…”. Il passaggio del sapere dalla mente al cuore è tutt’altro che immediato. Fare appello al cuore non è quindi aprirsi al sentimentalismo, ma a una crescita in saggezza.

  • Le mani

Nel vortice di dichiarazioni e testimonianze che hanno fatto seguito alla morte di papa Francesco è risuonata anche quella rilasciata dal chirurgo a cui si era affidato per un intervento al policlinico Gemelli. Prima dell’intervento, il pontefice gli chiese di potergli benedire le mani. “Lui voleva dirmi: utilizza le tue mani per il tuo lavoro, ma utilizza le tue mani con il cuore nei prossimi anni”, dichiarò il medico nell’intervista. Ancora una combinazione nel percorso di cura: l’abbinamento di mani e cuore. Ancora un invito a un’esplorazione più approfondita, che si avventuri nel significato simbolico, oltre a quello oggettivo.

La cura è radicata nelle mani del curante. “Il chirurgo opera con le mani, non con il cuore”: è la tagliente affermazione attribuita a Alexandre Dumas figlio. È utile per disinnescare ogni possibile deriva verso un’inflazione sentimentale nella pratica medica. Le mani in questo contesto possono avere anche la valenza di un richiamo alla cura praticata con i cinque sensi. Il tatto acquista un valore centrale. Il suo ruolo era determinante nella pratica medica tradizionale. Oltre a una rilevanza diagnostica, ne aveva anche una antropologica: essere toccato significava per il malato entrare nel porto della cura, dopo le incertezze legate all’imperversare della patologia.

Non è superfluo lanciare allarmi sull’impoverimento di questa dimensione, a beneficio del dilagare di risorse tecnologiche. Senza svalutare il loro prezioso apporto, va però stressato il valore terapeutico di una cura che sa utilizzare l’orecchio – l’ascolto della malattia vissuta, delle emozioni connesse, delle attese e degli eventuali limiti che il malato intende porre ai trattamenti -, l’occhio – l’insostituibile scambio di sguardi – e la mano che tocca un corpo estraneo trasmettendo competenza e fiducia. Non c’è confronto tra le capacità diagnostiche che si ricavano ricorrendo a una risonanza magnetica e quelle che il clinico può mutuare da una palpazione dei tessuti; tuttavia la mano ha un potenziale terapeutico che neppure la macchina più sofisticata può rivendicare.

Un’accorata perorazione della medicina che non dimentica la via dei sensi, e in particolare il ruolo delle mani, è contenuta nel libro di Giorgio Macellari: Etica per il medico giusto. Tra i doveri che vengono ricordati al medico che vuol praticare la cura richiesta dalla nostra cultura vengono opportunamente evidenziati quelli di guardare e di toccare:

“Fino a due secoli fa il medico faceva la diagnosi con il solo ausilio dei cinque sensi. Palpare, premere, percuotere. Auscultare. Odorare. Gustare. Guardare. Insieme alle mani, gli occhi dominano ancora la scena della cura. Eppure dello sguardo si sta perdendo il potere, per troppe distrazioni che lo distolgono altrove.

Più una persona è malata e più cerca gli occhi del medico. Gli occhi rendono visibili alcuni frammenti dell’anima che gli sta dietro e trasmettono una loro verità. Difficilmente gli occhi mentono e anche per un medico è complicato mascherare emozioni e pensieri, se gli sguardi si incrociano. Ma a volte la verità è pesante da rivelare. E allora il medico guarda altrove, per non vedere la propria inadeguatezza. (…)

Fino a pochi decenni fa, il toccare dei medici era un’abitudine specifica ed esclusiva: i migliori ne sapevano trarre diagnosi impeccabili senza altri sussidi. Oggi quest’arte – che ai malati appariva misteriosa e salvifica – si sta perdendo, sostituita dagli strumenti (ecografi, risonanze magnetiche, endoscopi) che indagano l’interno del corpo. Anche il distanziamento sociale legato al Covid-19 ha amplificato il distacco. La ‘telemedicina’ rischia di dare l’ultimo colpo. Se l’etica medica avesse un suo codice penale, la perdita del toccare sarebbe un crimine” (7).

Il tema della fiducia come collante tradizionale nella relazione terapeutica utilizza ampiamente le mani in senso simbolico. “Mettersi nelle mani del medico” è stato per lungo tempo il comportamento richiesto al malato. Ne troviamo un’eco – certo, di sapore rétro – nel titolo di una serie televisiva italiana: “Doc, nelle tue mani”. Oggi la fiducia è ancora un elemento costitutivo della relazione, anche se non può più esprimersi con l’abbandono passivo richiesto al malato nelle epoche precedenti. La fiducia ai nostri giorni è un’opera artigianale che va costruita con un’azione comune del curante e della persona in cura.

L’autorevolezza indiscussa del medico è un anacronismo. L’esprimeva efficacemente il titolo di un programma televisivo inglese che ha goduto di grande popolarità: “Credetemi, sono un medico”. Il corrispettivo colloquiale era l’espressione: “Mica me l’ha prescritto il medico…”. Le mani che garantiscono la salute oggi si presentano diversamente. E in primo luogo le mani curanti non sono disgiunte dalle mani stesse del malato. Perché a questi è chiesta un’attivazione di cui non c’era traccia nel passato. Secondo Antonella Viola e Alessandro Aiuti nel saggio La rivoluzione della cura, che si presenta come “un viaggio nella scienza che sta cambiando la medicina” (8), questa dovrà essere caratterizzata in futuro da “4 p”: dovrà essere preventiva, predittiva, personalizzata e partecipativa. Particolarmente rilevanti per la nostra riflessione sono la terza e la quarta caratteristica. La medicina personalizzata implica, oltre la conoscenza del profilo genetico della persona, che sia ritagliata. Come un abito di sartoria, sui suoi valori, aspettative e preferenze; dovrà essere praticata perciò più che mai con i cinque sensi. La medicina partecipativa richiede che il malato sia un attore attivo nel percorso di salute.

Il valore clinico/simbolico delle mani con cui oggi il malato è chiamato a impastare la cura, in collaborazione con le mani del curante, è espresso dall’informatizzazione. I malati dei nostri giorni non hanno bisogno di essere incoraggiati a documentarsi: lo fanno già spontaneamente. Già Google offriva consulenze facili e immediate; ora è arrivata l’intelligenza artificiale a spalancare porte in passato inimmaginabili. Con il rischio di alimentare la presunzione di saperne più del medico e di far nascere l’aspettativa di un’alleanza terapeutica deformata, in cui è il malato stesso che conduce il gioco e si attende un curante che si adegui alle sue pretese.

Lontano da queste deformazioni caricaturali, la buona cura che ci aspettiamo richiede una partecipazione attiva e misurata da parte di chi la riceve. L’abbiamo già individuata con il termine inglese empowerment (ovvero: “metterci la testa”…). Un’altra metafora per esprimere che anche il malato è chiamato a prendere la cura nelle proprie mani può essere l’esortazione ad “Alzarsi in piedi”. L’ha adottata lo psicanalista Massimo Recalcati proponendola come titolo per gli incontri nell’ambito di un festival dedicato alla cura, che si propone di reinventare non solo le teorie della cura, ma anche le pratiche con cui viene attuata. Il festival ha assunto il titolo “KUM”, mutuandolo dalle parole, pronunciate in aramaico, che ricorrono nel racconto evangelico che riporta un intervento taumaturgico del Messia. Il capo della sinagoga Giairo chiede  a Gesù di far valere la sua potenza terapeutica a favore della propria figlia, che sta morendo. Quando arriva in sua presenza, il Maestro la prende per mano e le ordina: “Talità kum”, ovvero: “Ragazza, alzati” (Marco 5,41). L’alzarsi (“Kum”) è una forte metafora della cura che domanda alla persona malata di partecipare attivamente nel dar forma alla propria salute.

Il felice incontro e la simbiosi tra mente, cuore e mani  ci appare più che mai come il segreto della buona cura: di quella cura così come è possibile, così come la desideriamo, così come siamo chiamati a renderla reale.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  • Javier Cercas: Il folle di Dio alla fine del mondo, tr. it. Guanda, Milano 2025.
  • Mattia Torre: La linea verticale, Baldini Castoldi, Milano 2017.
  • Herman Koch: Ne scriverai?, tr. it. Neri Pozza, Vicenza 2025.
  • Vittorio Lingiardi: Corpo, umano, Einaudi, Torino 2024.
  • Frank Gonzalez-Crussì: Organi umani, tr. it. Adelphi, Milano 2014.
  • Gustavo Rodriguez: Cento porcellini d’India, tr. it. Bompiani, Milano 2025.
  • Giorgio Macellari: Etica per il medico giusto, Il Pensiero Scientifico, Roma 2025.
  • Antonella Viola, Alessandro Aiuti: La rivoluzione della cura, Einaudi, Torino 2025.

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