La parola che cura

C’è una sottile diffidenza verso le parole, difficile da sradicare. Anche se sono passati più di 50 anni da quando Mina cantava “Parole, parole, parole”, è come se l’eco della canzone risuonasse ancora nelle nostre orecchie. Non a caso i politici che oggi si presentano nell’arena pubblica per acquisire consensi rivendicano di ispirarsi alla “cultura del fare”, contrapponendosi a quelli che squalificano come personaggi fasulli “del dire”.

Nell’ambito della cura, poi, la collocazione della parola è particolarmente delicata. Soprattutto in questo scenario sembrerebbe legittimo appellarsi ai fatti, non alle chiacchiere. Non è stato facile per la parola rivendicare il diritto di cittadinanza in medicina. È esistita una pratica medica che non sentiva la necessità di ricorrere alla parola. Virgilio nell’Eneide parla di un medico dicendo che esercitava la muta ars. Le parole sono state spesso considerate un di più accessorio. In alcune situazioni – quando avrebbero dovuto trasmettere cattive notizie – venivano proprio a mancare. Nel romanzo di Marco Balzani: Quando tornerò (1) mette a fuoco una situazione di questo genere una madre che vorrebbe sapere dal medico se suo figlio in coma si sveglierà oppure no. Lo confronta, pretendendo il suo sguardo: “Mi guardi quando le parlo”. E quando il medico continua a evadere la domanda angosciante se il ragazzo vivrà, commenta: “Quando non c’è più niente da fare smettete di parlare. Fate sempre così, vero?”.

Sullo sfondo della muta ars del passato, che talvolta riaffiora anche ai nostri giorni, vediamo profilarsi lo spettro di una medicina del futuro che, sovraccarica di tecnologie, considera la parola un orpello superfluo. La evoca eloquentemente Giorgio Macellari nel saggio: Etica per il medico giusto (2), descrivendo una pratica medica che ha smesso di guardare, di toccare, e conseguentemente di parlare:

“Fino a due secoli fa il medico faceva la diagnosi con il solo ausilio dei cinque sensi. Palpare, premere, percuotere. Auscultare. Odorare. Gustare. Guardare. Insieme alle mani, gli occhi dominano ancora la scena della cura. Eppure dello sguardo si sta perdendo il potere, per troppe distrazioni che lo distolgono altrove.

Più una persona è malata e più cerca gli occhi del medico. Gli occhi rendono visibili alcuni frammenti dell’anima che gli sta dietro e trasmettono una loro verità. Difficilmente gli occhi mentono e anche per un medico è complicato mascherare emozioni e pensieri, se gli sguardi si incrociano. Ma a volte la verità è pesante da rivelare. E allora il medico guarda altrove, per non vedere la propria inadeguatezza. (…)

Fino a pochi decenni fa, il toccare dei medici era un’abitudine specifica ed esclusiva: i migliori ne sapevano trarre diagnosi impeccabili senza altri sussidi. Oggi quest’arte – che ai malati appariva misteriosa e salvifica – si sta perdendo, sostituita dagli strumenti (ecografi, risonanze magnetiche, endoscopi) che indagano l’interno del corpo. Anche il distanziamento sociale legato al Covid-19 ha amplificato il distacco. La ‘telemedicina’ rischia di dare l’ultimo colpo. Se l’etica medica avesse un suo codice penale, la perdita del toccare sarebbe un crimine”.

L’etica medica del nostro tempo – chiamiamola bioetica, per chiarezza – ha acquisito in modo indiscutibile la necessità di una pratica della cura che faccia anche ricorso alla parola: bisturi, farmaci e parole, inseparabilmente uniti. È necessario informare, per ottenere il consenso a qualsiasi trattamento. Sempre; anche – soprattutto quando – le notizie da trasmettere sono quelle che uno non vorrebbe ricevere. Dunque, punto fermo: per la buona cura le parole sono indispensabili.

Ma la presenza della parola, da sola, non è sufficiente. Affinché non scada nella chiacchiera, ha bisogno di essere qualificata. Per essere concreti, proviamo ad abbinare alla parola nella cura un aggettivo qualificativo. Iniziamo con l’aggettivo educata. La cura sta di casa in rapporti civili. Una prima condizione perché il rapporto di cura parta con il piede giusto è la presentazione reciproca, come è uso tra persone educate. Il movimento della Slow Medicine ha fatto della presentazione dei curanti l’oggetto di una campagna specifica. Il progetto: “Buongiorno, io sono…” richiede al curante di presentarsi in un primo contatto con il proprio nome e la qualifica. Impegno arduo, perché nella pratica clinica si dà per lo più per scontato che medico, infermiere e qualsiasi altro professionista non abbiano bisogno di presentarsi: si considerano noti, per cui la presentazione è svalutata come un convenevole, una perdita di tempo da evitare… Presentarsi è invece la porta di accesso a un rapporto educato, vantaggioso sia per il curante che la persona in cura.

Un secondo aggettivo che dobbiamo aggiungere alla parola è rispettosa. Esula da questa condizione ogni espressione arrogante, finalizzata a instaurare un rapporto di sudditanza in chi riceve le cure. Certamente rientra in questo scenario il “tu” rivolto inappropriatamente, che non presupponga un rapporto di confidenzialità reciproca. Siamo invece meno attenti a qualificare come irrispettose le parole che si collocano sul polo opposto dell’arroganza: sono gentili, talvolta melliflue, ma tendono a infantilizzare coloro a cui sono rivolte. Sembrerebbero giustificate perché esprimono, a primo impatto, un rapporto affettuoso. Così “nonnino/nonnina” e nomignoli vari con cui ci si rivolge a persone anziane. Il tutto accompagnato da un corteo di diminutivi. Nel romanzo di Delphine de Vigan: Le gratitudini (3) è di scena Michka, un’anziana signora che di professione faceva prima l’insegnante e ora, non più autosufficiente, deve essere ricoverata in una casa di riposo. Appena accolta, entra nella sua stanza una donna – ovviamente senza l’adeguata presentazione – che gentilmente le offre uno spuntino:

“Un succhino di mela con la sua cannuccina e con un biscottino confezionato in un pacchettino. Ecco, che cosa ti aspetta, Michka: passettini, sonnellini, merendine, uscitine, visitine. Un’esistenza sminuita, ristretta, ma perfettamente regolata”.

La parola rispettosa è quella che non priva la persona in cura della sua dignità. Inoltre la parola deve essere dialogante. Il correttivo della medicina muta non è la medicina che parla – magari riversando parole di informazione sul malato, indipendentemente dalla sua condizione emotiva e dalla volontà e capacità di accogliere le informazioni – ma quella che dialoga. Come in ogni vera conversazione, parola e silenzio si alternano; così come informazione e ascolto si interfacciano. La Medicina Narrativa ha fatto proprio questo tema. Non si tratta solo di favorire i racconti che costituiscono il percorso individuale nel territorio della malattia e della cura, ma di sviluppare “una specifica competenza comunicativa”. È l’espressione che propone, nel definire la medicina narrativa, il documento dell’Istituto Superiore di Sanità: Linee di indirizzo per l’utilizzo della Medicina Narrativa in ambito clinico-assistenziale. Più analiticamente, la competenza narrativa è descritta come quella che permette di “acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura”. Non bastano le parole che vengono dal cuore: la competenza comunicativa va appresa e fa parte integrante della professionalità. Il primo passo della parola dialogante non è l’informazione, ma l’ascolto. Solo se si sintonizza con il malato, cogliendo la sua individualità, il curante può intervenire con le parole appropriate.

Un ulteriore aggettivo qualificativo da aggiungere alla parola è quello di corretta. A questo aggettivo affidiamo il compito di guidare un percorso al di fuori di quella palude in cui in passato troppe volte è annegata la verità. Il riferimento è a quelle parole impregnate di benevolenza, sorrette da reticenze e congiure del silenzio, con le quali le persone malate sono state protette dal conoscere la propria situazione. Chiusi ognuno nella propria bolla – la “bolla dei segreti solitari”, come l’ha chiamata Kathryn Mannix, autorevole esperta di cure palliative – personale curante e familiari da una parte, e malati dall’altra, ipoteticamente tenuti all’oscuro della fine che avanzava, hanno fatto un percorso costellato di aguzzi cocci di vetro. Ipoteticamente: perché spesso il malato era consapevole della propria condizione, ma doveva continuare a negarla per stare al gioco di negazione imposto da familiari e curanti. Le ferite si sono spesso rivelate dopo la conclusione di un percorso sotto il segno del travisamento della realtà, sotto forma di sensi di colpa e di rimpianti per momenti di vera intimità mancati. Quella forma di protezione in nome dell’amore, correntemente praticata in passato e ancora presente, non ha più legittimità morale, se priva la persona malata della consapevolezza auspicata.

Le parole corrette non portano solo a condividere quello che si conosce circa il progredire della malattia: richiedono anche un modo corretto di comunicazione. All’ambiguità e alla reticenza del passato non si deve sostituire l’informazione brutale. E tanto meno la divergenza tra chi informa e chi nasconde la verità, anche se in tal modo intende fare il bene della persona malata. La corretta strategia comunicativa richiede un allineamento tra i diversi professionisti della cura: è traumatico l’emergere della verità tra le crepe di una comunicazione discordante. Lo stesso allineamento si deve creare tra i professionisti e i caregiver. Per dare concretezza a quanto può succedere nello scenario della cura, ci appoggiamo alla testimonianza confidenziale di un medico. Sollecitato da un malato che sentiva su di sé inequivocabilmente l’avvicinarsi della fine, gli comunicò – in modo soft – che le cure erogate non stavano più avendo effetto. Il malato condivise questa informazione con i suoi familiari, determinati invece a mantenere in lui l’illusione di un esito positivo e ad alimentare una speranza irrealistica. Quando il giorno seguente il medico si recò a visitare il malato, trovò sulla porta un familiare che gli comunicò brutalmente: “Dottore, lei in questa stanza non entra più”. Uno tra i non infrequenti fallimenti delle parole oneste.

La parola, in conclusione, è una via della cura. Come un farmaco, deve essere testata. Non somministremmo mai un farmaco senza aver rigorosamente valutato la sua efficacia e i suoi eventuali effetti secondari negativi. Non diversamente da un farmaco, la parola può avere esiti positivi o negativi. È bene ricordare che il termine “farmaco” in greco significa sia rimedio curativo che veleno. Anche il farmaco della parola va somministrato in maniera corretta. Per questo la cura, professionale e non, è l’attività più delicata tra quelle che danno forma all’esistenza umana.


Riferimenti bibliografici

  • Marco Balzano: Quando tornerò, Einaudi, Torino 2021.
  • Delphine de Vigan: Le gratitudini, tr. it. Einaudi, Torino 2020.
  • Vittorio Lingiardi: Corpo, umano, Einaudi, Torino 2024.

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