In Italia si muore male. È la testimonianza concorde di studiosi di scienze sociali, di clinici e soprattutto di cittadini che hanno visto morire i propri cari. In ospedale e a domicilio. La pandemia da Covid-19 è riuscita nell’impresa di farci morire peggio. Ancor più che il numero dei morti, sono le modalità del decesso che ci scandalizzano: “e ‘l modo ancor m’offende” verrebbe da commentare con le parole che Dante mette in bocca a Francesca da Rimini riferendosi alla propria morte. Nell’aula del Parlamento è risuonata la voce dell’on. Giorgio Trizzino, che da medico è stato uno dei pionieri delle cure palliative nel nostro Paese. Ha denunciato la carenza di accompagnamento e di palliazione che ha caratterizzato il morir male durante l’emergenza; “una tragedia nella tragedia”, l’ha definita.
Queste modalità del morire, che non esitiamo a definire disumane e indegne, sono state un effetto collaterale dell’emergenza? E quindi, quando l’emergenza terminerà e saremo in grado di tornare alla normalità, le brutte morti saranno solo un ricordo del passato, perché la medicina sarà stata messa in grado di tornare a fornirci le morti auspicabili? Sono domande che riposano su una concezione di rapporto dialettico tra emergenza e normalità tale per cui una condizione esclude l’altra. L’emergenza è una condizione eccezionale che subentra alla normalità e la sospende; salvo poi tornare alla normalità quando lo stato emergenziale termina. Stando al dizionario, “nell’emergenza la vita di una persona è a rischio perché sono compromesse le capacità respiratoria e/o circolatoria, e quindi è necessario un intervento rapido e immediato”. È l’emergenza clinica, che trascina con sé quella organizzativa e sociale. Un contesto che ha fatto apparire a coloro che hanno redatto le regole per l’emergenza pandemica la rinuncia alle cure palliative e all’accompagnamento dei morenti un prezzo giustificabile da pagare. È a causa dell’emergenza che tutto ciò che la cultura della palliazione considera il modo normale di stare accanto ai morenti è stato considerato come un lusso di cui si poteva, anzi si doveva fare a meno: quasi ricette da gourmet in tempo di carestia. Con la promessa implicita che, con il ritorno alla normalità, saremmo stati ricondotti in braccio alla buona medicina, quella che assicura le cure appropriate durante tutto il percorso, sia che conduca alla guarigione, o alla cronicità, o alla fine della vita.
Possiamo immaginare però una diversa dialettica tra emergenza e normalità. È quella che si appoggia su un’accezione di emergenza più etimologica, secondo cui si ha un’emergenza quando ciò che era sommerso riaffiora. L’emergenza come emersione. Grazie a questo tipo di emergenza, possiamo scorgere aspetti della realtà che nello scenario della normalità i nostri occhi non vedevano. Se adottiamo questa prospettiva, le brutte morti non appaiono più come un prodotto collaterale ed episodico della condizione emergenziale, ma hanno un legame intrinseco con la normalità. Per dirlo in modo brusco: erano già davanti ai nostri occhi, ma non erano affiorate alla nostra consapevolezza. I modi estremi della pandemia ce le ha fatte vedere, così che dovremo quasi sentirci costretti, controvoglia, di ringraziarla per averci svelato la “distanasia” così frequente nella nostra società anche in tempo di normalità. Sotto la sferza dell’emergenza e dei disastri da essa provocati ci siamo resi conto di quanto la pratica medica sia lontana dall’aver assimilato ciò che le cure palliative continuano a proporre.
Soprattutto sono importanti le conseguenze che possiamo trarre da questa inversione percettiva nel rapporto figura/sfondo. Se l’emergenza è lo stato transitorio, con i suoi orrori ma anche con la sua precarietà, la nostra aspirazione è tutta rivolta a “tornare come prima”. È quello che in ambito clinico ogni malato auspica sotto forma di restitutio ad integrum. Ma se l’emergenza ci ha fatto scoprire gli aspetti deformi della normalità, il nostro sogno non può essere quello di tornare come prima. Dobbiamo tendere a una diversa normalità. Ciò vuol dire, nel nostro caso, a un diverso rapporto tra i trattamenti curativi e quelli palliativi nell’intero processo terapeutico. Perché la medicina che si è poi travasata nell’emergenza era già inadatta a far morire bene le persone. Le disfunzioni che si sono ingigantite durante l’emergenza sono figlie legittime della normalità.
Basta interrogare in profondità i malesseri dei cultori delle cure palliative per identificare i punti nevralgici del cambiamento necessario. Il primo è sicuramente la marginalità del trattamento palliativo, considerato come alternativo e non simultaneo agli interventi terapeutici. Le cure palliative ancor più che marginali, addirittura residuali; come se il tradizionale: “Non c’è più niente da fare: chiamate il prete” avesse prodotto, in chiave laica, “Chiamate il palliativista”.
In questo scenario si presenta anche la questione delle cure palliative come specialità clinica. Niente da eccepire sulla necessità di un profilo specialistico, sostenuto da conoscenze scientifiche appropriate. Ma se questo dovesse giustificare il fatto che alla stragrande maggioranza dei professionisti sanitari non siano fornite le nozioni cliniche più elementari riguardo alla palliazione, la specialità si rivelerebbe controproducente. È il caso di ricordare l’efficace argomentazione retorica con cui il palliativista Gian Domenico Borasio ha presentato l’alternativa in un’audizione parlamentare in Germania, in cui era in discussione di prevedere una formazione palliativa di base per tutti i clinici. Borasio ha iniziato il suo intervento proclamando: “Onorevoli membri della Commissione! Sono anni che permettete che il 90% degli studenti di medicina tedeschi conseguano il loro titolo senza ricevere la benché minima nozione di medicina palliativa e di accompagnamento al fine vita. Così facendo accettate in piena consapevolezza che al termine della vostra vita avrete il 90% di possibilità di finire esattamente nelle mani di uno di quei medici. Un comportamento che definirei quantomeno autolesionistico”. Per sottolineare la necessità impellente di potenziare l’insegnamento della medicina palliativa, ogni pagina del suo intervento recava scritta in calce l’esortazione modellata sul monito di Catone al senato romano: “Ceterum censeo medicinam palliativam docendam esse”. L’obiettivo qui non è distruggere Cartagine, ma semmai l’ignoranza diffusa in ambito medico circa le conoscenze necessarie per permettere una buona morte.
Una questione correlata è quella della collocazione delle Medical Humanities nella formazione di coloro che si apprestano a svolgere la professione di curanti. Anche quando le Humanities non sono svalutate come “amenities”, raramente è loro riconosciuto un diritto di piena cittadinanza nel percorso curricolare. È come se coloro che le propongono dovessero scontrarsi con la convinzione, profondamente incistata nella tradizione medica, che le parole siano solo un ornamento, ma non facciano parte della cura. Nel museo della storia della medicina di Padova (MUSME) è riportata in grande evidenza una frase che sintetizzava il programma dei farmacisti del Cinquecento, che avevano creato il primo orto botanico universitario, dal quale ricavavano le erbe curative: “Herbis non verbis fiunt medicamina vitae”, ovvero: “Ciò che cura sono le erbe, non le parole”. Lo slogan aggiornato suonerebbe: “Pillole, non parole”. Siamo agli antipodi di quanto si trovano a sperimentare coloro che accompagnano i malati che percorrono l’ultimo tratto di strada. Hanno certo bisogno di pillole – leggi: farmaci antalgici e presìdi terapeutici – ma non meno di parole, in tutta la varietà con cui ci vengono incontro nel variegato mondo delle Medical Humanities. E di parole oneste. Parole che non costituiscono solo una spolveratina di gentilezza come zucchero a velo su una torta: sono parti essenziali della cura. Le cure palliative proclamano che le Medical Humanities non sono in medicina figlie di un dio minore. Dalla loro integrazione nell’arsenale terapeutico dipendono le buone cure; e la possibilità di una buona morte.
La menzione delle parole oneste ci rimanda a come si comunica in medicina. Tutta la pratica della buona medicina, e non solo il segmento denominato palliazione, ha bisogno di terapeuti dotati di “competenza comunicativa”. È quanto ha evidenziato la conferenza di consenso promossa dall’ISS: Linee di indirizzo per l’utilizzo della Medicina Narrativa in ambito clinico-assistenziale (2014). Se l’obiettivo della narrazione è quello formulato dal documento come “la costruzione condivisa di un percorso di cura personalizzato”, lo strumento costituito da questa competenza non è un “optional” ma un’esigenza per ogni curante; e per ogni percorso curativo. Massimamente per quello che prospetta sul fine vita. Nella nuova normalità la formazione che assicuri la competenza comunicativa dovrà costituire un pilastro fondamentale. Sanno bene, infatti, i palliativisti quanto il loro lavoro sia minato dalle informazioni carenti, quando non addirittura ingannevoli, che hanno caratterizzato il percorso clinico prima del loro intervento. Non dobbiamo dimenticare che fino alla revisione del Codice deontologico avvenuta nel 1995 la doppia informazione – una cosa rassicurante detta al malato e un’altra realistica comunicata ai familiari – era pienamente legittima; la deontologia la prevedeva come un comportamento corretto. Il risultato di queste strategie comunicative è stato descritto da Kathryn Mannix, una voce autorevole nell’ambito delle cure palliative, come una “gabbia di segreti solitari”, in cui rimangono chiusi i malati e i loro familiari. La prassi di una comunicazione onesta impatta ancora con una cultura della protezione, socialmente diffusa e tollerata dal mondo dei professionisti della cura. L’alternativa non è certo un’informazione brutale, fatta in modo impersonale. Ma perché avvenga in modo appropriato è necessaria una competenza comunicativa. E questa va insegnata. Perché la qualità professionale non può più essere confinata nell’ambito tecnico-scientifico; oggi richiede anche di sapersi relazionare.
La conclusione a cui ci conducono i ripensamenti provocati dalle devastazioni della pandemia in ambito clinico è molto esigente. Non si tratta di chiudere una parentesi, né di voltare pagina tornando alle modalità precedenti di erogare le cure. Tutta la medicina ha bisogno di essere ripensata a fondo. La cura in sé, e non solo un isolato segmento terminale del percorso, deve fare un bagno rigeneratore nelle Medical Humanities. Perché se è vero – come ha dichiarato papa Francesco – che la pandemia ci ha rivelato quanto fosse illusorio pensare a noi stessi come sani su una terra malata, allo stesso modo non possiamo aspettarci una cura efficace da una medicina malata, perché affetta da una singolare malattia, che la pandemia ci ha aiutato a diagnosticare: la carenza di Medical Humanities. Sono queste il farmaco di cui hanno bisogno non solo le cure palliative, ma la medicina tutta.