L’etica al letto del malato: una presenza in diverse modalità

Di che cosa parliamo quando viene invocata l’etica nel contesto di cura e, più in generale, in ambito biomedico? La domanda suona superflua: si tratta di temi esplorati in lungo e in largo, talvolta anche in profondità. L’etica è una presenza obbligata sullo scenario della cura. Da sempre; ma con maggiore vivacità da quando si è qualificata come bioetica e ha affrontato in modo innovativo le questioni relative al nascere e al morire, e in generale al potere che i progressi della scienza e della tecnologia hanno messo in mano ai cittadini nell’ambito della cura, scompaginando i rapporti tradizionali in medicina. Possiamo dare quindi per scontato che siamo consapevoli dei contenuti associati alla questione del profilo che spetta alla buona cura e di come distinguerla da quella di segno negativo. L’attenzione tuttavia è in genere concentrata su che cosa evochi l’etica in medicina, ovvero sull’oggetto della riflessione etica, piuttosto che su come questa si presenti. Poco o nessun interesse è rivolto alle modalità con cui la riflessione etica viene esercitata. Ci siamo focalizzati su che cosa è accettabile e che cosa invece andrebbe rifiutato nella cura; il modo in cui l’etica interviene è scivolato invece sullo sfondo.

L’interesse spostato sul modo in cui l’etica si presenta nello scenario della cura fa emergere un ventaglio di pratiche molto differenziate. L’accoglienza dell’etica sia da parte dei professionisti della salute, sia da coloro che fanno ricorso ai loro servizi dipende in modo determinante dalle modalità in cui si presenta, più che dai contenuti stessi. La riflessione qui proposta ha l’ambizione di suggerire un cambio di Gestalt, invertendo il rapporto tra figura e sfondo e mettendo a fuoco non tanto che cosa afferma l’etica, ma il modo in cui lo propone.

Le modalità sono molteplici e non di rado si sovrappongono. Per chiarezza, le passeremo in rassegna in modo differenziato. La finalità è quella di contrastare una proposta dell’etica come estranea al mondo della cura e di farla emergere dall’interno in modo “gentile”. La gentilezza in ambito sanitario non la chiediamo solo al diritto: non meno importante è che caratterizzi l’etica.

  • L’etica in modalità ideologica

Menzioni l’etica e l’associazione mentale più spontanea è quella con l’etica vestita di ideologia. Il termine è plurivalente: ci trasporta sia nei territori auspicabili nei quali l’ideologia si identifica con un deposito di valori capaci di dare un senso a una comunità, sia in braccio al fanatismo, dove l’ideologia equivale a una dottrina astratta che acceca e induce a falsare la realtà. Ridotta in termini colloquiali, l’etica che si presenta in modalità ideologica corrisponde alla convinzione soggettiva di sapere che cosa sia auspicabile e che cosa sia riprovevole nella cura. La convinzione può reggersi su fondamenti religiosi – venendo piuttosto a corrispondere a una morale confessionale – o su argomentazioni razionali.

Soprattutto la diffusione del dibattito sulla bioetica ci ha reso familiare una modalità argomentativa che, pur appellandosi alla razionalità, lascia intravvedere motivazioni religiose. Queste possono richiamarsi al rispetto della natura umana (come quando l’omosessualità viene condannata come “comportamento innaturale”), o alle esigenze della persona (tanto da dar origine a una bioetica autoqualificatasi come personalismo), o alla difesa della dignità umana. Nel contesto cattolico, per esempio, l’enciclica Donum vitae, del 1987, ha utilizzato quest’ultima argomentazione per prendere posizione sul trattamento degli embrioni; ha fatto appello alla dignità anche per opporsi ai movimenti che, partendo dalla nozione di qualità della vita, sostengono che gli individui possono disporre della propria vita: è il caso di chi è favorevole a una “morte degna” e difende il suicidio medicalmente assistito.

È interessante notare che l’argomento della “dignità della vita umana” può servire contemporaneamente sia a promuovere un determinato comportamento, sia a giustificare il suo contrario; può essere invocato sia a favore di una concezione autonomista per giustificare un’azione che metta fine a una vita che il soggetto giudichi “indegna di essere vissuta”, sia per fondare l’interdizione, sempre in nome della dignità umana, a disporre della vita, anche nelle sue primissime fasi embrionali. A illustrare fin dove possa condurre l’appello alla dignità ci si può riferire al programma proclamato dal Ministero per la repressione del vizio e la promozione della virtù nella repubblica fondamentalista dell’Iran – come già nell’Afganistan talebano – dove la repressione dei comportamenti indesiderati delle donne “malvestite” è stata giustificata trionfalisticamente: “Vogliamo che le nostre sorelle vivano con dignità!”. La questione fondamentale rimane chi definisce la dignità di qualcuno: se la persona stessa o chi pretende di avere potere e autorità su di essa, e quindi di difenderne la dignità a suo beneficio.

In generale siamo più attrezzati a riconoscere il peso dell’ideologia nelle posizioni altrui. Basti pensare all’ideologia teocratica-maschilista dell’Islam fondamentalista, che abbiamo evocato. Più difficile discernere l’ideologia nelle prese di posizione che circolano nel proprio ambito culturale. Un aiuto è offerto dal modo in cui si cerca di tradurre in pratica le convinzioni etiche. Nei casi estremi l’adesione a un’etica ideologica  genera fanatismo e sconfina nella violenza. Basti pensare ai sostenitori dei movimenti “pro life” e antiabortisti che negli Stati Uniti organizzano attentati alle cliniche dove vengono fatte interruzioni di gravidanza e si spingono fino all’omicidio di medici che assistono le donne in queste circostanze. Anche senza raggiungere estremi di questo genere – e tanto meno quello dei regimi teocratici islamici nei quali si rischia di venire impiccati “per inimicizia con Dio” – i sostenitori dell’etica ideologica possono anche proporla in modo irenico e dichiararsi disposti a discutere con chi ha una diversa visione; purché alla fine la conclusione sia sovrapponibile alle loro convinzioni. Perché le posizioni si reggono su principi che, esplicitamente o meno, sono considerati non negoziabili.

Ciò vale per le posizioni ideologiche di ispirazioni religiosa come per quelle che si nutrono di laicità. I principi fanno sentire la loro presenza minacciosa soprattutto nell’ambito delle scelte riproduttive, dei limiti alle cure e delle decisioni di fine vita. Ma la rilevanza di principi diversi e plurali, con i quali si deve confrontare la pratica terapeutica, anche la più quotidiana, veicola la possibilità di frequenti conflitti, a seconda della priorità attribuita all’uno o all’altro. Quando questa modalità prevale, abbiamo l’impressione che l’etica percorre il territorio della cura calzando scarponi chiodati, che lasciano il segno dove camminano.

Naturalmente il pluralismo etico è una condizione in cui deve vivere ogni società democratica e aperta. Scoprire “la verità degli altri”, secondo la formulazione di Giancarlo Bosetti (1), può anche essere esaltante; in ambito sanitario così come in ogni altro settore della vita sociale. Non tutti hanno questa disposizione interiore. C’è chi aderisce totalmente alla propria visione ed evita i confronti, con la stessa determinazione con cui non di rado si cambia marciapiede per scansare l’incontro non gradito con qualche membro di una setta che intende indottrinarci. Tuttavia anche quando si è disposti all’ascolto e al dialogo e si eviti lo scontro di stampo fondamentalistico, la modalità ideologica di confrontarsi con l’etica fa continuamente capolino, anche nelle forme più soft della contrapposizione.

Come ha reagito il mondo sanitario al diluvio di “giusto” e “sbagliato” che si è riversato sulle pratiche della biomedicina, comprese le innumerevoli sfumature prodotte dalla riflessione bioetica? Tutto sommato, la seduzione del dibattito ideologico non ha conquistato la maggior parte dei professionisti sanitari. Tendenzialmente la si rimanda agli specialisti, filosofi o bioeticisti. I tentativi di introdurre l’etica nella formazione di base e in quella continua sono stati recepiti come un peso necessario, più che come un’opportunità. Più felice è stata la ricezione quando l’etica è stata presentata in connubio con il diritto e con la medicina legale, suggerendo la prevalenza della “medicina sicura” rispetto alle pratiche richieste dalla cultura del nostro tempo.

  • L’etica giuridico-amministrativa

Una modalità diversa di presentare l’etica nel contesto della cura è quella  giuridico-amministrativa. In questo scenario l’etica viene a circoscrivere l’ambito dei comportamenti leciti; ancor più, costituisce in sé una legittimazione. Esemplari in tal senso sono i comitati per la sperimentazione dei farmaci e le ricerche in ambito bio-medico. Per quanto sia solida e motivata la convinzione del ricercatore sull’appropriatezza scientifica della ricerca che vuol intraprendere, deve sottoporla all’approvazione da parte di questo organismo. È un vincolo ineludibile. Possiamo alla fine concludere che la ricerca è etica perché approvata dal comitato; o, inversamente, non è etica e quindi è giuridicamente illecita se il comitato non ha concesso il suo benestare, in base ai criteri sia scientifici che umanistici che devono guidare la ricerca e vanno valutati, da questo punto di vista, da chi è abilitato a concedere l’autorizzazione.

Di recente il passaggio attraverso un comitato, o organismo analogo, è stato previsto anche per l’accesso al suicidio medicalmente assistito, nel perimetro delle situazioni circoscritte dalla sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019. Chiamata a deliberare sul profilo giuridico del divieto generalizzato di aiuto al suicidio assistito, con le pene previste dall’art. 580 del codice penale, la Corte ha dichiarato incostituzionale quella disposizione, alla luce dell’innovazione introdotta dalla legge 219 del 2017 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento. Stabiliti alcuni paletti entro il cui perimetro considerare il proposito di suicidio – la volontà autonoma e libera della persona che lo richiede, tenuta in vita da trattamenti medici di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, che è fonte di sofferenze ritenute intollerabili -, viene ipotizzato che le condizioni e le modalità di esecuzione debbano essere verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, “previo parere del comitato etico territorialmente competente”.

La sentenza della Corte costituzionale è stata fatta oggetto di un’apposita riflessione della Commissione regionale di bioetica della Regione Toscana (Parere n.2/2020 del 14. 02. 2020). Pur recependo la facoltà di ricorrere al suicidio medicalmente assistito quando sussistano le condizioni cliniche, sostanziali e procedurali indicate, la Commissione ha avanzato riserve sul ruolo attribuito ai comitati etici quali soggetti della procedura. Nella sentenza della Corte si fa esplicito riferimento ai comitati per le sperimentazioni cliniche dei medicinali (decreto del Ministero della salute: “Criteri per la composizione e il funzionamento dei comitati etici”, 8 febbraio 2013). A giudizio della Commissione toscana per la bioetica, l’indicazione della Corte appare problematica e di non agevole traduzione in pratica. Le competenze dei comitati che sovraintendono alle sperimentazioni cliniche sui farmaci a uso umano non hanno niente a che vedere con la peculiare complessità bioetica del suicidio medicalmente assistito, ove non è in gioco nessuna “sperimentazione” di farmaci.

Anche il riferimento alla consultazione di questi comitati in caso di “uso compassionevole” dei farmaci non è pertinente. La consulenza bioetica prescritta dalla Corte sarebbe più appropriata, secondo il parere della Commissione regionale, se fosse affidata ai comitati per l’etica clinica, dei quali la Toscana ha costituito una rete che copre tutto il territorio regionale. Questi organismi sono infatti finalizzati all’”esame degli aspetti etici attinenti alla programmazione e all’erogazione delle prestazioni sanitarie” e presuppongono le competenze necessarie per affrontare la complessità di una decisione come il suicidio medicalmente assistito, competenze invece non previste per la composizione dei comitati per la sperimentazione.

Questo dibattito su una tematica apparentemente marginale ha il vantaggio di mettere in evidenza il profilo di organismi che, a vario titolo, si qualificano come etici. Costituiscono un passaggio obbligatorio che mette al riparo da conseguenze legali. Che si tratti di avviare la sperimentazione di un farmaco, di prescrizioni compassionevoli di medicinali per pazienti affetti da patologie per le quali non sono disponibili valide alternative terapeutiche, o addirittura di avviare procedure per mettere fine alla propria vita con l’assistenza di un medico, la funzione di questo organismo è di svolgere un controllo metodologico dall’esterno circa la regolarità e la completezza delle procedure, assicurando così una protezione per le persone vulnerabili. Allo stesso tempo l’osservanza delle procedure tutela i professionisti sanitari coinvolti, garantendo comportamenti legalmente sicuri. È quanto ci attendiamo da un’etica che si presenta in modalità giuridico-amministrativa.

  • L’etica come consulenza

Diverso è il profilo dell’etica quando si affaccia sullo scenario della cura in modalità di consulenza. La complessità delle scelte etiche determinate dagli sviluppi recenti della biomedicina ha indotto a introdurre il ricorso a esperti di etica, sia in forma individuale di professionisti con una competenza specifica, sia come comitati appositi. Il cambiamento sottostante comporta una clamorosa discontinuità con la struttura etica della medicina del passato. La bioetica ha avuto l’ardire di mettere in discussione il tradizionale paradigma ippocratico e di rivendicare il principio dell’autodeterminazione di colui che riceve le cure come correttivo dell’unico criterio del bene del paziente, deciso dal medico “in scienza e coscienza”. Successivamente ha preso rilievo il movimento delle Medical Humanities, mettendo in evidenza la complessità epistemica di nozioni come salute – malattia – guarigione, quando sono sottratte al riduzionismo operato dalle scienze naturali. Sul palcoscenico si è poi presentata la Medicina Narrativa, con la sua vivace rivendicazione dell’importanza della parola nel rapporto di cura e della competenza comunicativa come elemento costitutivo della professionalità terapeutica.

In questo contesto di un movimento, a più voci e sinergico, che mira a una revisione della pratica tradizionale della cura e sposta il baricentro dell’etica medica collochiamo anche la Slow Medicine. La sua specificità consiste nell’aver sottolineato la tridimensionalità etica della buona pratica clinica, evocata con i tre aggettivi che la caratterizzano, ovvero, “cure sobrie, rispettose, giuste” (2). Una posizione in totale sintonia con la posizione espressa dalla Carta della professionalità medica, nata dal confronto tra l’European Federation of Internal Medicine, l’Americal College of Physicians e l’American Board of Internal Medicine, e destinata a tracciare la buona medicina all’alba del XXI secolo (3). Il documento è stato pubblicato sia da The Lancet che da Annals of Internal Medicine nel 2002. Secondo la Carta, la pratica clinica si deve confrontare, simultaneamente, con tre principi: la beneficialità, che colloca al centro il benessere dei pazienti; l’autonomia dei malati, che esige dal terapeuta di metterli in condizioni di prendere decisioni informate riguardo al trattamento e di rispettare le loro scelte; il principio della giustizia sociale, che richiede l’equa distribuzione delle risorse disponibili e di evitare le discriminazioni.

Il riferimento alle tre dimensioni dell’etica è fondamentale per strutturare l’identità del movimento di Slow Medicine. Mentre la “sobrietà” comporta quell’appropriatezza che evita sia il troppo che il troppo poco (esemplare in tal senso il progetto Less is more, ovvero nella versione italiana del progetto: “Fare di più non significa fare meglio”), la valorizzazione della persona malata e della sua concezione di una vita di qualità rimanda sostanzialmente a una medicina “rispettosa”. Le cure “giuste”, a loro volta, richiamano l’esigenza di un’architettura di welfare state che le assicuri a tutti coloro che hanno diritto e bisogno, indipendentemente dalle loro risorse economiche.

 Gli interventi correttivi della dimensione etica tradizionale che abbiamo evocato, proposti da diversi movimenti che si sono succeduti, insieme a indubbi meriti, hanno veicolato il sospetto che queste necessarie modificazioni venissero importate nella pratica della medicina dall’esterno. Come se la qualifica della qualità della cura fosse di competenza di altri, rispetto ai clinici stessi. Vale la pena ricordare, a questo proposito, un monito formulato da alcuni dei promotori della svolta sotto il segno della bioetica: il pericolo che una “armchair ethics” spodestasse la tradizionale “bedside ethics”, ovvero che un’etica proveniente dalle cattedre di filosofia prendesse il posto di quella che nasce al letto del malato (4). Se prevale l’etica che nasce dai dibattiti accademici e dagli scontri culturali, i clinici rischiano di essere visti, più che protagonisti in prima persona della buona medicina, come esecutori di istruzioni impartite dall’esterno del contesto clinico: sia che vengano da singoli cultori di etica che si propongono come consulenti, sia da appositi comitati.

È vero che la professione medica, che precedentemente dettava legge in ambito clinico, è stata a sua volta sottoposta a una serie sempre più numerosa di normative elaborate in sedi che di per sé non hanno niente a che vedere con le movimentate relazioni che si intrecciano al capezzale del malato. Il medico si è dovuto confrontare con leggi che hanno tracciato confini tra lecito e illecito precedentemente stabiliti solo dal suo senso etico; la deontologia si è adeguata al cambiamento culturale, come testimoniano le ripetute revisioni del codice avvenute nel giro di un paio di decenni, prescrivendo i comportamenti corretti in modo talvolta contrario a quanto validato in passato.  Tutto ciò ha prodotto nei professionisti della cura la spiacevole sensazione di dipendere da regole che provengono da altre fonti, diverse dalla clinica, e che chiedono solo di essere applicate.

Un ruolo particolare in questo scenario spetta ai comitati per l’etica clinica. Sono stati fatti oggetto di diversi documenti redatti dal Comitato Nazionale per la Bioetica.  Il più recente – I comitati per l’etica nella clinica, del 31 marzo 2017 – ha evidenziato la loro distinzione rispetto a quelli per la sperimentazione farmacologica; ha definito l’etica clinica come “assistenza al paziente nel comprendere e gestire il percorso segnato dalla malattia, nel costruire la relazione con il medico, nell’affrontare e dirimere i conflitti morali che si pongono quando valori equalmente importanti entrano in conflitto tra di loro”. Diversi, quindi, per composizione e finalità, dai comitati per la sperimentazione, questi organismi sono nati per promuovere la riflessione etica nelle situazioni complesse; colloquialmente sono stati qualificati come “comitati etici”, piuttosto che come comitati per l’etica nella pratica clinica. Può sembrare una connotazione irrilevante; non lo è, se la qualifica intende giustificare una specie di monopolio dell’etica da parte del comitato stesso. Chiamando etico questo tipo di organismo, si suggerisce la conclusione che una determinata scelta sia conforme all’etica in quanto è stata validata dal comitato. Tanto più se incombe la prospettiva della consulenza, che in medicina evoca una conoscenza più esperta: si ricorre alla consulenza di uno specialista quando la situazione eccede le conoscenze cliniche abituali. È quanto dire che il comitato determina ciò che è etico, rivendicando un’autorità superiore in questo ambito. Ovvero: una scelta è etica perché l’ha decisa il comitato etico, che la riveste della sua autorevolezza.

Viene spontaneo associare questa procedura a un caso che ha molto impressionato l’opinione pubblica, tempo fa: se fosse o no etico tentare l’operazione chirurgica per separare due gemelline siamesi, con il rischio di causare la morte di una delle due. A lungo si è dibattuto; ma soprattutto si è rimasti in attesa del responso del comitato, convocato per prendere una decisione in merito. La sua decisione è stata recepita come un via libera in nome dell’etica. Un effetto secondario, ma non irrilevante, di un uso del comitato per responsi di questo genere è di indurre i professionisti della cura a delegare a un organismo apposito decisioni conflittuali o che generano perplessità, come se esulassero dalla loro competenza.

Attualmente sono pochi i sistemi sanitari regionali che hanno attivato la rete di questo tipo di comitati. Sono sollecitati soprattutto in casi nei quali si prospetta la desistenza terapeutica, la sedazione palliativa o cure intensive neonatali. La loro attivazione è auspicabile; a condizione però che non legittimi un’espropriazione della competenza etica dei soggetti coinvolti nella cura – malati, professionisti, caregiver – riservando l’etica a organismi specialistici, dai quali ricevere, in base a una richiesta di autorevole consulenza, indicazioni da mettere in pratica.

  • L’etica in modalità di counseling

Dall’etica in modalità di consulenza a quella che si presenta come counseling: apparentemente la stessa cosa, salvo un piccolo adattamento linguistico, in realtà un cambio di scenario. È una modalità del tutto diversa di concepire e presentare l’etica nello scenario della cura. Il primo sforzo da fare è di evitare la trappola dell’assonanza linguistica, che fa equivalere il counseling alla consulenza; ancor più, traducendo il termine inglese a orecchio, lo si potrebbe far scivolare verso l’attività di dare consigli. Una seconda insidia è psicologica. Perché la tendenza a offrire buoni consigli è molto diffusa. Non c’è limite al buon cuore di certe persone che, in mancanza d’altro, eccedono in suggerimenti. Soprattutto quando uno è malato, potrebbe mancare di cure, ma raramente di buoni consigli. Sembra che permanga, invariato nel tempo, il costume che, secondo Erodoto, esisteva presso i Babilonesi. Per loro era un obbligo morale dare consigli a chi era malato:

Un saggio costume dei Babilonesi è di portare i malati fuori di casa, in piazza, dal momento che non esistono medici. I passanti si avvicinano all’infermo e gli danno consigli per la sua malattia, o perché ne hanno sofferto essi stessi o perché hanno conosciuto qualcuno che ne soffriva. Non è lecito passare accanto a un malato senza chiedergli di che male è affetto (5).

In tempo di internet non è neppure più necessario portare i malati in piazza. Sono numerosi quelli che si mettono in rete e sollecitano consigli. E che li ricevono, anche quando non richiesti. Soprattutto quando a dare consigli sono “spiritualisti” di professione, che ambiscono a insegnare come affrontare la malattia o dare senso alla vita. L’eco lunga del sistema babilonese descritto da Erodoto ha indotto a dare il nome di “Babylon” al sistema informatico che ha visto la luce ai nostri giorni in Inghilterra e che consiste nella visita via internet: Il malato chiama, descrive i sintomi, il robot li analizza e formula subito la diagnosi e il trattamento da seguire.

 Ebbene, il counseling non ha niente a che vedere con questi comportamenti. Coloro che lo praticano hanno anche differenziato la loro attività dalla psicoterapia. Non solo per non invadere il campo di altre professioni, ma per definire in termini positivi la propria specificità. Tramite il codice deontologico il counselor si presenta come “la persona che, con le proprie competenze, è in grado di favorire la soluzione a un quesito che crea disagio esistenziale e/o relazionale”. Il cammino per arrivare a circoscrivere questa modalità d’intervento nell’ambito delle cure sanitarie è stato tormentato: “La lunga marcia del counseling sanitario”, l’ha chiamata Silvana Quadrino (6).

I cittadini non invocavano un nuovo esperto a cui rivolgersi quando i professionisti sanitari erano poco chiari o si dimostravano incapaci di ascoltare. Ciò che tormenta il malato – in che modo affrontare la malattia, l’attesa di una diagnosi, il peggioramento dello stato di salute, la perdita di speranza – ha bisogno di essere affrontato nel contesto della relazione clinica; non deve essere demandato a un colloquio con un altro professionista. Si tratta di dotare il professionista sanitario degli strumenti per esercitare questo ascolto e offrire una relazione di aiuto. Accanto al counseling intrinseco alla relazione di cura in sé stessa, ci sono tuttavia situazioni in cui è richiesto un intervento specifico del counselor. Sono le situazioni in cui il “disagio” è particolarmente acuto.

Il counseling non va confuso con una psicoterapia breve. È una relazione di aiuto, il cui strumento fondamentale è l’ascolto e richiede essenzialmente l’empatia. Questa è diversa dalla nascita spontanea di simpatia (o inversamente di antipatia…) verso la persona assistita. È un atteggiamento comandato dalla volontà; richiede la disponibilità a mettersi in contatto con l’altro condividendo emozioni e stati d’animo. È importante anche notare che la soluzione al disagio non viene offerta (con la modalità, appunto, di dare consigli), ma “favorita”. Sullo sfondo siamo autorizzati a vedere la parentela del counseling con l’approccio proprio della psicologia umanistica, con gli approcci di Carl Rogers e Abraham Maslow in particolare. Comune è la fiducia di fondo nelle capacità dell’individuo di trovare in sé stesso la risposta al proprio disagio e ai problemi che lo agitano. Da questo punto di vista il counselor è fondamentalmente diverso da un “consulente” (altra trappola linguistica!). Questi, per definizione, ha una competenza maggiore di chi lo consulta; sarebbe sciocco non fare proprie le indicazioni di un consulente accreditato (nelle questioni di salute come negli investimenti bancari…). Non è questa la filosofia di fondo del counseling. Chi si rivolge a un counselor perché ha un “disagio esistenziale” – come nella definizione del codice deontologico di questa professione – potrebbe, alla fine, prendere una decisione che non piace al counselor. Perché l’interesse di questi è che la decisione nasca dalla persona stessa, in modo consapevole, che esprima i suoi valori, non quelli di colui che offre il servizio di counseling. Il counselor potrebbe personalmente optare per una decisione diversa da quella a cui perviene – per dire – la persona in “disagio esistenziale” perché non sa se proseguire i trattamenti che la tengono in vita o desistere; non fa pressione, tuttavia, per far prevalere le sue preferenze, ma rispetta e valorizza quelle della persona malata.

 Naturalmente ci vuole un grande rispetto dell’altro per accettare ciò che non si condivide. Sullo sfondo della metodologia professionale del counselor intravvediamo il profilo della cultura necessaria per una convivenza civile, in contesti caratterizzati da molteplicità e polarizzazioni. Secondo Gianrico Carofiglio, la tolleranza dell’incertezza e della complessità è il presupposto per evolvere dall’oppressione reciproca verso una società inclusiva, capace di trasformare la diversità in una risorsa (7). Si applica all’agire politico così come all’ambito della cura. Questa modalità di rapporto con la diversità possiamo chiamarla anche “conversazione”, attribuendole il compito di salvare la medicina stessa dall’impasse comunicativo in cui si sta dibattendo (8).

La modalità di counseling per l’etica nella clinica è la più appropriata. Richiede dialogo, talvolta negoziazione. Il suo punto di partenza è l’ascolto, piuttosto che la rigida applicazione di principi. Invece che importare dall’esterno l’etica nella pratica clinica, ne favorisce l’esplicitazione da parte dei soggetti coinvolti, in particolare dai clinici. Assomiglia a un’opera di tessitura, in cui si incontrano ordito e trama, più che a una rigorosa operazione intellettuale sostenuta da una competenza specifica di colui che fornisce la consulenza. A differenza della linearità che hanno i problemi etici quando sono affrontati nella modalità ideologica e anche in quella consulenziale, al letto del malato si presentano come un groviglio di indicazioni cliniche, di aspirazioni personali e di rapporti familiari. L’approccio etico in modalità di counseling non consiste nel suggerire la cosa giusta da fare, ma nello stimolare la capacità della persona di trovare ciò che è più appropriato in armonia con il proprio disegno biografico.

  • L’etica come esortazione

Una polarità del tutto opposta all’etica che si presenta con una veste giuridico-amministrativa è l’etica che si accosta allo scenario della cura con una modalità che possiamo chiamare esortativa. O parenetica. Distante da ogni intento di garanzia procedurale, agisce piuttosto attivando il registro della “moral suasion”. Il topos più celebre in tal senso è la parabola evangelica del Buon Samaritano, che si conclude con l’esortazione: “Va e fa anche tu lo stesso” (Luca, 10,37). Siamo nell’ambito delle buone pratiche, che meritano di essere conosciute e imitate.

È il terreno privilegiato della medicina narrativa. Esemplari in tal senso sono le “Storie Slow”. Il movimento che si colloca sotto lo slogan della Slow Medicine ha dato vita, nel proprio sito, alla raccolta di una serie di racconti qualificandoli, appunto, come Storie Slow. Leggiamo nella presentazione deIla serie di racconti che l’obiettivo è quello di descrivere la Slow Medicine in azione, così come si concretizza nei vissuti dei professionisti che a essa si ispirano e nelle esperienze di coloro che ricorrono alle loro cure:

Quali scelte fa un professionista slow diverse da quelle che farebbe uno fast? Tutti hanno vissuto episodi, esperienze, momenti nei quali è scaturito qualcosa di insolito, qualcosa che ha fatto dire: Ecco, una medicina così mi piace; questo professionista ha saputo capirmi e mi ha aiutato davvero.

La prima piacevole sensazione che produce la lettura delle Storie Slow è che il centro di gravità si sia ristabilito nella pratica clinica. Il sottotitolo con cui si presentano le storie – “dall’ideologia alla corsia” – suona programmatico. Un programma forse esageratamente critico nei confronti di un’etica che pretende di plasmare dall’esterno i comportamenti di chi è coinvolto nella cura; ma ha il vantaggio di focalizzare l’attenzione sul pluralismo dei valori, e quindi sulla molteplicità delle posizioni morali che emergono nello scenario clinico.

Il movimento della bioetica si è spesso riferito alle osservazioni del bioeticista Tristam Engelhardt, che ha descritto le polarizzazioni su certi temi come espressione di un’”estraneità morale” (9). A suo avviso, si può essere “stranieri morali” anche appartenendo alla stessa cultura, addirittura nell’ambito della stessa famiglia. L’estraneità morale incombe in particolare sulle decisioni che incidono sulla quantità e qualità della vita. È una conseguenza della decantata “personalizzazione delle cure”: quando queste diventano così personali da aspirare a essere modellate secondo la propria gerarchia di valori e la concezione individuale di una vita di qualità, possono far sentire straniere persone che pur hanno un’intensa comunanza di vita. Ciò vale sia per i professionisti della cura, che possono percepirsi estranei rispetto alle scelte delle persone che curano, sia all’interno delle reti di relazioni che costituiscono il mondo del malato. La risposta adeguata non può essere la contrapposizione polemica tra universi morali in conflitto (non dimentichiamo che pòlemos in greco è la guerra; l’estraneità morale può alimentare una guerra a oltranza con coloro dei quali non si condividono le opzioni morali), ma quella modalità di cura che si presenta come accompagnamento e che comincia con l’ascolto e il tentativo di comprendere anche ciò che non si condivide.

Una storia esemplare, tratta dal catalogo delle narrazioni raccolte da Slow Medicine nel proprio sito, può dar concretezza sia alla molteplicità dei punti di vista etici, sia alla modalità esortativa di avvicinarsi alla complessità delle decisioni. Alla storia è stato dato il titolo molto appropriato di “Congedo sereno”.  Il protagonista è un signore di una certa età, sofferente per un’emiplegia conseguente all’ictus di dieci anni prima. Un tumore polmonare sopravvenuto fa prevedere una breve sopravvivenza. La moglie chiede al medico di essere “soft” nel dare le informazioni al marito, “per non togliergli la speranza che gli dà la forza di combattere”.

Le relazioni prospettate in questo quadro rispecchiano una pratica che è stata in vigore fino a poco tempo fa, ma che secondo le regole deontologiche attuali dobbiamo dichiarare anacronistica. In passato il vero interlocutore del medico era il familiare che si proponeva come caregiver, non il malato. Fino alla revisione del codice deontologico del 1995 non si faceva menzione dell’obbligo del medico di fornire un’informazione veritiera e di ottenere il consenso del malato a qualsiasi procedura diagnostica e terapeutica, previa informazione. Esplicitamente, il Codice prevedeva l’informazione veri riservata ai familiari, alle spalle del malato: “Il medico può valutare l’opportunità di tenere nascosta al malato e di attenuare una prognosi grave o infausta, la quale dovrà essere comunque comunicata ai congiunti” (Codice del 1989, art. 39). L’attenzione a una informazione che non escluda elementi di speranza è costantemente ribadita nelle diverse redazioni del codice che si sono susseguite nel tempo (1995, 2006, 2014). La più recente suona: “Il medico adegua la comunicazione alla capacità di comprensione della persona assistita o del suo rappresentante legale, corrispondendo a ogni richiesta di chiarimento, tenendo conto della sensibilità e reattività emotiva dei medesimi, in particolare in caso di prognosi gravi o infauste, senza escludere elementi di speranza” (Codice del 2014).

Nel racconto la dottoressa si dichiara consapevole che la deontologia le imporrebbe di essere aperta con il malato e di non accondiscendere alla bugia pietosa, o quanto meno a un’informazione addomesticata, che invece era nelle richieste della moglie. L’approccio soft, che implica anche il tempo necessario al malato per fare il suo cammino nella consapevolezza, porta alla svolta, nel momento opportuno:

Un giovedì del ciclo di chemio quando era maturato il momento in cui era pronto per aprirsi, Michelangelo mi aveva chiamato da parte, mi aveva detto che nelle ultime settimane era un po’ aumentato l’affaticamento, che era comparso un certo tedio per gli incontri settimanali in Oncologia, che voleva recuperare tutto il tempo possibile con la sua Giusy, dopo una vita di lavoro, sacrifici e condivisione. Quest’espressione mi aveva convinto a parlargli apertamente, senza subire il condizionamento della moglie, accogliendo le sue preferenze e i suoi valori-desideri-aspettative. Gli avevo spiegato la situazione avanzata del cancro polmonare, le aspettative limitate della chemio, l’opportunità di stare con la moglie a casa o in vacanza all’aperto, godendo per quanto possibile dell’aria buona e del tempo concesso. Dopo gli anni di emiplegia, riabilitazione, anticoagulante con tutti i controlli, aveva scelto senza dubbio di passare gli ultimi mesi in libertà.

Il racconto fornisce un’efficace illustrazione della “competenza comunicativa” che, secondo la conferenza di consenso sulla Medicina Narrativa promossa dall’Istituto Superiore di Sanità (Linee di indirizzo per l’utilizzo della Medicina Narrativa in ambito clinico-assistenziale, 2014), è richiesta ai nostri giorni a qualsiasi curante. Questo approccio permette al curante di entrare nell’ambito delle scelte etiche delle persone che cura con un accompagnamento che chiameremmo “gentile”. Ci soccorre la metafora dell’esperienza di venir guidati, proposta da Ludwig Wittgenstein:

Pensiamo all’esperienza vissuta del venir guidati! Chiediamoci: in che cosa consiste quest’esperienza, quando per esempio, veniamo guidati per una strada? Immagina questi casi:

sei in un campo sportivo, magari con gli occhi bendati, e qualcuno ti conduce per mano, ora a sinistra ora a destra; tu devi sempre essere in attesa degli strattoni della sua mano e devi anche stare attento a non inciampare a uno strattone inaspettato.

Oppure: qualcuno ti conduce per mano, con forza, dove tu non vuoi.

O anche: il tuo compagno di ballo ti guida nella danza; tu ti rendi quanto più possibile recettivo per poter indovinare la sua intenzione a seguire anche la più lieve pressione.

Oppure: qualcuno ti conduce a fare una passeggiata; camminando conversate, e dove va lui via anche tu.

O ancora: stai camminando per un viottolo di campagna e lasci che ti guidi.

Tutte queste situazioni sono simili l’una all’altra; ma che cosa è comune a tutte le esperienze vissute? (10).

La fenomenologia del venir guidati evoca l’esperienza di essere accompagnati  da un medico verso una decisione terapeutica. Sentiamo sulla nostra pelle la differenza sostanziale che esiste tra il venir guidati mediante strattoni o il lasciarsi condurre insieme dal ritmo di una danza, dove tra ballerini non si può dire chi conduce e chi viene condotto.

Un altro racconto, tratto dalla medesima raccolta, è un esempio eloquente di una modalità di accompagnamento dolce, che fornisce un intreccio simile a una danza. È intitolato “Il cervello e il cuore”.

La dottoressa che lo riporta riferisce di partecipare alla decisione clinica con il cervello e con il cuore: è la sua trama. Una trama complessa, perché la mente – la sua visione professionale da oncologa – le suggeriva di insistere con la proposta di chemioterapia, mentre il cuore era orientato a condividere la desistenza terapeutica preferita dalla malata. La conclusione si presenta come un tessuto esemplare, nel quale auspicabilità etica e bellezza si intrecciano:

È di una bellezza sbalorditiva vedere la lucidità con cui alcune persone gestiscono la propria vita, mantenendo chiarezza e coerenza nelle proprie decisioni e rispettando profondamente i propri valori. Elza è una di queste persone: si rende profondamente conto che il nostro tempo sulla terra ha una scadenza e che spetta a noi scegliere il cammino della nostra vita. È un immenso onore incontrare sulla mia strada persone come lei.

Non tutte le opere di tessitura delle cure si aprono su risultati di qualità: dipende dalla trama – in particolare dalla volontà di utilizzare solo il filo del sapere clinico-scientifico o di mettersi in gioco come persona -, dalla diversità degli orditi che forniscono le persone malate – in pratica, la loro vita intera, con coerenze e incoerenze – e dall’avventuroso intreccio tra ordito e trama. È questa diversità che fa della professione di curante qualcosa più simile a un’opera d’arte, dagli esiti imprevedibili, che a un esercizio meccanico, guidato solo dal sapere scientifico e dall’abilità tecnica.

Questa modalità di presenza dell’etica nello scenario della cura dà concretezza allo “spazio etico” auspicato dal documento del CNB: “Vulnerabilità e cura nel welfare di comunità. Il ruolo dello spazio etico per un dibattito pubblico” (10 dicembre 2019). Inteso come luogo di ascolto, di incontro e di scambio di esperienze di vita personali e professionali, in cui dar voci ai singoli cittadini e alle associazioni che li rappresentano, lo spazio etico è il luogo appropriato in cui si incontrano la dimensione relazionale e la vulnerabilità; è quindi il luogo per eccellenza in cui prende forma la cura nel suo profilo più alto.

La carrellata delle diverse modalità con cui l’etica si presenta sullo scenario della cura non intende svalutarne nessuna: a condizione che evitino le insidie specifiche che le minacciano, tutte hanno la loro utilità. E possono essere impiegate in modo differenziato, a seconda delle esigenze prevalenti. Il filo comune che tiene insieme le diverse modalità è quella che potremmo chiamare l’aria di famiglia: l’etica in medicina è di casa, non ha bisogno di essere importata dall’esterno. In particolare nella clinica: fa parte essenziale della cura. Avremo bisogno piuttosto di educare il nostro sguardo perché sappia riconoscerla. E imparare a utilizzare la modalità appropriata alle diverse circostanze.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  • Giancarlo Bosetti: La verità degli altri. La scoperta del pluralismo in dieci storie, Bollati Boringhieri, Torino 2019.
  • Antonio Bonaldi, Sandra Vernero: Slow Medicine: un nuovo paradigma in medicina, in Recenti Prog Med 2015; 106: 85-91.
  • Carta della professionalità medica, in Janus. Medicina: cultura, culture, 2002, n.6, 96-102.
  • Franz Joseph Ingelfinger: Bedside ethics fort he hopeless case, in New Engl J Med 1973; 289; 914-5.
  • Erodoto: Storie, voll. I-II, BUR, Milano 1984.
  • Silvana Quadrino: La lunga marcia del counseling sanitario, in Roberto Bucci (a cura di): Manuale di Medical Humanities, Zadig, Roma 2006, pp. 175-188.
  • Gianrico Carofiglio: Della gentilezza e del coraggio. Breviario di politica e altre cose, Feltrinelli, Milano 2020.
  • Sandro Spinsanti: La medicina salvata dalla conversazione, Il Pensiero Scientifico, Roma 2018.
  • Hugo T. Engelhardt: Manuale di bioetica, tr. it. Il Saggiatore, Milano 1991.
  • Ludwig Wittgenstein: Ricerche filosofiche, tr. it. Einaudi, Torino 1974.

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