Medical Humanities – enciclopedia

I. Definire le “medical humanities”

Chi in italiano fa ricorso a un termine straniero ha l’obbligo morale di addurre prove che lo stesso concetto non potrebbe essere espresso nella nostra lingua. L’espressione medical humanities non fa eccezione alla regola. La ragione determinante per preferirlo è presto detta: non esiste in italiano un’espressione che ricopra lo stesso ambito semantico. Ogni tentativo di cercare un equivalente in italiano è destinato a creare equivoci, oppure riflette solo un aspetto parziale di quella complessa realtà denotata come medical humanities.

Può essere di conforto a chi usa l’espressione inglese nel contesto italiano che anche per gli anglofoni non mancano le difficoltà. In un articolo pubblicato sul Journal of American Medical Association Rafael Campo prende le mosse da un convegno svoltosi a Londra, al quale partecipavano poeti, medici, registi, infermiere, sociologi, letterati, arte-terapeuti, esperti di etica, fotografi, studenti di medicina, operatori di hospice, storici, musicisti, filosofi, terapisti occupazionali, ballerini e pazienti: tutti radunati dal comune intento di porre rimedio al malessere della medicina, sotto il comune programma di medical humanities. “Ma che cosa sono, alla fin fine, le medical humanities?”, chiedeva uno studente dotato di senso pratico, durante una pausa. La difficoltà dell’autore di dare una risposta concisa si traduce nel titolo dell’articolo “The Medical Humanities”: for lack of a better term (Campo 2005). Potremmo sottoscrivere: usiamo medical humanities in mancanza di un’espressione migliore.

Piuttosto, quindi, che fornire una definizione, è preferibile seguire le diverse piste fornite dalla famiglia di espressioni affini, consapevoli che ognuna, considerata nei suoi aspetti negativi e in quelli positivi, tratteggia solo un aspetto parziale del quadro, non il quadro nella sua interezza.

“Umanizzazione” della medicina

La traduzione più fuorviante di medical humanities è quella di far equivalere la loro istanza a un progetto di umanizzazione della medicina. L’umanizzazione è un programma che viene evocato solitamente con intenti polemici. Presuppone un’analisi negativa dei comportamenti che si vogliono umanizzare, perché giudicati, appunto, disumani. Che riguardino i detenuti nelle carceri o i malati in ospedale. Il programma di umanizzazione della medicina ha suscitato nel tempo molte adesioni: per motivi religiosi- filantropici (perché il professionista sanitario è considerato nell’alone del Buon Samaritano…) o per ragioni laiche, riconducibili al rispetto dei diritti umani e della dignità delle persone, anche in condizione di malattia. Non mancano motivi per rivendicare azioni correttive di comportamenti che si collocano al di sotto di quanto nella nostra società consideriamo un minimo decente. Sul banco degli imputati non c’è solo l’insensibilità degli operatori o semplicemente la maleducazione; anche la curiosità scientifica o gli interessi conoscitivi possono indurre a comportamenti biasimevoli.

Per saperne di più su ciò che oggi i cittadini considerano non accettabile, basta aprire gli archivi di un qualsiasi centro di ascolto del Tribunale dei diritti del malato o di un ufficio relazioni con il pubblico. O leggere le lettere ai giornali che danno voce al lamento contro la “malasanità”. Questa non è imputata solo di errori e inadempienze, ma spesso semplicemente di disattenzione verso esigenze elementari della nostra vita sociale.

Eliminare dalla pratica della medicina ciò che offende e umilia rimane un programma inderogabile. È tuttavia discutibile che il termine “umanizzazione”, con cui abitualmente lo si designa, sia una scelta felice. I sanitari che si sentono oggetto di un programma di umanizzazione non possono evitare la sensazione di essere accusati di comportamenti “disumani”. È facile immaginare che la reazione più prevedibile sarà quella di risentita chiusura, o di ricerca di altri capri espiatori (gli amministratori della sanità, le condizioni di lavoro…). In ogni caso, sarà arduo avere come alleati in un programma di umanizzazione i professionisti che si sentano messi sotto accusa.

 Anche se concordiamo sulla non opportunità di utilizzare il termine umanizzazione, non possiamo  ignorare che vi hanno fatto ricorso i decreti legislativi 502 (1992) e 517 (1993) che negli anni ’90 hanno delineato il profilo rinnovato del servizio pubblico. Come indicatori per valutare la qualità delle prestazioni erogate venivano infatti menzionate la “personalizzazione e umanizzazione dell’assistenza”. È opportuno tuttavia sottolineare con forza che le humanities che invochiamo come correttivo della pratica attuale della medicina non sono sovrapponibili all’umanizzazione. Quand’anche avessimo eliminato i comportamenti che violano i diritti e la dignità, il programma specifico delle medical humanities dovrebbe ancora avere inizio.

Esercitare la medicina nel solco dell’umanesimo

Etimologicamente, le humanities rimandano al latino “humanitas”, che è stato il potente motore del movimento che ha strutturato l’Occidente moderno: l’umanesimo, appunto. Siamo così condotti a considerare la medicina come un’impresa “umanistica” e il medico (in quanto referente simbolico di un complesso di azioni e di competenze proprie di numerose professioni che si dedicano alla cura) come un “umanista”. Questo uso linguistico richiede molta cautela. Si rischia, infatti, di scivolare verso aspetti caricaturali, così come quando si enfatizzano la missione e la vocazione di quanti esercitano la medicina, quasi praticassero una specie di sacerdozio secolarizzato.

Eppure la correlazione tra i valori dell’umanesimo e quelli che guidano la pratica della medicina più esigente dei nostri giorni è seducente. Possiamo riconoscere una “assonanza culturale” tra l’humanitas rinascimentale e il nuovo paradigma della salute che si sta profilando nel mondo culturale e scientifico. Il riferimento va alla promozione della salute quale processo globale – sociale, politico, educativo, economico – finalizzato a mettere le persone in condizione di aumentare il controllo sul proprio stato di salute e di migliorarlo agendo sui determinanti della salute: non solo quelli di ordine bio-genetico, ma anche ecologico, sociale, economico e culturale. In questa prospettiva la medicina di oggi può attingere a piene mani dai valori dell’Umanesimo: riconsiderazione dell’uomo nel cosmo, accentuazione della personalità individuale come fulcro dell’azione umana, importanza della razionalità e della visione laica del mondo rispetto all’approccio centrato sulla fede.

Questa dimensione profonda dell’“umanesimo” attribuita alla medicina è sicuramente in sintonia con il progetto culturale che anima il movimento delle medical humanities. La medicina può ancora rivendicare di essere – per adottare la formula a effetto di Edmund Pellegrino – “la più umana [“umanistica”] delle scienze e la più scientifica delle humanities”. Senza per questo qualificare anacronisticamente i medici come “umanisti”.

La medicina come attività “umanitaria”

L’aggettivo “umanitario” per qualificare la medicina ci sembra, a prima vista, ridondante, dal momento che l’erogazione di cure sanitarie è l’azione umanitaria per eccellenza. Eppure la sottolineatura umanitaria non è parsa superflua all’“Associazione internazionale per la medicina umanitaria”. L’Associazione ha programmi molto concreti. Si impegna a fornire cure mediche, chirurgiche, infermieristiche e di riabilitazione a pazienti provenienti da paesi sottosviluppati mancanti di necessari specialisti; a portare soccorso alle vittime di disastri dove l’assistenza sanitaria è deficitaria; a mobilitare ospedali e specialisti nei paesi industrializzati per ricevere e trattare gratuitamente tali pazienti; a promuovere il concetto di salute come un diritto umano e a sostenere leggi e principi umanitari nella pratica medica.

Ci rendiamo conto che l’etica medica cresciuta sul tronco della tradizione ippocratica ha avuto bisogno di vigorosi innesti per bilanciare le sue evidenti parzialità e rispondere pienamente agli obiettivi che si prefigge la medicina umanitaria. Alcuni di questi correttivi hanno già una lunga storia. Basti pensare alle regole che hanno preso corpo intorno alla medicina di guerra, dall’istituzione della Croce Rossa internazionale alla Convenzione di Ginevra. La medicina si è sentita provocata a superare la dicotomia amico/nemico, che regola la vita civile e manda avanti le guerre (la medicina in guerra si regola secondo il principio che, quando sono feriti, i nemici diventano fratelli: la differenza tra i “nostri” e gli altri viene a cadere).

Gli sviluppi più recenti della vita sociale sul pianeta hanno creato le condizioni per un’altra trasformazione epocale, dopo quella che ha caratterizzato il sorgere degli stati moderni con le loro organizzazioni sanitarie nazionali. Siamo entrati nell’epoca dell’interdipendenza globale: nel male e nel bene. Il trauma del terrorismo internazionale ci ha fatto scoprire quanto sono interconnessi i sistemi sociali, anche quelli geograficamente e culturalmente più lontani tra di loro. La guerra stessa ha cambiato volto: basti dire che ormai il 90% delle vittime sono civili e che le distruzioni più pesanti non riguardano le armi del nemico, ma i suoi sistemi produttivi e le infrastrutture sanitarie.

Più di recente la pandemia di covid-19 ci ha costretto a scoprire l’interdipendenza anche tra le popolazioni più lontane nel pianeta. Siamo diventati consapevoli che non ci si salva da soli. Fornire le vaccinazioni anche ai più poveri non è un atto di benevolenza dei paesi con maggior benessere, ma una strategia di sopravvivenza.

In questa prospettiva possiamo riconoscere diritto di cittadinanza alla medicina umanitaria, sottolineando la sua intrinseca precarietà. Lo scopo della medicina umanitaria è quello di rendere sé stessa superflua. Quando la medicina umanitaria avrà ricordato alla medicina tout court che cosa comporta, in senso intensivo ed estensivo, lavorare per la salute, potrà anche scomparire come provincia separata della medicina. Non avremo più bisogno dell’aggettivo – umanitaria -, perché il suo significato sarà passato integralmente nel sostantivo: medicina. Ma finché questa situazione non sarà diventata realtà, si impone un imperativo etico: aprire il cuore e la mente – e prestare le mani – alla medicina umanitaria.

Umanità /disumanità: quando la medicina è orientata al risultato

Un altro ambito semantico di umanità /disumanità nella pratica della medicina è quello relativo a situazioni nelle quali, per scarsità di mezzi o per scelta, si privilegia il curare rispetto al prendersi cura. Una semplificazione concreta è fornita dal libro Utopie sanitarie, che ha come sottotitolo esplicito: “Umanità e disumanità della medicina”. Il libro, curato da Rony Brauman, raccoglie diversi saggi redatti da sanitari che lavorano all’organizzazione “Medici senza frontiere”, di cui Brauman è stato presidente dal 1982 al 1994. Sappiamo che questi medici si trovano in prima linea in paesi nei quali la cura ha il carattere dell’emergenza e le condizioni di bisogno sono estreme. In questo libro a più voci, dedicato ad analizzare i presupposti, le convinzioni e i metodi della loro azione, non c’è ombra di compiacimento. Al contrario: i medici coinvolti, riflettendo sugli interventi che avvengono in condizioni di penuria, denunciano il carattere di freddo calcolo che talvolta la loro azione è costretta ad assumere. Devono scegliere tra chi curare e chi trascurare; scoprendo anche sorprendenti diversità culturali: in alcuni paesi, in situazione di carestia, sono i vecchi, in quanto garanti della coesione sociale, a dover ricevere per primi gli aiuti alimentari, e non i bambini, “gruppo debole”, che noi tenderemmo a privilegiare. Per gli organismi umanitari internazionali la priorità va data a evitare i decessi dei bambini, che ci sembrano più ingiusti e intollerabili, mentre in contesti culturali di sopravvivenza la scala delle priorità è un’altra: vanno privilegiati gli adulti che possono mantenere i non autosufficienti (Brauman 2002).

Oltre a chi, i medici sono costretti a scegliere anche il come delle cure che erogano. I Medici senza frontiere sono i primi a denunciare che le loro azioni sono spesso costrette a essere “disumane”, perché assumono lo stesso carattere di “ingegneria” che siamo pronti a denunciare nella pratica medica a carattere più tecnologico.  Lavorando in condizioni di estrema penuria, sono indotti a cadere negli stessi difetti criticabili nella medicina più scientifica. Per quanto “umanitaria” nelle motivazioni individuali di coloro che la praticano, anche la loro medicina diventa “disumana”, perché le condizioni in cui si svolge il loro lavoro li costringono a sacrificare quelle dimensioni della cura che qualsiasi malato considera essenziali. Indipendentemente dalla qualità degli affetti e delle relazioni che si instaurano, la medicina può essere oggettivamente disumana, se diventa, per necessità o per scelta, una specie di ingegneria applicata.

L’orizzonte in cui si collocano le considerazioni proposte da Medici senza frontiere non è quello delle intenzioni soggettive degli operatori e del loro impegno umano. Ci invitano a considerare il contesto. Scopriamo così che la medicina, nei contesti opposti dell’estrema indigenza e della massima opulenza, può essere ugualmente disumana. Mentre l’auspicio dell’“umanizzazione” della medicina fa riferimento agli operatori – e implica indirettamente l’accusa rivolta loro di mancanza di dedizione e di motivazione – le analisi che si concentrano sulla disumanità della medicina prescindono dal vissuto degli operatori. Non equivalgono a un invito a “moralizzare” medici e infermieri, ma a un progetto rivolto a correggere la concezione stessa della medicina. Le differenze sono di grande peso: nel primo caso la terapia per la disumanità ha carattere predicatorio, nel secondo implica invece il correttivo delle medical humanities.

L’ “umanità” degli operatori sanitari

Completiamo il periplo delle diverse accezioni che può assumere la “humanitas” riferita alla medicina portando l’attenzione sull’umanità, intesa come sintesi di qualità morali, di coloro che praticano la medicina. Parallelamente, ci dobbiamo interrogare sulle qualità richieste a coloro che delle cure mediche sono i beneficiari. Tutta la tradizione di riflessione sui doveri del medico ha incluso l’obbligo di co-umanità nelle caratteristiche del buon sanitario. A partire dalla formulazione latina del medico come “vir bonus, sanandi peritus”: persona buona, esperta nel curare. Ma questa “bonitas”, che determina la qualità professionale, va intesa in senso attributivo (un buon medico) o in senso predicativo (un medico buono)? I movimenti di umanizzazione della medicina accentuano la posizione predicativa: auspicano un medico buono. Lo immaginiamo disinteressato, attento ai problemi dei pazienti, sensibile, capace di dialogo, empatico. Talvolta queste e altre attese sono riassunte nella richiesta che abbia una “visione olistica” del paziente e della sua patologia, intesa come una somma di capacità e di virtù.

In senso attributivo, invece, dal buon medico ci si aspetta altro. Anzitutto la competenza scientifica e un saldo dominio dell’arte terapeutica. La scienza abbinata alla coscienza, che si è soliti invocare per delineare il profilo del buon medico, oggi ha assunto un profilo molto preciso: la medicina che pratica deve essere evidence based; le linee guida hanno sostituito la libertà terapeutica, che in passato era talvolta sinonimo di arbitrio o di preferenze immotivate. Una cattiva medicina clinica non può essere etica; tuttavia la competenza clinica non basta più per fare un buon medico.

Questi, oltre alle conoscenze scientifiche, deve avere competenze comunicative per praticare la medicina “nel modo giusto”, così come richiede la cultura contemporanea, orientata al rispetto dell’autodeterminazione della persona malata. È il cuore della Medicina Narrativa in ambito clinico-assistenziale. E deve avere competenze gestionali, in accordo con le esigenze dell’etica dell’organizzazione. In una parola, il buon medico non può essere solo competente sul versante delle scienze biomediche, ma deve esserlo in misura non minore in tutto l’arco dei saperi coltivato dalle medical humanities.

II. Le “medical humanities” in pratica

–  L’integrazione delle “due culture”

La consapevolezza che la medicina presuppone due sguardi diversi sull’uomo ha una lunga storia. Non a caso l’immagine di Giano bifronte – figura mitologica centrale nel pantheon latino – è stata utilizzata innumerevoli volte per illustrare la caratteristica peculiare della medicina di guardare contemporaneamente in due direzioni opposte: quella delle scienze della natura (Naturwissenschaften) e quella delle scienze dello spirito (Geistwissenschaften), per usare la terminologia proposta dallo storico e filosofo tedesco Wilhelm Dilthey. Da una parte le scienze dell’uomo basate sulla storia, la narrazione, la comprensione; dall’altra le scienze esatte, tese all’accertamento di leggi e meccanismi. Mentre le prime richiedono la comprensione (in tedesco: verstehen), le scienze della natura ricorrono invece alla spiegazione (erklären). Per questo il medico, che è uno scienziato di persone, e di persone malate, deve non solo sapere che cos’è la malattia, ma deve anche capire il malato. L’obiettivo delle medical humanities è proprio quello di tenere insieme i diversi sguardi, senza negare la rilevanza di ognuno, nella sua irriducibilità. A partire dal successo del saggio di Charles Snow, si parla abitualmente di “due culture” (Snow 1959) e della necessità di valorizzarle e farle dialogare.

In concreto, la penalizzazione delle scienze umane si riscontra nella formazione dei medici. A fronte di un ampio spazio assegnato nel curriculum degli studi alle scienze biologiche – nonché ai loro fondamenti: chimica, fisica, genetica… – pressoché assente è l’attenzione dedicata a quelle sociali: sia dal punto di vista descrittivo della realtà umana (sociologia, psicologia, antropologia culturale), sia dal punto di vista prescrittivo dei comportamenti (diritto, etica). Molti degli sforzi delle medical humanities sono rivolti a correggere, a posteriori, uno sguardo deformato da un riduzionismo indotto da una frequentazione unilaterale delle scienze bio-mediche durante tutto il curricolo formativo. Sarebbe invece urgente che la capacità di equilibrare e integrare le due culture fosse coltivata sin dall’inizio. Lo spazio adeguato alle scienze umane nell’ambito della formazione universitaria dei futuri medici non è ancora previsto nell’agenda di nessuna proposta di riforma.

La professionalizzazione delle medical humanities

Una volta riconosciuto il diritto di cittadinanza delle medical humanities nel territorio di cura, emerge la questione: si tratta di un atteggiamento generale, che deve essere fatto proprio da ogni curante, o si devono tradurre in professionalità specifiche? I saperi e le pratiche che afferiscono, in senso ampio, alle medical humanities possono essere professionalizzate. È un’opportunità e un rischio. Ovviamente ci rendiamo conto – per ripiegare su un esempio concreto – che il trauma che può essere causato da una diagnosi pesante a prognosi infausta possa sconvolgere la persona che la riceve. Talvolta l’impatto può essere così profondo che è auspicabile l’intervento di uno psicologo, con la sua specifica competenza professionale. La sua azione terapeutica si affianca efficacemente a quella del medico. Diverso è però lo scenario se il clinico, sapendo che ciò che comunica al malato suscita profondi rivolgimenti, lo avvia di default al professionista psicologo, limitando i propri interventi agli aspetti tecnici della diagnosi e della terapia. Come se l’attenzione alle emozioni esulasse completamente dalla sua competenza e si sentisse giustificato dalla presenza dello psicologo nello scenario della cura a concentrarsi esclusivamente nel trattamento della malattia (nel senso di disease).

Lo stesso schema potremmo applicare alla dimensione sociale della cura: di pertinenza, certo, nei casi più drammatici del professionista assistente sociale, ma non è irrilevante nello scenario clinico sapere di quali risorse terapeutiche il malato dispone. Così pure degli aspetti del multiculturalismo. E naturalmente dell’etica. In alcune strutture sanitarie sarà opportuno avere un comitato per l’etica, al quale far ricorso per consulenze nelle situazioni più complesse; ma sarebbe un impoverimento della pratica medica se il ragionamento sottostante fosse: “Io – medico – mi occupo del dato biologico-clinico; per gli aspetti etici della cura è competente il comitato. Mi rivolgo al comitato e mi lascio dire come mi devo comportare”.

Questa versione caricaturale della professionalizzazione delle medical humanities impatta in modo particolare sulla spiritualità. È ovvio che gli aspetti più formali – in particolare nella spiritualità che si traduce in comportamenti religiosi – sia spontaneo far intervenire il ministro del culto, se questo è il desiderio della persona malata. Ma, ancora una volta, costituirebbe un impoverimento dello sguardo clinico se questa dimensione esistenziale fosse del tutto resa irrilevante nel complesso della cura.

L’interlocuzione con le pratiche delle medical humanities, in particolare con la Medicina Narrativa, ha prodotto percorsi formativi specifici per i professionisti dell’assistenza spirituale. La visione caricaturale del cappellano, come distributore automatico di ovvietà devozionali, non è giustificata dalle pratiche più modellate sui bisogni profondi della persona confrontata con le devastazioni esistenziali prodotte dalle gravi patologie.

Anche da parte dei professionisti sanitari più sensibili alla dimensione umanistica della cura, e quindi della necessità di dare spazio alla spiritualità, si avverte la necessità di porre dei limiti alla specifica professionalità medica, invocando la presenza professionale di un pastore. Un’efficace perorazione in tal senso è venuta da Jerome Groopman, autorevole clinico e noto editorialista attento alle esigenze di una medicina di qualità. In un articolo pubblicato nel New England Journal of Medicine con il titolo: “God at the bedside”, partiva da un concreto caso clinico: una giovane paziente rifiutava le cure per un tumore al seno; considerava la malattia come la punizione divina per un suo comportamento peccaminoso; la sua morte rappresentava per lei la volontà di Dio. Dal caso nasceva la domanda: pur accettando che la cura dovrebbe investire tutta la triplice scansione dell’essere umano – corpo, mente ed anima – come può un medico inoltrarsi con competenza dentro il mondo spirituale dei suoi pazienti? Quand’anche condividesse le loro credenze religiose, avrà bisogno di affidare il malato a un pastore (o rabbino, o imam …) per problematiche di questo genere (Groopman 2004). Siamo quindi rimandati alla spiritualità come attività professionale, che tuttavia non esonera il professionista sanitario dall’attenzione alla dimensione spirituale della cura.

Per quanto riguarda la Medicina Narrativa, cui spetta legittimamente un posto di rilievo nell’ambito delle medical humanities, registriamo un’iniziativa pilota a professionalizzarla, ad opera del Centro ospedaliero di Créteil, alla periferia di Parigi. L’ospedale ha istituito il profilo professionale di “Consulente letterario e narratologo sanitario” (Attaché littéraire hospitalier) (Delorenzo 2021). Il plauso rivolto all’iniziativa non ci impedisce di richiamare l’attenzione a quanto proposto dalla conferenza di consenso dell’ISS: Linee di indirizzo per l’utilizzo della Medicina Narrativa in ambito clinico-assistenziale. La “competenza comunicativa” che ne definisce la specificità – “La narrazione è lo strumento fondamentale per acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura. Il fine è la costruzione di un percorso di cura personalizzato” – è richiesta a tutti i clinici: non può essere delegata a qualcuno, esonerando chiunque, a qualsiasi titolo, pratica la cura. Il lavoro professionale di chi è chiamato a rappresentare la Medicina Narrativa non può essere che quello di sensibilizzare tutti i professionisti della cura all’importanza strategica della narrazione e al suo utilizzo appropriato.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Brauman R 2002. Utopie sanitarie. Umanità e disumanità della medicina, Milano: Feltrinelli.

Campo R The medical humanities: for lack of a better term, JAMA 2005; 214: 1009-1011.

Delorenzo C (et al.) 2021: Des groupes de Médecine Narrative dans un centre hospitalier : l’expériance et le dispositif du Centre Hospitalier Intercommunal de Créteil CCHIC), Revue Médecine et Philosophie (5) 2021, 47-54.

Groopman G 2004. Anatomia della speranza. Milano: Feltrinelli.

Snow C 1959. The two cultures and a second look. Cambridge University Press.

 

Voci confluite in: Massimiliano Marinelli (a cura di) Dizionario di Medicina Narrativa. Parole e pratiche, ed. Scholé, Brescia 2022.

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