Quando la cura diventa accompagnamento

È di una bellezza sbalorditiva vedere la lucidità con cui alcune persone gestiscono la propria vita, mantenendo chiarezza e coerenza nelle proprie decisioni e rispettando profondamente i propri valori. Elza è una di queste persone: si rende profondamente conto che il nostro tempo sulla terra ha una scadenza e che spetta a noi scegliere il cammino della nostra vita. È un immenso onore incontrare sulla mia strada persone come lei.

È il commento con cui un’oncologa, nel racconto che ha inviato per la Storia Slow, accoglie le decisioni, insieme cliniche ed etiche, di una malata che ha avuto in cura.

  • Accompagnare: un altro modo per dire “cura”

Accompagnare ed essere accompagnati: due esperienze simmetriche, che rimandano a un vissuto molto differenziato. Lo ha illustrato efficacemente Ludwig Wittgenstein ricorrendo all’esperienza di venir guidati per argomentare circa la necessità di utilizzare l’esperienza vissuta come chiave interpretativa dei comportamenti ai quali le parole ci rimandano:

Pensiamo all’esperienza vissuta del venir guidati! Chiediamoci: in che cosa consiste quest’esperienza, quando per esempio, veniamo guidati per una strada? Immagina questi casi:

sei in un campo sportivo, magari con gli occhi bendati, e qualcuno ti conduce per mano, ora a sinistra ora a destra; tu devi sempre essere in attesa degli strattoni della sua mano e devi anche stare attento a non inciampare a uno strattone inaspettato.

Oppure: qualcuno ti conduce per mano, con forza, dove tu non vuoi.

O anche: il tuo compagno di ballo ti guida nella danza; tu ti rendi quanto più possibile recettivo per poter indovinare la sua intenzione a seguire anche la più lieve pressione.

Oppure: qualcuno ti conduce a fare una passeggiata; camminando conversate, e dove va lui via anche tu.

O ancora: stai camminando per un viottolo di campagna e lasci che ti guidi.

Tutte queste situazioni sono simili l’una all’altra; ma che cosa è comune a tutte le esperienze vissute? (1).

La fenomenologia del venir guidati evoca l’esperienza di esser accompagnati da un medico verso una decisione terapeutica. Sentiamo sulla nostra pelle la differenza sostanziale che esiste tra il venir guidati mediante strattoni o il lasciarsi guidare insieme dal ritmo di una danza, dove tra ballerini non si può dire chi conduce e chi è condotto. Così come, intuitivamente, cogliamo il diverso rilievo che l’accompagnamento può assumere di fronte a una patologia che può essere annullata dall’intervento terapeutico appropriato (restitutio ad integrum, l’auspicabile “tornare come prima”), oppure quando siamo confrontati a una perdita irrecuperabile di una salute intesa come integrità, che lascia spazio unicamente a una convivenza con la patologia, sotto il segno della cronicità. Ancor più delicato e complesso diventa l’accompagnamento quando si configura come un percorso condiviso con chi è incamminato, irrevocabilmente, verso la fine della vita. Cambia il profilo dell’accompagnamento e diventa rilevante la modalità in cui viene praticato.

Qui si profila l’aspirazione a essere accompagnati in modo Slow nel percorso di cura. Il movimento che si colloca sotto lo slogan della Slow Medicine ha dato vita, nel proprio sito, a una serie di racconti qualificati come Storie Slow. Leggiamo nella presentazione della serie di racconti che l’obiettivo è quello di descrivere la Slow Medicine in azione, così come si concretizza nei vissuti dei professionisti che a essa si ispirano e nelle esperienze di coloro che ricorrono alle loro cure:

Quali scelte fa un professionista slow diverse da quelle che farebbe uno fast?

Tutti hanno vissuto episodi, esperienze, momenti nei quali è scaturito qualcosa di insolito, qualcosa che ha fatto dire: Ecco, una medicina così mi piace; questo professionista ha saputo capirmi e mi ha aiutato davvero.

  • Un tempo “fast” e un tempo “slow”

Questi racconti sono un ottimo sussidio per iniziare affrontando la questione di fondo, ovvero: di che cosa parliamo quando invochiamo una medicina Slow? Fuori questione che il riferimento sia diretto a un accompagnamento “lento”, come suggerirebbe la traduzione letterale del termine inglese (purtroppo anche l’immagine della chiocciolina, scelto come logo, sembra avviare nella dimensione della lentezza…). Il tempo necessario è una variabile che si presenta in modo molto differenziato: può essere lungo, ma anche brevissimo. Esemplare in questo senso il racconto “L’ultimo desiderio” (n. 25). Quando il malato viene portato in Pronto soccorso e successivamente in Unità coronarica per un grave infarto cardiaco, gli viene impiantato d’urgenza un contropulsatore aortico, che permette al cuore di continuare a funzionare. Ritornato in sé e resosi conto che l’impianto tecnico gli assicura una sopravvivenza in condizioni che non desidera, il malato chiede che gli venga rimosso. L’accompagnamento, che in un primo momento è avvenuto nella modalità dell’emergenza, a questo punto cambia profilo: richiede l’ascolto delle ragioni della persona malata e secondariamente anche del punto di vista della moglie, senza dimenticare i rumori di fondo dell’opinione di colleghi cardiologi che ritengono l’eventuale rimozione del contropulsatore “una pazzia”… È il tempo lungo dell’acquisizione della volontà del malato, che permettere di giungere a una decisione condivisa. Tanto più problematica, in quanto dissonante con ciò che i terapeuti sono inclini a fare, quando le risorse garantite dalla medicina rendono possibile un prolungamento della vita.

Il medico che riporta la storia riferisce:

Quando gli spiego il motivo per cui il contropulsatore è stato impiantato e che la rimozione potrebbe provocargli la morte, con molta serenità mi spiega che è venuta la sua ora e non ha intenzione di subire un accanimento terapeutico. “Se vuole morire, lo lasci morire” interviene la moglie. Preferisco discutere la questione senza la presenza della moglie e la faccio accomodare fuori. Non so valutare quanto tempo sono stato in quella stanza con il supporto della caposala a sentire il racconto della sua vita e delle sue motivazioni. Sta vivendo un’esistenza grama, senza figli, con pochi soldi, tanti acciacchi. “Dottore, mi creda, non me la sento di vivere in queste condizioni e per di più con un cuore malandato. Se non dovessi farcela, non vorrei comunque morire qui, ma nel mio letto. Per piacere mi aiuti e mi mandi a casa”.

La vicenda si presta a varie letture. Qui ci focalizziamo sul fatto che sullo sfondo della decisione si intravede il tessuto delle norme – giuridiche, deontologiche ed etiche – che regolano le decisioni di fine vita. Meritano una riflessione appropriata, peraltro al centro di dibattiti nella nostra società, almeno per quanto riguarda le morti volontarie medicalmente assistite. In questo contesto ci limitiamo a sottolineare i tempi diversi richiesti dall’accompagnamento: velocissimo negli interventi acuti ed estremamente ponderato nelle decisioni che si affacciano sull’ultima soglia. Sia l’una che l’altra può essere qualificata come medicina Slow; anche se in un contesto – per utilizzare l’immagine proposta da Wittgenstein – si viene strattonati, mentre nell’altro si fa un pacifico percorso conversando, lasciandosi guidare dal panorama che fa da sfondo al bilancio esistenziale.

Il rilievo su Slow da dissociare dal tempo che si impiega nella cura è un’occasione per evidenziare che, per interpretare correttamente l’intento di Slow Medicine, bisogna collocarla nel contesto appropriato. Si tratta, sostanzialmente, di una variante di un unico movimento che mira, sotto diverse etichette, a portare la pratica medica in sintonia con la cultura della modernità. La discontinuità più clamorosa con la medicina del passato è stata segnata dalla bioetica, che ha avuto l’ardire di mettere in discussione il tradizionale paradigma ippocratico e rivendicare il principio dell’autodeterminazione di colui che riceve le cure come correttivo dell’unico criterio del bene del paziente, deciso dal medico “in scienza e coscienza”. Successivamente ha preso rilievo il movimento delle Medical Humanities, mettendo in evidenza la complessità epistemica di nozioni come salute – malattia – guarigione, quando sono sottratte al riduzionismo operato dalle scienze naturali. Sul palcoscenico si è poi presentata la Medicina Narrativa, con la sua vivace rivendicazione dell’importanza della parola nel rapporto di cura e della competenza comunicativa come elemento costitutivo della professionalità terapeutica.

Nessuna di queste denominazioni con cui, volta a volta, ha preso forma la svolta verso una relazione terapeutica emancipata dal paternalismo medico è immune da equivoci. Tutte hanno bisogno di chiarimenti, per mettere a fuoco il progetto sottostante ed evidenziare il baricentro comune del cambiamento sollecitato.

  • La pratica della medicina rimessa in discussione

La Slow Medicine si colloca in questo contesto di un movimento, a più voci e sinergico, che mira a una revisione della pratica tradizionale della cura. La sua specificità consiste nell’aver sottolineato la tridimensionalità etica della buona pratica clinica, evocata con i tre aggettivi che la caratterizzano, ovvero, “cure sobrie, rispettose, giuste”. Una posizione in totale sintonia con la posizione espressa dalla Carta della professionalità medica, nata dal confronto tra l’European Federation of Internal Medicine, l’Americal College of Physicians e l’American Board of Internal Medicine, e destinata a tracciare la buona medicina all’alba del XXI secolo (2). Il documento è stato pubblicato sia da The Lancet che da Annals of Internal Medicine nel 2002. Secondo la Carta, la pratica clinica si deve confrontare, simultaneamente, con tre principi: la beneficialità, che colloca al centro il benessere dei pazienti; l’autonomia dei malati, che esige dal terapeuta di metterli in condizioni di prendere decisioni informate riguardo al trattamento e di rispettare le loro scelte; il principio della giustizia sociale, che richiede l’equa distribuzione delle risorse disponibili e di evitare le discriminazioni. Il riferimento è fondamentale per strutturare l’identità del movimento Slow Medicine.

Gli aspetti della pratica clinica riconducibili all’accompagnamento sono ispirati soprattutto alla valorizzazione della persona malata, alla sua concezione di una vita di qualità, e quindi sostanzialmente a una medicina “rispettosa”. Gli interventi correttivi che abbiamo evocato, proposti da diversi movimenti che si sono succeduti, insieme a indubbi meriti, hanno veicolato il sospetto che queste necessarie modificazioni venissero importate nella pratica della medicina dall’esterno. Come se la qualifica della qualità della cura fosse di competenza di altri, rispetto ai clinici stessi. Vale la pena ricordare, a questo proposito, un monito formulato da alcuni dei promotori della svolta sotto il segno della bioetica: il pericolo che una “armchair ethics” spodestasse la tradizionale “bedside ethics”, ovvero che un’etica proveniente dalle cattedre di filosofia prendesse il posto di quella che nasce al letto del malato (3). Se prevale l’etica che nasce dai dibattiti accademici e dagli scontri culturali, i clinici rischiano di essere visti, più che protagonisti in prima persona della buona medicina, come esecutori di istruzioni impartite dall’esterno del contesto clinico. Basti pensare alla concezione che vede nei comitati etici degli organismi che determinano in maniera autoritativa ciò che il clinico può o non può fare dal punto di vista etico.

È vero che la professione medica, che precedentemente dettava leggi in ambito clinico, è stata a sua volta sottoposta a una serie sempre più numerosa di normative elaborate in sedi che di per sé non hanno niente a che vedere con le movimentate relazioni che si intrecciano al capezzale del malato. Il medico si è dovuto confrontare con leggi che hanno tracciato confini tra lecito e illecito precedentemente stabiliti solo dal suo senso etico; la deontologia si è adeguata al cambiamento culturale, come testimoniano le ripetute edizioni del Codice avvenute nel giro di un paio di decenni, prescrivendo i comportamenti corretti in modo talvolta contrario a quanto validato in passato. Tutto ciò ha prodotto nei professionisti della cura la spiacevole sensazione di dipendere da regole che provengono da altre fonti, diverse dalla clinica, e che chiedono solo di essere applicate. 

Una delle piacevoli impressioni prodotte dalle Storie Slow è constatare come il centro di gravità si sia ristabilito nella pratica clinica. Il sottotitolo con cui si presentano le storie – “Dall’ideologia alla corsia” – suona programmatico. Un programma forse esageratamente polemico. Non che la presenza disturbante dell’ideologia sia assente dallo scenario della cura. Certo, siamo lontani dall’ideologia pura e dura, che registriamo in altri ambienti culturali diversi dal nostro; con punte deliranti e francamente insensate, come l’accanimento che induce alcuni fanatici del movimento “pro vita” negli Stati Uniti a uccidere i professionisti sanitari che lavorano nelle cliniche dove si fanno aborti. Più che queste forme estreme di ideologia da noi procurano danno all’etica che prende forma al letto del malato certe rigidità: a cominciare dai principi, che qualcuno concepisce e proclama come “non negoziabili”. I principi fanno sentire la loro presenza minacciosa soprattutto nell’ambito delle scelte riproduttive, dei limiti alle cure e delle decisioni di fine vita. Ma la rilevanza di principi diversi e plurali, con i quali si deve confrontare la pratica terapeutica, anche la più routinaria, veicola la possibilità di conflitti, a seconda della priorità attribuita all’uno o all’altro.

Il movimento della bioetica si è spesso riferito alle osservazioni del bioeticista Tristam Engelhardt, che ha descritto le polarizzazioni su certi temi come espressione di un’”estraneità morale” (4). A suo avviso, si può essere “stranieri morali” anche appartenendo alla stessa cultura, addirittura nell’ambito della stessa famiglia. L’estraneità morale incombe in particolare sulle decisioni che incidono sulla quantità e qualità della vita. È una conseguenza della decantata “personalizzazione delle cure”: quando queste diventano così personali da aspirare a essere modellate secondo la propria gerarchia di valori e la concezione individuale di una vita di qualità, possono far sentire straniere persone che pur hanno un’intensa comunanza di vita. Ciò vale sia per i curanti, che possono percepirsi estranei rispetto alle scelte delle persone che curano, sia all’interno delle reti di relazioni che costituiscono il mondo del malato. La risposta adeguata non può essere la contrapposizione polemica tra universi morali in conflitto (non dimentichiamo che pòlemos in greco è la guerra; l’estraneità morale può dare alimentare una guerra a oltranza con coloro dei quali non si condividono le opzioni morali), ma quella modalità di cura che si presenta come accompagnamento e che comincia con l’ascolto e il tentativo di comprendere anche ciò che non si condivide.

Una storia esemplare, che illustra come il contesto clinico possa essere fonte di una creatività dialogica che dà scacco all’estraneità culturale e morale, è “Una pietra (non) preziosa” (n.9). Protagonista è Moussà, un giovane senegalese che l’emigrazione ha portato sulle rive del nostro Paese e che ora è arrivato nell’ultima spiaggia di un ospedale, dove sta morendo in braccio alle cure palliative. L’infermiere chiede a Moussà come può aiutarlo. La risposta inattesa è la richiesta è di avere un sasso grande come il pugno di una mano: Moussà, musulmano praticante, ci appoggia la fronte per le sue preghiere quotidiane, affidando al sasso la funzione della terra, sulla quale non può più piegarsi. Solo il contesto clinico può fornire una risposta che costituisce un ponte tra mondi culturali irriducibilmente lontani.

Per la pratica clinica ancora più disturbante dell’intransigenza ideologica, di matrice religiosa o laica, è la rigidità delle regole, sia giuridiche che deontologiche, e delle procedure, ingessate in forme burocratizzate. In primis quelle relative al consenso informato, che più che richiesto bisognerebbe dire che venga abitualmente estorto. Le Storie Slow mostrano invece che il consenso arriva a essere condiviso solo alla fine di un percorso, che richiede tempo e impegno; compreso il coinvolgimento di professioni sanitarie diverse. Esemplare in questo senso è il racconto “Il sondino della discordia” (n. 62). Inizia con la richiesta perentoria da parte del medico: “Serve la sua autorizzazione per mettere una PEG a suo padre” e si inoltra nell’intrico di una decisione che ha per oggetto la gestione sanitaria di un familiare con demenza vascolare. Scaricare la decisione sul caregiver, privilegiando procedure di consenso di prevalente carattere burocratico? Il parere della protagonista del racconto è netto: “In situazioni di questo genere uno dei compiti dei medici dovrebbe essere quello di sollevare i familiari da decisioni difficili prima di tutto dal punto di vista emotivo”. In questo caso il racconto evidenzia come il supporto degli infermieri nella RSA sia stato determinante per scegliere una soluzione meno lineare dal punto di vista clinico, ma più “rispettosa” della personalità del malato e del rapporto affettivo del familiare.

Ciò che le storie raccolte da Slow Medicine fanno emergere è un lavoro di confronto con le regole. Ovviamente queste non vengono ignorate; ma piuttosto che un’applicazione passiva e burocratica, nell’accompagnamento che caratterizza il percorso di cura diventano oggetto di un’elaborazione discorsiva, grazie alla quale le decisioni acquistano il profilo conferito loro da una creatività analoga a quella che si esprime nelle opere d’arte. Così da indurci a dare all’accompagnamento il profilo suggerito dalla metafora della tessitura.

  • Le decisioni cliniche come opera di tessitura

La storia del “Congedo sereno” (n.8) è molto appropriata per un confronto con le regole che illustrano la cura in modalità di tessitura. Il protagonista è un signore di una certa età, sofferente per un’emiplegia conseguente all’ictus di dieci anni prima. Un tumore polmonare sopravvenuto fa prevedere una breve sopravvivenza. La moglie chiede al medico di essere “soft” nel dare le informazioni al marito, “per non togliergli la speranza che gli dà la forza di combattere”.

Le relazioni prospettate in questo quadro rispecchiano una pratica che è stata in vigore fino a poco tempo fa, ma che secondo le regole deontologiche attuali dobbiamo dichiarare anacronistica. In passato il vero interlocutore del medico era il familiare che si proponeva come caregiver, non il malato. Fino alla revisione del codice deontologico del 1995 non si faceva menzione dell’obbligo del medico di fornire un’informazione veritiera e di ottenere il consenso del malato a qualsiasi procedura diagnostica e terapeutica, previa informazione. Esplicitamente, il Codice prevedeva l’informazione veritiera riservata ai familiari, alle spalle del malato: “Il medico può valutare l’opportunità di tenere nascosta al malato e di attenuare una prognosi grave o infausta, la quale dovrà essere comunque comunicata ai congiunti” (Codice del 1989, art. 39). L’attenzione a una informazione che non escluda elementi di speranza è costantemente ribadita nelle diverse redazioni del codice che si sono susseguite nel tempo (1995, 2006, 2014). La più recente suona: “Il medico adegua la comunicazione alla capacità di comprensione della persona assistita o del suo rappresentante legale, corrispondendo a ogni richiesta di chiarimento, tenendo conto della sensibilità e reattività emotiva dei medesimi, in particolare in caso di prognosi gravi o infauste, senza escludere elementi di speranza” (Codice del 2014).

Nel racconto la dottoressa si dichiara consapevole che la deontologia le imporrebbe di essere aperta con il malato e di non accondiscendere alla bugia pietosa, o quanto meno a un’informazione addomesticata, che invece era nelle richieste della moglie. L’approccio soft, che implica anche il tempo necessario al malato per fare il suo cammino nella consapevolezza, porta alla svolta, nel momento opportuno:

Un giovedì del ciclo di chemio quando era maturato il momento in cui era pronto per aprirsi, Michelangelo mi aveva chiamato da parte, mi aveva detto che nelle ultime settimane era un po’ aumentato l’affaticamento, che era comparso un certo tedio per gli incontri settimanali in Oncologia, che voleva recuperare tutto il tempo possibile con la sua Giusy, dopo una vita di lavoro, sacrifici e condivisione. Quest’espressione mi aveva convinto a parlargli apertamente, senza subire il condizionamento della moglie, accogliendo le sue preferenze e i suoi valori-desideri-aspettative. Gli avevo spiegato la situazione avanzata del cancro polmonare, le aspettative limitate della chemio, l’opportunità di stare con la moglie a casa o in vacanza all’aperto, godendo per quanto possibile dell’aria buona e del tempo concesso. Dopo gli anni di emiplegia, riabilitazione, anticoagulante con tutti i controlli, aveva scelto senza dubbio di passare gli ultimi mesi in libertà.

Il racconto fornisce un’efficace illustrazione della “competenza comunicativa” che, secondo la conferenza di consenso sulla Medicina Narrativa promossa dall’Istituto Superiore di Sanità (Linee di indirizzo per l’utilizzo della Medicina Narrativa in ambito clinico-assistenziale, 2014), è richiesta ai nostri giorni a qualsiasi curante. La vicenda riportata costituisce inoltre un’appropriata introduzione all’immagine della tessitura applicata al rapporto di cura.

Come documenta la storica della filosofia Francesca Rigotti, la metafora della tessitura è presente in molti ambiti della vita intellettuale e di quella sociale, dall’aratura dei campi alla scrittura (5). Non è invece usuale applicarla alla medicina. Eppure l’intreccio dell’ordito e della trama è quanto mai appropriato a rappresentare i rapporti di cura come li auspica la medicina dei nostri giorni. È il percorso della spola che si intreccia con i fili dell’ordito che produce il disegno della tela. L’ordito in questo caso è rappresentato da ciò che fornisce colui che richiede le cure stesse. Ci riferiamo alle attese, alla disposizione interiore di colui che riceve i trattamenti, alla volontà stessa di partecipare alla cura in modo attivo o passivo, consapevole o spento.

Dalla filatura di un solo filamento di pensiero la metafora della tessitura, che fa incontrare ordito e trama, ci conduce all’intreccio: l’intersecarsi del filo della trama tra quelli dell’ordito, per dar origine al disegno sulla tela. Appoggiandoci ancora alle considerazioni di Francesca Rigotti, giungiamo così a valorizzare la rete:

Fili, nodi, vuoti: di questi tre elementi è composta una rete, la rete del pescatore e la rete dei pensieri. La rete dei pensieri è fatta di fili di pensiero prodotti con la tecnica del ragno, di nodi nei quali i pensieri si combinano e si saldano, e di vuoti di pensiero, quando un ricordo sfugge, una parola manca, una nozione non ci viene incontro o l’ispirazione vien meno.

Il carattere reticolare del pensiero si riflette anche nella struttura reticolare del dialogo. La rete del linguaggio umano consiste di frasi con le quali costruiamo la struttura della realtà come il ragno fila la sua tela e la merlettaia mette insieme, tirando e puntando i fili con aghi e fuselli, lo sfondo e i motivi del suo ricamo.

Fili, nodi, vuoti; parole, silenzi, intrecci: anche la pratica della conversazione nel contesto clinico rimanda alla tessitura. Basti pensare alla complessità insita nel condividere l’incertezza, che accompagna costantemente la pratica della cura.

  • Gli intrecci nel rapporto di cura

Che la metafora della tessitura non sia solo un espediente retorico ma una descrizione realistica della migliore pratica clinica è messo bene in evidenza dal racconto “Abbiamo potuto tenergli la mano” (n. 13). È il resoconto di una morte serena, come riportata dalla figlia della persona in cura. Un percorso tribolato, nel periodo in cui la pandemia creava barriere di isolamento insuperabili e produceva una quantità di decessi desolati: persone morte in solitudine, familiari devastati da sensi di colpa e da risentimenti verso le autorità politiche e sanitarie. Le decisioni che hanno portato a una morte dignitosa – a cominciare dalla più fondamentale: ricovero ospedaliero o assistenza a casa? – appaiono nel racconto come un delicato ricamo. Ne sono protagonisti familiari, geriatri, medico di famiglia, caregiver e amici. Tutti coinvolti in un percorso che ha condotto a una partenza serena: “Abbiamo potuto tenergli la mano e incrociare gli sguardi, quando le parole se ne sono andate”. Sarà un caso che la figlia caregiver, che ci fa dono del racconto, di sé stessa dice che ama crescere le piante e “tessere tappeti”?

Le narrazioni, facendo emergere gli intrecci che costituiscono il rapporto di cura, ci permettono di recuperare l’idea di complessità che è propria della cura stessa. Allo stesso tempo costituiscono una critica efficace alla concezione lineare delle procedure burocratiche. Letto in questa chiave, il consenso informato come costruzione di un percorso è quanto di più lontano si possa immaginare della richiesta di una firma da apporre sotto un modulo.

Lo sviluppo più completo della tessitura come metafora dei rapporti di cura è quello che traduce i rapporti di cura in un racconto. Appunto: la cura come accompagnamento, che si completa in un racconto. La narrazione ci promette un affaccio sulla dimensione più profonda del dare e ricevere cure. E la profondità della realtà che viviamo – di cui la cura è una delle parti più nobili – si mostra nel momento cui ci accingiamo a raccontarla. Non stiamo parlando di resoconti clinici o di lettere di dimissione, ma di narrazioni di cui le Storie Slow fanno parte. Fanno parte del genere delle narrazioni più vicine a quelle connotate in senso artistico, anche se forse con la qualifica di parenti povere rispetto alle narrazioni che concorrono per premi letterari. O piuttosto come genere letterario queste narrazioni possono essere ricondotte, in senso lato, ai racconti che in inglese vengono chiamati “Misery report”, in quanto riflettono il percorso con cui si attraversa la malattia e la cura, nei loro aspetti dolorosi ma anche costruttivi. Sono malati che raccontano, familiari e caregiver, e soprattutto curanti di diverse professioni.

Per comprendere in quale dimensione di profondità si muova chiunque intraprende una narrazione che vuol dar conto del vissuto, ci può venire incontro un’annotazione metodologica di un narratore di professione: Raffaele La Capria. Nel racconto La lezione del canarino (6) riferisce come abbia raggiunto la consapevolezza, fin da ragazzo, della dimensione superiore della narrazione letteraria. Un canarino si è posato sulla sua spalla, mentre attraversava un parco. Quando ha voluto riferire alla madre ciò che aveva vissuto – il turbamento e lo stupore, il battito del cuore – si è trovato senza parole. Dire semplicemente che un canarino si era posato sulla sua spalla, non rendeva assolutamente il vissuto:

Più ci pensavo più mi sembrava impossibile che una cosa così semplice come un canarino che si posa sulla tua spalla, una cosa così semplice e così emozionante, fosse tanto difficile da comunicare.

Quando la parola del narratore raggiunge i vertici letterari riesce a riflettere quelli che Virginia Woolf chiamava i “momenti dell’essere”: quei momenti in cui più intensamente la vita si rivela attraverso una parola, un gesto, uno sguardo, il colore di un paesaggio, un qualsiasi minimo indizio. Lo scrivere a cui facciamo riferimento è esattamente questo: governare quella vera e propria scienza delle emozioni che è la letteratura. Anche senza paludamenti enfatici – il lavoro di curante è diverso da quello letterario – possiamo vedere un timido orientamento in questa direzione nella pratica narrativa che si riversa nelle Storie Slow. “Un malato è venuto in ospedale. Aveva un problema all’intestino. È stato operato ed è guarito”; “Il sig. Mario ha lottato a lungo con un carcinoma del pancreas; abbiamo fatto ricorso alle cure palliative, accompagnandolo fino al decesso”. Questi e tanti altri racconti dello stesso genere hanno la stessa leggerezza di un canarino che si posa sulla spalla; ma quando ci si appresta a  rendere il vissuto di storie simili ci rendiamo conto di essere portati dalla corrente nel mare aperto della vita e renderne la profondità diventa un’impresa narrativa, che richiede impegno e competenza, ma che rende visibile la complessità di quel rapporto che chiamiamo cura.

 C’è molto di più di un resoconto clinico in quell’”Incrociare lo sguardo di un familiare” (n. 29) che conclude, come auspicio, un travagliato percorso decisionale su che cosa sia appropriato per un paziente che nuota già nell’alto mare della demenza. Un colloquio approfondito con i familiari della malata, che si trova in pronto soccorso perché la figlia si chiede quanto la situazione sia grave e per quanto ancora sia gestibile a domicilio, porta a concludere che il ricovero in ospedale, senza alcun beneficio clinico e con la prospettiva di una morte in solitudine durante il lockdown, sarebbe contrario a quanto la malata stessa e i suoi familiari ritengono auspicabile. La dottoressa commenta la decisione di dimetterla dal pronto soccorso e di rinviarla al domicilio:

Preparo prescrizioni dettagliate per gli infermieri domiciliari, impacchetto una maschera di Venturi con le relative istruzioni, scrivo al medico di famiglia di Carmela per avvisarlo di quanto deciso e prepararlo alla necessità di terapia con morfina nell’eventualità che Carmela peggiori e sviluppi fame d’aria. Infine, prenoto un’ambulanza per il ritorno a domicilio. Quando incrocio per l’ultima volta lo sguardo penetrante di Carmela, già sulla barella del 118, formulo un desiderio: che grazie a questa decisione il suo sguardo possa incrociare quello di un familiare e, in uno sprazzo di lucidità, illuminarsi nel riconoscerlo.

 Quando la medicina coglie questi momenti, va oltre un resoconto fatto di parole. È confortante che sempre più numerosi gli artefici della cura, professionale e no, stimolati dalla Medicina Narrativa, osino chiedere alla parola di dar corpo alle emozioni e di trasmettere la profondità dell’esperienza del curare e dell’essere curati: un’esperienza che può sembrare leggera come un uccellino che per un momento si posa sulla spalla e poi vola via, ma profonda come la vita stessa dell’uomo. Slow Medicine e Medicina Narrativa in quest’impresa si danno la mano, in una magnifica sinergia.

La metafora della tessitura ci permette, infine, di evidenziare che il rapporto di cura si apre, in profondità, su esiti diversi, proprio grazie all’imprevedibile incontro tra il curante, con la sua trama di cura, e l’ordito fornito dalla persona che a lui fa ricorso. Il racconto “Il cervello e il cuore” (n.8) ne è un esempio eloquente. La medica che lo riporta riferisce di partecipare alla decisione clinica con il cervello e con il cuore: è la sua trama. Una trama complessa, perché la mente – la sua visione professionale da oncologa – le suggeriva di insistere con la proposta di chemioterapia, mentre il cuore era orientato a condividere la desistenza terapeutica preferita dalla malata. La conclusione si presenta come un tessuto esemplare, nel quale auspicabilità etica e bellezza si intrecciano.

È di una bellezza sbalorditiva vedere la lucidità con cui alcune persone gestiscono la propria vita, mantenendo chiarezza e coerenza nelle proprie decisioni e rispettando profondamente i propri valori. Elza è una di queste persone: si rende profondamente conto che il nostro tempo sulla terra ha una scadenza e che spetta a noi scegliere il cammino della nostra vita. È un immenso onore incontrare sulla mia strada persone come lei.

Non tutte le opere di tessitura delle cure si aprono su risultati di qualità: dipende dalla trama – in particolare dalla volontà di utilizzare solo il filo del sapere clinico-scientifico o di mettersi in gioco come persona -, dalla diversità degli orditi che forniscono le persone malate – in pratica, la loro vita intera, con coerenze e incoerenze – e dall’avventuroso intreccio tra ordito e trama. È questa diversità che fa della professione di curante qualcosa più simile a un’opera d’arte, dagli esiti imprevedibili, che a un esercizio meccanico, guidato solo dal sapere scientifico e dall’abilità tecnica.

  • L’accompagnamento verso l’estrema soglia

Se l’accompagnamento caratterizza tutto il percorso di cura, quando la patologia si avvia verso la conclusione della vita diventa un’assoluta priorità. Questa considerazione acquista il valore di un impegno stringente se è abbinata alla consapevolezza che in Italia si muore male. È la testimonianza concorde di studiosi di scienze sociali, di clinici e soprattutto di cittadini che hanno visto morire i propri cari. In ospedale e a domicilio. La pandemia da Covid-19 è riuscita nell’impresa di farci morire peggio. Ancor più che il numero dei morti, sono le modalità del decesso che ci scandalizzano: “e ‘l modo ancor m’offende” verrebbe da commentare con le parole che Dante mette in bocca a Francesca da Rimini riferendosi alla propria morte. Nell’aula del Parlamento è risuonata la voce dell’on. Giorgio Trizzino, che da medico è stato uno dei pionieri delle cure palliative nel nostro Paese. Ha denunciato la carenza di accompagnamento e di palliazione che ha caratterizzato il morir male durante l’emergenza; “una tragedia nella tragedia”, l’ha definita[AZ1] .

Queste modalità del morire, che non esitiamo a qualificare come disumane e indegne, sono state un effetto collaterale dell’emergenza? E quindi, quando l’emergenza terminerà e saremo in grado di tornare alla normalità, le brutte morti saranno solo un ricordo del passato, perché la medicina sarà stata messa in grado di tornare a fornirci le morti auspicabili? Sono domande che riposano su una concezione di rapporto dialettico tra emergenza e normalità, tale per cui una condizione esclude l’altra. L’emergenza è una condizione eccezionale che subentra alla normalità e la sospende; salvo poi tornare alla normalità quando lo stato emergenziale termina.

Stando al dizionario, “nell’emergenza la vita di una persona è a rischio perché sono compromesse le capacità respiratoria e/o circolatoria, e quindi è necessario un intervento rapido e immediato”. È l’emergenza clinica, che trascina con sé quella organizzativa e sociale. Un contesto che ha fatto apparire a coloro che hanno redatto le regole per l’emergenza pandemica la rinuncia alle cure palliative e all’accompagnamento dei morenti un prezzo giustificabile da pagare. È a causa dell’emergenza che tutto ciò che la cultura della palliazione considera il modo normale di stare accanto ai morenti è stato considerato come un lusso di cui si poteva, anzi si doveva fare a meno: quasi ricette da gourmet in tempo di carestia. Con la promessa implicita che, con il ritorno alla normalità, saremmo stati ricondotti in braccio alla buona medicina, quella che assicura le cure appropriate durante tutto il percorso, sia che conduca alla guarigione, o alla cronicità, o alla fine della vita.

Possiamo immaginare però una diversa dialettica tra emergenza e normalità. È quella che si appoggia su un’accezione di emergenza più etimologica, secondo cui si ha un’emergenza quando ciò che era sommerso riaffiora. Grazie a questa emergenza, possiamo scorgere aspetti della realtà che nello scenario della normalità i nostri occhi non vedevano. Se adottiamo questa prospettiva, le brutte morti non appaiono più come un prodotto collaterale ed episodico della condizione emergenziale, ma hanno un legame intrinseco con la normalità.  Per dirlo in modo brusco: erano già davanti ai nostri occhi, ma non erano affiorate alla nostra consapevolezza. I modi estremi della pandemia ce le ha fatte vedere, così che dovremo quasi sentirci costretti, controvoglia, di ringraziarla per averci svelato la “dis-tanasia” così frequente nella nostra società anche in tempo di normalità. Sotto la sferza dell’emergenza e dei disastri da essa provocati, ci siamo resi conto di quanto la pratica medica sia lontana dall’aver assimilato ciò che le cure palliative continuano a proporre.

Soprattutto sono importanti le conseguenze che possiamo trarre da questa inversione percettiva nel rapporto figura/sfondo. Se l’emergenza è lo stato transitorio, con i suoi orrori ma anche con la sua precarietà, la nostra aspirazione è tutta rivolta a “tornare come prima”. Ma se l’emergenza ci ha fatto scoprire gli aspetti deformi della normalità, il nostro sogno non può essere quello di tornare come prima. Dobbiamo tendere a una diversa normalità. Ciò vuol dire, nel nostro caso, a un diverso rapporto tra i trattamenti curativi e quelli palliativi nell’intero processo terapeutico. Perché la medicina che si è poi travasata nell’emergenza era già inadatta a far morire bene le persone. Le disfunzioni che si sono ingigantite durante l’emergenza sono figlie legittime della normalità.

Basta interrogare in profondità i malesseri legati alla pratica delle cure palliative per identificare i punti nevralgici del cambiamento necessario. Il primo è sicuramente la marginalità del trattamento palliativo, considerato come alternativo e non simultaneo agli interventi terapeutici. Le cure palliative ancor più che marginali, addirittura residuali. Responsabile è l’equiparazione che induce a considerare le cure palliative in senso ristretto come sinonimo della gestione del trapasso: il momento – tendenzialmente sempre più posticipato – in cui le cure mediche si ritirano e passano la mano. Di conseguenza, nominare la palliazione equivale a evocare il fantasma della morte: un’evenienza dalla quale sempre più si rifugge.

 Grazie anche alle parole scorrette e alle norme carenti, che si danno una mano reciprocamente, le cure palliative sono vissute come abbandono da parte dei curanti e affidamento agli specialisti del morire. Già la denominazione stessa di cure palliative suona infelice in italiano: si ripiega su un palliativo quando per un problema non si ha una risposta risolutiva. A nulla sono serviti i tentativi di sostituire il termine con dei sinonimi, come “leniterapia”; o di santificare la palliazione riconducendola al latino “pallium” e al mantello di san Martino, condiviso con un povero. La violenza delle parole – comprese le parole non dette – è solo un prodromo della violenza dei comportamenti, spesso mascherata sotto la buona coscienza di chi identifica la cura con “tutto il possibile”, salvo poi battere in ritirata quando gli interventi curativi sono giunti al limite. Palliazione suona come tentativo patetico di mascherare l’inefficacia; e essere affidati ai palliativisti rischia di essere vissuto come quando gli appestati dei Promessi sposi erano gettati in mano ai monatti.

Cure palliative simultanee e non sequenziali: è la formula corretta, ma ancora lontana dall’essere tradotta in pratica. L’ideale è che i valori che ispirano la palliazione siano parte integrante di tutta la medicina, non di un suo segmento. Perché la vita sana non è unicamente quella che si contrappone alla condizione patologica. Essere in salute è anche saper convivere con la cronicità, che ormai statisticamente connota la vita di un numero crescente di persone. E salute significa anche strutturare la propria esistenza garantendo non solo la quantità di giorni che ci è dato vivere, ma anche la loro qualità. Compresa la qualità del morire: perché la morte è una dimensione della vita.

  • La palliazione: non ciò che rimane quando la medicina si arrende

Riportare la palliazione a un pieno diritto di cittadinanza nel cuore stesso della medicina è un progetto ambizioso. Implica rimettere in discussione il concetto stesso di guarigione, intesa unicamente come transito dallo stato di malattia a quello di salute. La salute è piuttosto un progetto globale, capace di inquadrare anche i fallimenti terapeutici – compreso l’atto stesso con cui siamo chiamati di necessità ad arrenderci alla morte – in un abbraccio che ha un nome solo: buona cura. Una cura che ambisce a presentarsi non come una semplice riparazione, ma come un progetto “sartoriale”, finalizzato a confezionare un abito su misura per ciascuna persona. Perché le decisioni di fine vita, ancor più di quelle che si aprono sul recupero della salute o sulla permanenza in vita in condizioni di cronicità, non possono essere “a taglia unica”: vanno modellate su misura, in quanto probabilmente non ce ne sono due identiche. La medicina deve affrontare il pluralismo etico di una società che è diventata multietnica e multietica, ma ben di più: le buone decisioni etiche devono essere tagliate su misura delle diverse biografie, e quindi anche all’interno di una stessa cultura le buone decisioni sul versante della cura non possono essere fatte in serie, ma sono uniche come un’opera d’arte.

Certo, siamo consapevoli che il nome scelto per qualificare questo aspetto della cura in italiano può costituire un handicap: culturale, più ancora che linguistico. I pionieri in Italia delle cure palliative, consapevoli dell’equivocità del termine hanno espresso fin dall’inizio l’auspicio che un giorno non ci sia più la necessità di parlare di palliazione. Avverrà quando la medicina l’avrà riconosciuta come parte integrante del proprio compito. Fino ad allora, impegniamoci a difendere la palliazione. Ma soprattutto a praticarla in modo corretto. In questo scenario ci sono di conforto le Storie Slow.

Un primo elemento che ci inducono a valorizzare è di non rappresentare le cure palliative nel territorio della medicina come una riserva, nella quale si accede quando le cure attive si arrendono e la medicina curativa constata che “non c’è più niente da fare”. Nel racconto “Giulia ha trovato le parole” (n. 21) registriamo la diffidenza della malata e dei suoi figli soltanto a sentir nominare le cure palliative domiciliari. La proposta suona come sinonimo di resa, invece che come lotta per tenere sotto controllo il dolore e i sintomi che accompagnano l’avanzare inesorabile della malattia. L’accettazione della cura in modalità di palliazione si presenta come un processo, che ha bisogno di tempo, di spiegazioni, di consapevolezza; riguarda il malato stesso, ma in misura non minore i suoi familiari, che spesso ambiscono a poter dire alla fine: “Si è fatto tutto il possibile”. Anche quando quel tutto ha portato solo sofferenze aggiuntive. La condivisione da parte dei familiari anche alla rinuncia alla nutrizione artificiale, diventata senza senso e causa di malessere, è il traguardo finale di questo accompagnamento:

Nei mesi a seguire le condizioni di Giulia si sono progressivamente e lentamente aggravate, come era prevedibile, ma la sua morte non era più vista dai familiari come una battaglia da vincere, quanto bensì come un evento inevitabile da gestire mettendo al centro Giulia, la sua non sofferenza e soprattutto la sua volontà, anche quando questa non era verbalmente espressa ma solo intuibile.

Questo intreccio tra cure palliative e interventi curativi ci induce a domandarci se dobbiamo considerare la palliazione come una specialità da allineare a tante altre – per lo più suddivise per organo, oltre alla divisione fondamentale tra chirurgia e medicina interna – o come una competenza richiesta a tutti i curanti. O quanto meno una sensibilità propria di tutti. Le Storie Slow sono molto eloquenti a questo proposito. Ci fanno apparire la palliazione come radicata nella valutazione di appropriatezza, che il movimento di Slow Medicine ha fatto proprio soprattutto aderendo a Choosing Wisely. Non esistono cure “rispettose” che non si siano prima misurate con l’esigenza della “sobrietà”, intesa nel senso di esclusione di ciò che clinicamente non è appropriato. Ritroviamo questo riferimento esplicitato in “Incrociare lo sguardo di un familiare” (n. 29), una storia alla quale abbiamo già fatto riferimento. Si tratta della decisione se ricoverare una paziente, affetta da demenza, i cui polmoni sono molto compromessi – con la prospettiva di una fine molto prevedibile in solitudine, a causa dell’isolamento pandemico; se anche dovesse peggiorare, non sarebbe appropriato aumentare l’intensità delle cure – o avviarla all’assistenza a domicilio. Dichiara esplicitamente la medica:

Come Slow Medicine mi ha insegnato, mi interrogo su quello che posso fare per Carmela. L’appropriatezza clinica mi ammonisce: ossigeno e cortisone è tutto quanto abbiamo da offrirle. Ospedalizzare un paziente demente, però, ha sempre degli svantaggi: l’ambiente poco familiare provoca agitazione e rischio di cadute, per evitare le quali si somministrano sedativi che, spesso, peggiorano ulteriormente le condizioni cliniche.

  • Cure rispettose sul limitare della vita

La valutazione dell’appropriatezza e la corretta formulazione del quesito clinico che sta alla base è un percorso che troviamo all’inizio di diverse altre storie nelle quali si prospetta l’accompagnamento verso la fine. Alcune volte le scelte in gioco sono leggere, ma possono essere simbolicamente importanti nello scenario di fine vita. È il caso di “Un ultimo bacio” (n. 40). Si tratta di valutare se quel paziente che praticamente sta morendo, con una flebo che assicura farmaci per il cuore, diuretici e anticoagulanti, e sul volto una maschera “total face” per la ventilazione non invasiva, non possa essere liberato di quest’ultima, per permettere un saluto da parte della moglie e della figlia che gli stanno accanto:

Terminata la consegna mi avvicinai a Giorgio e ai suoi familiari, mi accorsi subito che era soporoso, difficilmente risvegliabile e che continuava a respirare, a fatica, sotto l’esclusivo stimolo della maschera. Quei farmaci non potevano più svolgere alcuna azione, aveva senso continuarli? E quella maschera? Pensai che se Giorgio fosse stato mio nonno o mio padre, quella maschera, quelle flebo e quel monitor io proprio non li avrei voluti, ma avrei desiderato solo di poter abbracciare e baciare il mio caro. Parlai con la figlia e la moglie per cercar di capire la loro comprensione riguardo la gravità del quadro clinico di Giorgio. Avevano compreso che Giorgio ci stava lasciando ed erano lì per stargli accanto. Con il medico di turno decidemmo la sostituzione della maschera con una meno invasiva, la quale potesse garantire lo stesso un elevato supporto di ossigeno e al contempo consentire alle parenti di baciarlo ancora una volta.

Dalla testimonianza dell’infermiera alla quale dobbiamo il racconto emerge anche un altro dato non trascurabile: l’accompagnamento che dà sostanza alla cura nella fase finale richiede la collaborazione sinergica di diversi professionisti. Le gerarchie devono lasciare il posto a una concertazione, perché spesso chi è più vicino al malato nel senso dell’assistenza può cogliere bisogni e opportunità che sfuggono a chi spetta la regia clinica del trattamento.

Non sempre i pro e i contro di un eventuale intervento clinico sono così lineari. La complessità emerge nel racconto “Corri, Forrest, corri” (n. 49), che merita una lettura approfondita. Una procedura clinicamente appropriata si rivela, a un’attenta considerazione, non “sartoriale” per un uomo che vive in una comunità di malati di Alzheimer e ha trasferito tutta la sua residua voglia di vita in un camminare compulsivo. Si arriva così alla decisione di rinunciare a un intervento sulla patologia – una endoprotesi aortica fuori posto, con un aneurisma a rischio rottura – in nome di una cura “rispettosa” del malato, questo singolare Forrest Gump visitato dalla demenza che non può fare a meno di correre.

Lasciandoci guidare da queste storie riusciamo anche a dare concretezza a quel less is more che Slow Medicine ha fatto proprio traducendolo nel “Fare di più non significa fare meglio”. Spesso l’attenzione si concentra sul less, “meno”, ovvero su ciò che è opportuno o consigliato omettere di fare. Il centro di gravità è invece quel more che ne costituisce l’alternativa. Esemplare in questo senso è il racconto “Stop” (n.65). In questo caso è Claudia, la collega di un’infermiera che riferisce la storia, che di fronte allo scompenso cardiaco end stage di una malata, blocca la collega suggerendo che “il più” era non fare niente. Nessun defibrillatore avrebbe potuto cambiare la situazione; l’immobilità e la vicinanza erano la risposta giusta, invece della concitazione che spesso accompagna eventi di questo genere:

Scegliamo di rimanere lì, di stare con lei, con la nostra paziente, in silenzio, l’accompagniamo alla morte con la nostra presenza. Siamo rimasti lì per il tempo necessario e Claudia non si è mai mossa, io, con qualche bottone della divisa ancor sbottonato, mi sono sentita impotente e piccola di fronte a quell’evento così grande e alla sua inevitabilità e improcrastinabilità. Claudia invece sapeva che rimanere lì accanto, in silenzio, senza fare altro, era la cosa giusta, forse quella che tutti noi vorremmo in fine vita, qualcuno vicino che ci tenga la mano e faccia una carezza.

Filantropia? Benevolenza? Medicina umanistica? No: semplicemente cura; quella cura che la buona medicina può e deve poter fornire. È piacevole concludere questa passeggiata nel bosco narrativo di Storie Slow raccogliendo la voce non di un professionista della cura, ma di una persona malata. Sintetizza il suo percorso nel racconto “Penso con serenità di andare via per sempre” (n. 60). È il resoconto di molteplici recidive oncologiche, di chemioterapie aggressive, di interventi chirurgici demolitivi. Le risorse della medicina, nella sua migliore efficienza, le hanno prolungato la vita. Ma ciò non le ha impedito di arrivare a un punto in cui la parola più sensata era “Basta”. Con le sue parole:

Dopo il secondo ciclo di chemioterapia ho deciso che non ne avrei fatti più. Sono stata troppo male. L’ho comunicato all’oncologa che mi ha seguito dall’inizio della mia storia. “La capisco”, mi ha detto “dopo tutto quello che ha passato”,

Sono stata fortunata a incontrare un’oncologa con cui sono entrata in sintonia. Ha sempre accolto le mie perplessità, ma con fermezza mi ha indicato cosa era giusto fare per me e ho seguito i suoi consigli, fino a quando mi sono rifiutata di affrontare ulteriori trattamenti. È stata empatica, ha accolto la mia decisione senza moralismi né insofferenze, non mi ha abbandonata continuando a seguirmi, accompagnandomi verso le cure antidolore che sto affrontando ora.

È stata un’oncologa competente e accogliente. Però adesso basta: sto aumentando gli antidolorifici, ho nausea, non riesco più a pensare, a stare dietro ai miei impegni, faccio fatica a leggere e mi diventa difficile camminare. Oggi, pensare con serenità di andar via per sempre, non mi crea problemi.

La testimonianza ci conferma che l’aspirazione a morire “in braccio alle Grazie” non è velleitaria: è un evento possibile. Compresa quella consapevolezza che induce a far proprio il senso del limite raggiunto. Ricorrendo ancora una volta alla metafora della tessitura e del lavoro di cucito, ci viene incontro l’immagine della rammendatrice che, giunta alla fine dell’opera, taglia il filo con i denti. Per questa morte auspicabile una condizione è anche quella di poter venire accompagnati, come all’autrice del racconto è capitato con l’oncologa a cui rende omaggio. Per questo incontro si dichiara fortunata. Fortuna o meritato coronamento di una ricerca? Sullo sfondo vediamo delinearsi il lavoro di costruzione di una relazione fiduciale. Che si traduce in un accompagnamento di lunga durata: durante il percorso curativo e oltre, nell’ambito delle cure palliative. Senza soluzione di continuità.

È spesso citata la nota sentenza di Michel de Montaigne: “Se abbiamo bisogno di una levatrice (in francese: sage femme) per metterci al mondo, abbiamo molto bisogno di un uomo ancor più saggio per uscirne”. Il gioco di parole veicola un’intuizione profonda: la cura abbraccia l’intero arco della vita umana. L’accompagnamento del processo del morire non è altra cosa che la cura in sé, una sua particolare sottospecie. Che, come appunto la cura, richiede competenza. È consolante sapere che Slow Medicine nutre la saggezza di terapeuti, sui quali poter fare affidamento.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  • Ludwig Wittgenstein: Ricerche filosofiche, tr. it. Einaudi, Torino 1974.
  • Carta della professionalità medica, in Janus. Medicina: cultura, culture, n. 6, 2002, pp. 96-102.
  • Edmund D. Pellegrino e David Thomasma: Per il bene del paziente. Tradizione e innovazione nell’etica medica, tr. it. Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1992.
  • Hugo Tristam Engelhardt: Manuale di bioetica, tr. it. Il Saggiatore, Milano 1991.
  • Francesca Rigotti: Il filo del pensiero. Tessere, scrivere, pensare, Orthotes, Napoli-Salerno 2021.
  • Raffaele La Capria: Guappo e altri animali, Mondadori, Milano 2007.

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