Avvicinarsi alla spiritualità è delicato: i fraintendimenti incombono. Soprattutto è ardua la sua definizione. In termini etimologici, definire qualcosa implica delimitare i suoi confini (in latino fines). Il rischio in questo caso è che l’ambito della spiritualità sia ricondotto dentro il perimetro delle pratiche religiose; e che nell’ambito di queste presupponga una contrapposizione tra terreno e celeste, tra temporale ed eterno, tra vita materiale e corporea e aspirazione all’immaterialità dell’anima. La spiritualità non deve essere ridotta a determinate pratiche o esercizi, attinti a fonti orientali o occidentali. Essa chiede piuttosto di essere intesa in modo ampio e inclusivo; mediante un processo di descrizione, più che di definizione.
Come prima approssimazione possiamo avvicinarci alla spiritualità ricorrendo alla metafora dello stare sulla terra sulla punta dei piedi. Licenziato il mito della terra da calcare da padroni, adottiamo un atteggiamento non solo rispettoso, ma il più leggero possibile. Stando sulla terra sulla punta di piedi, cerchiamo di minimizzare la nostra impronta ecologica: quella che implica consumo e violenza. La spiritualità ci appare ancora, come ci ha trasmesso la tradizione, come un elevarsi: solo innalzandoci verso l’alto abbiamo qualche chance di sopravvivere. Perché potremo sopravvivere solo se sapremo sopra-vivere.
In questo senso il percorso della spiritualità è sovrapponibile al cammino della cura. Prenderci cura di noi stessi, anzitutto mirando all’autorealizzazione. Gli esseri umani non sono pienamente tali fin dalla nascita, destinati, come gli animali, a essere guidati da forze istintuali. Abbiamo la potenzialità di diventare pienamente umani, una potenzialità che possiamo attuare o lasciare incompiuta. Non siamo esseri umani per natura: siamo solo programmati per diventarlo. Con sforzo. Quello di alzarsi sulla punta dei piedi ci richiama visivamente ciò che chiamiamo spiritualità.
La spiritualità ci chiede di prenderci cura gli uni degli altri: nei rapporti di intimità come in quelli sociali. Prenderci cura della vita, in tutte le sue forme, comprese quelle animali e vegetali. Prenderci cura dei viventi quando diventano fragili e declinano verso la fine del loro ciclo vitale. Ricorrendo alle professioni di cura e alla pietas che dà forma a un’umanità pienamente realizzata. È questo il profilo a tutto tondo della spiritualità che siamo chiamati a vivere.
La spiritualità ci appare così non come un capitolo separato dalla vita, privilegiato e aristocratico: è piuttosto sinonimo della vita stessa. Equivale all’avventurosa vicenda di diventare uomini. Corrisponde a un’intensificazione dell’esistenza: per questo non dovrebbe mai essere distaccata dalla vita nella concretezza della sua quotidianità.
In particolare la spiritualità ci porta a focalizzarci sui percorsi di cura: sui volti diversi che può assumere la guarigione e sui correttivi che può portare la spiritualità ai rapporti disumanizzanti in medicina. La spiritualità in senso ampio può dar forma al “buon morire”, quando la fine della vita incombe. A condizione che la spiritualità non sia intesa come qualcosa di residuale, da invocare quando il percorso di cura è costretto a confrontarsi con l’esaurirsi delle risorse terapeutiche: la spiritualità innerva tutto il percorso della cura. Spiritualità può essere, a buon diritto, un altro nome per la cura, quando questa non si lascia ridurre a una semplice riparazione.
II. La spiritualità nell’arco della cura
– La professionalizzazione della spiritualità
Una volta riconosciuto il diritto di cittadinanza delle medical humanities nel territorio di cura, emerge la questione: si tratta di un atteggiamento generale, che deve essere fatto proprio da ogni curante, o si devono tradurre in professionalità specifiche? I saperi e le pratiche che afferiscono, in senso ampio, alle medical humanities possono essere professionalizzate. È un’opportunità e un rischio. Ovviamente ci rendiamo conto – per ripiegare su un esempio concreto – che il trauma che può essere causato da una diagnosi pesante a prognosi infausta possa sconvolgere la persona che la riceve. Talvolta l’impatto può essere così profondo che è auspicabile l’intervento di uno psicologo, con la sua specifica competenza professionale. La sua azione terapeutica si affianca efficacemente a quella del medico. Diverso è però lo scenario se il clinico, sapendo che ciò che comunica al malato suscita profondi rivolgimenti, lo avvia di default al professionista psicologo, limitando i propri interventi agli aspetti tecnici della diagnosi e della terapia. Come se l’attenzione alle emozioni esulasse completamente dalla sua competenza.
Lo stesso schema potremmo applicare alla dimensione sociale della cura: di pertinenza, certo, nei casi più drammatici del professionista assistente sociale, ma non è irrilevante nello scenario clinico sapere di quali risorse terapeutiche il malato dispone. Così pure degli aspetti del multiculturalismo. E naturalmente dell’etica. In alcune strutture sanitarie sarà opportuno avere un comitato per l’etica, al quale far ricorso per consulenze nelle situazioni più complesse; ma sarebbe un impoverimento della pratica medica se il ragionamento sottostante fosse: “Io – medico – mi occupo del dato biologico-clinico; per gli aspetti etici della cura è competente il comitato. Mi rivolgo al comitato e mi lascio dire come mi devo comportare”.
Questa versione caricaturale della professionalizzazione delle medical humanities impatta in modo particolare sulla spiritualità. È ovvio che gli aspetti più formali – in particolare nella spiritualità che si traduce in comportamenti religiosi – sia spontaneo far intervenire il ministro del culto, se questo è il desiderio della persona malata. Ma, ancora una volta, costituirebbe un impoverimento dello sguardo clinico se questa dimensione esistenziale fosse del tutto resa irrilevante nel complesso della cura.
L’interlocuzione con le pratiche delle medical humanities, in particolare con la Medicina Narrativa, ha prodotto percorsi formativi specifici per i professionisti dell’assistenza spirituale. La visione caricaturale del cappellano, come distributore automatico di ovvietà devozionali, non è giustificata dalle pratiche più modellate sui bisogni profondi della persona confrontata con le devastazioni esistenziali prodotte dalle gravi patologie.
Anche da parte dei professionisti sanitari più sensibili alla dimensione umanistica della cura, e quindi della necessità di dare spazio alla spiritualità, si avverte la necessità di porre dei limiti alla specifica professionalità medica, invocando la presenza professionale di un pastore. Un’efficace perorazione in tal senso è venuta da Jerome Groopman, autorevole clinico e noto editorialista attento alle esigenze di una medicina di qualità. In un articolo pubblicato nel New England Journal of Medicine con il titolo: “God at the bedside”, partiva da un concreto caso clinico: una giovane paziente rifiutava le cure per un tumore al seno; considerava la malattia come la punizione divina per un suo comportamento peccaminoso; la sua morte rappresentava per lei la volontà di Dio. Dal caso nasceva la domanda: pur accettando che la cura dovrebbe investire tutta la triplice scansione dell’essere umano – corpo, mente ed anima – come può un medico inoltrarsi con competenza dentro il mondo spirituale dei suoi pazienti? Quand’anche condividesse le loro credenze religiose, avrà bisogno di affidare il malato a un pastore (o rabbino, o imam …) per problematiche di questo genere (Groopman 2004). Siamo quindi rimandati alla cura spirituale come attività professionale.
Ciò non giustifica, tuttavia, nessuna indulgenza nei confronti di quei cappellani che si presentano al malato con la presunzione di portargli una valida teoria filosofica del dolore o una teologia della malattia, pretendendo di spiegargli il come e il perché della sua sofferenza. Sono impressionanti le parole attribuite al cardinal Veuillot, arcivescovo di Parigi, sul suo letto d’ospedale, durante la sua ultima malattia: “Sappiamo fare delle belle frasi sulla malattia. Io stesso ne ho parlato con calore. Dite ai preti di non dirne niente: noi ignoriamo quello che è. Ne ho pianto” (Spinsanti 1971).
Non possiamo che dare il benvenuto a ministri che rifiutano di essere distributori automatici di pillole di spiritualità. Il senso di questo evento umano va trovato dal di dentro, vivendo la malattia nel profilo della propria vita morale. E ciò nessuno può farlo, se non la persona stessa. Entriamo nel mondo carichi solo di speranza; ne usciamo, se non abbiamo deragliato, con le braccia colme d’amore. Questo, più che qualsiasi corazza ideologica, è l’equipaggiamento adatto per affrontare la suprema sfida della malattia.
– Spiritualità e palliazione
Cure palliative e spiritualità: un matrimonio felice, destinato a produrre buone pratiche? Siamo inclini a pensarlo. Eppure avviene che personalità eccellenti ognuna nel proprio ambito, quando sono messe insieme non leghino; ancor peggio, tendano a danneggiarsi reciprocamente. È quanto possiamo intravvedere nel rapporto tra spiritualità e palliazione, se dedichiamo una riflessione più attenta al modo in cui vengono abbinate. Mandandole a braccetto, rischiamo un cortocircuito, che nuoce sia all’una che all’altra realtà. Eppure, se le prendiamo isolatamente, non abbiamo niente da eccepire: le cure palliative sono una dimensione della buona pratica medica; la spiritualità è un’auspicabile potenzialità di sviluppo per l’essere umano (a meno che non si opti per un materialismo intransigente). È la loro vicinanza che costituisce un pericolo; o piuttosto la modalità con cui immaginiamo la loro interazione.
Il peggiore scenario è invocare il ricorso alla dimensione spirituale in un contesto in cui le cure palliative sono intese come l’equivalente del tradizionale: “Non c’è più niente da fare: chiamate il prete”. Con il palliativista che prende, laicamente, il posto del ministro del culto. Conosciamo la pratica tradizionale nei contesti culturali impregnati di pratiche religiose: a un certo punto la medicina si ritirava, per lasciare il posto a chi si occupava della sorte dell’anima. Le cure mediche ritenevano di aver terminato il proprio compito. Il modello non cambia se l’alternanza è assicurata ora dalla palliazione, magari rafforzata dall’assistenza spirituale. L’insidia consiste nel presupposto che non ci sia più niente da fare. Anzitutto perché presuppone che, clinicamente, a un certo punto dell’evoluzione della malattia, quando si è fatto tutto il possibile – spinto non di rado fino a ciò che la legge 219 del 2017: Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento definisce come “ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure” e “ricorso a trattamenti inutili e sproporzionati” – non si profili che la ritirata; le cure palliative vengono così a costituire solo l’accompagnamento alla morte, che non è di pertinenza medica.
È errato pensare e dire che non ci sia più niente da fare. Uno slogan fatto proprio dalla Società italiana delle cure palliative, fin da quando ha cominciato il suo percorso contrastato nella sanità del nostro paese, è che “c’è tanto da fare… quando non c’è più niente da fare”. Perché le cure palliative non presuppongono l’abbandono terapeutico del paziente che sta morendo, grazie al passaggio a un’altra agenzia, che sia la spiritualità o la palliazione. Le cure palliative hanno il compito di lenire il dolore e contrastare i sintomi; a questo fine sono prevedibili anche sofisticati interventi terapeutici. E la palliazione non deve essere concepita come l’ennesima transizione da una specialità medica a un’altra: come se – per dire – terminato il tempo di competenza dell’oncologo o dello pneumologo, dovesse comparire sul palcoscenico lo specialista a cui compete di occuparsi del trapasso. Per non dire del duplice trauma che costituisce per il malato l’emergere di una figura che equivale a un “nuncius mortis” (precedentemente il sacerdote, ora il palliativista; tanto che non sono rare le équipes di cure palliative che non si presentano con questa denominazione, ma con altre qualifiche più rassicuranti), oltre alla traumatica cesura con curanti che magari l’hanno seguito per anni. Una specie di staffetta, in cui lo specialista di riferimento passa il testimone a quello che deve condurre a termine la corsa.
L’approccio palliativo, salvo specifiche conoscenze e abilità, dovrebbe essere proprio di ogni curante; ed essere “simultaneamente” presente sul lungo percorso di cura. Non è un’altra medicina, né un’alternativa alla medicina: la palliazione è parte costitutiva del rapporto di cura, nella situazione in cui non si abbiano interventi capaci di contenere l’avanzata della patologia. Non escludiamo con questo che possano essere richieste delle competenze specifiche che in alcune situazioni rimandino a specialisti della palliazione: pensiamo alla sedazione palliativa profonda, prevista peraltro dalla stessa legge 219 del 2017 relativa al consenso informato e alle disposizioni anticipate di trattamento. Sensibilità e conoscenze per l’approccio palliativo sono richieste a ogni curante e dovrebbero far parte della formazione di qualsiasi professionista sanitario. La palliazione come attività residuale comporta una visione distorta delle cure palliative stesse.
L’isolamento della palliazione nel segmento finale della vita, quando si ritiene che sia giunto il momento di sgomberare il campo dalla medicina e lasciare il compito dell’assistenza alla spiritualità, è nocivo anche per la vita spirituale stessa. Rischia di farla equivalere a pratiche rituali, come quella che fino a poco tempo fa nell’ambito religioso veniva qualificata come “estrema unzione”. O al conforto per quando è finito il tempo della speranza e si ritenga opportuno rivolgere l’attenzione alla salvezza dell’anima. Come se la spiritualità avesse a che fare unicamente con l’”altra vita”, piuttosto che con la vita tout court. La spiritualità ha un ben più ampio respiro. Non è sovrapponibile a pratiche religiose; né tantomeno va confinata sulla soglia terminale della vita. Se la spiritualità è la spinta che ci fa alzare in punta di piedi sulla terra; se è equivalente alla forza che ci fa assumere ”la linea verticale” – per appoggiarci alla metafora con cui Mattia Torre (Torre 2017) ha sintetizzato la propria vicenda autobiografica – deve essere una risorsa in tutto l’arco della vita. Specialmente quando questo arco declina sotto la spinta di una patologia che minaccia l’esistenza. Anche la spiritualità, come la palliazione stessa, diventa una caricatura di quello che può e deve essere, se è considerata come attività residuale.
Palliazione e spiritualità possono nuocersi reciprocamente. Ma possono anche convivere armoniosamente: Purché il loro accostamento non conduca a una reciproca restrizione di significato e di ambito di intervento nel processo di cura. Affinché si realizzi il secondo scenario dobbiamo pensarle in modo ampio e rigoroso, evitare le pratiche dannose – le dissonanze che producono una distorsione sia dell’una che dell’altra – e impegnarci a promuovere una collaborazione fruttuosa. Il “come” chiediamolo a quelle realtà, che esistono anche se sono ancora rare, dove spiritualità e palliazione sono concepite in senso proattivo e abbracciano un ampio raggio del percorso di cura. Un compito auspicabile della Medicina Narrativa è quello di raccogliere queste preziose testimonianze.
– La sfida del pluralismo
La spiritualità al plurale si articola su più livelli. Il più visibile è quello che nasce dalla constatazione della convivenza nella nostra società di più pratiche cultuali, che affondano le radici in tradizioni diverse. Dal punto di vista sociale, il rispetto del pluralismo religioso e culturale non può che tradursi in apertura ad altri culti. Il monopolio della spiritualità da parte del cappellano cattolico che la gestisce in esclusiva non è più sostenibile. In una realtà multiculturale e multireligiosa, come è quella in cui ormai viviamo, il modello non può essere altro che quello in vigore nei contesti, nei quali la situazione non è così sbilanciata come in Italia, dove lo Stato paga stipendi a insegnanti di religione e a cappellani ospedalieri esclusivamente di religione cattolica. In molti paesi dell’Unione Europea la cappellania è gestita dallo Stato con accordi precisi con le diverse comunità religiose e non esiste il monopolio confessionale come in Italia (dove peraltro le minoranze religiose assicurano l’assistenza spirituale ai malati a loro spese).
Una ricaduta architettonica molto concreta del pluralismo è quella dello spazio riservato al culto e alla preghiera. Dobbiamo ormai passare ad ambienti fungibili da diverse religioni. Un’esperienza di questo genere, con l’apertura di una sala multi culto, è stata avviata pioneristicamente in alcuni ospedali. Merita una particolare attenzione anche il progetto “Stanza del silenzio e/o dei culti”, patrocinato anche da un gruppo nazionale di lavoro che cerca di coinvolgere e rendere operative le competenze di molteplici discipline interessate alla “Stanza”: medicina, psichiatria e psicologia, antropologia e sociologia dell’immigrazione, architettura, diritto. La sfida consiste nel ripensare gli spazi pubblici per favorire una cittadinanza sempre più diversificata.
La spiritualità di stampo religioso nelle sue migliori realizzazioni ha saputo creare proficue sinergie con il movimento delle medical humanities e attingere alle competenze della psicologia umanistica e del counselling, fino a prevedere un vero e proprio servizio di consulenza filosofica per chi fosse disposto a beneficiarne. Il riferimento è a una giovane disciplina, ma ormai diffusa in molti paesi del mondo. La “pratica filosofica” si presenta come una professione, nella quale la competenza del filosofo viene posta al servizio della vita quotidiana, consentendo a chiunque lo desideri di accedere e utilizzare quel patrimonio di conoscenze troppo spesso ristrette a una limitata schiera di specialisti. Naturalmente un ambito privilegiato per questa consulenza è quello della malattia; soprattutto quando questa avvia sul percorso di fine vita.
Una riflessione particolare merita la questione della laicità: invocare la spiritualità nell’ambito della cura compromette la laicità? Per rispondere a questo legittimo interrogativo è necessario mettere bene a fuoco il ruolo della laicità nei confronti della medicina. La laicità è invocata con funzioni opposte: alcuni si aspettano che svolga un ruolo di contenimento rispetto a inappropriate invasioni di campo della religione; altri, al contrario, paventano che la laicità comporti un’esclusione della religione dalla pubblica arena sociale, per confinarla negli spazi interiori della coscienza individuale. Sullo sfondo di questi dibattiti persiste una rappresentazione del credente come di una persona che, in presa diretta con l’assoluto e il trascendente, traduce in atti morali la sua visione superiore della realtà. È una rappresentazione appropriata per gli integralisti, ma ha il valore di una caricatura se pretende di rispecchiare la situazione concreta in cui si trovano abitualmente coloro che hanno una fede religiosa che nutre un orientamento spirituale.
La fede non mette il credente al riparo dalle incertezze, sia riguardo alla natura del mondo – la vita e le sue origini, la condizione umana, i confini del naturale – sia rispetto al profilo morale che devono avere i suoi comportamenti. Né l’esistenza di gerarchie dottrinali e di governo pastorale elimina l’area dell’incertezza e la necessità dell’interpretazione. La vertigine del sacro è necessariamente frenata dall’opacità della storia; la lava incandescente del soprannaturale si raffredda al contatto con il mondo.
Trovare regole e comportamenti condivisibili è un compito comune; le differenze che confluiscono in questa riflessione possono essere viste come un vincolo o come un privilegio. Chi aderisce a un determinato punto di vista (una credenza religiosa, una scelta filosofica o culturale) lo considera un privilegio, mentre chi non lo condivide lo percepisce come un vincolo, che può e deve essere inserito nel gioco della convivenza sociale. Tutte insieme queste posizioni compongono la multiforme varietà dell’umano; prese isolatamente, inclinano all’assolutismo o all’intolleranza. La laicità non solo non compromette la spiritualità nutrita di religione, ma può essere un correttivo che la protegge da derive di fanatismo.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Groopman J 2004. God at bedside. N Engl J Med 2004 ; 350 : 1176-8.
Spinsanti S 1971. L’etica cristiana della malattia. Edizioni Paoline, Milano
Torre M 2017. La linea verticale. Baldini Castoldi, Milano.
Voci confluite in: Massimiliano Marinelli (a cura di) Dizionario di Medicina Narrativa. Parole e pratiche, ed. Scholé, Brescia 2022.