Né troppo né poco

Sandro Spinsanti

NÉ TROPPO NÉ POCO

in Rivista del Volontariato

anno III, n. 2, 15 febbraio 1994, pp. 3-5

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Le modifiche strutturali della dimensione della famiglia nella società moderna; la ridistribu-zione dei compiti di cura e assistenza, la crisi del «welfare state» e la riduzione delle risorse disponibili per assicurare a tutti, dalla culla alla tomba, la copertura dei bisogni legati alla cura della salute, questi i tratti principali dello scenario in cui i Paesi industrializzati, sul finire del secolo XX, sono costretti a riconsiderare i problemi centrali dello Stato Sociale. In una situazione di questo genere viene spontaneo rivolgersi al passato, rifugiandosi nella ricostruzione idilliaca di un tempo, quando questi problemi non esistevano. Ma una simile idealizzazione del passato può essere, di fatto, giustificata?

Per illustrare una possibile evasione nella fantasia utopica, possiamo riferirci a una poesia, tratta dalla raccolta intitolata «Antologia di Spoon River». L’ha scritta un poeta americano, Lee Masters, nel 1915. Il poeta immagina di essere nel cimitero di un paesino del Middle-West, chiamato appunto Spoon River, e di ascoltare tra le tombe le voci dei defunti. Attraverso la propria lapide, il defunto parla di se stesso e cerca con dei flash, delle immagini, dei resoconti essenziali di avvenimenti e di rapporti personali, il senso della sua vita.

Nella raccolta c’è una poesia per alcuni aspetti diversa dalle altre, che attira subito l’attenzione. Il poeta suggerisce indirettamente il significato singolare della poesia, collocandola nel centro geometrico del libro. Inoltre, mentre tutti gli altri nomi dei defunti sono nomi di finzione, anche se i personaggi avevano numerosi tratti di realtà, in questa poesia il nome della protagonista è quello vero. Il personaggio è la nonna del poeta:

«Andavo a ballare a Chandlerville

e giocavo alle carte a Winchster.

Una volta cambiammo compagni

ritornando in carrozza sotto la luna di giugno,

e così conobbi Davis.

Ci sposammo e vivemmo insieme settant'anni,

stando allegri, lavorando, allevando i dodici figli,

otto dei quali ci morirono, prima che avessi sessant’anni.

Filavo, tessevo, curavo la casa, vegliavo i malati,

coltivavo il giardino e, la festa,

andavo a spasso per i campi dove cantano le allodole,

e lungo lo Spoon raccogliendo tante conchiglie,

e tanti fiori e tante erbe medicinali,

gridando alle colline boscose, cantando alle verdi vallate.

A novantasei anni avevo vissuto abbastanza, ecco tutto,

e passai a un dolce riposo.

Cos'è questo che sento di dolori e stanchezza,

e ira, scontento e speranze fallite?

Figli e figlie degeneri,

la Vita è troppo forte per voi

ci vuole vita per amare la Vita».

Ai nostri giorni i rapporti tra le generazioni sono talmente cambiati che Lucinda Matlock avrebbe difficoltà mai immaginate al suo tempo. A 96 anni avrebbe un buon numero di figli tra i settanta e gli ottanta anni, perché non le sarebbero morti otto figli su dodici: grazie alla medicina moderna, probabilmente sarebbero sopravvissuti dodici su dodici.

Ascoltavo di recente il racconto di un giovane medico che ricordava scene della sua infanzia, quando viveva in paese. Capitava frequentemente che mamma chiamasse: «Bambini, bambini, venite a vedere: passa un angioletto». Era la bara di un bambino che veniva portata al cimitero. Si trattava di uno spettacolo che non era carico di pathos, perché i bambini morivano, morivano come mosche. Non si poteva fare niente, se non difendersi mediante una razionalizzazione, facendoli diventare angioletti.

Oggi Lucinda Matlock avrebbe diversi figli ottantenni, di cui lei come madre dovrebbe occuparsi; ovvero, rovesciando la prospettiva, i figli ottantenni avrebbero il compito di occuparsi della madre novantaseienne... Anche augurando loro buona salute ― ma un tantino di arteriosclerosi gliela dovremmo concedere, e forse un po’ di Alzheimer! — rimane il problema: come fa un ottantenne a svolgere compiti di assistenza così gravosi? Credo che oggi l’ottimismo e il vitalismo di Lucinda Matlock sarebbero messi alla prova,in una situazione come questa.

È vero, «ci vuole vita per amare la vita». Così è stato tradotto in italiano, l’ultimo verso della poesia; ma la traduzione non rende bene l’ambivalenza dell’inglese

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che si può tradurre anche come: «Amare la vita, richiede la vita». L’amore della vita si paga con il prezzo della vita stessa. Questa è un’esperienza facilmente trasponitele anche nel contesto della nostra società. Occuparsi della vita degli altri, prolungare la vita, spesso domanda la vita a qualcun’altro. C’è sempre qualcuno che deve pagare, e sono prezzi alti, che non ammettono sconti.

Nel Far West era compito della donna assistere i malati. E non solo allora. Anche oggi, malgrado i numerosi cambiamenti che diversificano la nostra società e il profilo della famiglia rispetto a quelle di un secolo fa, accanto ai malati, agli anziani, ai disabili troviamo ancora le donne.

L’obbligo di «onorare il padre e la madre» — come recita il comandamento divino — è uguale per i maschi e per le femmine. Ma chi paga di fatto il prezzo richiesto dal prendersi cura della vita? Chi assiste i genitori, gli anziani, i bambini? Oggi parliamo di riportare la cura dall’ospedale alla casa, di home-care, di ospedalizzazione a domicilio. Sono bellissimi programmi: ragionevoli dal punto di vista economico e soprattutto saggi dal punto di vista etico e umano. Ma possono nascondere profonde ipocrisie, se non ci rendiamo conto, che occuparsi della vita degli altri richiede a qualcuno la vita. E chi paga i prezzi spesso sono le donne, non gli uomini. Questa iniqua distribuzione dei pesi tra i sessi e una delle cause non trascurabili del malessere etico che serpeggia nella nostra società.

I rapporti di cura e assistenza tra generazioni adulte e generazioni anziane non sono altro che un caso esemplare, un’esemplificazione dei rapporti familiari diversi prodotti dalla medicina moderna. Questi, a loro volta, stanno sullo sfondo a render ragione di quell’incertezza, di quei dubbi, di quella specie di paralisi della volontà che sembra caratterizzare la nostra civiltà nei confronti del compito di trasmettere la vita. Non è per caso che la fertilità in Italia sia ridotta a poco più di un bambino per donna fertile. Questa riduzione delle nascite ha diverse cause, ma non va sottovalutata neppure questa interiore esitazione che assomiglia a una paralisi, rispetto alla spensierata, gioiosa e disinteressata trasmissione della vita.

In altre parole, quello che emerge oggi è una specie di crisi ecologica della morale. Con «ecologia morale» intendo la capacità della nostra società di riconoscere istintivamente in maniera spontanea il bene pubblico.

Il concetto di ecologia è importante perché qualifica qualcosa di vitale, di organico. Allo stesso tempo, il dibattito contemporaneo ci ha abituato a correlare l’ecologia con la possibilità di estinzione: le specie si estinguono; la vita nel suo insieme è minacciata. Ma l'allarme

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si estende anche alla vita morale che, come un legame sotterraneo, tiene insieme le generazioni. Il progetto trasversale che fa sì che la vita si trasmetta, è inceppato. Questa crisi ecologica della morale è la più grave di tutte le situazioni critiche che dobbiamo affrontare.

La riflessione diffusa dalla bioetica ci ha reso familiari dilemmi e perplessità connesse con problemi che sorgono alle frontiere più avanzate del progresso bio-medico, ma niente è così fondamentale come questo problema bioetico trasversale profondo: la crisi del legame che tiene insieme le generazioni e fa sì che la fiaccola della vita passi da una generazione all’altra.

Siamo in grado di analizzare la sotterranea ingiustizia che regna tra le generazioni e i sessi nella famiglia. A questo punto dobbiamo domandarci: è questa soltanto un’analisi o è anche una terapia? Esistono forme di sapere che hanno esclusivamente funzione di analisi: possiamo fare, ad esempio, l’analisi della situazione economica dell’Italia; non per questo avremo più lire in tasca o più soldi nel bilancio.

Altre forme di sapere sono invece terapia. Il pensiero corre immediatamente al sapere psicoanalitico o psicoterapeutico in generale. Mentre noi acquistiamo conoscenza in noi stessi, ci guariamo. Come si esprimeva in un libro famoso di qualche anno fa Maria Cardinal, l’analisi le aveva fornito «le parole per dirlo». La psicoterapia era stata la ricerca di parole per dire un malessere che, essendo oscuro a se stesso, si trasformava in un sintomo. Trovando le parole per dire tutto il malessere, aveva trovato la via della guarigione.

Ebbene, dove situiamo l’etica: più fra la scienza che analizzano il malessere o quelle che lo guariscono? Direi che è a metà strada tra l’analisi e la terapia. Certo, è importante trovare le parole per dire il malessere etico che inquina la nostra convivenza familiare. Abbiamo la sensazione di aver perso la giusta misura. Qualche volta pensiamo di sbagliare facendo troppo poco: è troppo poco quello che facciamo per gli anziani o per i portatori di handicap, per i malati mentali. Qualche volta rischiamo di sbagliare facendo troppo: certi prolungamenti artificiali della vita, qualificati forse sbrigativamente come «accanimento terapeutico», ci creano veramente delle grandi perplessità. Anche se la volontà soggettiva dei sanitari non è quella di «accanirsi» contro il malato, ma di mettere la medicina a servizio della vita, rimane la sensazione che certe pratiche pecchino per eccesso di misura.

Bisogna tirare una linea tra il troppo e il troppo poco. Soprattutto le famiglie rischiano di crollare sotto il peso del troppo. Abbiamo bisogno di una grande lucidità razionale per analizzare il giusto ruolo della famiglia in questo periodo di trapasso. La riflessione bioetica può esserci di grande aiuto. Non domandare troppo poco alla famiglia, demandando tutti i compiti di cura e assistenza alla società. Ma neppure dobbiamo domandare troppo, perché la famiglia, se deve e può riappropriarsi di una parte dei compiti di assistenza, ha bisogno di essere aiutata.

E dobbiamo avere il coraggio di porci domande scomode. Per esempio, la seguente: non potendo dare tutto a tutti, come stabilire delle priorità? Dobbiamo introdurre la nozione del limite, collegata a quella di arco naturale della vita. L’idea di vecchiaia che è promossa dalla nostra cultura considera il confine della vita come qualcosa di elastico, che con una dolce e continua pressione deve essere sempre dilatato.

Se qualcuno muore, anche in tarda età, ci si mette sempre alla ricerca di qualche inefficienza della nostra organizzazione sanitaria. Si rifiuta la nozione di ciclo naturale della vita, che ha la morte come sua conclusione prevedibile e necessaria. L’ostinazione a fare tutto il possibile deve cedere alla ragionevolezza, quando colui che muore è una persona che ha compiuto il ciclo naturale della sua vita. Bisogna riconoscere i limiti: quelli della medicina, che deve smettere di lusingare le nostre aspirazioni all’onnipotenza; ma anche i limiti delle nostre possibilità di farci carico gli uni degli altri.

Tutto questo fa parte di un discorso razionale sui diritti e doveri nei confronti della vita. Ma dopo che avremo dato fondo alla capacità del pensiero e di analisi razionale, quando avremo creato nuove regole e reso espliciti i criteri di equità che devono regolare le nostre scelte, dovremo forse ammettere che il progetto etico di trasmettere la vita ha bisogno fondamentalmente di un atteggiamento interiore che va ricondotto all’ingenuità.

Una ingenuità alla Lucinda Matlock. Allora il compito di trasmettere la vita ridiventerà semplice, perché naturale, spontaneo, amoroso. Si avrà la forza di trasmettere la vita perché ci si sentirà convocati alla festa della Vita.