Il bioetico non diventi un mandarino

Sandro Spinsanti

IL BIOETICO NON DIVENTI UN MANDARINO

in Tempo Medico

anno XXXV, n. 14, 14 aprile 1993, p. 2

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Quali sono le associazioni mentali più probabili,quando si sente parlare di bioetica? Il termine è andato sempre più affermandosi nel dibattito pubblico relativo agli aspetti moralmente più problematici dei progressi della medicina e della biologia.

Ma «bioetica» evoca anche un modo abbastanza stereotipato di trattare questi temi. In genere all’origine di una discussione di bioetica c’è «il caso»: un fatto concreto, che i mass media provvedono a enfatizzare adeguatamente. Può essere una nascita che segna un nuovo traguardo nell’ambito della procreazione artificia-le, un intervento spettacolare di terapia genica, un caso di eutanasia, un dibattito sull’aborto per le donne violentate in Bosnia.

A questo punto subentrano gli esperti. Opportunamente sollecitati, esprimono il loro parere. Il caso lo conoscono solo nella veste in cui è stato confezionato per l'informazione. Le esigenze dei media, inoltre, richiedono che il loro parere sia espresso in forma sintetica, efficace, con preferenza per gli schieramenti netti: sì o no, permesso o proibito, lecito o illecito.

Gli americani hanno un’espressione molto evocativa per questo tipo di interventi. Lo chiamano «to Shoot from the Hips». È il gesto del pistolero, che spara velocemente senza estrarre l’arma dalla fondina. I casi che arrivano all’attenzione del pubblico sembrano bersagli ideali per queste raffiche di giudizi etici, da parte di un gruppo ristretto e ben identificato di esperti che si vanno qualificando come «bioeticisti».

Non c’è da rallegrarsi per la popolarità che sta assumendo il dibattito sulle scelte connesse con i trattamenti sanitari e la ricerca biomedica. Si vede crescere una sensibilità per i dilemmi posti dal trattamento responsabile della vita. E tuttavia il diffondersi del modello di bioetica qui evocato suscita parecchie perplessità. Si possono riassumere le principali sotto due termini: «rilevanza» e «competenza».

Per rilevanza intendo la scelta di che cosa è ritenuto importante. Ebbene, nella bioetica dei mass media la riflessione viene messa in correlazione solo con i casi clamorosi ed estremi, quasi che quelli ordinari fossero irrilevanti. Semmai è vero il contrario: è soprattutto la pratica quotidiana della cura della salute e dell’assistenza agli infermi che è carica di perplessità e obbliga a scelte in cui si giocano importanti valori morali.

Non è solo il dilemma se staccare o no la spina del respiratore in un malato in coma irreversibile che presenta un problema etico, ma le mille piccole scelte connesse con il trattamento di una malattia grave o a prognosi infausta.

Se e come dare l’informazione, il consenso del paziente ai trattamenti che lo riguardano: sono solo alcuni degli aspetti che fanno della cura quotidiana della salute un fatto non solo tecnico ma relazionale. Quindi di rilevante importanza per l’etica.

Parlando di competenza mi riferisco invece ai soggetti autorizzati a svolgere tale riflessione etica. Ben vengano gli esperti di bioetica: purché, però, ciò non porti all’espropriazione dei veri titolari dell’etica. Vale a dire, di tutte le persone ragionevoli e responsabili. Una delle ragioni di non minor peso a favore del ricorso al termine bioetica, in luogo del più tradizionale «etica medica», è proprio il fatto che esso sposta l’accento dalla pretesa competenza esclusiva di un gruppo di professionisti, i medici, al coinvolgimento di tutti nelle decisioni che riguardano la vita e la sua cura.

Sarebbe una beffa se la bioetica, invece di promuovere il dialogo e la partecipazione attiva di tutti nelle scelte di natura terapeutica e nell’applicazione del sapere biomedico, favorisse l’emergere di nuovi mandarini del sapere etico.