- Etica medica o bioetica? Una transizione epocale
- La bioetica per la formazione del personale sanitario
- La formazione del personale delle aziende sanitarie
- La formazione del personale sanitario in bioetica clinica
- Bioetica e deontologia professionale
- Certezze e incertezze del sapere medico
- Impariamo a litigare
- Né troppo né poco
- Un rapporto difficile
- Il bioetico non diventi un mandarino
Pio Lattarulo
BIOETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE
McGraw-Hill, 2011
pp. XIX-XXI
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PRESENTAZIONE
Abbiamo davanti a noi un manuale... Di che cosa, esattamente? Quando cerchiamo il nome appropriato per definirne il contenuto, ci rendiamo conto che trovare le parole giuste ci mette di fronte a inaspettate difficoltà. Sappiamo che il libro è dedicato ai mali che affliggono la pratica della medicina e ai correttivi necessari perché risponda alle nostre migliori aspettative. In termini clinici, il manuale è rivolto a formulare la diagnosi e indicare la terapia per le patologie che allontanano la medicina da ciò che vorremmo che fosse. Ma quando cerchiamo l’etichetta da apporre sul manuale, ci accorgiamo che le parole adatte ci sono state sottratte.
Si possono uccidere le persone: è un crimine che non finiremo mai di esecrare. Abbiamo reazioni meno viscerali quando vengono uccise le parole; eppure la perdita per l’umanità non è meno grave. La devastazione linguistica di cui parliamo non riguarda direttamente ciò che possiamo e dobbiamo fare per porre rimedio a ciò che disapproviamo nella pratica medica, ma ci toglie di bocca “le parole per dirlo” (per riprendere il titolo del celebre romanzo psicanalitico di Marie Cardinal con cui la scrittrice ha ripercorso il cammino che l’ha portata fuori dalla nevrosi che l’abitava: la sofferenza della sua anima, non trovando altra forma di espressione, non poteva che trasferirsi sul corpo, finché le parole giuste l’hanno liberata). Anche la pratica della medicina soffre di un grave malessere generalizzato. Abbiamo le “parole per dirlo”? E come chiameremo il rimedio che intendiamo proporre?
La prima parola a essere messa fuori gioco è stata “la morale”. Come correttivo al malessere generato da modalità di cura e assistenza non corrispondenti ai nostri bisogni, si era soliti in passato evocare la necessità di maggiore impegno morale. Ma la morale si è caricata di un senso accusatorio che rende la parola irredimibile. Chi può sostenere il sospetto di “voler fare la morale” a qualcun altro? Ai nostri giorni, poi, il degrado della parola è diventato insuperabile, perché coloro che osano evocare la necessità di una coerenza morale ― nella vita pubblica, così come nei comportamenti privati ― sono bollati come portatori infetti di “moralismo”...
Una certa diffidenza nei confronti della morale è raccomandabile. Se non altro perché, secondo lo scrittore americano David Thoreau, “non c’è odore peggiore di
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quello che proviene dalla bontà andata a male”. Corruptio optimi pessima, sentenziavano i latini; le persone con i più alti ideali cadono rapidamente al di sotto del comune livello di moralità, quando scendono la china (per non parlare di quella caricatura del bene morale costituita da coloro che meritano la definizione di Mark Twain: “Un uomo buono, nel peggior senso della parola”...). Coloro che, chiusi nella torre d’avorio della propria moralità superiore, pretendono di giudicare gli altri dall’alto in basso, suscitano antipatia e rigetto. Ancor peggio: mondi morali chiusi gli uni agli altri possono diventare luogo di scontro. La morale come sistema intollerante incombe nel contesto delle attività di cura. Queste mobilitano concezioni dell’uomo e sistemi di valori per nulla propensi a confrontarsi in maniera irenica; sono inclini piuttosto a innalzare sbarramenti “non negoziabili”.
Poi è venuta l’etica. L’abbiamo importata dall’ambito linguistico anglosassone, come traduzione pari pari di ethics. In italiano la parola è stata accolta come una liberazione: non provocava, come la morale, associazioni mentali oppressive. Il termine è approdato da noi nel nuovo conio di “bioetica”, sull’onda del movimento nato negli Stati Uniti negli anni ’70. Portava anche la promessa di superare le secche dell’etica medica, in quanto disciplina che rifletteva la centralità della professione medica: la bioetica non era, appunto, l’etica dei medici che si imponeva agli altri professionisti sanitari e ai cittadini stessi; la bioetica riguardava tutti e andava ricercata tutti insieme, superando quella posizione che i sociologi hanno descritto come “dominanza medica”. Con la bioetica nasceva anche la speranza di liberarsi dal paternalismo, che dell’etica medica ha costituito tradizionalmente il limite intrinseco.
Ma anche l’etica ― benché modernizzata in bioetica ― ha rapidamente esaurito la sua parabola positiva nelle attese di molte persone. Una disciplina (o piuttosto un approccio interdisciplinare e multidisciplinare) sorta con l’intento di introdurre nelle nostre società una modalità nuova di affrontare i problemi che pongono le scienze biomediche si è rivelata invece una palestra di vecchie e nuove intolleranze. La bioetica è diventata sinonimo di biodiritto; e questo, a sua volta, di biopolitica. Quanto dire che anche la bioetica, invece di costituire il toccasana per il nostro malessere, è venuta a identificare un ambito di attriti urticanti, che contrappongono le visioni della vita e i comportamenti legati alle scelte supreme, soprattutto quelle legate alla procreazione e alla morte.
Esistevano altre parole per indicare la cura di cui ha bisogno la pratica medica: “deontologia”, per esempio, e “umanizzazione”. Anche queste parole, però, erano zoppicanti di natura loro.
La deontologia ha una nobile tradizione. Ma ha il limite di evocare mondi professionali chiusi e autoreferenziali. Le principali professioni attive in ambito sanitario ― i medici e gli infermieri ― nelle loro periodiche revisioni dei codici deontologici (i medici hanno rivisto il proprio codice nel 1978, nel 1989, nel 1995, nel 1998 e nel 2006; gli infermieri nel 1977, nel 1999 e nel 2009) hanno dato prova di grande sensibilità per le mutazioni culturali in corso. Progressivamente hanno rimesso in discussione i rapporti tra curanti e curati modellati in senso asimmetrico e hanno saputo riconoscere il valore dell’autonomia del soggetto malato. Tuttavia non è verso la modifica delle regole deontologiche che si rivolgono le attese della nostra società.
Considerazioni diverse tendono a creare riserve circa l’uso di una terminologia che gravita intorno all’“umamzzazione”. Nei due sensi: accusa di “malasanità” ai servizi sanitari o di “disumanizzazione” ai professionisti e la richiesta di riumanizzazione come terapia per curare il malessere attuale. Per quante nobili parentele
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vogliamo trovare alla parola ― dalla humanitas latina alla gloriosa cultura dell’Umanesimo rinascimentale ― l’umanizzazione della medicina si rivela un progetto ambiguo. I sanitari che si sentono oggetto di un programma di umanizzazione si sentono inevitabilmente accusati di comportamenti “disumani”. È facile immaginare che la reazione più prevedibile sarà quella di risentita chiusura, o la ricerca di altri capri espiatori (gli amministratori della sanità, le condizioni di lavoro, le risorse carenti...). In ogni caso, sarà arduo avere come alleati in un programma di umanizzazione i professionisti che si sentono messi sotto accusa con quella parola.
Come qualificare, dunque, il male della medicina attuale, e il rimedio che si intende proporre? Un’alternativa è costituita da un prestito che possiamo fare dall’inglese: le Medicai Humanities. Proprio la sua estraneità linguistica si rivela un vantaggio: non fa scattare associazioni mentali ― come “morale”, “umanizzazione” ― o conflittuali ― come “bioetica” ―; non è fredda come “deontologia”, ma conserva il valore utopico di ciò che si colloca nel solco dell’umanesimo. E sopratutto chi usa questa denominazione ha l’obbligo di dar conto del suo progetto: non essendo intuitivo, lo deve spiegare. È quello che si accingono a fare gli Autori di questo manuale. Consapevoli di dover usare parole ambigue e in parte squalificate, si concentreranno piuttosto sul vissuto della cura, così come è richiesta e come è erogata. E condurranno una pacifica e fruttuosa “conversazione” con tutti quei professionisti che condividono la convinzione che esiste un’alternativa alla pratica del lamento e della denuncia: è la ricerca comune di alternative praticabili.