Cura del malato inguaribile: la prospettiva della bioetica

Book Cover: Cura del malato inguaribile: la prospettiva della bioetica
Parte di Invecchiamento series:

Sandro Spinsanti

CURA DEL MALATO INGUARIBILE: LA PROSPETTIVA DELLA BIOETICA

in Cura del malato inguaribile

Atti del 1° Convegno Scientifico

Treviso, 30 novembre 1991

pp. 15-24

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Lasciatemi esprimere innanzitutto la mia soddisfazione per essere stato invitato a Treviso, in questa vostra realtà. Sorprende che tutti gli oratori di questa giornata provengono da fuori; qualcuno potrebbe sentirsi autorizzato a pensare che vengano a fare i missionari in un ambiente che deve essere evangelizzato alle cure palliative. La realtà è molto diversa. Siamo stati generosamente invitati da voi a portare esperienze che abbiamo maturato in altri ambiti, ma veniamo in un posto che invece è un faro per le cure palliative; e veniamo non solo a portare le nostre esperienze, ma anche a confrontarle con quelle esemplari che state maturando qui, grazie al ruolo pilota che ha assunto l'ADVAR.

Il contributo di riflessione che sono stato invitato a portare è stato preannunciato sotto il termine di etica: questioni etiche nella a cura del malato inguaribile. Vorrei iniziare proprio col fare alcune considerazioni sul posto che compete all'etica. Mi piace prendere uno spunto già emerso nella presentazione generale. È stato sottolineato il carattere composito di questo incontro: è stato promosso dall'ADVAR, che è una associazione di volontari per l'assistenza al malato inguaribile, in un ospedale, che invece è la struttura pubblica messa a disposizione dallo Stato per la cura dei malati. Mi sembra di poter dire che questo incontro tra due realtà non omogenee si presenta come qualcosa di significativo. E vi propongo di collocare l'etica nell'intersezione tra le istituzioni pubbliche, che per natura sono fredde, e il privato, che per natura è caldo.

Le istituzioni sono fredde. Devono essere fredde, perché ― lo sa bene chi di voi passa tante ore accanto ai malati ― bisogna anche sviluppare un certo atteggiamento professionale in funzione di difesa. Non ci si può coinvolgere con ogni malato come con un proprio familiare: non si reggerebbe a lungo. Le istituzioni devono mirare all'efficienza. Sono rigide, e per questo resistono al cambiamento: è loro dovere farlo.

Accanto alle fredde istituzioni abbiamo un'altra realtà, che ho chiamato calda. Talvolta si presenta con delle sigle un po' enigmatiche: SAMOT, ADVAR, VlDAS, ANAPACA... Ma non lasciatevi ingannare: dietro ci sono dei nomi. C'è Alberto Rizzotti, c'è Gigi Ghirotti, c'è Floriani. Che cosa vogliono dire questi nomi?

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Rimandano a esperienze tragiche, a lacrime, a un'accorata protesta. «No, non è giusto che si muoia così, bisogna cambiare il modo di morire e di assistere i morenti!» Questi nomi concreti di persone connotano speranza, condivisione di ideali, generosità. E perciò, tutto il calore delle emozioni. Il freddo delle istituzioni e il caldo del privato non sono poi così contrapposti come si potrebbe credere. Anche il privato, per poter essere efficiente, ha bisogno di far raffreddare la lava del vissuto catastrofico: bisogna lavorare con la testa, non con la pancia! Nelle istituzioni, d'altra parte, basta grattare poco per trovare forti emozioni, che si condensano in una esplicita domanda di cambiamento.

Queste due correnti si incontrano nel punto dove noi collochiamo la riflessione etica. È molto importante capire che c'è una convergenza di due realtà diverse, che hanno tutte e due il diritto e il dovere di dire la loro, contribuendo in modo diverso a questa riflessione. Non possiamo partire esclusivamente dall'etica delle istituzioni, che per brevità possiamo identificare qui con l'etica medica. Non perché i medici non siano qualificati a pensare ai problemi connessi con il comportamento da tenere con gli ammalati inguaribili. Lo sono, e come! Ma l'etica medica in quanto tale, cioè in quanto deriva da una riflessione legata a una istituzione professionale, tende ad essere rigida: ripropone in maniera ripetitiva dei comportamenti che erano adeguati nel passato, ma possono non esserlo più nel presente. Per questo la tradizionale etica medica si rivela inadeguata a rispondere ai problemi che abbiamo oggi nell'assistenza ai malati inguaribili.

Ma neppure il privato-privato può essere una base di partenza sufficiente. Non basta l'indignazione per esperienze di morte indegne e per accompagnamento dei morenti insufficiente. Non vogliamo che la riflessione etica sia fatta equivalere alla denuncia, diventi un tribunale che mette sotto accusa tutta una categoria professionale ricorrendo alla colpevolizzazione («Ah, questi sanitari che dicono di fare i missionari e poi si rivelano dei mercanti prezzolati!»). C'è di tutto nella nostra realtà umana: ci sono probabilmente anche dei sanitari che meritano la gogna. Ma la sfiducia sistematica nella professione medica

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non può costruire un buon punto di partenza per cambiare lo scenario dell'assistenza ai malati terminali. Abbiamo bisogno di una prospettiva più comprensiva per affrontare in termini etici la riflessione sulla medicina attuale. Questa base ci ò fornita oggi dalla bioetica.

Rispetto all'etica medica non si tratta di cambiar etichetta, ma visuale. Adottare la prospettiva della bioetica vuol dire sottrarsi alle logiche di corporazione o agli interessi di professionalità. Prendendo le distanze da rivendicazioni di tipo conflittuale, partiamo dalla consapevolezza che ci troviamo in un momento di svolta. La riflessione etica nasce dalla perplessità che ci accomuna: professionisti della sanità e no, sanitari e cittadini che dell'opera dei sanitari hanno bisogno. Ci troviamo tutti nell'incertezza di fronte alla cosa giusta da fare, nel contesto delle sfide che il progresso bio-medico ci pone.

Il filosofo Benedetto Croce ha racchiuso in una frase molto efficace lo stato d'animo che sto descrivendo. Ha detto che ogni vero cambiamento storico ci trova ignoranti e ci costringe a pensare. Ebbene, la rivoluzione bioetica è una di queste svolte storiche. Essa ha cambiato il nostro modo di vivere, di curarci e di morire. In questa svolta storica noi ci troviamo ignoranti: dobbiamo ammettere che i modelli del passato si adattano solo in parte alla nostra realtà; che tutto quello che possiamo proporre è soltanto un balbettio spesso inadeguato. Quello che dobbiamo e vogliamo fare è incominciare a pensare.

Fare etica è essenzialmente questo, non consiste in un mero ricorso alle emozioni. Le emozioni sono certamente importanti, perché il bene non lo facciamo soltanto perché siamo razionalmente convinti che sia giusto. Per indurci ad agire in modo conforme alle esigenze etiche abbiamo bisogno anche di una forte carica interiore che assomiglia più alla seduzione che alla convinzione razionale. Tuttavia, per quanto importanti siano le emozioni, l'etica si fa ragionando.

In conclusione di questa lunga ma necessaria introduzione, voglio sottolineare che riflettere sull'etica del trattamento dei malati inguaribili ci colloca nel punto di convergenza di un movimento caldo ― il volontariato con le sue idealità ― e di uno freddo ― le istituzioni sanitarie con le loro logiche professionali ―.

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Qui stiamo, in una situazione di trapasso culturale che ci trova solo parzialmente equipaggiati con il sapere che deriva dal passato, rappresentato dall'etica professionale, dai valori religiosi e sociali tradizionali: ignoranti, ma fiduciosi nel ruolo della ragione nel trovare la cosa giusta da fare.

Quando cominciamo a pensare ai problemi bio etici della medicina in questi termini, ci accorgiamo che la pratica della sanità ci presenta dei fatti paradossali. Cominciamo con prendere atto che in società diverse si assiste in maniera diversa il malato che va verso la fine. Per amore di semplicità, riferiamoci a due situazioni tipiche: una che rappresenta il comportamento diffuso nei paesi anglosassoni, e una seconda più specificatamente latina, anzi italiana.

Per quanto riguarda l'America, mi piace sottolineare la data odierna: oggi è 30 novembre, vigilia del 1 dicembre. Questa data è particolarmente significativa perché in America tra oggi e domani avverrà un salto che probabilmente farà ricordare in futuro questa data come storica. Da domani entra in vigore in tutti i cinquanta stati federali d'America una legge su cui si è dibattuto per anni. Si chiama la Legge dell'autodeterminazione (Self Determination Act).

Secondo questa legge, ogni cittadino, quando va in ospedale, deve essere informato di quali procedure diagnostìche e terapeutiche gli verranno proposte; l'amministrazione ospedaliera deve inoltre informarlo che ha diritto di rifiutare i trattamenti. Oltre a ciò, ogni paziente al momento di essere ricoverato in ospedale deve essere messo a conoscenza che esistono delle misure legislative che favoriscono la determinazione della volontà anticipata circa le cure alle quali si vuol essere sottoposti al momento in cui si fosse incapaci di intendere e di volere.

In America già da anni sono state elaborate diverse procedure legali o amministrative a questo fine. Le più diffuse sono il living will (testamento biologico) e il durable power of attorney. Secondo il primo, la persona interessata stabilisce in modo riconosciuto legalmente valido i trattamenti che desidera e quelli che rifiuta nel caso in cui fosse incapace di intendere e di volere (può, ad esempio, escludere la rianimazione o il prolungamento artificiale della vita); la seconda procedura serve

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invece a designare qualcuno ― per esempio la moglie o il marito o il compagno di vita ― che viene autorizzato a prendere le decisioni cliniche al posto dell'interessato agendo come suo porta parola e rappresentante della sua volontà.

Al momento dell'accettazione in ospedale si deve raccogliere questa volontà del malato: questa è l'innovazione che verrà introdotta con la legge che va in vigore da domani. Se l'ospedale non lo fa, non ha diritto a ricevere il rimborso delle spese da parte dei due sistemi che corrispondono in America alla mutua: Medicaid e Medicare (due sistemi che coprono il 70% della popolazione). A far data da domani, primo dicembre 1991, le istituzioni ospedaliere sono obbligate a promuovere l'autodeterminazione del paziente, a informarlo, a notificare al paziente che può e deve decidere riguardo alle modalità di cura della propria salute, e in particolare di quello che potrà capitare il giorno i in cui non potesse più decidere per se stesso.

Questo scenario per noi è un po' marziano. Esso presuppone vicende drammatiche che hanno sconvolto l'opinione pubblica americana. Il dramma di Mary Ann Quinlan tutti lo conoscono: è la ragazza per la quale i genitori hanno dovuto intraprendere una lunga lotta giudiziaria per ottenere di farla staccare dal respiratore artificiale, in quanto in coma irreversibile. Un caso ancora più drammatico è quello di un'altra ragazza, Nancy Cruzan, per la quale la famiglia ha ottenuto nel dicembre scorso che fossero interrotte l'alimentazione e l'idratazione artificiali. Era in coma vegetativo permanente, quindi respirava autonomamente, ma non poteva ingerire cibi o bevande. Avrebbe potuto vivere in quello stato probabilmente molti anni ancora. Ma siccome Nancy aveva affermato precedentemente all'incidente che non avrebbe mai voluto vivere in condizioni come quelle, la famiglia ha cercato di ottenere, malgrado la resistenza dei medici, degli infermieri e di diversi tribunali, che fosse presa in considerazione questa volontà, e quindi Nancy fosse lasciata morire, interrompendo la somministrazione intravenosa di cibo e di acqua. Per ottenere questa autorizzazione, i genitori sono ricorsi fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti, con una battaglia legale durata anni.

Sono questi i casi drammatici che hanno fatto capire in America

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che bisogna predisporre gli strumenti legali e amministrativi per garantire all'individuo fino alla fine il diritto di essere protagonista delle decisioni che lo riguardano circa la vita e la morte. L'autonomia è un valore molto americano, naturalmente. Vediamo sullo sfondo la rappresentazione mitica dell'individuo che lotta contro la società per ottenere la propria morte contro un'istituzione che invece gli impedisce di morire.

È un dramma che noi sentiamo molto lontano rispetto alla nostra esperienza e alla nostra sensibilità. È facile forzare un po' i toni e trasformare questa tutela dell'autonomia in una caricatura. Qualcuno ha cominciato a dire: «È veramente una bella pensata questa della Legge dell'autodeterminazione? Oppure quando uno andrà in ospedale gli succederà quello che abbiamo visto tante volte nei film polizieschi americani? Quando un poliziotto arresta un imputato, tira fuori ― in genere dal taschino della giacca ― una lista di diritti e gli recita: «Lei ha diritto di fare una telefonata, ha diritto di tacere; se parla quello che dice può essere usato contro di lei...». Faremo così anche in ospedale? Quando uno entra, gli sarà letta la lista dei diritti: non importa chi lo fa (il medico, l'infermiera o l'ultimo degli impiegati) e soprattutto come lo fa (con empatia, con distacco, con grossolanità...). Gli hanno letto i diritti: è a posto, il paziente è stato informato».

È facile per noi volgere in burla questa ossessione americana per l'informazione del paziente. Ma pensate per un momento, di fronte a questo scenario che per noi è marziano, come può essere marziano lo scenario italiano per un americano. Mi riferisco a una situazione concreta, che desumo da una rivista pubblicata pochi mesi fa: la Rivista italiana di psicologia oncologica.

Intanto voglio iniziare registrando come positivo il fatto che ci siano degli oncologi che non si curano soltanto degli aspetti somatici del cancro, ma considerano anche le dimensioni psicologiche della malattia. Sono sanitari che si sono resi conto che le emozioni e l'atteggiamento di fondo nei confronti della malattia hanno una incidenza sul decorso della patologia e sulle possibilità stesse di sopravvivenza. Tutto questo è un notevole passo avanti rispetto a una medicina che possiamo qualificare

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spregiativamente come veterinaria.

In questa rivista ho notato uno studio che mi ha incuriosito. È stato condotto all'ospedale Forlanini di Roma, specializzato nel trattamento di malattie polmonari, su dei malati con carcinoma polmonare inoperabile. Anche il meno introdotto in medicina sa che si tratta dei casi con prognosi tra le più infauste: la sopravvivenza medica va computata in mesi. Nella ricerca in questione sono stati confrontati tre diversi protocolli di trattamento terapeutico per vedere se le tre alternative producevano risultati diversi riguardo alla qualità della vita.

Mi sono soffermato con grande interesse su questo studio. Veramente abbiamo fatto un grande passo avanti ― mi sono detto ― se non ci preoccupiamo soltanto se un protocollo chemioterapico offre maggiori possibilità di prolungare la vita di un paziente ― qualche anno o soltanto qualche mese in più è già importante ― ma addirittura ci si mette a ricercare quale protocollo chemioterapico assicuri una migliore qualità di vita. Ci troviamo di fronte ad una medicina umanistica al più alto livello: per essa non è solo importante la quantità della vita, ma anche la sua qualità.

Ma nel leggere lo studio mi sono soffermato su una annotazione metodologica a dir poco sorprendente. Nessuno dei malati inclusi in questo ampio studio ― affermano gli Autori ― è stato informato in realtà della sua malattia, ma gli è stato detto che aveva una infiammazione polmonare trattabile, per cui era necessario un trattamento molto robusto. Né al momento della prima somministrazione, né al momento del follow-up il malato è stato informato della realtà del suo male.

Permettetemi a questo punto di contrapporre questi due scenari: quando in America un malato va in ospedale perché ha una polmonite, gli dicono: «Bene, lei si ricovera ma potrebbe anche andar male. Lei potrebbe cadere in coma e non essere più capace di intendere e di volere. Nel caso in cui lei non possa più prendere delle decisioni, chi è autorizzato ad esprimere la sua volontà, per esempio se vuole essere rianimato o no?". Quando invece in Italia un malato va in ospedale con un carcinoma polmonare inoperabile, gli viene detto: «Non è niente, è una polmonite; si affidi a noi che la guariremo!».

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Possiamo dire che se gli americani sono marziani per noi, noi siamo marziano per gli americani. In maniera più polemica, possiamo esprimere il sospetto che la medicina giri a folle: un giudizio che può cadere tanto su ciò che avviene al di qua, quanto al di là dell'Atlantico. Può girare a folle là dove il rispetto per l'autonomia dell'individuo è talmente importante che viene magari prevista un'informazione d'ufficio, con tanto di moduli da firmare. Ma la stessa cosa si può dire anche nei confronti di quanto avviene da noi, dove qualcuno pensa che il fatto di sapere e non sapere che uno ha una malattia a prognosi infausta non incida sulla qualità della vita. Che cos'è la qualità della vita, allora? E come si misura?

Questi due scenari così diversi di ciò che pure pretende di rispondere a bisogni autentici dell'essere umano e organizzare una buona medicina illustra l'affermazione da cui siamo partiti: siamo in una fase di trapasso; ci troviamo ignoranti e dobbiamo pensare.

L'ignoranza è legata al fatto che sta nascendo una medicina diversa, e conseguentemente anche un paziente diverso. Da questo punto di vista possiamo dire che l'etica medica è insufficiente a darei le risposte: ciò di cui abbiamo bisogno è un'etica civile che arrivi a un consenso integrando punti di vista professionali e non professionali. Non solo i corpi professionali, ma anche i cittadini devono elaborare un diverso comportamento.

È molto facile entrare nel gioco delle accuse reciproche. Mentre i malati accusano i sanitari di essere insensibili, di esercitare una medicina senz'anima, di non occuparsi delle emozioni, di non entrare in rapporto con il malato, si potrebbe anche invertire il ruolo accusatorio e farci raccontare dalla voce dei medici e infermieri tante storie meschine che hanno come protagonisti i malati e le loro famiglie.

Quanto egoismo, spesso; quanto scarico di responsabilità; quanta volontà di non essere coinvolti e di non voler vedere la propria realtà; quanti giochi di famiglia, nei quali l'intenzione di proteggere il proprio caro dal trauma di una prognosi infausta produce di fatto la solitudine più totale del malato, chiuso in una gabbia di menzogne. Rinunciando alla messa sotto accusa unilaterale, abbiamo bisogno di adottare una prospettiva che

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conduca sia gli uni che gli altri ad adottare procedure comunicative e regole etiche diverse.

In nome di questa trasparenza, dobbiamo spostarci su un territorio sconosciuto alla medicina del passato. La regola etica fondamentale che ha retto il comportamento medico fino ad oggi è riconducibile al principio della beneficità: vale a dire, il sanitario è tenuto a fare tutto ciò che il bene del malato richiede. Oggi non possiamo più regolarci esclusivamente secondo questo principio. Prima di tutto, perché la nostra medicina è efficace in una misura che rischia di diventare eccessiva. Per molte persone è preferibile vivere meno che vivere in certe maniere indegne.

La nostra medicina può, sì, riportare alla vita, ma rischia anche di lasciare il paziente resuscitato in quella terra di nessuno che si estende tra la morte e la vita. Soltanto negli Stati Uniti si contano diecimila casi di persone in coma vegetativo permanente, cioè di persone che non si risvegliano più dal coma, che può durare per anni. Facendo dell'umorismo nero, potremmo dire che in Italia questi casi non si creano perché la disorganizzazione dei pronti soccorsi impedisce alle ambulanze di arrivare a tempo… Il problema serio che queste situazioni ci fanno intravedere è che, tanto più la medicina è efficace, tanto più è anche fonte di ambiguità. Quello che può produrre non è sempre univocamente un bene, ma può essere soggettivamente vissuto come una condanna.

L'altro motivo per cui il tradizionale principio di beneficità non può rispondere a tutti gli interrogativi che ci poniamo è che oggi non sappiamo più quale è il bene del paziente se non lo domandiamo al paziente stesso. Nella nostra società le persone non si orientano secondo un unico sistema di valori. Per qualcuno il valore supremo può essere combattere il dolore; per qualcuno prolungare il più possibile la vita; per altri, invece, conservare la dignità fino alla morte. Come fa il sanitario a saperlo, se non entra in un contatto con il paziente, gli permette di esprimersi, lo ascolta ed elabora quindi insieme, in modo sintonico al suo mondo di valori, il trattamento terapeutico migliore?

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non perché i medici siano diventati personaggi di cui è meglio non fidarsi, ma perché la pratica sanitaria dei nostri giorni ci mette in una situazione che si discosta in punti essenziali da quella per cui l'etica medica era adeguata sino a poco tempo fa.

Nella prospettiva di un'etica civile, abbiamo bisogno di favorire la crescita di persone più consapevoli. Parte di questo progetto è riportare la razionalità dentro questo mondo irrazionale della malattia a prognosi infausta. Sì, anche il cancro, che soltanto a essere nominato blocca il pensiero, ha bisogno di razionalità. Ciò impedirà di derivare il nostro comportamento esclusivamente da quel grumo di emozioni congelate, per le quali la risposta più adeguata sembra essere il freddo delle istituzioni, pronte a gestire la fase terminale, purché il paziente sia escluso dal gioco.

La mia proposta di riflessione etica ha deliberatamente evitato di entrare nei contenuti normativi della bio etica (dei quali pur abbiamo bisogno!). Siamo rimasti sulla soglia, nella piena consapevolezza che stiamo vivendo una fase di transizione che ci domanda prima di tutto delle rimesse in discussione fondamentali.

Abbiamo bisogno di elaborare, sia come cittadini che come medici, delle regole nuove. Ognuno con il proprio apporto. I medici porteranno il contributo del loro sapere scientifico, dell'etica professionale, della difesa della struttura che contiene (le istituzioni fredde hanno una funzione di contenimento delle emozioni straripanti); l'iniziativa privata, quella che nasce dai traumi vissuti sulla propria pelle e dalla buona volontà dei cittadini, porta la spinta all'innovazione e il calore per farlo. Insieme cominciano a ripensare questi problemi, alla ricerca di risposte nuove, come nuovi sono i problemi dei malati terminali che abbiamo di fronte.