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- Morte cerebrale, donazione e prelievo di organi
- Morte
- Accanimento terapeutico
- Umanizzare la malattia e la morte
- Una morte si misura
- Eutanasia?
- Il pensiero e la prassi dell'eutanasia nell'etica cattolica
- L'eutanasia e i problemi etici del morire
- Scelte di fine vita: l'orizzonte etico
- A proposito di eutanasia
- Umanizzare la morte per prevenire l'eutanasia
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- Atteggiamenti etici di fronte alla morte
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- Cura del malato inguaribile: la prospettiva della bioetica
CAPIRE LA MORTE: BISOGNO DELL'UOMO
a cura di Sandro Spinsanti e Antonio De Angeli
in I quaderni di Janus
Zadigroma editore, Roma 2003
pp. 41-55
ATTEGGIAMENTI ETICI DI FRONTE ALLA MORTE
IL termine della vita è diventato un’area scottante, dove confluiscono sfide antropologiche tra le più radicali. Ciò obbliga l’etica bio-medica contemporanea a ripensare, in considerazione del bene stesso dell’uomo, le norme morali che in passato hanno validamente regolato questo ambito. L’intervento massiccio delle nuove tecniche ha cambiato volto alla morte. Questa ha perso la sua ‘naturalezza’: nelle aree industrializzate e urbanizzate il trapasso avviene ormai quasi esclusivamente in un contesto medico, per lo più in ospedale, spesso sotto terapia intensiva di rianimazione. Grazie a questa disciplina medico-chirurgica, tanto spettacolare quanto efficace, la durata della vita ha potuto essere notevolmente prolungata. Ma il tenere in scacco la morte si è rivelato quanto meno una benedizione ambigua.
La possibilità di rendere la vita vegetativa indipendente dai livelli superiori della coscienza diventa, almeno in alcuni casi, un dono malefico. Si può assistere allora alla paradossale rivendicazione del diritto di essere dichiarati morti! La vicenda dell’americana Karen Ann Quinlan ha assunto in questo ambito il ruolo di caso emblematico, di quelli che hanno il merito di portare un problema etico a livello della coscienza popolare. Nell’aprile 1975 la ragazza era caduta in coma profondo, con lesioni cerebrali irreversibili, che non le avrebbero permesso di tornare indietro da una sopravvivenza puramente vegetativa. I genitori chiesero ai medici di lasciarla morire in pace; questi invece, in nome dell'etica professionale che impone loro di fare di tutto per prolungare
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la vita, rifiutarono, e le applicarono un polmone d'acciaio. I Quinlan chiesero allora all’autorità giudiziaria l’autorizzazione al distacco dal respiratore artificiale. Ne seguì un processo a più riprese, che vide schieramenti appassionati pro e contro il desiderio dei genitori. Questi ottennero infine dalla Corte suprema del New Jersey la sospensione delle misure di rianimazione (maggio 1976), anche se la povera Karen Ann doveva ancora “vegetare” per anni, prima di spegnersi naturalmente, l’11 giugno 1985.
Il prolungamento medico della vita
La vicenda Quinlan, tuttavia, aveva ormai posto di fronte all’opinione pubblica il problema: ci sono situazioni in cui la morte sembra che la si debba conquistare lottando contro l’apparato medico. I medici intraprendono il prolungamento della vita con buona coscienza, richiamandosi ai principi etici che ispirano la professione Se le norme del passato, in un mutato contesto culturale, portano a pratiche disumane, è forse giunto il momento di ripensare le norme stesse.
Lo scenario del morire si trasforma: ciò è vero non solo per il morente, ma anche di chi occupa di lui dal punto di vista sanitario. I medici, in particolare, sembrano rimettere in discussione uno dei principi deontologici a cui tradizionalmente si sono ispirati: il rifiuto a usare la propria arte per abbreviare in qualsiasi modo la vita del paziente. Somministrare la ‘morte per pietà’ non è più, se si assume questa prospettiva, il gesto inconsulto con cui qualcuno cerca disperatamente di rispondere alla sfida estrema di una situazione eccezionale. Diventa, piuttosto, un preciso dovere del medico, il quale solamente può giudicare quando è giunto il momento di mettere la parola ‘fine’ alla vita di un uomo.
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Questa concezione sconvolge ogni riferimento tradizionale. Paradossalmente, mentre sempre più forte si va facendo il movimento di opinione che contesta non solo all’individuo ma anche allo stato il diritto di disporre della vita di un uomo ― premendo affinché, di conseguenza, la pena di morte sia bandita dalla legislazione di tutti gli stati civili ―, ora qualcuno osa rivendicare un simile diritto per il medico. Si scardina così uno dei punti fissi della deontologia professionale alla quale tradizionalmente i medici si sono ispirati. Fin dall’antichità, quando i medici con il giuramento di Ippocrate hanno formulato esplicitamente gli impegni che si assumevano nei confronti del paziente, si sono obbligati a non dare la morte, neppure a chi la richiedesse: “Giammai ― giurava il medico ― mosso dalle preghiere insistenti di qualcuno, propinerò medicamenti letali, né commetterò mai cose di questo genere”. Che cosa succederebbe se questo pilastro dell’etica medica venisse a cadere?
La Guida europea di etica e di comportamento professionale dei medici (1982) giustifica la proibizione di praticare l’eutanasia con l’argomento della fiducia che deve poter essere posta nei sanitari: “Ricorrere a un medico vuol dire in primo luogo affidarsi a lui. Tale azione, che domina tutta l’etica medica, proibisce, di conseguenza, alcune azioni ad essa contrarie. Così il medico non può procedere all’eutanasia. Deve sforzarsi di placare le sofferenze del suo malato, ma non ha diritto di provocarne deliberatamente la morte... Questa regola, conosciuta da tutti e rispettata dal corpo medico, deve essere la ragione e la giustificazione della fiducia posta in lui. Nessun malato, handicappato, infermo o senile, alla vista del medico, chiamato al suo capezzale, deve avere dubbi a questo riguardo”. I motivi addotti a difesa del comportamento tradizionale dei medici suonano plausibili. Ma colpisce il fatto che allo stesso argomento
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della fiducia del paziente nei confronti del medico facciano ricorso anche coloro che sollecitano una modifica delle norme della deontologia medica. La fiducia del malato ― sostengono ― è accresciuta, se questi sa che può contare sul medico non solo per guarire, ma anche per morire. L’angoscia più profonda del morente dei nostri giorni è quella di essere abbandonato, nel momento in cui, secondo la scienza medica, ‘non c’è più niente da fare’. In nome di un contratto morale implicito nell’alleanza terapeutica, il malato vuoi poter contare sul medico fino all'ultimo, anche per poter finire i suoi giorni. C’è un aspetto di ipocrisia ― incalzano i critici ― in certi alti proclami della medicina come servizio alla vita: prima la medicina stessa crea delle situazioni disumane, poi rifiuta di assumerne le responsabilità, trincerandosi dietro i principi deontologici! Troppo spesso il medico, richiamandosi ai ‘valori ippocratici’, di fatto abbandona il malato, perché la morte non è di sua competenza. Come in tutte le situazioni in cui predomina l’ideologia, i sublimi ideali rischiano di diventare uno schermo dietro a cui si nasconde una realtà piuttosto meschina...
Questi attacchi alla deontologia tradizionale, per quanto provocatori ed eversivi, non sono necessariamente insensati. Il loro risvolto positivo sta nel richiedere che si rifletta, nei termini concreti della pratica medica attuale, sulla finalità della professione medica. La medicina curativa, per tradizione, non si occupava della morte, e quindi neppure dei moribondi. Per questo poteva dichiararsi compattamente schierata sul fronte della vita. Ma le nuove condizioni del morire obbligano i sanitari a occuparsi anche della morte dell’uomo. Sarebbe abusivo derivare da questo orientamento una legittimazione a priori di interventi rivolti ad abbreviare la vita di un paziente; ma non è neppure più legittimo appellarsi ai principi ippocratici come alibi per evitare di
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affrontare le questioni scomode che solleva il morire nel nostro tempo. Vuoi dire, dunque, che nella cittadella della medicina si sta creando una breccia, attraverso la quale entrerà l’eutanasia? L’appassionato confronto su questo tema, che è uno dei punti più delicati dell’etica bio-medica contemporanea, si nutre abbondantemente di equivoci. In primo luogo di fraintendimenti semantici, cioè sul significato delle parole, che inquinano la comunicazione tra persone pur animate da un retto intendimento. Non potendo dipanare pienamente la matassa, cerchiamo almeno di definirne i contorni.
Il principale responsabile dei malintesi che si addensano intorno ai comportamenti da tenere nei confronti della vita a termine è la parola stessa: eutanasia. Di fatto il dibattito si svolge più attorno a questa parola che in merito a specifici comportamenti: sì o no all’eutanasia? Bisogna introdurre delle disposizioni legislative che permettano l’eutanasia? È giusto che i medici smobilitino un antico fronte, rendendosi disponibili all’eutanasia? Nei dibattiti di questo genere si crede di parlare della stessa realtà, ma l’intesa è illusoria, in quanto gli interlocutori hanno in mente situazioni compieta- mente diverse. Il termine eutanasia è una tipica ‘parola- attaccapanni’, alla quale ciascuno attribuisce un particolare significato. L’ambiguità della parola suggerisce di tenere separati i diversi problemi per i quali si ricorre al termine eutanasia.
Sono almeno sei ambiti diversi ai quali si fa riferimento con lo stesso termine:
● l’addolcimento degli ultimi momenti della vita del malato (secondo il significato etimologico della parola, eutanasia viene qui a significare una morte armoniosa, senza strazio)
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● la lotta contro la sofferenza, che può comportare il ricorso ad analgesici che fanno perdere coscienza al malato, ovvero, come effetto secondario, possono anche abbreviare la vita, in quanto deprimono la funzione respiratoria
● il prolungamento della vita a ogni costo, correlato al problema dell’astensione terapeutica (è il ‘lasciar morire’ che alcuni preferiscono chiamare eutanasia passiva)
● la soppressione dei ‘tarati’ per ragioni eugeniche, come è stata teorizzata e praticata in Germania durante il Terzo Reich (da questo precedente storico l’eutanasia ha conservato un significato sinistro, che rende quasi impossibile riabilitare la parola)
● la constatazione della morte secondo i criteri clinici, malgrado il perdurare di apparenze di vita
● infine, il porre termine deliberatamente alla vita di una persona, su richiesta esplicita o presunta di quest’ultima, in nome della compassione per chi sta soffrendo in una condizione ritenuta ormai disumana
● il dibattito acquisterebbe il pregio della chiarezza se si parlasse di eutanasia non indiscriminatamente per tutte le situazioni sopra citate, ma in senso specifico e delimitato: per esempio, solo nell'ultimo caso preso in considerazione.
La volontà di morire
La principale spinta a voler legalizzare l’eutanasia, dandole una rilevanza giuridica alla volontà del malato di mettere dei limiti a quanto viene fatto per tenerlo in vita, è la paura di diventare vittima dell’ostinazione medica. È entrato nell’uso parlare a tale proposito di ‘accanimento terapeutico’. La parola accanimento si rivela inappropriata per un duplice motivo. Nel suo significato peggiorativo (ancora una questione semantica sul nostro cammino...), evoca l’infierire sadico su di una vittima inerme. Con ragione i sanitari si
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ribellano al discredito che tale termine riversa sulla loro azione. D’altra parte, una certa forma di accanimento può positivamente essere richiesto e giustificato dalle esigenze terapeutiche: la vittoria sulla malattia domanda talvolta una lotta indefessa, con tutte le energie dell’intelligenza e della volontà. Forse è opportuno distinguere l’accanimento dall’ostinazione terapeutica, da considerare invece una deformazione del sano accanirsi a voler guarire.
Il medico che soggiace all’ostinazione considera come suo dovere esclusivamente quello di prolungare il più possibile il funzionamento dell’organismo del paziente, in qualsiasi condizione ciò avvenga, e ignorando ogni altra dimensione della vita umana che non sia quella biologica; trascurando soprattutto la qualità della vita che in tal modo ottiene e la volontà, esplicita o presunta, del paziente. Nei casi di ostinazione terapeutica, tenere in vita per qualche giorno o per qualche ora in più un paziente terminale diventa per il medico quasi un punto di onore. Il prezzo dell’ostinazione è una somma inenarrabile di sofferenze gratuite, tanto per il morente quanto per i suoi familiari. Questa situazione nuova del morire ha indotto a coniare un neologismo per qualificarla: distanasia, cioè una deformazione violenta e strutturale del processo naturale del morire, una volta che sia stato intensivamente medicalizzato.
Il fantasma del medico ostinato a prolungare la vita vegetativa induce alcuni a contrapporgli la rivendicazione di un ‘diritto a morire’, che viene spesso interpretato come rivendicazione di un procedimento di eutanasia. Il dibattito sull’eutanasia non può che uscirne ulteriormente carico di equivoci. Il diritto a morire è in realtà una barriera frapposta al medico che soggiace alla libido sanandi e che non accetta la morte del paziente, in quanto vi vede la smentita delle sue
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fantasie inconsce di onnipotenza. Se non vogliamo trovarci costretti a difenderci dai medici, bisogna che venga assimilato il principio che l’accresciuta disponibilità di mezzi terapeutici non crea con ciò stesso l’obbligo morale di utilizzarli.
Non sempre in medicina è lecito fare tutto quello che si è in grado di fare. Il ricorso all’etica si giustifica precisamente come una ricerca di aiuto per stabilire dei criteri di discernimento tra le diverse azioni possibili. Per cominciare dalla questione più fondamentale: affinché l’azione del sanitario sia moralmente buona, in quale considerazione deve tenere il desiderio soggettivo del paziente? Cercando di aprirci un sentiero tra gli equivoci terminologici e i fantasmi collegati all’eutanasia, ci imbattiamo nell’inequivocabile problema etico maggiore della vita a termine: la volontà di morire. Non sempre infatti la volontà intende ciò che le parole esprimono. Sollecitare la morte può significare un rimprovero rivolto a familiari e sanitari, o un disperato richiamo ad aspetti della propria situazione, come dolore fisico persistente o solitudine, che vengono disattesi. Ma non possiamo escludere che la volontà di morire possa essere anche una ricerca determinata di porre fine alla propria vita, che si manifesta nel modo più chiaro nella volontà di suicidarsi.
L’etica è chiamata in causa per chiarire l’obbligo di prevenire il suicidio. Esiste il dovere morale di salvare la vita di un altro essere umano contro la sua volontà? In questo caso entrano in conflitto due specie di obblighi: quello di difendere la vita e quello di rispettare la libertà, secondo il principio dell’autonomia personale; mentre il primo giustifica l’intervento, il secondo richiede la non interferenza (nel caso in cui si sia moralmente certi che la decisione suicidiaria è stata presa in effettiva libertà, e non sotto costrizione). Pensiamo, in concreto, al conflitto in cui viene a trovarsi un medico
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chiamato a fornire l’alimentazione forzata a un detenuto politico che abbia deciso lo sciopero della fame a oltranza, facendo così fallire la deliberata intenzione del suo gesto.
Solo poche voci isolate propongono il rispetto assoluto della volontà di commettere il suicidio come condizione per salvaguardare la dignità umana. Più generalmente, l’Occidente ha dato la preferenza all’obbligo di salvare la vita del suicida: in passato ricorrendo per lo più alle argomentazioni religiose che riferiscono il comandamento ‘non uccidere’ anche alla vita del soggetto stesso; oggi prevalentemente con motivazioni secolari, ivi compreso il principio giuridico secondo cui il diritto alla vita va inteso come un diritto ‘assolutamente indisponibile’, tutelato dallo stato anche contro la volontà dell’individuo.
Con particolare mitezza si tende oggi a valutare i tentativi di porre fine alla propria vita da parte di persone che intendono sfuggire ai dolori intollerabili e ai trattamenti disumani nella fase terminale della malattia. Anche in questi casi non sussiste, almeno dal punto di vista dell’etica cristiana, alcun valido motivo per riformulare il giudizio morale che ritiene illecito ogni attentato contro la propria vita. Ma non dovremmo sentirci dispensati dal riflettere sul significato profondo di tali gesti suicidi, nei quali molto spesso si riversa una vibrata protesta contro le condizioni di vita a cui sono costretti i malati terminali. La prevenzione del suicidio non può ridursi allora alle misure coercitive. Deve estendersi piuttosto alla modifica di quelle forme più generali di malessere, le cui radici vanno fatte risalire all’organizzazione sanitaria del morire. Quando una persona giudica la propria vita come invivibile, non basta impedirgli di porvi fine: bisogna offrirgli l’aiuto necessario perché la sua vita ritrovi la qualità umana. Appurato che si tratti di un vera volontà di morire, un’altra
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opera di discernimento è affidata all’etica: la distinzione tra la volontà sana e quella patologica.
Non tutti accettano che possa esistere una sana volontà di morire. Per lungo tempo qualsiasi progetto autodistruttivo nei confronti della propria vita è stato etichettato come moralmente perverso. I comportamenti sociali verso i suicidi, comprendenti persino il rifiuto dì esequie religiose, avevano una funzione prevalente di deterrente, affinché non si innescasse il fenomeno dell’imitazione; la valutazione morale era, in ogni caso, di condanna. A questo atteggiamento ha fatto seguito l’epoca dell’indulgenza, ma solo perché al gesto di chi si toglie la vita è stato conferito un carattere patologico. La conoscenza delle radici socio-psicologiche del comportamento suicida ha aperto la strada a un atteggiamento di maggior comprensione. Peccato... pazzia...: la volontà di morire non può essere coniugata anche con la salute, sia morale che mentale?
L’istinto naturale per la vita e l’obbligo morale di preservarla sono indubbiamente il punto di partenza dell’etica della vita fisica. Ma la volontà di morire non può essere esclusa in assoluto dal progetto di vita umano. Essa può esprimere la positiva accettazione della propria umanità, come essenzialmente limitata nel tempo. La fantasia dell’immortalità è legata all’io; talvolta ne esprime l’ipertrofia: in questo caso, è la fantasia di immortalità, non la volontà di morire, ad avere carattere patologico. Quando l’individuo lascia che si sviluppi anche la dimensione transpersonale, che trascende l’orizzonte dell’io, l’abbarbicamento alla vita corporea viene superato. A un certo livello di autorealizzazione la persona si apre a un’aspirazione mistico-unitiva con il Tutto, anche al di fuori dell’esperienza formalmente religiosa. La volontà di morire può avere anche un risvolto di ribellione all’idolatria
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della vita, caratteristica della cultura immanentista nella quale siamo immersi. Quando la vita fisica è considerata il bene sommo e assoluto, al di sopra della libertà e della dignità, l’amore naturale per la vita si tramuta appunto in idolatria. La medicina implicitamente promuove tale culto, organizzando la fase terminale come una lotta a oltranza contro la morte. Ribellarsi a tale organizzazione ― che per lo più espropria il malato di ogni autonomia, sottoponendolo ai rituali chirurgici e rianimatori dell’ostinazione terapeutica ― può essere anche un gesto di disobbedienza, mentalmente e moralmente sano. Dovremmo aspettarcelo soprattutto dal credente, che la fede ha reso libero dai miti (l’immortalità) e dagli idoli (la vita corporea sopra ogni altro valore).
Scegliere un modello di morte
Per dare forma al morire, più che di leggi e dì norme etiche abbiamo bisogno di modelli. In misura maggiore di quanto amino ammettere i giuristi e gli esperti di etica, la vita morale delle persone si struttura modellandosi. Per quanto riguarda la morte, la varietà dei comportamenti che possono fungere da modello è enorme.
Una raccolta di biografie curata da H.J. Schultz si limita a raccontare gli ultimi giorni di una quindicina di personaggi diversi, rappresentativi di varie culture ed epoche storiche: da Albert Schweitzer a Mozart, da Pascal a Seneca (Letzte Tage, Kreuz Verlag, 1983). Anche se in numero ridotto, questi racconti sono sufficienti a darci la misura della molteplicità di stili di morte esemplari. Forse nessuno di questi resoconti degli ultimi giorni interpella i nostri contemporanei come quello che riguarda Sigmund Freud.
È noto che Freud morì per un cancro che gli fu diagnosticato
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nel 1923, a sessantasette anni. Sostenuto nelle sue decisioni da Max Schnur, il suo medico di fiducia, Freud affrontò con coraggio la lotta contro la malattia: fino al 1939, l’anno della sua morte, subì trentatré interventi chirurgici per far fronte alla devastazione progressiva causata da quello che egli chiamava ‘das Ungeheuer’ cioè ‘il mostro’. Sedici anni di lotta continua; finché il 21 settembre 1939, Freud convoca il dottor Schnur per dirgli: “Caro Schnur, lei si ricorda del nostro primo colloquio? allora mi ha promesso che non mi avrebbe lasciato in asso quando sarebbe giunto il momento. Ora è solo tormento e non ha più alcun senso”. Lo stesso giorno, il 21 settembre, il dottor Schnur somministra al suo paziente, che finora ha sempre rifiutato ogni calmante, una forte dose di morfina e due giorni dopo Freud, senza svegliarsi, muore. È una narrazione di morte che si colloca con naturalezza nel grande filone dello stoicismo, insieme a Seneca, Marco Aurelio, Epitteto (nonché di altri stoici nostri contemporanei).
L’autodeterminazione della persona è il centro di gravità di questo modello. Freud mette in atto una strategia a lungo termine per attuare quello che ritiene un suo diritto: strutturare la propria morte. Dare alla propria vita e alla propria morte la forma e i limiti ritenuti più opportuni non è una benevola concessione, ma un diritto del paziente, che equivale alla sua rivendicazione a essere soggetto. Ciò permette la personalizzazione della morte e del morire.
La struttura della morte di Freud risponde ai suoi valori, in particolare a quello centrale della sua vita: la razionalità, il giudizio chiaro. Scriveva al fratello: “La vita non mi dà più gioia, da diversi punti di vista sono un relitto, ma sono in possesso delle mie facoltà intellettuali, lavoro ancora”. E al dottor Schnur ha comunicato di non volere i calmanti affermando:
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“Preferisco pensare tra i tormenti che non pensare”. La sua morte è stata coerente con la sua gerarchia di valori. Può darsi che per un altro il valore dominante non sia quello di conservare l’uso della ragione, la lucidità fino alla fine, ma piuttosto di essere libero dal dolore. Per questo le morti, quando sono personalizzate, non si assomigliano le une alle altre. Un altro elemento importante che troviamo nel racconto della morte di Freud è la negoziazione con il medico. Il medico e il malato non sono due nemici, non prevaricano l’uno sull’altro; il medico non impone la sua etica, il malato non fa prevalere il suo punto di vista, ma si confrontano e trovano insieme, in maniera dialogica e negoziale, la giusta soluzione. Due posizioni diverse, ma non one up e one down: sono tutt’e due sullo stesso piano.
Nel sottofondo di questo modello riconosciamo i tratti caratteristici della modernità: il valore dell’individuo, la soggettività, il diritto all’autodeterminazione; in una parola l’illuminismo. Può essere istruttivo confrontarci con la morte dell'eroe culturale’ dell’Illuminismo: Immanuel Kant. Lo scrittore inglese Thomas de Quincey, che aveva un’ammirazione sviscerata per Kant, ne ha lasciato una relazione accurata: Gli ultimi giorni di Immanuel Kant (Adelphi, 1983). De Quincey ha scritto questa relazione nel 1827, quindi appena una ventina d’anni dopo la morte di Kant, che è avvenuta nel 1804, basandosi sulle relazioni di Vasiansky che aveva assistito Kant in tutta la fase terminale della sua vita. Anche qui troviamo il modello di una vita e di una morte dignitosa. Sono altamente rappresentati l’autodeterminazione individuale e lo stile di vita conforme ai valori personali.
Il racconto presenta anche un episodio singolare. Il vecchio Kant, che aveva anche enormi difficoltà a esprimersi ― Vasiansky interpretava le parole che Kant balbettava ― riceve
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il suo medico; questi vorrebbe che Kant si sedesse, ma il filosofo rimane in piedi. Racconta de Quincey, con le parole di Vasiansky: “Intanto continuava a tenersi in piedi, ma si vedeva che era sul punto di cadere a terra. Allora avvertii il medico, e ne ero ben convinto, che Kant non si sarebbe seduto, per quanto potesse soffrire rimanendo in piedi, finché non si fossero seduti i suoi ospiti. Il dottore sembrava dubbioso, ma Kant, che aveva udito quel che avevo detto, con uno sforzo prodigioso confermò la mia spiegazione del suo comportamento e pronunciò distintamente queste parole: ‘Dio non voglia che io cada così in basso da dimenticare i doveri dell’umanità’”.
Certamente nel termine Humanität usato da Kant c’è il significato arcaico di ‘cortesia’, ‘gentilezza’; ma non soltanto questo. C’è un riferimento ai doveri dell’umanità, doveri verso se stessi, ma anche doveri verso gli altri: esistono i doveri della co-umanità. La strutturazione della propria fine non è soltanto un diritto, ma comporta diritti e doveri. Per dirla con il vecchio Kant: Dio non voglia che noi strutturiamo la nostra vita ― e le decisioni di fine vita ― soltanto sul diritto, anche se sappiamo che il diritto di dare una forma personale alla vita e alla morte è stato acquisito dalla nostra cultura. Vorrebbe dire che saremmo caduti tanto in basso da dimenticare anche i nostri doveri nei confronti dell’umanità.