Una medicina per chi muore

Una medicina per chi muore

Il cammino delle cure palliative in Italia

a cura di Oscar Corli, presentazione di Sergio Paderni

Città Nuova Editrice, Roma 1988

pp. 11-15

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INTRODUZIONE

Quando la medicina si fa materna

C’è voluto molto tempo. E soprattutto la sofferenza di innumerevoli persone. Sono state necessarie delle battaglie, ingiuste ed eccessive come tutte le battaglie. Ci si è scagliati contro i medici, accusandoli di indulgere all'«accanimento terapeutico», di aver perso il senso della misura e addirittura l’originaria ispirazione della loro professione. Si è dovuto passare attraverso massicce campagne di opinione, che hanno fatto sorgere organizzazioni rivolte a rivendicare all’individuo il diritto a una morte degna, sottraendosi all’arbitrio dell’apparato medico. È stato necessario che si arrivasse addirittura a proposte di una legislazione favorevole a certe forme di eutanasia, in nome di un’umanizzazione del morire. Siamo dovuti passare per queste strade ambigue e tortuose, ma alla fine qualcosa è successo.

Ci siamo accorti, finalmente, di quanto si muoia male nella nostra società. Per tanti motivi: non ultimo quello culturale, vale a dire la rimozione della morte come momento inevitabile e necessario della vicenda umana. Ma si muore male anche a causa della medicina stessa. Non per colpa delle sue insufficienze, bensì — paradossalmente — a causa della sua efficacia. Abbiamo oggi nell’Occidente sviluppato e tecnologico una medicina idealmente efficace, che riesce a procurare la guarigione in una quantità di malattie, che in passato sarebbero risultate fatali. Ma questa medicina non può guarire sempre: è inevitabile. Per quante volte si riesca a salvare la vita di una persona, alla fine ci sarà pur sempre un malato che non guarisce e che va verso la morte. Ora, la nostra straordinaria medicina curativa — di cui siamo giustamente

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fieri, che vogliamo promuovere e potenziare — non è adatta ad assistere il paziente che muore. Per questo oggi si muore così male. Ce ne siamo accorti e abbiamo cominciato a cambiare strada. Questo è il fatto nuovo, di enorme importanza.

Sono note le cure palliative. Per la realtà italiana sono una novità, e questo libro è tra le prime pubblicazioni che le facciano conoscere al grande pubblico. Non solo teoricamente, o con la formulazione dei programmi, ma esponendo ciò che in questo campo si è cominciato a fare. I protagonisti delle cure palliative in Italia si presentano: raccontano come è loro riuscito di cambiare la qualità della vita delle persone che non guariscono, chiariscono al lettore — e prima ancora a se stessi — che tipo di lavoro multidisciplinare è necessario svolgere per soddisfare i bisogni di un malato che non va verso la guarigione, ma verso la morte.

Non hanno trionfalismi di nessun genere. Quello che si sta facendo è poco più di un secchio d’acqua per annaffiare il deserto. Non si ritengono migliori degli altri: sono semplicemente medici (e infermiere, psicologi, assistenti sociali, cappellani, volontari...) che hanno coscienza di compiere ciò che è richiesto dalla loro professione, quando questa si rivolge a questa categoria particolare di malati. Non hanno formule risolutive, anche se cercano di trarre tutto il profitto possibile dalle esperienze che in alcuni Paesi sono in corso da parecchi anni. Non fanno crociate. Però hanno fiducia di far parte di un «movimento»: sì, proprio una di quelle inarrestabili tendenze di pensiero e di azione che nascono quando i tempi sono maturi, rompono schemi culturali che sembravano intangibili, si impongono con la ovvietà delle cose che avrebbero sempre dovuto essere. Un movimento trascina. I pionieri delle cure palliative oggi in Italia osano esprimere il desiderio, con modestia ma con fermezza, che il loro esempio sia contagioso; che molti arrivino a pensare, alla maniera di sant’Agostino: si isti et istae, cur non ego?

Forse si può pensare che il termine «cure palliative» non sia felice. Qualcuno lo ha detto. Nel gioco delle associazioni

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linguistiche «palliativo» rimanda a qualcosa di inefficace. E poi, come si colloca questo tipo di attività medica rispetto al resto della medicina? È una specialità medica? Una disciplina? Oppure, addirittura, l’opposto della medicina, in quanto rinuncia a guarire? Si tratta forse di creare, sotto l’egida della medicina palliativa, un’agenzia umanitaria su cui scaricare gli insuccessi della medicina curativa? Gli interrogativi sono legittimi, le riserve giustificate.

Il ricorso alla terminologia collaudata e accettata in altri Paesi — in primo luogo quelli anglosassoni, che parlano correntemente di «Palliative Medicine» e di «Palliative Care» — ha il vantaggio di legittimare l’appoggiarsi alle realtà, scientifiche e istituzionali, che altrove hanno preceduto le nostre realizzazioni. Le riserve nei confronti del nome sono particolarmente giustificate se qualcuno interpretasse la palliazione come un’attività opposta rispetto a quella terapeutica. Perché la medicina palliativa non è altro che la medicina tout court. L’aggettivo «palliativo» è strumentale: vuol aiutare la medicina a recuperare una sua dimensione, che è stata messa in ombra dagli sviluppi recenti. Quando la medicina se ne sarà riappropriata, l’aggettivo potrà scomparire nel sostantivo, come il lievito nella pasta. E chi farà della palliazione potrà dire che sta semplicemente esercitando l’arte medica. Prima però di rinunciare all’aggettivo qualificativo, dovremo essere sicuri che la «controrivoluzione» necessaria per far ritrovare alla medicina la strada che la porta al paziente come essere umano sia stata compiuta.

La medicina delle cure palliative è la medicina di sempre. Il saggio di O. Corli lo illustra diffusamente. È un modo di esercitare l’arte terapeutica che, rispetto a ciò che conosciamo sotto il nome di medicina, ha tuttavia un carattere di complementarietà. Così come il maschile e il femminile sono due modi diversi, ma complementari, di realizzare la comune natura umana.

L’accenno al femminile non è fatto per caso. La medicina palliativa deve molto alle donne. Sono donne le leaders carismatiche del movimento: Dame Cecily Saunders, la fondatrice

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del St. Christopher’s Hospice; Elisabeth Kübler Ross, che ha elevato a conoscenza scientifica la psicologia del morente. È «femminile» la sensibilità che ha permesso di vedere la sofferenza del malato terminale: una sofferenza che non si limita al dolore fisico provocato dalle malattie degenerative, ma comprende dimensioni psicologiche, sociali, spirituali. Una sofferenza che era tanto ben nascosta, proprio in quanto era sotto gli occhi di tutti...

Possiamo chiamare «femminile» una medicina che non si limita a curare, ma si prende cura. Ricorre in modo privilegiato ai più antichi ed essenziali strumenti terapeutici: la parola e la mano. Ambedue come ponti, per creare un varco di comunicazione. E se qualcuno avesse il cattivo gusto di fare dell’ironia sulla medicina delle cure palliative, presentandola come «la medicina del tener la mano», gli si ricordi che il contatto fisico è il primo dei bisogni dell’essere umano quando viene al mondo: nessuno stupore che sia anche l’ultimo a scomparire.

Questa medicina di sapore materno non va semplicemente contrapposta all’altra, quella curativa. Se non altro perché il controllo del dolore, che è il primo imperativo delle cure palliative, rimane un atto medico che non può fare a meno delle conoscenze farmacologiche più sofisticate. Il trapasso dalla dimensione curativa a quella palliativa della medicina è graduale. Il discernimento dei tempi e dei modi della transizione dall’una all’altra è riservato più all’«esprit de finesse» che all’«esprit de géometrie» del terapeuta.

Per cogliere i rapporti che intercorrono tra le due dimensioni ci può essere utile ancora una volta il parallelismo tra il maschile e il femminile. Queste sono, sì, due modalità diverse e complementari di realizzare la natura umana; ma hanno bisogno l’una dell’altra. Non solo nell’umanità come genere, ma anche nella stessa persona: la donna migliore è quella che non ha represso il suo «animus», ma piuttosto quella che l’ha accettato e integrato. Lo stesso vale per l’uomo con la sua «anima». Analogamente, possiamo dire che la dimensione curativa e quella palliativa della medicina non devono escludersi, ma completarsi reciprocamente.

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Un’ultima osservazione a proposito della collocazione di questo volume dedicato al cammino delle cure palliative in Italia nella collana «La piena salute». Inserire la medicina per chi muore nell’ambito della piena salute non è una forzatura. Al contrario, i due temi si richiamano e si illuminano a vicenda. La salute non è piena, se è costruita sulla rimozione della morte, se esclude il naturale procedere del corpo verso la propria fine. La salute, invece, che sappia guardare in faccia la morte e assumerla, si trova chiamata a sublimarsi nella «salvezza», in armonia con il duplice significato di salus. La medicina per il malato che non va verso la guarigione, ma verso la morte, trova a sua volta nella salute un importante orientamento. La medicina delle cure palliative è e rimane un servizio alla salute. Non, dunque, una medicina per il morente o per aiutare a morire, ma una medicina per l’uomo, che rimane un vivente fino alla morte. Anzi, in una prospettiva antropologica spirituale, rimane — piuttosto — un vivente anche dopo la morte.