Morire da cristiani

MORIRE DA CRISTIANI. Per una nuova "arte del morire" e un servizio di speranza a chi muore

a cura di Sandro Spinsanti

inserto del n. 93, marzo 1979, pp. 1-31

[seconda di copertina]

QUESTO INSERTO

è dedicato a un momento decisivo dell’esistenza umana e cristiana: la morte. Ma non la morte come una realtà estranea a noi, di cui possiamo parlare e discutere, bensì come realtà da affrontare e «vivere»: il morire, come evento personale, sia individuale che collettivo. Come si muore oggi? È come si moriva in un passato «cristiano», ove pur fra le contraddizioni di una fede sempre vissuta parzialmente si era creata una cultura della «buona morte»?

La prima parte si sofferma ad analizzare modalità attuali e forme storiche del morire, per concludere alla necessità di rinnovare la presenza della Chiesa a fianco del morente.

Alcuni risultati di recenti ricerche psicologiche dovranno essere tenuti presenti per dare un aiuto concreto alle persone che sono in prossimità della loro morte. Questi appunti costituiscono la seconda parte dell’inserto.

Cosa dice la Bibbia sul morire? Sorprenderà conoscere che anche nell’ambito della rivelazione si sia andati incontro alla morte senza alcuna speranza nell’al di là, pur avendo trascorso una vita nel dialogo fiducioso con il Dio dell’alleanza.

Ci è dato di valutare così la novità cristiana, trattata sobriamente nella terza parte, e di capire tante persone, anche religiose, che rimangono chiuse rispetto alla vita eterna.

La quarta parte accenna ai nuovi compiti che attendono la Chiesa, sia come ministero sacerdotale che come collaborazione di ogni credente.

L’inserto si conclude con alcune annotazioni sui riti e sulle formule che ci sono offerti dal libro rituale Sacramento dell’Unzione e cura pastorale degli infermi. Ove si vuol seriamente ripensare e rinnovare l’azione pastorale per i morenti si dovrà valorizzare questo recente libro liturgico.

INDICE

3 Morire, oggi, da cristiani

5 I. LA CONDIZIONE UMANA: LA MORTE HA CAMBIATO FACCIA?

La morte al plurale

La «buona morte» e la «bella morte»

La dolce morte dell’uomo-massa

Morte e presenza

15 II. PSICOLOGIA DEL MORENTE

Psicologi incontro ai morenti

Rifiuto

Rivolta

Patteggiamento

Depressione

Accettazione

17 III. UNA SPERANZA CHE VINCE LA MORTE

La morte dell’uomo in dialogo con Dio

«Battezzati nella morte di Cristo»

23 IV. NUOVI COMPITI ECCLESIALI

Parlare o tacere? Comunicare!

La presenza della comunità al morente

Il viatico

La pastorale dei morenti: il coraggio della speranza

28 V. PER CELEBRARE IL «MORIRE» DI UN CRISTIANO

Il viatico

Raccomandazione dei moribondi

Alle pagine 26-27 vi è una originale proposta pastorale di Guido Davanzo, per preghiere in preparazione alla propria morte, da recitarsi in occasione della morte.

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MORIRE, OGGI, DA CRISTIANI

Qualcuno ci pensa e forse qualcuno lo vuole.

Ma è concesso dalle persone che ti vogliono bene, da quelle che si sono prese cura della tua persona e persino dai responsabili della Chiesa?

Attorno a un morente vi è un gran daffare di medici e infermieri, vi è un parlottare di parenti e amici; vi è la presenza sfuggente di un prete chiamato per dare i conforti della religione («così anche questo dovere è fatto» dice il più religioso della famiglia). Ma chi pensa a colui che muore? Chi spia e intuisce i sentimenti che lo animano e i pensieri che lo preoccupano? Chi ha il coraggio di difenderne il silenzio, di sedersi accanto con tacita solidarietà, di aprirlo alla confidenza accogliendone le parole, di ricordargli ciò che nella vita gli ha dato la speranza, di annunciargli il vangelo di salvezza, di aiutarlo con la preghiera?

È inutile lamentare la nuova disumanità del morire, recriminare sulla mancanza di sensibilità spirituale di coloro che gestiscono l’estinguersi della vita. Ciascuno in questa occasione svolge un ruolo che sembra essere stabilito da un codice di comportamento che nessuno ha mai formulato ma che tutti rispettano. Il consenso attorno a queste regole è tale che sembra siano giuste e che sempre siano esistite. Invece scopriamo che nei secoli scorsi si moriva diversamente, in modi più umani e cristiani.

Si deve alla tradizione cristiana l’aver costruito intorno al morente una atmosfera di serenità di partecipazione corale di intensa preghiera. Compete ai cristiani ritrovare questi valori e tradurli oggi in forme concrete. Il morire poteva essere «celebrato» nella fede e con speranza perché l’esistenza era vissuta nell’attesa fiduciosa del suo «passaggio». La morte era familiare e la preoccupazione di una «buona morte» era nelle aspirazioni dei credenti. Certamente non idealizziamo periodi e ambienti in cui il pensiero della morte poteva divenire ossessivo e alienare dalla vita. Cerchiamo alcuni valori autenticamente fioriti dalla fede cristiana e tradotti in forme culturali, pastorali e liturgiche.

C’è quasi tutto da rifare in questo settore. Dal comprendere nella fede e accettare con amore la finitezza della nostra vita, all’esprimere con serena fiducia la realtà della morte nel nostro conversare tra credenti; dal cambiare i «rituali» familiari e sanitari attorno al morente creando spazi di verità e di preghiera, al trovare parole valide e forme celebrative che annuncino la grande speranza inaugurata dal Cristo Signore.

Noi non possiamo programmare il nostro morire personale. Possiamo solo pensarlo nella fede e prepararlo con la preghiera. Ma ci è data la possibilità di aiutare gli altri in questo passaggio definitivo. Esso ha sempre un aspetto tragico e spaventoso, perché la morte ha in sé qualcosa di innaturale; ma esso è anche il momento nel quale si afferma la concretezza della redenzione cristiana. Ciò che ci sarà dato di fare e dire per dare un volto cristiano al morire dei nostri fratelli diverrà la promessa migliore per la nostra «buona morte».

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TESTI SULLA MORTE

«Appena sentono il segnale (dell’agonia), tutti i fratelli accorrono; e benché presso di noi non sia mai permesso correre, in questo caso tutti corrono, come in caso d’incendio: è addirittura un ordine... Tutto il convento accorrerà, perché deve sempre essere presente al momento della morte».

(rubrica di un antico rituale di Saint-Ouen)

«Non capisco — mi disse la signorina Vauthier tutta agitata. — Vostra madre è così credente, così pia e ha tanta paura della morte! — Non sapeva che certe sante sono morte urlanti e convulse? Mamma, d’altronde, non temeva né Dio né il diavolo: temeva solo di lasciare la terra. Mia nonna fu cosciente del trapasso: — Ora mi berrò un ultimo ovetto, e poi me ne andrò a ritrovare Gustave —. Non aveva mai vissuto con molto ardore, e a ottantaquattro anni vegetava nella noia più tetra. Morire non la scomodava. Mio padre mostrò altrettanto coraggio: — Di’ a tua madre di non far venire il prete. Non voglio recitare commedie — mi disse. E mi diede qualche istruzione su certe questioni pratiche. Rovinato, inasprito, accettò serenamente il nulla, come nonna accettò il paradiso. Mamma amava la vita come l’amo io e, davanti alla morte, provava la mia stessa rivolta. La religione non poteva aiutare mia madre, come non può nulla per me la speranza di un successo postumo. Sia che l’immaginiamo celeste, sia terrestre, l’immortalità non consola della morte, quando teniamo alla vita».

(Simone de Beauvoir, Una morte dolcissima)

«Tradizionalmente, la persona più protetta contro la morte era quella che la società aveva condannato alla pena capitale. L’eventualità che l’uomo rinchiuso nel braccio della morte s’impiccasse da solo era sentita come una minaccia della società; sarebbe stato un oltraggio per l’autorità se egli si fosse tolta la vita prima del termine prescritto. Oggi, l’uomo più protetto dalla possibilità di stabilire la scena della propria morte è il malato in condizioni critiche. La società, agendo attraverso il sistema medico decide quando e dopo quali offese e mutilazioni dovrà morire. La medicalizzazione della società ha posto fine all’epoca della morte naturale: L’uomo occidentale ha perso il diritto di presiedere all’atto di morire.' La salute, cioè il potere di reagire autonomamente, è stata espropriata fino all’ultimo respiro. La morte tecnica ha prevalso sul morire. La morte meccanica ha vinto e distrutto tutte le altre morti».

(Ivan Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute)

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LA CONDIZIONE UMANA: LA MORTE HA CAMBIATO FACCIA?

La morte di un essere umano non è solo un episodio di una vicenda biologica: un organismo che nasce, si sviluppa, deperisce e si dissolve, per rientrare nel ciclo della vita sotto altre forme. Per l’uomo la morte acquista significati diversi: è enigma, provocazione, insulto, passaggio o perdita irreparabile. Forse tutta l’avventura dell’uomo, che si distacca dalla natura come essere culturale, può essere ricondotta al tentativo di venire a capo della morte.

La morte al plurale

La morte è una parte di quel mysterium fascinans et tremendum che non è dato all’uomo di contemplare direttamente. L’alternativa al vis-à-vis è la maschera. Tante maschere messe sul volto della morte, diverse nel tempo e nello spazio. Non esiste un modo unico di considerare la morte, e quindi di morire. Più che di morte umana, bisognerebbe parlare di «morti» umane. Una civiltà, come quella etrusca, sembra essere costruita sul pensiero ossessivo della morte; un’altra, come la luminosa civiltà greca del periodo classico, ha respinto il pensiero della morte ai margini del proprio interesse; un’altra ancora cerca in tutte le maniere di eliminarne le immagini dalla vita quotidiana.

La civilizzazione che — amandola od odiandola — riconosciamo come nostra risponde di più a questo ultimo tipo. È certamente una semplificazione, ma è una buona approssimazione della realtà dire che nella nostra società la morte è diventata un tabù. La parola a uno storico, Philipe Ariès, che in numerose opere si è occupato dei cambiamenti di atteggiamento nei confronti della morte in Occidente nell’ultimo millennio: «La morte è diventata un tabù, una cosa innominabile e, come una volta il sesso, non bisogna nominarla in pubblico. Nel XX secolo la morte ha rimpiazzato il sesso come principale proibizione. Una volta si diceva ai bambini che nascevano in un cavolo, ma essi assistevano

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alla grande scena degli addii, nella camera e al capezzale del morente. Oggi i bambini sono iniziati, fin dalla più giovane età, alla psicologia dell’amore e della nascita, ma quando non vedono più il nonno e domandano il perché, in Francia si risponde loro che è partito per un viaggio in terre lontane, e in Inghilterra che riposa in un bel giardino in cui spunta il caprifoglio. Non sono più i bambini che nascono nei cavoli, ma i morti che scompaiono tra i fiori».

Come mai siamo arrivati a tacere sistematicamente della morte, a negarne in maniera organizzata l’evento, a rimuoverla dal campo della nostra coscienza? Il fenomeno della diffusione del tabù della morte può essere letto in modi diversi. Qualcuno pensa che l’evacuazione della morte sia da attribuire al predominio dello spirito capitalistico che cementa il nostro ordine sociale. In casa del capitale è proibito parlare di morte! Quando i rapporti esistenti sono solo quelli utilitaristici, secondo la logica della mercificazione, l’individuo che cessa di produrre e di consumare è escluso dal patto sociale. O forse, per capire come si è giunti in Occidente a questo imbarazzo muto di fronte alla morte, bisognerà ricorrere a un’altra categoria, cioè a quella secolarizzazione che ha invaso progressivamente tutte le aree della vita e del pensiero che una volta si ispiravano alla religione. Bisognerà risalire alla mancanza di fede nella sopravvivenza personale dopo la vita terrena per spiegare la rimozione della morte dal nostro orizzonte quotidiano?

È proprio dello storico trattare lo evolversi degli atteggiamenti nei confronti della morte all’interno di una civiltà: come viene rappresentata, negata o trascesa. Anche l’antropologia culturale ci dà una visione della pluralità della morte, ma per un’altra strada, cioè comparando diverse culture. Seguendo l’antropologo Louis-Vincent Thomas possiamo spingerci a un confronto tra l’atteggiamento di fronte alla morte che domina nelle società tradizionali africane e quello proprio della nostra area occidentale. Nel mondo africano il gruppo si fa carico dell’individuo dalla nascita alla morte: lo integra ai differenti ambienti sociali, moltiplica i riti di passaggio, lo assiste e lo rassicura in caso di malattia, insegna come morire, organizza funerali e lutto. Nel nostro, al contrario, il soggetto si trova isolato di fronte ai suoi problemi (insicurezza, angoscia, traumi): muore solo, non è più circondato da simboli e riti che tranquillizzano, niente è previsto per aiutarlo a fare il lutto per la perdita della vita propria ed altrui.

Il confronto si risolve a vantaggio delle culture tradizionali africane (o di altre aree geografiche, come il Brasile: anche questo studio comparativo è stato fatto): nelle culture tradizionali i problemi legati alla morte sono risolti in modo da salvaguardare gli interessi tanto dell’individuo che del gruppo. Le culture tradizionali: vale a dire, anche quella cultura contadina che abbiamo alle spalle e che sopravvive solo in isole assediate dal dilagare della civiltà urbana e dei consumi.

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Esistono società in cui la risposta ai problemi della morte è dettata da una saggezza che noi sembriamo aver pèrduto. È necessario che la società industriale ripensi simultaneamente il problema della vita e quello della morte. Non si può lottare per una vita migliore, per una società nuova, senza rifiutare il tabù della morte, in quanto prodotto di un potere oppressivo che impoverisce l’uomo di un momento fondamentale del suo vissuto.

La 'buona morte' e la 'bella morte'

Anche il modo di rappresentare la «morte ideale» si è trasformato. Nel passato più recente la morte era una specie di grande spettacolo, la ultima autorappresentazione che l’individuo dava in quanto persona. Nel suo letto, circondato dai propri cari, il morente prendeva congedo definitivamente. Per l’ultima volta rivolgeva loro parole ed esortazioni, che ognuno avrebbe conservato come un prezioso testamento spirituale. Dava le ultime disposizioni, cercava di mettere ordine nella propria vita davanti a Dio e davanti agli uomini. Il morente era il protagonista della propria morte. La «bella morte» era un suo diritto-dovere; se egli stesso non si accorgeva dell’approssimarsi dell’ora fatale, spettava ad altri avvertirlo. Morire era un’arte; esistevano dei libri di spiritualità, detti ars moriendi (arte del morire), che l’insegnavano. Un’arte, del resto, che si apprendeva dal vero, guardando morire, fin da piccoli, i vecchi e i meno vecchi della propria famiglia. Nessuno pensava che fosse indecente ammettere i bambini nella camera dei morenti; si pensava piuttosto che fosse disumano tenerli fuori.

Nella cristianità la «buona morte» era una delle aspirazioni più legittime del devoto. S. Giuseppe, assistito al momento della morte da Gesù e da Maria, ne era stato promosso patrono. Esisteva un Esercizio della buona morte, indulgenziato da Pio X nel 1902, che veniva puntualmente ripetuto durante ritiri ed esercizi spirituali. Ci si preparava agli ultimi momenti, accettandoli in anticipo nella forma che Dio vorrà. L’ideale era di affrontare il trapasso con coscienza lucida, per avere l’opportunità di pentirsi e di affidarsi alla misericordia di Dio. La morte improvvisa era considerata come la massima sciagura. Se essa risparmia dalla lenta agonia, con le sue sofferenze fisiche e morali, priva però della sicurezza dei sacramenti. La morte improvvisa era per il cristiano la «cattiva morte» per definizione. Fin dal Medio Evo S. Cristoforo era invocato contro la «cattiva morte». Un uso che è sopravvissuto nelle immagini del santo applicate al cruscotto dell’automobile. Dalla sua protezione ci si aspetta che tenga lontano non solo gli incidenti fatali, ma soprattutto quella «cattiva morte» che priva del viatico.

Oggi «la morte più bella» tende

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ad essere, nell’immagine sociale più accettata, la morte di cui neppure ci si accorge: una morte rapida, istantanea, non necessariamente violenta e brutale, ma in ogni caso una morte che non tiri per le lunghe. Il trapasso ideale è quello in cui il morente ignora la propria morte, come la morte nel sonno. La morte per infarto acuto è diventata il simbolo della morte più auspicabile. Molti, anche credenti, augurano a se stessi una morte di questo tipo. Non è solo per paura del dolore fisico e delle angosce morali che accompagnano la morte. Con la morte improvvisa si evita la degradazione dei rapporti umani che spesso affligge coloro che sono affetti da lente malattie degenerative. Oggi ci troviamo infatti a dover fare i conti con un ambiente sociale che apprezza l’abilità con cui si sa nascondere al morente il suo stato e biasima come crudeltà mentale l’informarlo. La massima ambizione di coloro che circondano il morente è di riuscire ad ottenere che la morte sopraggiunga «senza che egli si sia sentito morire». A questo fine il malato deve essere trattato come un minorenne, che il coniuge o i parenti prendono a carico, separandolo dal resto del mondo. Le motivazioni di coloro che scelgono il partito del silenzio possono essere nobili e rispettabili; resta il fatto che in tale contesto mancano i presupposti per la «buona morte» di un tempo. Perché allora non augurarsi «la morte più bella»?

Augurarsi la «morte più bella» — la morte improvvisa, senza preavviso e sofferenza — è la conclusione cui siamo portati in una società che nasconde a sé e ai morenti questa ultima realtà, perché non sa dare ad essa un senso. Ridare parola e significato a questo momento decisivo è anche inventare un modo umano di morire, è proporre una cultura in cui vi sia spazio per la «buona morte».

La dolce morte dell’uomo-massa

«Sentendosi morire...»: quanti racconti di morti esemplari iniziano con queste parole! Il cavaliere e il monaco medioevale, il contadino che vive in armonia con i cicli della natura, il malato sotto trattamento medico, ma di una medicina che ancora sapeva accettare i limiti della vita: queste persone si sentivano morire. L’avvertimento era dato da segni naturali, o più spesso ancora da un’intima convinzione.

Il morente di oggi non sente più l’avvicinarsi della morte. Non sa più riconoscere i messaggi che gli vengono dal suo corpo, col preannuncio della fine. In parte perché non vuol riconoscerli. Ma anche se lo desiderasse, non può più farlo. Tra lui e il suo corpo si è inserita la macchina,

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cioè la medicina tecnologica. La medicina moderna ha spinto la sua azione terapeutica fino a fare del decesso un problema prevalentemente tecnico, connesso con l’arresto delle cure. Essa dispone oggi degli strumenti per prolungare quasi indefinitamente la sopravvivenza delle funzioni vitali dell’organismo, anche dopo che la coscienza si è spenta irreversibilmente. I casi estremi sono quei corpi, trapassati da aghi e da tubi, che non finiscono mai di morire. Ma anche quando l’accanimento terapeutico non produce queste mostruosità, sempre più la fine della vita dipende discrezionalmente dai medici (vale a dire, concretamente, dall’attrezzatura dell’ospedale e dalle possibilità finanziarie del paziente). Sulla decisione dell’équipe ospedaliera, che deve prendere la decisione di prolungare il trattamento quando si è instaurato un processo mortale medicalmente irreversibile, pesano quattro ordini di considerazioni:

― il rispetto della vita, che spinge il medico a prolungarla il più possibile;

― il senso umanitario, che agisce in senso contrario per abbreviare le sofferenze;

― la considerazione dell’utilità sociale dell’individuo (giovane o vecchio, celebre o sconosciuto);

― l’interesse specifico del caso per la scienza medica.

Il momento della morte è un’incognita che dipende dalla combinazione di questi fattori. «Nella sua forma estrema, la ‘morte naturale’ è oggi quel punto in cui l’organismo umano rifiuta ogni altra applicazione terapeutica. Una persona muore quando l’elettroencefalogramma piatto indica che le sue cellule cerebrali sono definitivamente inattive: non esala il suo ultimo respiro, non muore perché il suo cuore ha smesso di battere. La morte approvata dalla società è quella che avviene quando l’uomo è diventato inutile non solo come produttore ma anche come consumatore. È l’istante in cui il consumatore, educato con grandi spese, deve essere alfine cancellato come una perdita secca. Morire è la forma estrema di resistenza del consumatore» (I. Illich). Mors certa, hora incerta, dicevano gli antichi. La morte è rimasta certa, ma l’ora è sempre meno incerta: l’ora è prescritta. Ma sfugge al morente. Essa resta in mano all’équipe curante: alle sue capacità tecniche e alle sue prognosi cliniche. E se il personale ospedaliero sa bene l’ora della morte, non la dice: mors certa, sed tacita. La dissimulazione tende a generalizzarsi. I segni della morte sfuggono al malato; i medici e le infermiere, che sono in grado di interpretarli, preferiscono nasconderglieli.

In armonia con questa atmosfera di clandestinità che avvolge il trapasso è lo stile di morte che si domanda all’uomo tecnologico. Allo stoico era richiesta la dignità, al cristiano la santità; dall’uomo moderno ci si aspetta

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la discrezione. La morte accettabile è quella che non mette in imbarazzo quelli che sopravvivono. L’ideale è di scomparire in «pianissimo», in punta di piedi. La dolce morte dell’uomo-massa, appunto, come è stata chiamata.

Morte e presenza

Dalla morte in pubblico, a casa propria e circondato dai propri cari, in una specie di cerimonia rituale, alla morte impersonale in un’anonima camera d'ospedale: non cambia solo lo scenario della morte, ma quel rapporto di fondo del morente con il suo ambiente che conferisce al suo morire una qualità umana. Il morente rischia così di conoscere l’una o l’altra delle due situazioni estreme di frustrazione: o la miseria del morire in solitudine, o la miseria di non avere lo spazio di solitudine necessario per morire. Chi muore ha bisogno di avere, sul punto di affrontare il momento angosciante del distacco dall’esistenza, la vicinanza rassicurante di qualcuno. Questo ruolo di conforto, che è assicurato soprattutto da coloro con cui il morente è più legato affettivamente, nella nostra società è minacciato dal costume di nascondere in modo sistematico al morente la sua condizione. La presenza dei propri cari non conforta più, perché è impregnata di menzogna. La maggior parte dei malati gravi sa che sta per morire. Il malato lo intuisce dalla mutata attenzione, dal modo nuovo e diverso con cui la gente lo avvicina, dalle voci abbassate o dal fatto che il personale dell’ospedale tende ad evitarlo, dal volto in lacrime di un parente o dal sorriso forzato di un familiare che si sforza di nascondere i suoi sentimenti.

La comunicazione non verbale talvolta trasmette di più di quella verbale. Se le due comunicazioni divergono radicalmente, il rapporto di fiducia con i familiari si infrange. Magari il morente preferirà adattarsi al ruolo che si richiede da lui e fingerà di ignorare l'approssimarsi dell’ora fatale, pur di conservare una qualsiasi parvenza di rapporto con chi lo attornia. Ma si sentirà murato nella sua solitudine, senza possibilità di esprimere le sue emozioni, o incapace di liberarsi dall’angoscia che gli causa la prospettiva della fine imminente.

Un altro bisogno del morente, che si muove in senso contrario al primo, è quello di uno spazio psicologico per elaborare la sintesi conclusiva della propria vita, prendere congedo da essa, svellere a una a una le mille radici che ci legano all’esistenza terrena. Questo spazio personale è compromesso dall’accanimento terapeutico che, sforzandosi di prolungare il più possibile la vita biologica, interferisce pesantemente in quel processo psicologico di distacco che gli psicologi chiamano «elaborazione

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del lutto». Anche una presenza invadente e ciarliera — compresa quella fatta di discorsi edificanti — potrebbe essere pregiudizievole per questo bisogno del morente di presenza a se stesso.

Abbandonare il morente a se stesso, privandolo di comunicazione sull’avvenimento che sta soffrendo solitariamente, oppure stordirlo con promesse falsamente rassicuranti e affogarlo con attenzioni vanamente terapeutiche': modi sbagliati di accompagnare una persona al passaggio finale. Una presenza affettuosa e solidale, che sa rispettare uno spazio di silenzio per riflessioni personali, è ciò di cui il morente ha bisogno.

La pastorale dei morenti: crisi e inadeguatezza

Nel panorama delle trasformazioni che subisce il morire nella nostra epoca non si deve tacere dei bisogni della pastorale. Nel contesto della società tradizionale il sacerdote era il competente della morte concepita come passaggio dalla vita terrena alla vita eterna. Finché la «buona morte» era nei desideri del credente e nelle attese del suo ambiente, la presenza del sacerdote al capezzale del morente era ovvia. In seguito alle trasformazioni del costume a cui abbiamo fatto cenno si è giunti ad aborrire per sé e per gli altri la morte di cui si abbia coscienza. Nell’ideale della «bella morte» non c’è posto per il sacerdote. E di fatto il clero tende ad abbandonare il suo vecchio ruolo: diventa reticente e impacciato, non sa più giustificare a se stesso e agli altri la sua presenza al letto del moribondo, perde la sicurezza delle parole e dei riti tradizionali. Le difficoltà sono oggettive. Nella drastica spartizione dei ruoli, in cui tutti gli altri hanno optato per il silenzio, al fine di proteggere il morente dal trauma, il sacerdote si trova spesso ad essere l’unico su cui grava il compito di illuminare il malato. Dovrà dunque buttare in faccia al morente, in nome dell’interesse supremo per l’anima, la cruda verità che tutti cercano di nascondergli?

A ciò si aggiunga la deformazione intervenuta nel costume circa il modo di intendere e di praticare il sacramento dell’unzione. Da sacramento del malato in situazione critica è diventato sempre più sacramento dei moribondi, e più spesso ancora dei comatosi, quando non dei morti. La presenza del sacerdote è destinata a suscitare reazioni di angoscia, perché il suo apparire è interpretato come annuncio di fine prossima. Per questo motivo spesso il sacerdote è tenuto appositamente lontano dal capezzale del malato finché questi è lucido, e chiamato solo dopo che ha perduto coscienza (per dare un pur minimo appiglio all’annuncio

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funebre, che il malato è morto «munito dei conforti religiosi»).

«Chiamare il prete» vuol dire, in larghi strati popolari, che il medico ammette di essere arrivato alla fine delle sue possibilità terapeutiche e che è giunto il momento di «pensare all’anima». È fin troppo comprensibile che il sacerdote tenda a respingere un simile ruolo, che lo fa assomigliare più a uno stregone che a un annunciatore del Vangelo. Il rinnovamento conciliare, che ha rivendicato al rito dell'unzione il suo carattere originario di sacramento degli infermi, liberandolo dagli equivoci e dalle incrostazioni storiche, ha creato delle nuove possibilità pastorali rispetto ai malati, ma ha anche contribuito a sguarnire ancora di più il letto del morente. È giusto e comprensibile che la chiesa tenda a distaccare il sacramento dell’unzione dall’area della morte: ma il morente non rischia allora di essere abbandonato ancor più totalmente a se stesso?

È in crisi il ruolo del prete al capezzale del morente e si sono spente le formule di fede e di speranza tradizionalmente suggeritegli dai familiari credenti. La pur giusta identificazione della malattia come luogo della «unzione degli infermi» ha contribuito a lasciar cadere qualsiasi iniziativa pastorale in prossimità della! morte. Vi è qui una urgenza che coinvolge tutti i credenti.

«Noi moriamo soli e, nel migliore dei casi, malgrado gli altri, a dispetto degli sforzi di coloro che ci amano. Ma nessuna risurrezione si spera se non con gli altri. Dalla qualità della presenza degli altri a noi, e di noi agli altri, dipende la qualità della nostra risurrezione».

(A. Godin)

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PSICOLOGIA DEL MORENTE

In questa nostra cultura emergono segni che fanno prevedere un cambiamento. Vengono da quelle scienze che si propongono di studiare l’uomo. Una di esse, la psicologia, offre già alcuni contributi peri la conoscenza della situazione del morente. Anche se non tutti attraversano le fasi che la psicologia descrive e non presentano gli stessi sintomi — perché ogni morte è irrepetibile come la persona umana — è utile conoscere questa fenomenologia del morire per essere presenti in modo utile e opportuno.

Psicologi incontro ai morenti

Accanto al morente, nello spazio che una volta era occupato dal ministro della religione, troviamo oggi psicologi o psichiatri. La tendenza a «psichiatrizzare» la morte si è messa in moto negli Stati Uniti. Si è intrapreso con ardore lo studio della psicologia della morte. Il movente non è solo la curiosità scientifica, ma anche un chiaro intento umanitario: contribuire a rendere meno desolata la morte dell’uomo dell’era tecnologica.

L’opera che ha avuto più risonanza è quella della psichiatra Elisabeth Kübler-Ross, che ha condotto per diversi anni un singolare seminario in un ospedale di Chicago. Lo spunto le era stato offerto da un gruppo di studenti di teologia, che intendevano prepararsi al loro lavoro pastorale con una migliore conoscenza psicologica delle «crisi» che intervengono nella vita umana. Si erano rivolti alla psichiatra per avere da lei lumi sulla crisi del morire. La idea elementare della dottoressa Kübler-Ross era stata quella di chiedere a dei malati inguaribili di parlare del loro approssimarsi alla morte; gli aspiranti pastori li avrebbero ascoltati per imparare da questi singolari maestri qual è lo stato d’animo e quali sono i bisogni dei malati allo stadio terminale. I risultati di questo seminario interdisciplinare sono stati divulgati, suscitando interesse e polemiche. In particolare la attenzione si è appuntata sullo schema delle cinque fasi che, secondo la Kübler-Ross, costituirebbero il processo del morire.

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Rifiuto

La prima reazione, quando viene percepita la probabilità di una morte prossima, è quella del rifiuto. Istintivamente di fronte alla malattia mortale si erige la difesa dell’incredulità: «No, non è possibile. Non io. Non ancora». Le difese sono necessarie, perché l’annuncio della morte è una ferita brutale inferta a quel narcisismo psicologico che ci fa credere immortali: tutti gli altri muoiono, non noi; e anche quando ci avviene di parlare della nostra morte, in realtà, non ci crediamo, perché non abbiamo le categorie per rappresentarcela. Il rifiuto è una difesa attuata con un mezzo grossolano; per lo più esso cede il posto a difese meno radicali. Dopo un certo tempo si smette di correre da un medico all’altro, nella speranza che la diagnosi sia sbagliata, o si cessa di illudersi che sia avvenuto uno scambio di reperti in laboratorio; il realismo prende il sopravvento e induce a proseguire la battaglia per la vita con mezzi meno rudimentali. Non è escluso però che alcuni, non riconoscendosi la forza di guardare in faccia la morte, tengano in piedi il rifiuto fino alla fine.

Rivolta

Il più sovente alla prima fase fa seguito una seconda, quella della rivolta: «Perché proprio io?». I sentimenti che l’accompagnano sono quelli della collera, dell’invidia e del risentimento verso tutti quelli che restano. La rivolta proietta i sentimenti rabbiosi in tutte le direzioni: Dio, la propria famiglia, il personale curante. Gli esiti di questa esplosione rischiano di essere tragici. Coloro sui quali si riversa la ribellione del malato possono risentirsene personalmente. Il malato difficile sarà allora evitato: i familiari diraderanno le visite, le infermiere lo tratteranno con distacco professionale. Il morente in rivolta rifiuta gli altri e provoca a sua volta rifiuto; viene così a trovarsi in una situazione fasciata di disperazione. Potrà uscire da questo stato solo se coloro che sono vittime dei suoi scoppi di aggressività si rendono conto che il vero bersaglio non sono loro personalmente. Essi hanno l’unico torto di rappresentare la salute e la vita, i beni che il morente sta per perdere per sempre. Un malato rispettato e compreso, cui si dedichi attenzione e tempo, di cui si tolleri la collera razionale e irrazionale, supererà lo stadio della rivolta.

Patteggiamento

Allora entrerà probabilmente nella fase del patteggiamento. Questo è una specie di compromesso mediante il quale il malato che si sa condannato cerca di strappare una dilazione. Per differire l’inevitabile evento il malato cerca un accordo con colui che ai suoi occhi rappresenta l’onnipotenza: il medico o Dio, e talvolta tutt’e due. Pazienti difficili diventano improvvisamente sottomessi («mi si accordi un anno o due

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ancora... seguirò alla lettera tutte le prescrizioni»); persone religiosamente indifferenti od ostili riscoprono in sé un senso elementare del sacro e abbondano in voti e devozioni (ma alternando talvolta la comunione eucaristica, le reliquie dei Santi e le pratiche contro il malocchio...).

Depressione

Quando il malato incurabile non può più negare la sua malattia e ha sperimentato l’inanità della rivolta e del patteggiamento, verosimilmente si abbandonerà alla depressione. Con questo stato d’animo il morente si orienta al distacco e si prepara ad esso. La sua depressione assomiglia a un mesto ritiro dei remi in barca. Nelle culture orientali antiche colui che si sentiva morire si voltava verso il muro (così fece anche il re Ezechia, all’annuncio fattogli da Isaia: cfr Is 38); oggi le espressioni esterne sono cambiate. Sempre però il morente tradisce la fase culminante della sua depressione mediante il disinteresse alle cure che gli vengono prestate e alle persone che lo circondano. La presenza del visitatore che cerca di distrarlo dai pensieri tetri lo infastidisce.

Accettazione

La depressione sembra essergli necessaria per entrare nell’ultimo stadio del morire, quello dell’accettazione. A questo punto le emozioni si rarefanno e il morente fluttua in una specie di vuoto di sentimenti. È come se il dolore se ne sia andato, la lotta sia finita e sia venuto il tempo per «il riposo finale prima del lungo viaggio», come diceva un malato alla dottoressa Kübler-Ross. Nella fase finale i morenti sembrano scivolare in uno stato che non conosce più né la paura, né la disperazione, in cui il bisogno di cibo diventa minimo e la coscienza dell’ambiente circostante svanisce nella oscurità. Il morente entra in uno stato che assomiglia a quello della prima infanzia, a cui l’avvicina anche il bisogno gradatamente crescente di aumentare le ore di sonno. Un progressivo distacco sostituisce la comunicazione bilaterale. In questa fase suprema la presenza al morente può assumere l’essenzialità ieratica dell’unico gesto possibile: tenere in silenzio la mano di colui che stacca gli ormeggi e si abbandona alla deriva. In quel momento i due destini, di colui che muore e di colui che resta, necessariamente si separano.

Queste fasi del morire non devono essere intese come un itinerario obbligatorio e a senso unico. Non tutti i morenti attraversano tutte le fasi; alcuni si fissano in una fase, altri possono regredire a una fase anteriore. La descrizione dei diversi stadi offre tuttavia anche ai pastori un buon sussidio per capire il vissuto psicologico del morire. Questa comprensione è indispensabile se si vuol essere presenti in modo autentico a chi è sul punto di staccarsi dalla vita.

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UNA SPERANZA CHE VINCE LA MORTE

Siamo uomini del nostro tempo; ma siamo anche dei credenti coinvolti in una esperienza religiosa che vuol essere, risposta a una parola detta da Dio all’umanità nella storia. La morte ci interessa perciò anche comé momento del dialogo della salvezza.

La Bibbia noti è un libro che offra la risposta, rassicurante all’uomo angosciato in cerca di una soluzione all’enigma del morire umano. Tutto ciò che vi è detto sulla morte e l'al di là è in funzione del rapporto di alleanza, che permane e si approfondisce con il progressivo realizzarsi della storia della salvezza. L’uomo in alleanza con Dio attraversa situazioni diverse e si pone problemi nuovi; varieranno in conseguenza le rappresentazioni della morte, le concezioni antropologiche, l’interesse esistenziale per il problema stesso. Domande e risposte possono e devono variare proprio perché l’essenziale possa continuare ad essere vissuto e annunciato: che Dio è diventato il Dio dell’uomo, affinché l’uomo possa essere l’uomo di Dio.

La morte dell’uomo in dialogo con Dio

Nell’ambito dell'Antico Testamento, la morte e l’atteggiamento dell’uomo di fronte ad essa appaiono sotto luci diverse. Per molti secoli lo sguardo di Israele si è rivolto alle sole possibilità umane durante questa vita, senza provare interesse per ciò che spetta all’uomo nell’al di là. Anche un’esistenza puramente terrena è stata vista come un’autentica possibilità religiosa.

In questo orizzonte intraterreno sono possibili atteggiamenti diversi. Troviamo la serenità dei giusti che muoiono, colmi di giorni, attorniati dalla loro numerosa posterità. È la «morte patriarcale». Questi vegliardi accettano, senza una parola di rivolta, di essere «riuniti ai loro padri». La morte è vista in questo caso come un evento «naturale», che non turba il dialogo con Dio. Abramo si preoccupa della propria sorte finché non ha discendenza (cfr Gen 15,2-6); ma, ottenuta la certezza di durare nella sua posterità, muore sereno «in una bella vecchiaia, pieno di anni e sazio di giorni» (Gen 25,8). La morte del membro del popolo di Dio inserito nell’alleanza avviene senza strepito e senza lamenti (cfr Gen 49,33); è la cosa più semplice e

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naturale dell’universo: «Tutti dobbiamo morire. Siamo come l’acqua che, sparsa sulla terra, non si può più raccogliere» (2 Sam 14,14).

Questo è l’atteggiamento che troviamo anche nell’antica sapienza popolare d’Israele, la cui voce è possibile ritrovare nelle raccolte di proverbi. Là «vita» assicurata all’uomo saggio, che segue la legge di Dio, consiste in moltitudine di giorni, ricchezza, onore, pace, fortuna, salute, non in qualcosa situato nell’al di là. Tuttavia non si tratta di crasso materialismo. La prospettiva rimane quella religiosa, perché la vita è legata all’alleanza con Dio: «Vedi, oggi ti ho proposto la vita e il bene, la morte e il male... La vita e la morte ti ho proposto, la benedizione e la maledizione... Orsù, scegli la vita, affinché abbia la vita tu e la tua discendenza» (Deut 30,15-19; cfr Deut 28,16-68). La morte di cui qui si parla non è la pura morte biologica, quanto l’esistenza lontano da Dio: questa è la minaccia più grave che incombe su chi è infedele al patto. La minaccia comincia con miserie e sconvolgimenti sofferti durante l’esistenza e tocca il culmine nell’annientamento fisico (morte precoce dell’empio). Tali concetti sapienziali di vita e di morte sono molto vicini a quelli che troviamo nel racconto del paradiso terrestre contenuto nella Genesi.

Ma come può resistere la fiduciosa autodedizione dell’uomo a Dio quando considera la morte nella sua cruda realtà di evento che viene a troncare la dolcezza della vita? Come si può rimanere indifferenti al fatto che la morte colpisce inesorabilmente sia lo «stolto» che il «saggio», cioè sia il peccatore che il devoto? Per Qohelet (o Ecclesiaste), giunto a tale meditazione, l’atteggiamento da assumere sembra sia solo l’odio alla vita e la disperazione. Così però sarebbe preclusa ogni possibilità di vedere nella vita il luogo del dialogo con il Dio vivente che offre la salvezza. La sua risposta esistenziale sarà piuttosto quella di concentrarsi sull’ora presente, accettando la felicità del singolo momento come un dono che viene dalla mano di Dio: «Riconobbi che non vi è altro bene per l’uomo che rallegrarsi e procurarsi gioia nella vita. E il motivo è questo: per ogni uomo che mangia, beve e gode il frutto delle sue fatiche, questo è un dono di Dio» (Qohelet 3,12-13). Non si tratta di un edonismo terreno, ma di un atteggiamento religioso: è il «timore di Dio» che induce l’uomo a sottomettersi a ciò che il momento gli offre da parte di Dio.

Tali riflessioni sulla morte come situazione limite sono singolarmente vicine all’atteggiamento di molti nostri contemporanei. La coscienza moderna è radicalmente intramonda na, e ciò esclude ogni riferimento all’al di là. Seguendo il suggerimento di un autorevole esegeta, Norbert Lohfink, possiamo riconoscere l’attualità della fede biblica veterotestamentaria, che è stata vissuta ed espressa in un orizzonte terreno:

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«Se consideriamo l'A.T. dobbiamo riconoscere che è veramente possibile credere, operare e amare senza avere dinanzi allo sguardo l’al di là. Infatti noi siamo dell’opinione che Abramo e gli altri giusti dell’A.T. si trovavano veramente nella fede, ma sappiamo anche che il vedere nell’al di là, oltre la morte, era loro precluso. Fede, speranza e carità possono quindi essere possibili nella loro sostanza, anche quando si filosofeggia come fa il libro dei Proverbi o di Qohelet. Certo, oggi non è più possibile che la chiesa universale, nella sua funzione di insegnamento magisteriale, accetti una filosofia che comporti il rifiuto teorico della dottrina del libro della Sapienza (cioè della sopravvivenza e della rimunerazione nell’al di là). Tuttavia all’interno della chiesa possono esserci singoli uomini, o forse anche gruppi o generazioni, che si sentono più vicini, per ciò che effettivamente determina la loro coscienza, all’Ecclesiaste che non alla Sapienza. Allora bisogna ricordare che non si è i primi ad aver percorso un simile cammino e bisogna sapere dove si trovano nella Bibbia i modelli di un tal genere di fede».

CRISTIANI SENZA SPERANZA?

Nella nostra civiltà occidentale tra cinquant’anni quanti crederanno ancora nell’al di là? Non siamo in grado di fare una simile previsione; anzi, dobbiamo ammettere di essere molto ignoranti anche a proposito dei nostri contemporanei. Quel che pare certo è che, a dar credito ai sondaggi di opinione, da una ventina d’anni a questa parte il numero di coloro che credono a una vita dopo la morte è in continua diminuzione. Al momento attuale la credenza nell’al di là è condivisa probabilmente da una metà della popolazione adulta. L'incredulità in questo campo ha preso piede in tutti i paesi, in tutte le età, in tutte le professioni. Anche in tutte le denominazioni religiose. L’esame di alcuni sondaggi mostra che esiste uno scarto costante tra coloro che credono in Dio e coloro che credono in una vita nell’al di là. La differenza tocca talvolta il 40 per cento. Anche presso i cristiani esistono fratture considerevoli tra l’affermare la divinità e la risurrezione di Gesù Cristo e il credere in una risurrezione di Gesù Cristo e il credere in una risurrezione personale. In alcuni sottogruppi di popolazione un cristiano su tre si afferma cristiano per questa vita, senza una precisa opinione sulla realtà di una vita personale dopo la morte. Come si riflette questa trasformazione culturale sull’annuncio del Vangelo al nostro tempo?

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«Battezzati nella morte di Cristo»

Il grande messaggio della buona novella circa Gesù ha per oggetto anche la morte. Alla luce dell’Evangelo la morte è diventata un atto della grazia di Dio che salva: «La grazia è stata ora manifestata mediante l’apparizione del nostro Salvatore, il Cristo Gesù, il quale ha distrutto la morte e fatto risplendere la vita e l’immortalità per mezzo dell’Evangelo» (2 Tim 1,10). L’affermazione che la morte di Cristo costituisce l’ora suprema della salvezza è parte essenziale dell’annuncio missionario («Vi ho trasmesso anzitutto ciò che io stesso ho ricevuto, cioè che il Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture»: 1 Cor 15,3). Ma già all’interno del Nuovo Testamento stesso troviamo tentativi differenti di comprendere il significato salvifico di quella morte. La teologia della redenzione ha utilizzato concetti giuridici (pena, espiazione, soddisfazione, sostituzione) e rituali (sacrificio, vittima). Cadute oggi le categorie giuridiche e rituali, c’è oggi chi tenta di accostarsi al senso salvifico di quella morte mediante categorie politiche (cfr la teologia della liberazione).

Il punto di partenza per capire il significato della morte di Gesù rimane quello della contingenza storica: fu una morte inflitta, conseguenza di un'opposizione insanabile ai poteri religiosi e civili dell’epoca. A questo livello, si tratta della morte di un profeta libero, il cui linguaggio disturba. Ma è stata anche una morte assunta. È la morte del Messia che ha deciso di farsi «servitore» e non «padrone» (cfr il racconto delle tentazioni), che realizza l’atto di fede perfetto appoggiandosi incondizionatamente sul Padre, che con la disponibilità a dare la vita porta al culmine il dono di sé per amore (cfr Giov 15,13; 1 Giov 3,16). Questa assunzione piena della propria morte, facendone un «morire per», ne ha cambiato il significato.

Ciò non va inteso nel senso di una eroizzazione della morte. Morire rimane primariamente un patire, non un agire. Ma Dio ha dato al Cristo la possibilità di accettare e di vivere la sua morte, rovesciando! le potenze di diminuzione che agiscono in essa. Gesù è «ucciso»: la sua morte è conseguenza dell’odio, frutto del peccato, segno della lontananza dell’uomo da Dio. Ma nessun atto di potenza può invertire il movimento che dall’odio va verso la morte; può riuscirci solo l’atteggiamento che rovescia il senso della morte: accettarla con libertà e amore.

Come per il Cristo la morte illumina la vita e prende senso da essa, così per il cristiano l’annuncio evangelico della morte salvifica di Gesù è un invito a convertirsi, invertendo la rotta della sua vita. Quando il Cristo afferra l’uomo attraverso il Vangelo, allora l’uomo muore alla vita legata al peccato, alla disobbedienza a Dio, all’odio per l’altro uomo: «Voi siete morti, e la vostra vita è ormai nascosta col Cristo in Dio» (Col 3,3). Il rito del battesimo simbolizza efficacemente sul

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piano sensibile l’evento esistenziale del morire e risorgere col Cristo: «Se noi siamo morti al peccato, come continuare a vivere in esso? O ignorate che, battezzati nel Cristo Gesù, è nella sua morte che tutti siamo stati battezzati? Noi siamo stati dunque sepolti con lui mediante il battesimo della morte, affinché, come il Cristo è risuscitato dai morti per la gloria del Padre, viviamo anche noi una vita nuova» (Rom 6,2-5).

Il messaggio cristiano, pur affermando fortemente la vittoria della vita, non fornisce informazioni sull’al di là del decesso. Anzi, è stato notato che in Paolo stesso si trovano due rappresentazioni dell’«essere con Cristo» dopo la morte: una, più tributaria della corrente apocalittica giudaica, parla dell’«essere con Cristo» come partecipazione ai beni del Regno inaugurato con l’avvento glorioso del Signore (cfr 1 Tess1 Cor 15); un’altra, ispirata all’ellenismo, trasporta nel tempo che segue immediatamente la morte le aspirazioni che tendono verso la fine dei tempi e fa desiderare la morte per andare presso Cristo (cfr 2 Cor 5,8; Fil 1,23).

Quello che importa è che la nostra unione a Cristo è già la risurrezione che ci pone al di là della morte. La «vita! eterna» non è dai cercare in un futuro lontano, ma è già qui, allorché ci si appoggia alla fedeltà di Dio e al futuro di Cristo. L’eternità comincia qui, con una vita nuova che è da Dio e che . Dio porterà a compimento. Esistenzialmente l’accento va sul «già», piuttosto che sul «non ancora». La speranza dei cristiani è un elemento della fede e si fonda sul coraggio della fede che accetta l’eterno anche quando le è contro tutto ciò che è finito. Chi ha questo coraggio sperimenta già, qui e ora, l’eterno: «Chi crede ha la vita eterna» (Giov 6,47); «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte» (1 Giov 3.14).

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NUOVI COMPITI ECCLESIALI

Dal 1974 è a disposizione della Chiesa italiana il libro rituale Sacramento dell’unzione e cura pastorale degli infermi, che contiene anche indicazioni pastorali, riti liturgici e formule di preghiere per l’assistenza dei moribondi. La cura pastorale a favore dei morenti ha il suo momento sacramentale nel Viatico, cui sono dedicati i nn. 26-29 dell’«introduzione» e il capitolo IV del libro. Molto di quanto è proposto ritrova forme tradizionali, che debbono essere riscoperte e valorizzate; di nuovo vi è l’insistenza sulla funzione della comunità cristiana e sui possibili ruoli dei fedeli accanto al morente. Nascono qui nuovi compiti e anche nuovi ministeri, che coinvolgono tutta la Chiesa in uno sforzo di creatività per una catechesi sul senso cristiano del morire e per una presenza significativa a chi lascia questa vita aprendosi alla speranza ultima.

Parlare o tacere? Comunicare!

Per far fronte ai momenti critici della vita abbiamo a disposizione dei codici di comportamento che ci sono stati trasmessi nel processo dell’educazione. Sono rituali che si apprendono con l’uso, fin dall’infanzia. Il fatto nuovo con cui ci troviamo a dover fare i conti è che il rituale che riguarda il morire non viene più insegnato. «Esistevano in passato codici per tutte le occasioni per manifestare agli altri sentimenti generalmente inespressi, per fare la corte, per mettere al mondo, per morire, per consolare i colpiti dal lutto. Questi codici non esistono più. Sono scomparsi alla fine del XIX secolo e nel corso del XX. Allora i sentimenti che vogliono sgorgare fuori dall’ordinario, o non trovano la loro espressione e sono repressi, oppure irrompono con una violenza insopportabile, senza più niente per canalizzarli» (Ph. Ariès).

Quando le cose che riguardano la morte vengono sistematicamente sottratte allo sguardo e i sentimenti repressi; quando diventa sempre più comune giungere alla giovinezza e anche oltre senza aver mai assistito alla morte di nessuno: come stupirsi della grande lacuna circa il morire nel patrimonio di saggezza che dovrebbe equipaggiarci per far fronte a tutte le vicissitudini della nostra esistenza? È necessario reinventare un codice per saper morire e per fare il lutto. La pastorale, depositaria della saggezza tradizionale ma sensibile alle trasformazioni che

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la civiltà industriale ha introdotto nel nostro vivere quotidiano, può portarvi il suo contributo.

La nuova «ars moriendi» per lo uomo del XX secolo, compreso il credente, non sarà fatta di ricette pronte per l’uso. Se vorrà rispondere ai veri bisogni del morente, dovrà anzitutto individuarli. Grazie alle scienze dell’uomo che si sono occupate della fase terminale della vita sappiamo che il bisogno fondamentale di colui che va incontro alla privazione di tutto è quello di condividere. Il morente ha bisogno di parlare della propria morte. Nella realtà dei fatti, proprio quando avrebbe più bisogno di incontrare un essere umano aperto per parlare delle sue angosce, il morente si sente respinto nel limbo dell’incomunicabilità. Si trova in pratica solo con se stesso ad affrontare le proprie paure. La mancanza di ogni comunicazione acuisce l’insicurezza; l’isolamento è popolato dai fantasmi dell’immaginazione, che possono essere più paurosi della morte fisica.

Questa tribolazione intima raramente emerge con chiarezza. Ciò è dovuto al fatto che il malato finge di non sapere, quando il medico o i congiunti, bloccati dalla loro propria ansia di fronte alla morte, sono incapaci di parlargli. Spesso costoro diranno che il malato non vuol sapere la verità, che non la chiede e crede tutto; e si sentiranno sollevati per non dover affrontare la questione. In realtà è la loro personale paura di guardare in faccia alla morte che ha indotto il malato a scegliere il partito del silenzio. La situazione infatti si sblocca subito quando il morente incontra qualcuno disposto a parlare della morte, che sia il parroco o il cappellano d’ospedale, un’infermiera sensibile o anche la donna delle pulizie che rifà la camera; qualcuno, in ogni caso, che sia attento ai bisogni più profondi del malato.

La scelta del momento e del tempo è di grande importanza. Il malato grave, per di più stravolto dalle sofferenze fisiche e dalle cure, non può essere sempre disposto ad affrontare l’argomento scottante. Né può esservi indotto da un procedimento manipolatorio, anche se animato dalle migliori intenzioni. Chi vuol aiutare il malato dovrà restar disponibile al suo desiderio di parlare; e questo può sorgere nelle ore più imprevedibili del giorno e della notte. Lo diceva un malato grave a una psicologa che lo intervistava appunto sulla morte: «Sono rimasto sconcertato quando ho chiesto di vedere un cappellano di notte e non c’era nessun cappellano per la notte. Per me è incredibile, veramente incredibile. Perché, quando un uomo ha bisogno del cappellano? Soltanto di notte, credetemi! Quello è il momento in cui ci si sente più giù e si deve lottare con se stessi. È il momento in cui si ha bisogno del cappellano. Direi per lo più fra la mezzanotte e le prime ore del mattino. Se si potesse fare un grafico, avrebbe probabilmente la punta massima alle tre circa. E dovrebbe essere proprio così. Suoni, viene l’infermiera: «Vorrei avere un cappellano» e in cinque minuti il cappellano compare e tu puoi... parlare davvero».

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A chi accetta di stare accanto a chi muore — lo faccia per un motivo pastorale o di compartecipazione umana alla sofferenza di un altro uomo — non si domanda di prestare al malato la propria speranza o di somministrargli una consolazione artificiale. L’imperativo fondamentale è quello di tenere aperte le vie della comunicazione personale, affinché il morente vi faccia passare le proprie parole o i propri silenzi, la propria speranza o le proprie paure, secondo come ne avverte il bisogno. Allora il famoso problema «se dire o no la verità» al malato grave assume un’altra formulazione. La priorità spetta alla ricerca di canali di comunicazione, perché si possa condividere con il malato secondo le sue reali richieste. Se questi domanderà di poter parlare della propria condizione, chi lo assiste troverà il modo di condividere col malato quanto sa; ma se il malato preferisce rimanere nella fase del rifiuto perché non si sente la forza necessaria per guardare in faccia la propria morte, nessuno dovrebbe brutalizzarlo con la cosiddetta «verità».

Per riconoscere le vere richieste del malato grave, sotto il velo del comportamento stereotipato che ci si aspetta da lui in quanto malato, sono necessari intuito psicologico ed empatia. E soprattutto lo sforzo per mantenere aperta la comunicazione. Questa è la risposta umana alla morte: accompagnare il morente, respingendo il più lontano possibile il momento in cui rimarrà inevitabilmente solo per subire l’ultima espropriazione, quella del suo stesso «io».

La presenza della comunità al morente

Gli impulsi più autorevoli per il rinnovamento della pastorale dei morenti vengono dalle norme pastorali premesse al nuovo rituale per il sacramento dell’unzione, promulgato dalla sacra congregazione per il Culto divino nel 1972 (ed. italiana 1974). Il rito dell’unzione degli infermi è presentato in un contesto più ampio di gesti e iniziative pastorali che tendono al pieno reinserimento del malato nella comunità. La pastorale appare così come una serie di interventi che agiscono in senso contrario a quel processo di emarginazione sociale ed ecclesiale connesso con lo stabilizzarsi di una malattia grave. Il modello che ha influenzato la riforma è quello della comunità cristiana dei primi secoli, feconda di originali iniziative di servizio fraterno a favore dei malati. Il momento centrale della riforma è il recupero del senso antropologico e sacramentale dell’unzione degli infermi, voluto dal Vaticano II (cfr. LG 11; SC 73). Non deve essere più concepito come «estrema unzione», e quindi rito sacramentale destinato ai morenti. Esso è invece il sacramento dei malati, ed è finalizzato alla guarigione. Come tutti i sacramenti, anche l'unzione

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ha una dimensione ecclesiale, oltre a quella cristologica. La salvezza giunge al cristiano malato attraverso la comunità, che è l’espressione visibile del corpo mistico. Il sacramento fondamentale, che riassume e dà senso a tutti i singoli gesti, è il restringersi del legame della comunità fraterna attorno al membro la cui vita fisica si trova in situazione critica. Il malato è riconosciuto come il malato della chiesa.

La preghiera è il primo mezzo per esprimere la solidarietà della comunità con chi muore. Riproponendo la antica pratica della raccomandazione dei moribondi il nuovo rituale annota: «L’amore verso il prossimo deve spingere i cristiani a star vicino ai loro fratelli moribondi e ad esprimere la loro fraternità implorando con essi e per essi la misericordia di Dio e il. conforto della fiducia in Cristo Gesù» (n. 207).

Un’altra rubrica raccomanda ai sacerdoti e ai diaconi di trovarsi personalmente presenti accanto ai moribondi e di recitare con i familiari le preghiere della raccomandazione e quelle dell’ultimo respiro: «con la loro presenza essi esprimono con maggiore evidenza che il cristiano muore nella comunione della chiesa» (n. 211).

La comunità cristiana è debitrice di un servizio di integrazione ai fedeli che la malattia tiene lontani dall’assemblea: questo principio luminoso della pastorale degli infermi ispira anche la pastorale dei morenti. La comunità intera, con i suoi diversi carismi e servizi, è il soggetto di tale pastorale.

Il viatico

Il rinnovamento liturgico-pastorale, restituendo al sacramento dell’unzione la funzione che gli spetta, ridà il dovuto rilievo al vero e proprio sacramento dei morenti, cioè al viatico. Nella prassi pastorale questo gesto sacramentale era rimasto soffocato dall’importanza assunta dall'«estrema unzione», quale rito di passaggio. Lo stesso diritto canonico aveva convalidato l’anticipo del viatico sull’unzione, avallando così lo spostamento di significato.

Il Vaticano II si era limitato a restaurare il primitivo ordine di successione; prima l’unzione degli infermi, poi il viatico (SC 74). Il nuovo rituale ha portato a termine la riforma, che permette di rendere a questo rito l’importanza che aveva nella chiesa delle origini. Il viatico era considerato, secondo l’uso linguistico del tempo, come la provvigione alimentare che si portava per un viaggio; in questo caso, per il viaggio oltre la morte. Ricevere il viatico era un diritto di ogni cristiano morente, e dovere della chiesa non far mancare a nessuno, anche se colpito da sanzioni disciplinarie, questo estremo conforto e aiuto a ben morire. La devozione indusse a dare l’eucaristia al morente più volte al giorno, in modo che

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spirasse con l’eucaristia in bocca. Nel viatico eucaristico si vedeva infatti il pegno della risurrezione. Con l’evolversi dei costumi e delle prescrizioni rituali il viatico ha subito un progressivo distacco dal suo riferirsi originario al momento della morte, per essere sostituito dall’unzione.

Il nuovo rituale prevede ormai che il luogo normale dell’amministrazione del viatico sia la celebrazione eucaristica, a cui partecipano tanto il malato in fase terminale, quanto coloro che lo assistono. Cadono perciò automaticamente tutte le riserve circa la celebrazione della Messa nella camera del malato. La comunione sotto le due specie (n. 26) e il bacio di pace, espressamente previsto (n. 141), danno al rito quel calore umano che ne fa un segno espressivo della morte come ritorno alla casa del Padre.

Il nuovo rito del viatico recupera i valori tradizionali. Il viatico esprime soprattutto lo stretto legame della comunità cristiana con il morente. Non una vaga manifestazione, ma la corposa evidenza di segno che ha la comunità radunata nella celebrazione eucaristica.

La pastorale dei morenti: il coraggio della speranza

Le trasformazioni del morire nel nostro tempo hanno avuto una ripercussione sull’annuncio cristiano. Il discorso sui «novissimi», cioè le realtà ultime dell’uomo, è in crisi. Sul piano teologico e pastorale si è risposto alla situazione con scelte contrastanti. Alcuni hanno continuato a riproporre le «consolazioni religiose» contenute in passi biblici alla lettera; altri hanno imboccato il cammino di una potatura del discorso escatologico, chiudendosi in un austero silenzio su tutto ciò che riguarda. il mistero inconoscibile che segue la morte; altri ancora hanno scelto la reinterpretazione simbolica delle promesse escatologiche, viste in continuità con le lotte terrene per un mondo migliore. Ognuna di queste strade ha la sua validità e i suoi limiti. Ma nessuna può sostituire quella regale, tracciata da Paolo, del rapporto personale col Cristo risorto (cfr Rom 8,35-38). La risurrezione che ci pone al di là della morte è lo sviluppo della nostra unione al Cristo, quella che nasce con la fede e si celebra con i sacramenti.

Il nostro morire oggi è reso più difficile, oltre che dalle trasformazioni strutturali dovute alla nostra civilizzazione, anche dalle incrinature nell’antropologia tradizionale. La prima risposta è di ordine pratico: una calda presenza comunicante a chi sta morendo. Senza tuttavia dispensarci dal cercare un altro modo di parlare della realtà umana nella morte. Il primo mattone del nuovo discorso sulla morte è già là, ed è costituito dall’amore umano, che è sacramento dell’amore di Dio.

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UNA PROPOSTA PASTORALE

Invitato dalla redazione a proporre uno schema di «raccomandazione dei moribondi», suggerita dal Rituale, ho presentato le seguenti obiezioni. Il moribondo, si trova per lo più in stato di tensione e di coscienza ridotta, quindi in quel momento è preferibile ripetere qualche preghiera cui sia già abituato, oltre la possibile reazione negativa di fronte a una preghiera che avverta come commiato definitivo. A questa difficoltà psicologica si aggiunge una perplessità teologica: la preparazione alla morte va inserita nella riflessione abituale del cristiano e non riservata all’ultimo momento.

In questa prospettiva pedagogica era sorta quella preghiera detta «apparecchio per la morte», oggi abbandonata perché risentiva di una concezione di morte più ansiosa che cristiana.

Propongo uno schema di preghiera come momento di riflessione nella fede e di preparazione psicologica alla morte; sia preparazione remota che si rinnoverà poi come preparazione più o meno prossima.

PREGHIERA PER LA MIA MORTE

accettazione

«Mi affido alle tue mani, Signore». Sal. 30,6

La vita è un dono prezioso del tuo amore.

Ma questa esistenza terrena è così fragile

e gli anni scorrono veloci.

Aiutami, Signore,

a non aver paura della mia debolezza,

ad accettare la mia condizione umana

con la sua fragilità e il suo limite.

La mia fiducia è nella tua presenza e nella tua bontà.

«Mi affido alle tue mani, Signore».

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UNA PROPOSTA PASTORALE

fede

Ti «vedremo faccia a faccia». 1 Cor. 13,22

Signore, perché mi fa paura la morte?

Non è una fine; è una partenza

per approdare all’altra sponda

e incontrarsi definitivamente con Te.

Signore,

aiutami a non perdere il senso del mio cammino.

«Passa la scena di questo mondo!» 1 Cor 7,31

«Non abbiamo quaggiù una città stabile

ma cerchiamo quella futura». Ebr. 13,10

Nella tua casa

Ti «vedremo faccia a faccia».

           abbandono

«Padre, nelle tue mani

affido il mio spirito». Lc 23,46

La tua ultima preghiera, o Gesù,

sia la mia preghiera.

Ogni giorno qualcosa muore in me

e qualcosa può risorgere in Te.

Ti offro la mia esistenza

e il momento della mia morte

sia ultimo gesto di purificazione e di offerta.

«Padre, nelle tue mani

affido il mio spirito».

a cura di Guido Davanzo

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PER CELEBRARE IL "MORIRE" DI UN CRISTIANO

Al cap. IV il libro rituale per la cura pastorale degli infermi dà le indicazioni e le formule per il Viatico, l’ultima comunione sacramentale al cristiano nel suo passaggio del mondo al Padre. Al cap. V viene riportato il Rito per conferire i sacramenti a un infermo in pericolo di morte, qualora non sia stato possibile celebrare l’Unzione precedentemente. Infine il cap. VII contiene formule da pregare per la Raccomandazione dei moribondi. Tutti questi elementi rituali, da usarsi con intelligenza secondo le possibilità e conforme il loro significato, configurano una vera celebrazione dell’evento morte: il cristiano che muore, aiutato dai presenti intorno a lui, dà un senso a questo ultimo atto terreno, vivendolo con fede ed esprimendo la sua fiduciosa speranza. La celebrazione continua, anche se il morente ha perso coscienza, da parte della piccola comunità raccolta.

Il viatico

Il viatico del Corpo e Sangue del Signore, che «nel passaggio da questa all’altra vita fortifica il fedele e lo munisce del pegno della risurrezione» (n. 26), è dato al morente all’interno di riti significativi, che è opportuno non tralasciare se la persona è in grado di prendervi parte consapevolmente. La forma più piena comporta la celebrazione della Messa, ma anche se questa non è possibile, è opportuno dare risalto ai seguenti momenti.

Atto penitenziale

Ha un senso battesimale, dato che è introdotto dall'aspersione dell’acqua come «ricordo del battesimo» che associa la nostra vita a «Cristo Signore, morto e risorto per la nostra salvezza» (n. 151). Ci sia o no 'la «confessione sacramentale» (n. 153), la manifestazione da parte del morente del suo pentimento e della sua richiesta di perdono a Dio e ai fratelli presenti esprime la sua volontà di morire «riconciliato», compiendo la sua esistenza nel segno della redenzione. Al di là delle parole rituali è molto bello che il morente chieda perdono ai familiari e che questi oltre ad assicurare a lui l’assenza di ogni rancore e risentimento domandino a loro volta perdono per ciò che hanno fatto, o non hanno fatto, nei suoi confronti. Con sobrietà e nel contesto dell'unica misericordia di Dio e della grazia di Cristo Salvatore in cui le nostre esistenze si riconciliano.

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La formula di assoluzione, anche se non preceduta dalla confessione sacramentale, è quella della «indulgenza plenaria in articulo mortis» (n. 155): la Chiesa garantisce, per ciò che le compete, di rimettere ogni peccato augurando che il morente abbia aperta la via alla gioia eterna.

Professione di fede

«È bene che nella celebrazione del Viatico il fedele rinnovi la fede del suo battesimo, in cui ha ricevuto l’adozione a figlio di Dio ed è divenuto coerede della vita eterna promessa» (n. 28). Il rito (n. 157) propone la formula interrogativa, propria del battesimo, e ripetuta annualmente nella Veglia pasquale. Ma la tradizione conosce anche la recita del «Credo», o addirittura, in ambienti monastici il suo canto. Significativa l’usanza di accendere un cero, consegnandolo se possibile in mano al morente, come nel battesimo: lampada luminosa con cui andare incontro allo Sposo che viene. Di questo rito del cero è rimasto l’uso di accendere una candela dopo la morte.

Preghiera litanica

«Se le condizioni dell’infermo lo permettono, ha luogo una breve litania con queste parole o con altre simili» (n. 158). La formula proposta ha 'la forma della «preghiera dei fedeli» alla messa, con intenzioni e l’invocazione: «Assistilo, o Signore». È la piccola assemblea riunita Che prega per il morente.

Il rituale, al n. 238, conserva una antica prece litanica, le cui invocazioni iniziano con «Libera il tuo servo, Signore...», e a cui i presenti rispondono Amen. In essa si esprime una convinzione propria alla fede cristiana: il Dio, che conosciamo attraverso gli avvenimenti liberatori della storia biblica, interviene ora con la sua potenza salvifica a vantaggio di questo fedele. L’azione santificante, e quindi liberativa, di Dio si è estesa a tutta la vita di questo fedele; ora però si fa urgente, e la Chiesa la invoca perché è giunto il momento della liberazione ultima. Anche se il libro rituale lo pone fra le preghiere di «raccomandazione», essa può essere usata durante il Viatico, specie se il morente è in grado di comprenderne il significato.

La comunione di Viatico

È così importante per dare senso cristiano al morire che per un battezzato essa è d’obbligo (n. 21). Se il morente non può deglutire il pane eucaristico, può essere comunicato con il vino consacrato (n. 130). Più significativo comunicarlo con ambedue le specie, come anche i fedeli presenti (n. 131).

La formula detta nel comunicare il morente ha una aggiunta che dà senso proprio a questa comunione: «...Egli ti custodisca e ti conduca alla vita eterna». È il sacramento dell’ultimo viaggio; il morente lo fa con Cristo che lo conduce. In questo senso si vedano le due orazioni conclusive (n. 163).

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Raccomandazione dei moribondi

Le formule qui raccolte non hanno lo scopo di aiutare il morente a raccomandarsi alla misericordia di Dio né di far pregare i presenti perché raccomandino a Dio l’anima del fratello morente: Il termine latino commendatio animae ha il significato di «consegnare», «affidare» e «offrire».

Il morente compie l’atto di rendere la sua vita a Dio (secondo le parole di Gesù sulla croce: «In manus tuas Domine commendo spiritum meum» Luca 23,46), e la comunità ecclesiale, raccolta intorno a lui, celebra questo atto con gesto di offerta, affidando questo suo membro alla comunità celeste e pregando che venga accolto.

Lettura della parola di Dio

Se chi muore ha sperimentato nella vita la fecondità dell’ascolto della parola di Dio nelle letture bibliche, può trovare conforto e sostegno nel sentire alcuni testi che infondono fiducia e speranza. Se egli ha gustato le preghiere dei salmi, è per lui di aiuto ascoltare la recita di alcuni (testi salmodici partecipandovi con un ritornello.

La parola di Dio, di cui egli ha sperimentato la potenza liberatrice e la forza illuminante diventa operante in questo momento decisivo. Essa ricorda e attua le grandi opere salvifiche di Dio, specialmente la Pasqua: la morte infatti è il definitivo esodo pasquale. Il salmo usato fin dall’antichità, per dare questo senso alla morte del cristiano è il 113 (n. 219).

Il morente e la passione di Cristo

Nel medioevo, quando l’agonia si prolungava, veniva letta la «passione del Signore», per indicare che il morente era associato alla morte di Cristo per entrare nella sua gloria. Nel Lezionario del libro rituale ai nn. 357-366 si riportano i brani dei quattro vangeli con i racconti della passione, morte e risurrezione. «Per la raccomandazione dell’anima si può leggere, secondo la opportunità, la passione del Signore per intero o anche solo alcune pericopi a scelta» (n. 357).

Un gesto semplice ma espressivo, che indica l’unione del morente con U Signore morto per la nostra salvezza, è lo sguardo e il bacio al crocifisso.

Il senso pasquale del morire del cristiano è affermato anche «tracciando sulla fronte del moribondo il segno della croce» (n. 208).

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La preghiera della comunità

Le formule contenute nel libro rituale sono brevi e per lo più a forma litanica. Già si è descritto il senso della litania «libera di tuo servo» (n. 238). Al n. 234 si riporta una relazione, breve e accomodata alla situazione, delle «litanie dei Santi». La corte celeste è invocata perché sia presso questo membro della Chiesa, lo assista pregando per lui e lo accolga.

Questo concetto dell’accoglienza è bene espressa nella orazione n. 237, ove «ti raccomando» dovrebbe essere sostituito con «ti consegno». Nella nota orazione n. 236 (in latino Proficiscere) la Chiesa annuncia al morente che è giunta l’ora di «partire», rassicurandolo che tale passaggio è fatto «nel nome» cioè nella potenza amorosa, del Dio Trinitario: ora Egli diventa la dimora accogliente.

«Appena il morente sarà spirato, tutti si inginocchiano...» (n. 210) e si recita l’orazione n. 241. La Chiesa terrestre invoca quella celeste ad accogliere questo fratello presentandolo al Dio Altissimo.

Per saperne di più

J.-P. Manigne/B. André, Il ritorno della morte, Queriniana.

J. Ziegler, I vivi e la morte, Mondadori.

Ph. Ariès, Storia della morte in Occidente, Mondadori.

L.V. Thomas, Antropologia della morte, Laterza.

L. Boros, Mysterium mortis. L’uomo nell’ultima decisione, Queriniana.

E. Kübler-Ross, La morte e il morire, Cittadella.

M. Bordoni, Dimensioni antropologiche della morte, Herder.

L. Boff, La nostra risurrezione nella morte, Cittadella.

Aa. Vv., Morire sì, ma quando?, Paoline.

Aa. Vv., Mort et présence. Etudes de psychologie, Cahiers de Lumen Vitae.

S. Spinsanti, La malattia e la morte nel popolo delle beatitudini, Ed. Salcom.

S. Spinsanti, I compagni scomodi dell’uomo-massa, Paoline.

R. Falsini, Il viatico, in «Riv. di Past. Lit.» 10/3-4 (1974).