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Sandro Spinsanti
UMANIZZARE LA MORTE PER PREVENIRE L'EUTANASIA
in Eutanasia: una sconfitta dell’uomo contemporaneo
Atti del Convegno presso l'Ospedale Luigi Sacco di Milano
Milano, 18-19 maggio 1985 - Coop. Editrice In Dialogo, Milano 1985
pp. 18-21
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Dalle prime battute di questo convegno di due giorni si annuncia una dialettica, capace di rendere lo scambio fecondo e interessante. Due tesi si sono già affrontate: la morte è già umana, dichiara la prima prospettiva; bisogna umanizzare la morte, afferma la seconda.
Forse il seguito dei lavori porterà a maggior evidenza quanto diceva all’inizio il dott. Montonati: dietro i malintesi e gli equivoci che accompagnano il dibattito sulla morte e il morire c’è un enorme confusione di parole. Se questo convegno servisse anche solo a raggiungere un accordo linguistico, il risultato sarebbe già considerevole.
Accogliendo l’invito ad essere puntuali in questo complesso di situazioni che si raccolgono sotto il termine eutanasia, voglio prendere in considerazione in questo mio breve intervento non il problema nel suo insieme, ma soltanto un aspetto particolare, quello che suscita la maggior reattività emotiva: la richiesta, cioè, di morire da parte di colui che sa di essere colpito da malattia grave e incurabile. Il medico, o chi è coinvolto nell’imminente decesso di una persona cara, sente che non può non accondiscendere a tale richiesta e si domanda come rispondere.
Vorrei in primo luogo richiamare l’attenzione su un fatto culturale inquietante. Come è noto, soprattutto a seguito del convegno, debitamente reclamizzato, di Nizza dell’autunno scorso, esiste un numero rilevante di Associazioni sorte in tutto il mondo per rivendicare il diritto alla morte. Ci sentiamo autorizzati a preoccuparci e a domandare che cosa stia succedendo. Perché tante persone vogliono appropriarsi della morte e propongono iniziative legislative in tal senso? Ha forse l’istinto di morte preso il sopravvento su quello di vita? È un fenomeno da interpretare.
Se letto in profondità, ci può portare a capire un cambiamento culturale che sta avvenendo grazie o a causa della medicina, e ci induce a rispondere a tale cambiamento in maniera adeguata. La morte ci preoccupa, anche se buona parte della nostra attività conscia è organizzata in modo da tenerne lontano il pensiero. In questo senso la morte, oltre ad essere una modalità essenziale dell’essere umano, è anche un fantasma. Uno dei fantasmi che, a mio avviso, bisogna tener presente per capire il fenomeno della domanda così insistente di poter decidere della propria morte, è quello di cadere in mano, alla fine della propria vita, a un certo tipo di medici. Vorrei togliere da questa espressione ogni senso di polemica malevola. La paura di molti nostri contemporanei è che la nostra morte sia gestita da un medico e, paradossalmente,
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da un medico tanto bravo e coscienzioso, che farà di tutto per impedire la morte.
Ora, questo “tutto” è diventato “troppo”. Le possibilità della tecnologia applicate alla medicina hanno esteso a un limite impensabile in passato la possibilità di opporsi alla morte, e quindi di protrarre nel tempo la condizione di morente. In rapporto a questo stato sorge il fantasma della morte negata. A questo punto l’opera del medico subisce un rovesciamento di senso: da alleato del malato nella lotta contro la morte, sembra mutarsi in insidioso nemico che priva il morente della sua morte.
È diventato usuale parlare, per riferirsi a tale situazione, di accanimento terapeutico. Specialmente i medici non amano questo termine. Ed hanno dalla loro parte delle buone ragioni. Accanimento evoca un comportamento sadico: ci si accanisce contro un debole, su un animale. L’associazione negativa evocata ― e che è opportuno non lasciar cadere troppo frettolosamente ― ci parla di un possibile esito indesiderato dell’opera sanitaria: può diventare accanimento nel senso deteriore, cioè un male inflitto, non necessario e non giustificabile.
Forse la parola accanimento non è delle più felici, perché sappiamo tutti che l’opera di guarigione, nelle sue forme più nobili, è anche frutto di accanimento nel senso di non cedere, di non arrendersi. Ci vuole l’accanimento di voler guarire, per combattere delle forme maligne di malattia. Ciò che, più o meno propriamente, viene etichettato come accanimento terapeutico diventa più chiaro, forse, se lo chiamiamo ostinazione. L’ostinazione è il voler perseverare in un atteggiamento di lotta contro la morte, quando ciò non ha più senso. Allora questo medico che sana diventa una figura ambivalente, da cui si diffonde anche una forma di malessere. La sua opera, oltre un certo limite, diventa non più un’opera terapeutica, ma l’espressione di una libido sanandi: la volontà di guarire a tutti i costi si rivolta contro l’essere umano a cui è destinata.
Perché il medico non cede? Perché vuol sanare a tutti i costi, prolungando la vita oltre la soglia che rende la sua opera benefica? Forse per una fantasia inconscia di onnipotenza. Forse perché la professione medica è andata sempre più modulando il significato del proprio intervento sulla lunghezza d’onda del guarire, e non anche dell’assistere, del curare, e non anche del prendersi cura; del riportare alla salute le persone, e non anche nell’accompagnarle nella morte inevitabile. Non è mia intenzione elevare un atto di accusa contro i medici, perché se sono responsabili di questa piega unilaterale che ha preso la loro opera terapeutica, lo sono semplicemente in quanto sono essi stessi frutto di una cultura che ha voluto rimuovere la morte dal vissuto.
Come è già stato ricordato proprio in questa sede, non vogliamo parlare della morte, la parola tace la morte e la tecnica, lo strumento, rimuove la morte perché non l’accetta come possibilità dell’esistenza umana. Oggi la medicina ha la possibilità inaudita di prolungare la vita umana. Proprio questo prolungamento crea un’angoscia profonda suscita fantasmi legati all’ostinazione
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a voler guarire a ogni costo e fa dire a molte persone: piuttosto morire che cadere in quella situazione, in una specie di purgatorio che si estende tra la vita e la morte, in quello stato in cui sembra che non si possa morire e che la morte debba essere conquistata contro il volere e il potere medico. Per questa modalità del morire è stato creato un neologismo: la si chiama “distanasia”. È un morire stravolto, violentato nella sua più intima natura. È il contrario dell’eutanasia nel suo significato etimologico: la “brutta morte” che la medicina moderna sempre più frequentemente riserva a coloro a cui destina i suoi benefici. La rivendicazione di un diritto a morire, paradossale quanto si voglia ― perché se esiste un diritto è quello di vivere, non quello di morire! ― mostra il suo significato se la si colloca sullo sfondo che abbiamo tratteggiato. Essa comporta la rottura di un patto implicito esistente tra il medico e il malato. Tale patto esiste tradizionalmente in tutte le formulazioni deontologiche e di etica medica, e a buon diritto lo si fa risalire al giuramento di Ippocrate: il medico si impegna a non dare la morte; non è sua opera abbreviare la vita o affrettare la morte. La semplice riproposta di tale impegno, nelle mutate condizioni medico-sanitarie e culturali, può portare a un profondo travisamento di questo tradizionale dovere dell’etica professionale medica. È proprio il medico “ippocratico” quello che rischia di essere vissuto come un avversario, un nemico. Quando il medico dice: “Io non farò niente per abbreviare la vita”, la sua promessa suona come una minaccia: “Io farò di tutto per non permetterti di morire”.
L’impegno ippocratico ha un senso psicodinamico positivo molto valido. Sapere che il medico non farà niente per abbreviare la vita dà a me, in quanto essere umano che oggi o domani può cadere in situazione terminale, una profonda sicurezza. Mi libera da una fantasia paranoica possibile e diffusa in quello stato, quando il controllo della situazione mi sfugge di mano, lo stato terminale si prolunga e io sento che divento un peso per me e per gli altri. Il sospetto che qualcuno possa volere togliermi di torno, che quell’iniezione che ricevo e quell’intervento che non capisco non sia per procurarmi un beneficio, ma per accelerare la mia morte, fa scattare con una certa frequenza un atteggiamento paranoico e persecutorio. Per questo motivo l’impegno formale del medico, la parola di tranquillizzazione rivolta al paziente: “Io non ti darò mai la morte, non farò mai niente per abbreviare la tua vita, puoi fidarti”, assumono un importante significato positivo.
Ma oggi il paziente non si affida più perché ha paura che quello che il medico farà non corrisponda al suo vero profondo interesse. Teme cioè che il medico metta tutti i suoi sforzi e impieghi tutte le possibilità che l’arte medica gli mette oggi a disposizione soltanto sul versante del prolungamento della vita, ma faccia mancare proprio quello che il morente in fase terminale richiede. Si tratta essenzialmente di due cose: non soffrire e non essere lasciato solo.
La domanda formale di eutanasia ― “dottore, mi faccia morire” ― è una domanda che va interpretata. Quando noi la leggiamo in profondità, ci accorgiamo
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che il suo significato non è quello letterale, ma esprime la fondamentale richiesta di non essere abbandonato in preda ai dolori. Ci sono situazioni mediche in cui il dolore è il prezzo da pagare per poter ritornare in salute. In questi casi è giusto e comprensibile che il medico non si impietosisca troppo sul dolore. Ma ci sono anche situazioni, in particolare quando la vita giunge allo stato terminale, in cui il dolore è la malattia stessa; il dolore è il male da vincere. Forse il senso di abbandono che il paziente prova e di cui accusa i sanitari dipende dal fatto che i medici non sono al cento per cento presenti sul fronte della lotta contro il dolore. Ci sono ritardi ingiustificati in medicina quanto all’applicazione delle risorse antalgiche.
La medicina oggi può fare moltissimo, può effettivamente dominare quasi ogni forma di dolore. Ma raramente, purtroppo, l’impegno dei medici su questo fronte è paragonabile alla tenacia con cui lottano per dare al paziente delle “chances” di guarigione. Quando queste svaniscono, il medico tende a defilarsi, disertando così uno dei compiti maggiori della sua opera sanitaria. Rimane in tal modo senza risposta l’invocazione più accorata del malato: “Non fatemi soffrire e non lasciatemi solo!”.
Leggevo proprio in questi giorni la testimonianza di un medico francese sul settimanale Témoignage chrétien. Un medico cristiano di fronte a un’esplicita richiesta di eutanasia si pone non in posizione di difesa (“io come cristiano, come medico ippocratico, non posso e non voglio accondiscendere”), ma di interrogazione; si chiede, insieme alla sua équipe, che cosa la paziente stia di fatto domandandogli, quando chiede la morte. Prendendo un po’ di tempo per parlare con lei, si rende conto che ciò che angoscia la paziente, fino a farle desiderare la morte subito, è la paura di morire soffocata, sola, senza nessuno che sappia assisterla. Quando viene rassicurata, sia dal punto di vista clinico che assistenziale, la domanda di eutanasia non è più ripetuta. La paziente si spegne tranquillamente, alcuni mesi più tardi, senza i drammatici problemi di respirazione paventati, per i quali erano state prese le misure mediche adeguate. Alla morente il medico domanda, per scrupolo di coscienza: “Posso fare qualcosa per lei?”. In quei supremi momenti, le sta tenendo una mano. La malata, con un ultimo filo di voce, gli chiede: “Mi dia anche l’altra mano”. E muore, con le due mani del medico tra le sue. In questo caso la richiesta di eutanasia, come interruzione della vita, si è tramutata in “eutanasia” come “bella morte”. Condizione indispensabile di questa metamorfosi è l’accompagnamento umano dei morenti: non come qualcosa che avvenga accanto o malgrado l’opera medica, ma nel seno stesso di questa.