Decisioni di fine vita

Sandro Spinsanti

DECISIONI DI FINE VITA

in La società degli individui

quadrimestrale di teoria sociale e storia delle idee

n. 38, 2010/2, FrancoAngeli, Milano 2010

pp. 105-120

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Quando la fine della vita si decide in tribunale

Analogamente a quanto è avvenuto in altri paesi, anche in Italia il dibattito sulle decisioni mediche di fine vita, sui limiti alle cure e sul conflitto possibile tra leggi e libertà personale ha raggiunto l'opinione pubblica attraverso la risonanza mediatica di alcuni casi clinici. Il corrispettivo di ciò che hanno significato Mary Ann Quinlan, Nancy Cruzan o Terry Schiavo per gli Stati Uniti sono state in Italia le vicende personali di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro. I due fatti più clamorosi si sono svolti a breve distanza di tempo e si sono influenzati a vicenda. Proviamo a raccontarne lo sviluppo a un pubblico che non abbia seguito le vicende dall'interno, magari trovandosi schierato da una parte o dall'altra delle posizioni contrapposte i.

Il primo è legato al nome di Piergiorgio Welby. Affetto da distrofia muscolare, nel 1997 venne ricoverato in ospedale per una crisi respiratoria; con il suo consenso venne sottoposto a tracheotomia e poi a ventilazione meccanica gestita a domicilio, con l'aiuto della moglie.

Con il tempo la situazione è diventata per lui intollerabile. Nel 2006 si rivolse a un giudice civile per ottenere l'autorizzazione di un medico a staccare il respiratore e a somministrare contemporaneamente una sedazione. Il giudice emise una sentenza ambigua: riconosceva a Welby il diritto di chiedere il distacco dal respiratore, ma contemporaneamente sosteneva di non poter disporne l'esecuzione, non essendoci una legge specifica. Welby allora rivolse una richiesta in questo senso al Presidente della Repubblica con una lettera aperta che suscitò molto clamore.

Nel dicembre 2006 un medico, il dottor Riccio, si offrì volontariamente di staccare il respiratore. Il decesso avvenne a domicilio il 20 dicembre.

Successivamente il dottor Riccio è stato sottoposto a inchiesta. Iscritto nel

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registro degli indagati in ordine al delitto di «omicidio di consenziente», il medico è stato oggetto di valutazioni giuridiche contrastanti. L'ordinanza del 28 maggio 2007 sosteneva l'imputazione, ridimensionando il principio della libertà di cura alla luce del principio di indisponibilità della vita umana. Secondo il giudice delle indagini preliminari, il pubblico ministero avrebbe dovuto formulare l'imputazione nei confronti del dottor Riccio per omicidio di consenziente. Ma l'udienza del 23 luglio 2007 ribaltava l'ordinanza del 28 maggio: il giudice dell'udienza preliminare dichiarava il non luogo a procedere nei confronti del medico imputato, perché «il fatto non costituisce reato» (sentenza n. 20469/07, depositata il 17 ottobre 2007). Il caso veniva così archiviato.

Anche l'Ordine dei medici ha esaminato il comportamento del medico dal punto di vista disciplinare e lo ha assolto. L'autorità ecclesiastica, invece, ha negato il funerale religioso, sostenendo che la scelta di Welby poteva generare nei fedeli l'equivoco di essere interpretata come eutanasia.

Il caso di Eluana Englaro ha avuto origine nel 1992 e si è concluso il 9 febbraio 2009. In mezzo ci sono diciassette anni di coma di una ragazza che aveva ventidue anni al momento di un incidente d'auto e che è vissuta per tutto questo tempo in stato vegetativo. Nello stesso periodo si è svolta anche una estenuante battaglia giudiziaria condotta dal padre Beppino, per ottenere che fosse interrotta l'alimentazione forzata che manteneva in vita la figlia, in quanto «trattamento invasivo della sfera personale, perpetrato contro la dignità umana». L'argomento addotto dal padre è stata la volontà di Eluana espressa prima dell'incidente, a proposito di un amico che versava nelle stesse condizioni, di non volere per se stessa una sopravvivenza in stato vegetativo. Dopo il passaggio nelle corti territoriali ― Tribunale di Lecco e Corte di appello di Milano ― il caso è approdato alla Cassazione. Le sentenze di primo e di secondo grado hanno rigettato la richiesta con l'argomento che le decisioni di fine vita sono un diritto personalissimo, non suscettibile di rappresentazione; pertanto nessuno può pronunciarsi in merito, anche se nominato dal paziente stesso.

Con la sentenza n. 21748 del 16 ottobre 2007, tuttavia, la Cassazione ha annullato i giudizi precedenti e ha rinviato la causa a una diversa sezione della Corte di appello di Milano. Il principale appunto rivolto alla corte territoriale è stata l'omissione di accertare se la richiesta di interruzione del trattamento formulata dal padre in veste di tutore (curatore speciale) riflettesse gli orientamenti di vita della figlia. La Cassazione è partita dal presupposto che ogni persona capace possa decidere a quali trattamenti sottoporsi, in armonia con il proprio concetto di vita degna. Facendo un passo ulteriore, qualora la persona diventi incapace, il giudice, ricostruendo la personalità

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del malato, può arrivare alla conclusione che le attuali condizioni non corrispondono alla volontà del malato. Il principio di diritto affermato dalla sentenza prevede che il giudice possa autorizzare la disattivazione di un presidio salvavita quando sia stata verificata la presenza di due presupposti: che il paziente si trovi in una condizione valutata, in base a rigorosi criteri medici, come stato vegetativo irreversibile, e che l'istanza di interruzione sia espressiva, con elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente stesso, «tratta dalle sue precedenti dichiarazioni, ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti». Il tutore deve agire nell'esclusivo interesse dell'incapace, decidendo non 'al posto' dell'incapace o 'per' lui, ma 'con' l'incapace medesimo. La ricostruzione della presunta volontà del paziente incosciente è perciò condizione indi-spensabile per assicurare la legittimità della decisione. La Cassazione respinge invece la richiesta al giudice di autorizzare il distacco del sondino nasogastrico in quanto «forma di accanimento terapeutico»: questo trattamento è valutato invece come «presidio proporzionato». Il giudice deve limitarsi a esprimere una forma di controllo della legittimità della scelta nell'interesse dell'incapace, secondo i due criteri dell'irreversibilità dello stato vegetativo e della volontà certa del paziente.

Il caso Englaro ha dato luogo a un confronto duro tra varie istituzioni circa l'attuazione del protocollo che autorizzava l'interruzione dell'alimentazione. Si è opposto il Governo (Consiglio dei ministri), anche per voce del Presidente del Consiglio, ed è intervenuta la gerarchia della Chiesa cattolica. Mentre il Governo preparava un disegno di legge apposito, Eluana si è estinta il 9 febbraio, tre giorni dopo l'avvio del protocollo che prevedeva la progressiva riduzione dell'alimentazione, per arresto cardiaco dovuto a disidratazione. Gli ultimi giorni sono stati caratterizzati da pubbliche manifestazioni in supporto delle posizioni contrapposte. Il caso ha avuto ampia risonanza anche nella stampa internazionale.

Tali i fatti e le battaglie giudizi arie a cui hanno dato luogo. Ma la realtà non è costituita solo dai fatti. Questi si presentano rivestiti di parole, di immagini e di emozioni. Per questo è così difficile individuare delle norme condivise da tutti i cittadini.

Le parole: questioni semantiche

Le parole, anzitutto. Le due storie acquistano significati diversi a seconda che le qualifichiamo come storie di eutanasia, di rinuncia all'accanimento terapeutico o a trattamenti futili (o mezzi straordinari), oppure come storie di omicidio di consenziente, o anche di decisione autonoma di mettere

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dei limiti alle cure. La connotazione di ognuno di questi termini è diversa e lascia trasparire con chiarezza l'orizzonte ideologico di chi la usa.

Nel caso di Welby il termine «eutanasia» ha giocato un ruolo cruciale. La sua decisione di rinunciare al respiratore che gli prolungava la vita in condizioni per lui non accettabili, acquista un diverso valore etico se è considerata come rinuncia a un trattamento straordinario o sproporzionato, o come richiesta di eutanasia. La confusione è stata sostenuta anche dall'essere Welby un militante politico che promuoveva una legge che permettesse l'eutanasia. Le due posizioni non sono sovrapponibili: ci sono cittadini contrari all'eutanasia che invece sono favorevoli alla rinuncia volontaria a trattamenti sproporzionati, anche se necessari alla sopravvivenza. L'eutanasia è stata esplicitamente evocata nell'interpretazione della vicenda data dalle gerarchie della Chiesa cattolica. Altri l'hanno prospettata nella logica della slippery slope («china scivolosa»: se si accetta di concedere a una persona di interrompere un trattamento salvavita, si rischia di finire nell'eutanasia...). Sta di fatto che l'uso del termine «eutanasia» solo per poche persone ha il valore positivo di «morte dolce e auspicabile»; per la maggior parte ha la connotazione negativa acquisita con le pratiche naziste. Per chi usa la parola in questo senso, chiamare eutanasia una decisione clinica significa toglierle ogni legittimità morale. Anche il termine «omicidio di consenziente» va in questa direzione: qualifica il rifiuto delle cure come una decisione contraria alla vita, basata sul presupposto che l'individuo possa disporre della propria vita e chiedere che sia interrotta.

Il fatto che le decisioni cliniche e umane acquistano connotazioni morali diverse a seconda delle parole con cui vengono denotate diventa più evidente quando utilizziamo termini come «accanimento» o «futilità». Il problema di porre dei limiti a ciò che la medicina può fare a beneficio di un malato, prolungando la vita in condizioni che a un certo punto cambiano di segno fino a diventare una condanna a vivere, peggiore del morire, è comune a tutta la pratica medica dell'area dello sviluppo. La riflessione tuttavia si è svolta, al di qua e al di là dell'Atlantico, sotto l'egida di due parole diverse, che sintetizzano due differenti approcci allo stesso problema: mentre in Europa si è parlato di «accanimento terapeutico», nell'area linguistico-culturale dell'America settentrionale il dibattito ruotava intorno alla «futilità delle cure». Possiamo dire che in Europa ci si è interrogati prevalentemente riguardo al confine che la cura non dovrebbe superare, se non vuol peccare di dismisura e creare situazioni mostruose, mentre in ambito anglosassone la preoccupazione dominante è stata quella di un uso ragionevole ed equo delle risorse.

L'estraneità della parola «accanimento» alla terminologia in uso nel dibattito bioetico anglosassone è stata rilevata da Daniel Sulmasy nella relazione

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tenuta al simposio organizzato dal Senato della Repubblica Italiana sul tema delle direttive anticipate (29 marzo 2007). Oltre a segnalare il tono accusatorio insito nell'espressione «accanimento terapeutico», Sulmasy avanza diverse altre riserve, L'accanimento sposta il baricentro della decisione sul medico, mentre l'approccio morale tradizionale enfatizzava il punto di vista del paziente nel giudicare ciò che è straordinario. Inoltre, la parola indica che è necessario raggiungere uno standard molto elevato prima che l'intervento possa essere interrotto. E ancora: l'accanimento si concentra eccessivamente sulle sofferenze causate dal trattamento stesso, piuttosto che sulla sofferenza complessiva associata al proseguimento delle cure ii.

Nell'analisi accurata dei significati denotativi e connotativi dell'accanimento terapeutico, Sulmasy non manca di annotare che questa designazione per i comportamenti medici si deve far risalire a Patrick Verspieren. Un suo libro pubblicato nel 1978 iii ci permette di ricostruire il contesto nel quale si è diffuso questo neologismo. Il presupposto è costituito da un dibattito che a-veva cominciato a prendere forma alla fine degli anni settanta all'interno del Centre Laennec di Parigi, un luogo di incontro per studenti di medicina. La rivista del Centro ― pubblicata anch'essa con il nome dell'illustre clinico René Laennec ― aveva ospitato alcuni articoli di Verspieren intorno ai limiti da porre alle possibilità di intervento sulla vita umana. La riflessione si sviluppava senza nascondere una certa tensione dialettica con il corpo medico. Questo, infatti, dava prova di una vischiosa resistenza in tutti i dibattiti che avevano un forte impatto sociale e richiedevano un cambiamento di paradigma. In quegli anni in Francia la professione medica veniva sollecitata a schierarsi per una medicina socializzata, aderendo a una convenzione nazionale tra il corpo medico e la Sécurité sociale. I medici non politicizzati si opponevano, barricandosi dietro la concezione della medicina come professione liberale, alla quale non potevano essere imposti vincoli. Non meno ostili i medici si dimostravano nei confronti di coloro che avanzavano riserve di natura etica sulle decisioni cliniche: l'etica medica tradizionale faceva corpo con il sapere medico ed era sostanzialmente autoreferenziale; i medici pretendevano di darsi le regole in modo autonomo, senza il bisogno di interventi filosofici e teologici dall'esterno. Nella rivista "Laennec" e nel periodico ufficiale dei gesuiti francesi, "Études", Verspieren prendeva posizioni prosociali, che non potevano conciliargli la benevolenza dei mandarini

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della medicina. Aveva un'affinità spirituale solo con pochi spiriti liberi, che osavano mettere in discussione le certezze trionfalistiche della medicina: con Jean Hamburger, per esempio, che nel 1972 aveva pubblicato La puissance et la fragilité, un'analisi filosofico-sociale della medicina che poneva in discussione molti luoghi comuni e coniugava la pratica medica anche con l'incertezza e la fragilità.

Lo scontro più massiccio di Verspieren con quella parte della corporazione medica che era insensibile al nuovo avvenne, appunto, a proposito della problematica che sarebbe stata designata con il neologismo «accanimento terapeutico». Verspieren era giunto a riflettere sul giusto limite del prolungamento della vita prestando orecchio alla reazione di numerose famiglie che si lamentavano per quello che veniva fatto ai loro congiunti nella fase terminale della malattia. Raccolto il malessere connesso con la morte e il morire nell'era tecnologica, si era messo alla ricerca di modi diversi di gestire le cure per i morenti. All'inizio della storia del termine, dunque, l'espressione «accanimento terapeutico» è finalizzata contemporaneamente a contestare certi comportamenti diffusi in medicina e a proporre pratiche alternative, note come cure palliative.

Nel 1975, con un gruppo di giovani medici e di studenti di medicina gravitanti intorno al Centre Laennec, Verspieren si recò in Inghilterra, al St. Christopher Hospice, dove era stato elaborato un modo di accompagnare i morenti che sapeva abbinare medicina e umanità. Alla scuola di Cecily Saunders, creatrice del primo hospice e ispiratrice della filosofia di trattamento del dolore che è stata fatta propria da tutto il movimento delle cure palliative iv, egli scopriva che era possibile accompagnare il malato che andava verso la morte in modo diverso da quanto era in uso nel suo paese. Se ne faceva subito apostolo entusiasta. Un cahier monografico della rivista "Laennec" veniva dedicato alla terapia del dolore e alla cura dei malati terminali: il Centro inglese e l'approccio innovativo delle cure palliative erano presentati con articoli molto elogiativi, quale alternativa alla diffusa insensibilità da parte del corpo medico per i problemi etici e relazionali che pone l'assistenza ai morenti.

Nel frattempo, in Francia il dibattito sull'accanimento terapeutico cresceva, a beneficio di posizioni estreme. I medici tendevano a rifiutare ogni tentativo di rimettere in discussione le pratiche correnti e tutto ciò che veniva fatto al malato trovava l'avallo nel dovere deontologico del medico di fare quanto era in suo potere per sconfiggere la malattia e prolungare la vita del malato; i richiami alla moderazione o, in certi casi, all'astensione da interventi

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terapeutici, venivano screditati agitando il fantasma dell'eutanasia. Sull'altro versante, la reazione a quella che veniva identificata come hubris medica, che calpestava illegittimo interesse del malato a porre limiti a ciò che gli veniva fatto, mobilitava progetti di natura estremistica. In pratica, era come se si fosse voluta erigere una barriera legale allo strapotere dei medici. Così va letto il progetto di legge presentato dal senatore Henri Caillavet nel 1978, identificato dall'opinione pubblica come «tutela del cittadino dall'accanimento terapeutico». Caillavet mirava a ottenere il riconoscimento legale del «testamento di vita», mediante il quale i cittadini, sani o malati, venivano autorizzati a chiedere che la loro vita non fosse prolungata artificialmente, una volta che fosse stata posta una diagnosi di malattia incurabile. La legge prevedeva il diritto, per ogni persona maggiorenne e sana di mente, di «dichiarare la propria volontà che nessun mezzo medico o chirurgico, oltre a quelli destinati a calmare la sofferenza, sia utilizzato per prolungare artificialmente la vita, se è colpita da un'affezione accidentale o patologica incurabile». Caillavet era intenzionato a fare esplicitamente riconoscere da un testo di legge che ogni essere umano ha il diritto di «rifiutare la tecnologia medica se questa gli sembra eccessiva, disumanizzante, generatrice di dolori supplementari, e soprattutto tragicamente inutile, quando l'esito fatale non può essere evitato»: questi i termini con cui il senatore aveva presentato i motivi della sua proposta.

L'intervento di Verspieren nel dibattito non si limitava a mettere in evidenza le carenze del progetto di legge. Il vizio principale della proposta era insito a suo giudizio nell'espressione «prolungare artificialmente la vita»: era troppo vaga e dal contenuto troppo incerto. Quali sono, infatti, in medicina i limiti dell'"artificiale"? Ma oltre che dall'inadeguatezza del progetto di legge, Verspieren era reso perplesso dal fatto che venissero fissati per legge i limiti delle cure da impartire ai malati. A voler legiferare in troppi ambiti con l'intento di proteggere la libertà degli individui, pensava, si rischia di imprigionarli nelle maglie di una rete giuridica astratta e inadeguata, mentre il solo linguaggio appropriato al rifiuto dell'accanimento terapeutico è il linguaggio etico. Il passaggio dall'ambito etico alla formulazione giuridica presenta non solo la difficoltà di definire quali comportamenti debbano essere esclusi in quanto accanimento terapeutico, ma anche il pericolo di sostituire una medicina 'ostinata' con una medicina lassista.

Possiamo osservare dunque come il dibattito che si sviluppò originariamente attorno all'accanimento terapeutico avesse una valenza, se non antigiuridica, quantomeno di freno rispetto alla deriva che intendeva affidare alla legge il compito di definire i comportamenti appropriati verso le persone che la medicina può tenere in vita in condizioni ritenute non accettabili.

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Un secondo aspetto importante del dibattito era l'esigenza implicita di una ridefinizione dell'etica medica. Il richiamo alla centralità dell'etica per trovare la risposta misurata e saggia nei confronti della colonizzazione del morire da parte della tecnologia medica non equivale, infatti, a una delega di giudizi di questo genere al medico. I professionisti medici tendono in genere a difendersi dall'intervento di giuristi ed esperti di etica come da un'intrusione indebita, contrapponendo ai progetti di legiferare il vecchio adagio secondo cui spetta al medico decidere «in scienza e coscienza». La formula è ambigua e potrebbe essere intesa nel senso che spetta al medico, e solo a lui, decidere, senza alcun accordo con persone estranee al corpo medico. In questo senso difensivo i medici fanno talvolta appello alla deontologia medica come a una struttura normativa sufficiente a guidarli nelle decisioni. Occorre anche riconoscere che, se il richiamo alla 'coscienza' può giustificare ogni decisione presa essenzialmente sotto la guida della soggettività del medico, quantomeno la formula ha il merito di riconoscere che la 'scienza' da sola non è sufficiente per risolvere situazioni dubbie. Per rispettare il malato e la sua volontà, il sapere scientifico non basta: sono necessarie altre qualità umane.

Proprio il rispetto della volontà del malato, indispensabile per conferire all'atto medico la sua ossatura etica, apre nuovi scenari per la pratica della medicina, soprattutto per quella relativa al segmento finale della vita. Molto spesso il paziente non è più in grado di prendere decisioni quando le tecniche mediche a finalità curativa si rivelano inutilmente aggressive nella fase terminale della malattia. Lo sforzo cui sono tenuti tutti coloro che hanno una parte di responsabilità è di cercare di interpretare la volontà profonda del malato, o ― se questo non è possibile ― di decidere al posto suo, tenendo conto di tutti gli elementi che avrebbero influenzato la sua decisione se fosse stato in grado di essere informato e di decidere da solo. Il fatto che sopporti male il trattamento; che abbia fermamente espresso in precedenza il desiderio di morire a casa sua; che abbia una famiglia premurosa che voglia assisterlo negli ultimi istanti: ecco alcuni elementi 'non scientifici' di cui è necessario tener conto, se si è animati da un vero rispetto del malato e della sua volontà. Con questi si deve confrontare la 'coscienza' del professionista sanitario.

L'etica medica dalla quale ci si aspettano le risposte che la legge non può dare non deve essere confusa con il corpo di regole che tradizionalmente porta questo nome, né si identifica con l'ethos di un solo corpo professionale. L'aggettivo «medica», apposto all'etica, non va inteso come «dei medici», bensì come «della medicina quale campo d'azione dove sono attive diverse professioni, ognuna dotata di un sapere scientifico peculiare, e soprattutto dove i cittadini assumono un ruolo attivo, sconosciuto nella

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pratica medica del passato», Questo nuovo assetto di regole presuppone l'empowerment del cittadino, alternativo alla sua tradizionale subalternità al potere medico. Per evitare equivoci, questa nuova etica medica nella maggior parte degli ambiti linguistici ha ricevuto un nome nuovo: bioetica (ad eccezione della Francia, che preferisce l'espressione etica medicav.

Nell'arco temporale in cui aveva luogo il dibattito intorno all'accanimento terapeutico, si svolgeva in ambito anglosassone una riflessione analoga utilizzando un altro termine evocativo: la «futilità delle cure» (futility). Mentre dell'accanimento terapeutico abbiamo considerato qual è stato il contesto in cui il termine è stato introdotto, per il dibattito che si è sviluppato all'insegna della futilità assumiamo invece un punto di vista retrospettivo. L'occasione è offerta da un articolo apparso nel "New England Journal og Medicine" nel 2000, sugli inizi e il declino del movimento della futilità vi. Secondo gli autori, la curva dell'interesse per il tema dei trattamenti futili si estende tra il 1987 e il 1996. Mentre prima del 1987 il concetto era praticamente ignorato dalla comunità medica, l'interesse raggiungeva l'apice nel 1995, per poi diradarsi. Come indicatore era assunto il numero di articoli sul tema reperibili con una ricerca su Medline. L'obiettivo del movimento era quello di convincere la società che si può ricorrere al sapere medico, sotto l'aspetto del giudizio clinico e delle competenze epidemiologiche, per determinare se un particolare trattamento sarebbe futile ― vale a dire inefficace o non benefico ― in una determinata situazione clinica; con la conseguenza che, qualora un trattamento sia qualificato come futile, il medico è autorizzato a non attivarlo o a sospenderlo, qualunque sia l'opinione del paziente. Sulla soglia dell'anno 2000, gli autori della rassegna si sentivano autorizzati ad affermare che il risultato dell'appassionato dibattito inclinava piuttosto nella direzione contraria: a differenza di quindici anni prima, i medici erano meno legittimati a stabilire unilateralmente quando un trattamento possa essere considerato futile.

Il dibattito ha incontrato insuperabili difficoltà nel tentativo di definire la futilità sulla base di concetti statistici, di livelli di probabilità, di rigorose misurazioni fisiologiche di natura quantitativa, dovendo infine accettare che la validità di un risultato può determinarsi a volte secondo criteri del tutto

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soggettivi (come, per esempio, la possibilità di rimanere in vita abbastanza a lungo da poter rivedere un proprio familiare). Rivelatasi illusoria la possibilità di definire in modo oggettivo la futilità di un trattamento, la discussione si è spostata sugli aspetti di etica procedurale, ovvero: chi ha il diritto, o il potere, di decidere al riguardo? Lo scenario ha visto contrapporsi l'autonomia del paziente e quella del medico. Una possibilità di chiarimento è quella di considerare l'autonomia come un complesso intreccio di obblighi relazionali che possono essere negoziati in modi diversi, a seconda di come cambiano le circostanze. La conclusione dell'articolo di bilancio del lungo dibattito ― «Parlare ai pazienti e ai loro familiari deve restare l'obiettivo centrale verso cui concentrare i nostri sforzi» vii ― è anche l'esito paradossale di un movimento che si era proposto di rafforzare il potere medico di decidere sui trattamenti. Nel dibattito sulla futilità è diventato evidente il cambiamento sociale in atto circa l'autorità medica. Nelle decisioni i medici partecipano come una voce tra le altre. La domanda decisiva non è: «Che cosa i medici ritengono appropriato?», bensì: «Come possono i medici condividere la loro saggezza?».

Un altro risultato importante è stato la raggiunta consapevolezza che, se è problematico applicare il giudizio di futilità ai trattamenti curativi (to cure), tale giudizio non può mai essere esteso ai trattamenti di accudimento e conforto (to care). Il prendersi cura non può mai essere futile.

Dunque, anche la riflessione sviluppatasi sulla futilità, come già quella sull'accanimento terapeutico, rimanda alle cure palliative quale elemento essenziale della medicina di fine vita. I professionisti sanitari non sono mai autorizzati ad abbandonare il malato, quand'anche si raggiungesse la convinzione che trattamenti ulteriori rientrano nella categoria della futilità o dell'accanimento.

Infine, il dibattito sulla futilità ha portato a privilegiare le procedure sui principi. Soprattutto negli Stati Uniti, tutte le istituzioni sono state indotte ad adottare delle policies che prevengano i conflitti e aiutino a risolverli quando sorgono. Poiché anche i tribunali tendono a non sostenere più le decisioni unilaterali dei medici, si assiste oggi a un ricorso sistematico ai comitati competenti per l'etica clinica, quale passaggio obbligato prima della via giudiziale. L'etica medica trova in tal modo il suo baricentro nella 'conversazione', piuttosto che nella valutazione unilaterale.

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Le immagini

Nel dibattito intorno all'etica delle decisioni di fine vita un ruolo importante hanno giocato le immagini, in particolare nel caso di Eluana Englaro. Il grande pubblico non ha mai conosciuto l'immagine di Eluana così com'era, dopo diciassette anni di stato vegetativo. Il padre ha presentato solo la foto di Eluana a vent'anni, prima dell'incidente. Per l'immaginazione pubblica si trattava di interrompere l'idratazione e l'alimentazione di una fiorente giovane donna. Anche l'immagine mentale era sintonizzata su questa stessa onda. Il premier Berlusconi, nella sua dichiarazione pubblica in cui si è espresso contro l'interruzione autorizzata dai giudici, ha parlato di Eluana come di una donna che sarebbe stata in grado di concepire e partorire un figlio. Affermazioni di questo genere hanno suscitato scandalo tra coloro che potevano immaginare che cosa diciassette anni di coma avessero prodotto in un corpo immobilizzato. Il padre Beppino, nel momento della massima tensione, è arrivato a invitare le più alte cariche dello Stato a visitare in clinica la figlia, per rendersi conto delle sue condizioni. Tuttavia non ha mai consentito, neppure dopo la morte, di diffondere foto che facessero conoscere l'aspetto di Eluana in stato vegetativo.

Considerazioni analoghe valgono anche per le fantasie legate all'alimentazione e all'idratazione. Coloro che si opponevano all'interruzione davano prova di immaginarie come normali pratiche di nutrizione. Bottiglie d'acqua e panini sono stati portati, polemicamente, alla clinica dove Eluana era ricoverata, per reclamare la continuazione dell'alimentazione. Anche davanti alla porta di alcune chiese sono state portate bottiglie d'acqua per perorare l'idratazione. Un sottosegretario alla Sanità ha parlato di questo tipo di nutrizione come analoga a quella che si somministra ai bambini molto piccoli, suggerendo che lo stato di Eluana fosse uguale a quello dei lattanti e che nutrirla fosse un dovere morale dello stesso genere: alimentare una persona in coma è come fornire un biberon a un lattante ... Anche da questo punto di vista la mancanza di immagini realistiche ha permesso che prevalessero ragionamenti astratti, disincarnati.

Le emozioni

Le due vicende di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro possono essere raccontate anche evocando le emozioni che hanno suscitato. Sono state emozioni forti, che hanno portato a schierarsi pro o contro. Il prendere posizione non è stato solo ideologico: si è tradotto anche nella volontà di impedire che altri adottassero comportamenti che si disapprovavano. Con tutti i

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mezzi possibili: decreti legge ad hoc, minacce alle istituzioni sanitarie, interventi delle forze dell'ordine. In un caso analogo a quello di Welby, che ha avuto luogo nello stesso periodo, per impedire che un paziente affetto da SLA, che voleva essere staccato dal respiratore, realizzasse a domicilio il suo progetto, dei carabinieri sono stati posti davanti alla porta di casa, proibendo l'accesso al medico disposto ad aiutarlo a interrompere la ventilazione meccanica. Il paziente, Giovanni Nuvoli, si è allora lasciato morire di fame e di sete. Le emozioni hanno prodotto comportamenti di vera e propria intolleranza. Ha avuto luogo una polarizzazione intorno ai due gruppi: il «partito della vita» (che induceva ad attribuire all'altro la qualifica di «partito della morte») e il partito della «libertà di scelta» (contrapposto alla coercizione autoritaria).

Non c'è stato solo il braccio di forza tra sostenitori di posizioni divergenti. Più sottile è stata la svalutazione reciproca. La presentazione del «partito della vita» con immagini caricaturali viii è simmetrica alle violenze verbali contro i fautori dell'interruzione dei trattamenti. Il padre di Eluana è stato chiamato «assassino», la sua decisione «omicidio perpetrato per via legale» (in un comunicato stampa dell'associazione cattolica "Medicina e Persona"). Hanno colpito soprattutto le condanne provenienti dall'ambito religioso: il rifiuto dei funerali religiosi a Welby, le parole dure contro Englaro (a Firenze il vescovo ha indetto una veglia di preghiera affinché desistesse dal suo proposito di interrompere l'alimentazione artificiale e le ha attribuito il titolo Abele, dov'è tuo fratello?, qualificando quindi come Caino chi si orientasse nel senso voluto dal padre e autorizzato dalla legge).

La violenza verbale ed emotiva colpisce negativamente quando viene esercitata in nome dell'amore e della vita. Una scultura barocca conservata alla Galleria Estense di Modena rappresenta due putti, uno dei quali picchia l'altro. Il titolo, L'amor sacro castiga l'amor profano, sembra un cattivo gioco di parole; nel nostro caso rende invece visibile quanta aggressione possa essere contenuta nelle posizioni morali difese in nome di un'etica superiore. Ai tanti motivi di timore per la nostra convivenza sociale dovremmo aggiungerne un altro: la 'collera dei buoni' ... Le emozioni, di qualunque segno, appaiono come cattive consigliere quando si tratta di assumere una decisione etica.

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Le norme

I casi Welby ed Englaro hanno fatto emergere la necessità di distinguere la diversa natura delle norme di cui una società ha bisogno per regolare le situazioni mediche di fine vita. Sono necessarie norme giuridiche, deontologiche ed etiche. Fino ad ora non si è sentito il bisogno di regolare per legge le decisioni mediche: le norme deontologiche erano sufficienti. L'etica medica riservava al medico la responsabilità di decidere che cosa andava fatto. Il medico faceva le sue scelte «in scienza e coscienza», tutt'al più condividendo le con i familiari del malato. In una cultura molto centrata sulla famiglia, come quella mediterranea che predomina in Italia, era la famiglia il vero interlocutore del medico. Nelle varie revisioni del codice deontologico dei medici italiani, l'obbligo di informare il malato su diagnosi e prognosi e di chiedere il consenso per la terapia è stato introdotto solo nel 1995: fino ad allora era pratica corrente non informare il malato, o comunicargli una diagnosi fasulla, e decidere con i familiari se e che cosa fare.

Nel corso di questi ultimi anni le regole deontologiche hanno registrato un cambiamento sostanziale. L'autodeterminazione del malato è ora riconosciuta come un suo diritto (si parla esplicitamente di «informazione al cittadino», quindi di un diritto che non si perde per il fatto di essere ammalati). L'ultima revisione del codice (2006) estende l'autodeterminazione anche ai casi in cui il paziente non sia più in grado di comunicare con il medico: l'articolo 38, dal titolo Autonomia del cittadino e direttive anticipate, afferma che «il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tener conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato».

Questa, almeno, è la posizione ufficiale dei medici. Una delle conseguenze del dibattito pubblico è stata quella di far emergere che non tutto il corpo professionale ha fatto proprio tale cambiamento rispetto all'etica medica tradizionale. Sono molto forti, anche se marginali, le nostalgie per un modello autoritario di medicina, che contesta la nozione di autodeterminazione del paziente. Esemplare, in questo senso, è la presa di posizione dell'associazione "Medicina e Persona", che contesta il carattere vincolante attribuito alle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento nel progetto di legge in discussione in Parlamento (progetto licenziato il 12 marzo 2009): si propone che il medico possa disattendere quanto richiesto (il carattere vincolante «contrasterebbe profondamente con la libertà della professione medica: senza lihertà non esiste professione»). Un altro esempio eloquente: la dichiaruzione del prol. Franco Cuccurullo, coordinatore del Consiglio Superiore di Sanità, a proposito della richiesta di Welby di rimuovere il respiratore artificiale: «La decisione sull'eventuale interruzione di terapie, anche

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in presenza di atti scritti, spetta al medico. Alla fine è lui a scegliere, in scienza e coscienza. Una prerogativa che nessuno può sottrargli perché è il sale e il fascino della nostra professione». È inevitabile domandare quale potere abbiano le associazioni mediche di chiedere ai propri iscritti di condividere le stesse regole deontologiche.

Per quanto riguarda l'etica, il dibattito intorno a questi due casi si può considerare una chiara illustrazione della tesi di Hugo T. Engelhardt, secondo la quale nelle società pluraliste del nostro tempo siamo obbligati a convivere fra «stranieri morali» ix. Si può essere stranieri morali anche all'interno di una stessa cultura e di una stessa tradizione religiosa. Gli opposti schieramenti tra fautori della sacralità/indisponibilità della vita e qualità della vita e autodeterminazione hanno dato concretezza alla categoria di «stranieri morali». La questione ora è: si può essere stranieri morali senza essere nemici morali?

Una seconda considerazione: come deve essere concepita la legge che regola questi ambiti se vuole evitare di scatenare una 'guerra civile' bioetica in una società dove si contrappongono schieramenti irriducibili? In Italia il progetto di legge in discussione in Parlamento è stato concepito, per ammissione esplicita di rappresentanti del governo, allo scopo di impedire che si realizzi un nuovo 'caso Englaro'. È lecito dubitare che una legge che nasce con questo intento sia una buona legge.

Conclusione

Le considerazioni che abbiamo svolto si collocano nel contesto di una medicina diventata molto potente. Tanto da farei chiedere se questo' molto' talvolta non si trasformi in 'troppo'. Oggi la medicina è in grado, in senso letterale, di creare dei 'mostri'. Un'opera letteraria, concepita quando ancora l'arte medica non aveva il potere di produrre esistenze che si discostano drammaticamente dagli standard della normalità, ci permette di visualizzare questa paura. Si tratta del racconto Il mostro, dello scrittore americano Stephen Crane.

Protagonista del racconto, pubblicato originariamente nel 1899, è il servitore nero di un medico. Quando la casa di questi va a fuoco, il servo si lancia tra le fiamme per salvare il bambino, rimasto intrappolato. Ci riesce, ma è vittima a sua volta di un'esplosione avvenuta nel laboratorio del medico: un acido gli cade sulla faccia e gliela distrugge. Il medico, per riconoscenza,

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si prende cura di lui, ma tutta la comunità, sia quella bianca sia quella dei neri, si chiude per paura del mostro.

Di fronte ai benpensanti, rappresentati in particolare dal giudice, il medico difende il proprio operato: non avrebbe certo potuto uccidere quel povero essere umano, dal volto devastato (e scivolato poi nella pazzia). Ma le sue argomentazioni, per quanto ineccepibili, non cambiano la realtà: con le migliori intenzioni, mantiene in vita una mostruosità che non è collocabile né tra gli uomini, né tra gli animali.

Un momento culminante del racconto è costituito dal colloquio tra il medico e il giudice del villaggio, che va a rendergli visita in forma amichevole. Al medico rimprovera di «compiere un atto di indubbia carità» nel tenere in vita il servo che ha salvato la vita di suo figlio dal fuoco:

Per quello che posso capire, d'ora in poi sarà un vero e proprio mostro e probabilmente con un cervello danneggiato. Nessuno può osservarti come ti ho osservato io e non capire che per te è stato un problema di coscienza, ma temo, amico mio, che questo sia uno dei vizi della virtù.

Il medico non è sotto processo per il suo comportamento. Anche se l'interlocutore è un giudice, il contesto ― come sottolinea l'espressione «amico mio» ― è piuttosto quello di una consulenza morale su quale debba essere il comportamento responsabile. L'alta motivazione, sembra suggerire il giudice, non basta; e neppure è sufficiente ispirare il proprio comportamento a modelli virtuosi (il medico si sta facendo carico, con molti sacrifici, dell'esistenza miserevole del 'mostro', che è stato rifiutato da tutti e respinto ai margini del consorzio sociale). Per quanto ammirevole, il comportamento del medico può essere qualificato come uno dei «vizi della virtù». Questa è la traduzione italiana, che non riesce a rendere efficacemente il senso dell'inglese. Crane parla di blunders of virtue: potremmo piuttosto parlare di un «pasticciamento» prodotto dalla virtù x. Insomma, la virtù può condurre anche a compiere dei pasticci.

Alla fine del secolo XIX Stephen Crane non poteva immaginare quanto quegli ammonimenti sui pericoli della virtù sarebbero suonati attuali un secolo dopo, quando la medicina sarebbe stata in grado di produrre routinariamente esseri umani con le caratteristiche sociali del mostro. Non solo per la comunità, ma per le persone stesse che rischiano di essere oggetto di questi ambigui benefici della medicina, l'eventualità di essere risucchiate in una categoria antropologica sui generis, senza diritto di cittadinanza tra vivi

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e impediti di proseguire il cammino verso la morte, è diventato uno degli incubi dominanti. Ugualmente molto attuale è l'esortazione del giudice a tenere presenti non solo i motivi virtuosi dei comportamenti (Max Weber avrebbe detto: l'etica dei principi), ma anche le conseguenze (ancora Max Weber: l'etica della responsabilità). Su una parete della chiesa di San Petronio, a Bologna, campeggia la scritta: Virtus non timet quod facit. Ebbene, direbbe il giudice del racconto di Crane, anche chi si comporta secondo motivi ineccepibili deve temere che la sua azione possa produrre più male che bene. È il caso di temere non solo gli effetti dei vizi, ma anche quelli delle virtù.

i Il testo qui stampato è stato redatto per un pubblico internazionale di studiosi convocati dall'Accademia Evangelica a Tutzing (Germania, 17-18 giugno 209), nell'ambito di un confronto fra le norme giuridiche che regolano le decisioni di fine vita in diversi paesi europei.

ii Cfr. D. SulmasyDichiarazioni anticipate: si amplia la tradizione del rifiuto delle misure terapeutiche straordinarie, in Le dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari, "Convegno e seminari", 8, 2007, pp. 23-36.

iii P. VerspierenFace à celui qui meurt. Euthanasie, achamement thérapeutique, accompagnement, Desclée de Brouwer, Paris 1978, 19917.

iv Al quale Verspieren si era avvicinato attraverso lo scritto pubblicato da Elisabeth Kübler-Ross nel 1969, On death and dying (trad. it. La morte e il morire, Cittadella, Assisi 1982).

v Per quanto riguarda invece l'accanimento terapeutico, la Francia, pur avendo contribuito in modo decisivo al successo del neologismo, lo ha progressivamente abbandonato, quantomeno nella terminologia ufficiale. Nel Code de la santé publique, la legge 370 (22 aprile 2005) parla di «ostinazione irragionevole», definendola come l'erogazione di trattamenti «inutili, sproporzionati o non aventi altro effetto che il solo mantenimento artificiale della vita».

vi P.R. Helft, M. Siegler, J. LantisThe rise and fall of the futility movement, "The New England Journal of Medicine", 4/2000, pp. 293-196.

vii Ibidem, p. 296.

viii Penso, in particolare, alla copertina di "Micromega" 2009/2, numero con cd.

ix Cfr. H.T. EngelhardtManuale di bioetica (1986), il Saggiatore, Milano 1991.

x In inglese blunder sta anche per «sfondone», «errore grossolano»; to make a blunder può significare «prendere una cantonata»