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Maria Grazia Soldati
Sguardi sulla morte. Formazione e cura con le storie di vita
Presentazione di Sandro Spinsanti, Postfazione di Duccio Demetrio
FrancoAngeli, Milano 2003
pp. 7-8
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PRESENTAZIONE
Nella primavera del 1969 un giovane studente di medicina faceva uno stage di alcuni mesi nel più grande ospedale di Boston, il Massachusetts General Hospital. Nell’autunno dello stesso anno pubblicava un libro dal titolo anodino: Five cases («Cinque casi»), ma dal contenuto appassionante. Raccontando cinque storie cliniche, metteva in luce le linee di forza del cambiamento che vedeva in atto nell’ospedale. Riguardavano lo sviluppo travolgente della chirurgia, le nuove capacità diagnostiche, la diversa organizzazione dei servizi, la crescita a freccia dei costi dei trattamenti, che avrebbe ben presto richiesto un diverso sistema di pagamento delle prestazioni: tutti aspetti della trasformazione dell’ospedale che sarebbero diventati macroscopici negli anni seguenti. Ci voleva una particolare facoltà visiva ― e un’intelligenza fuori del comune ― per indovinare lo sviluppo quando i cambiamenti erano ancora in boccio. Ma l’acutezza non mancava allo studente di medicina che osservava lo svolgersi della vita quotidiana nel MGH: si chiamava Michael Crichton. Di lì a poco avrebbe lasciato gli studi di medicina e, dopo una deviazione per la biologia, si sarebbe dedicato alla scrittura, diventando uno dei più fortunati creatori di best seller. E diventato universalmente noto come l’ideatore di E.R. Medici in prima linea, una delle serie televisive di culto. Sfruttando il legame del suo nome con la serie, la traduzione italiana di Five cases è stata intitolata Casi di emergenza 1.
Tra gli sviluppi della medicina che l’intuitivo studente aveva messo in rilievo c’era anche la tendenza a diventare sempre più frazionata in specializzazioni e concentrata sugli organi da curare. Riporta, incidentalmente, la frase di un docente a un giovane medico in formazione, di cui stava facendo la supervisione: «Mi parli dei reni del paziente e non dei suoi guai con la moglie» 2.
Il docente aveva ragioni da vendere: l’ospedale è attrezzato per curare i reni, non per sanare i dissapori con la moglie. Eppure nel suo atteggiamento era insita una distorsione del rapporto terapeutico che sarebbe diventata macroscopica solo con il crescere della scientificità della medicina.
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L’intuizione di Crichton ha ricevuto conferme inoppugnabili nel trentennio trascorso: le straordinarie capacità terapeutiche acquisite dalla nostra medicina sembrano procedere parallelamente a una restrizione del campo visivo (to know more and more about less and less, dicono in inglese). L’aumento della capacità di curare è pagato con la diminuzione della volontà di prendersi cura. Ascoltare il paziente (sì, i suoi problemi con la moglie..., ma non solo: il suo vissuto di malattia, le sue emozioni, i suoi valori e le sue priorità) è diventato superfluo, da quando una diagnostica sempre più sofisticata ha aumentato la capacità di far parlare i suoi organi; ancor più, di accedere alla struttura stessa biomolecolare dei mali che l’affliggono, saltando il momento del vissuto personale, la mediazione della parola. La medicina sembra così incamminata a diventare davvero la muta ars (come la chiama Virgilio nell'Eneide). Per questo la nostra medicina, efficace e potente come mai lo era stata nella storia dell’umanità, è percepita così lontana dalle persone che pur vi fanno ricorso in misura crescente.
Quello che Michael Crichton non era riuscito a cogliere, e quindi non registrava nel suo libro del 1969, era che nel grande corpo della medicina si andava profilando una risposta positiva a questa forma di malessere. Il riferimento è al movimento delle medical humanities, che più e meglio della bioetica ha saputo rendersi portavoce delle istanze di riequilibrio della pratica medica. Mentre la bioetica, infatti, ha perso ben presto la strada della prescrizione di comportamenti in armonia con le esigenze del rispetto dell’autonomia delle persone e della giustizia a livello sociale, le medical humanities hanno dato voce a un concerto polifonico di discipline e saperi che ricostruiscono tutto l’ampio spettro di un processo di cura. Sono i saperi che «raccontano», contrapposti a quelli che «contano» (per riprendere i termini in cui Tullio De Mauro e Massimo Bernardini attualizzano il dibattito sulle due culture, quella delle scienze esatte e la cultura delle scienze umane) 3. Gli uni e gli altri, non gli uni contro gli altri. Anche se il trattamento delle malattie croniche e le relazioni di cura con i malati che stanno andando inarrestabilmente verso la fine della vita fanno dare al prendersi cura, all’ascolto e al dialogo nella reciprocità, l’assoluta priorità.
È in questo contesto che va collocato il pregevole lavoro di Maria Grazia Soldati.
Nasce dalla pratica, condivisa con altri operatori di diversa professionalità ma di identico orientamento, a dare il posto centrale al paziente nel rapporto di cura. Non a parole, ma con la parola! Dare la facoltà al malato di fare propria la vita che sfugge, inserendola in una trama narrata, è molto di più di un balsamo di benevolenza: è un vero e proprio momento terapeutico. Dovremo solo auspicare che questo modo di fare medicina non resti confinato nel segmento finale della vita ― e per pochi privilegiati! ―, ma che contagi positivamente ogni altro momento del processo di cura. Fino a creare la convinzione che non c’è buona medicina senza voci dei pazienti, senza le loro storie, senza quel «fare» (poiesis) che è il racconto.
Note
1 Garzanti, Milano, 1995.
2 p. 199, op. cit.
3 T. De Mauro - M. Bernardini, Contare e raccontare, Laterza, 2003.