Umanizzare la malattia e la morte

UMANIZZARE LA MALATTIA E LA MORTE

Documenti pastorali dei vescovi francesi e tedeschi

commento di Sandro Spinsanti

Edizioni Paoline, Roma 1980

pp. 5-36

INDICE

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5        INTRODUZIONE di Sandro Spinsanti

5        Attorno al moribondo: la congiura del silenzio

9        Perché abbiamo emarginato la morte?

18      Morire umanamente: un diritto

27      Due episcopati si interrogano sulla morte

36      Bibliografia

37      EPISCOPATO FRANCESE: Problemi etici posti oggi dalla morte e dal morire

38      Dibattiti profondamente ambigui

41      Costatare la morte

45      Saper non prolungare abusivamente la vita

49      Alleviare la sofferenza

55      L’assistenza ai morenti

59      La verità al morente

61      Il tabù della morte

63      L’eutanasia

 

69      EPISCOPATO TEDESCO: Morte degna dell’uomo e morte cristiana

69      I. Il morire e la morte nella nostra vita

69         Cambia l’atteggiamento verso il morire e la morte

70         Dibattiti sulla morte

71         Insufficienze nella formazione delle professioni sanitarie

73         Gli effetti del morire sull’ambiente

74         La vita nelle ultime fasi

75      II. La medicina moderna e lo sviluppo della società hanno cambiato il volto della morte

75         Successi e possibilità della medicina moderna

76         Pericoli per una vita degna dell’uomo nelle ultime fasi

78         Postulati per una morte degna dell’uomo

79         L’ospedale come «Hôtel du bon Dieu»

81         Il desiderio di morire a casa propria

82         Assistenza sanitaria ambulante

83         Vantaggi delle cure a domicilio

85         Postulati per le nostre comunità

87     III. L’assistenza e la presenza al momento della morte

88         Che cosa si intende per assistenza ai morenti?

90         Le fasi del morire

93         Necessità di confrontarsi personalmente con la morte

94         Il problema della verità al morente: si può parlare chiaramente a un malato grave?

96         A chi spetta il compito di assistere un morente?

98         L’assistenza al capezzale del morente

99         Limiti alla dignità del morire imposti dall’ospedale.

100       Opportunità che vi sono a morire in casa propria

101       Postulati per gli ospedali

103   IV. La testimonianza cristiana e i sacramenti come segni della vicinanza di Dio

103       Cosa significa credere nell’ultima fase della vita

103       Credere significa: aggrapparsi a Dio

105       Credere significa: distaccarsi

107       Come d incontra nella morte il Dio che ci accompagna?

107       Il Dio che ci accompagna nell’Antico Testamento

108       Il Dio che ci accompagna nel Nuovo Testamento

109       L’esperienza della presenza di Dio nell’assistenza a chi muore

110       La preghiera personale con il morente

112       I sacramenti: un aiuto nella malattia grave

112       La conversione personale

114       L’unzione dei malati come segno di consolazione e di forza

114       L’amministrazione dell’unzione degli infermi

117       Il viatico

118       Presenza della Chiesa presso il defunto

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INTRODUZIONE

Attorno al moribondo: la congiura del silenzio

Una volta si sapeva morire. Lo si imparava cosi come si apprendeva qualsiasi altro comportamento, guardando cioè come facevano gli altri. Le morti erano più frequenti, prima che i progressi della medicina e le migliori condizioni igieniche prolungassero la vita media in modo così spettacolare solo in pochi decenni. E per di più erano pubbliche. A meno che non si trattasse di morte violenta o d’incidente, si moriva nel proprio letto, circondati dai familiari. I bambini non erano tenuti lontano dal capezzale dei morenti; anzi, sarebbe parsa una crudeltà privarli di quell’ultimo contatto.

La «buona morte» era uno spettacolo edificante. C’era quasi un obbligo morale di avvertire colui che stava per morire, nel caso in cui non avesse già sentito l’approssimarsi della fine, perché non mancasse il grande momento. Morire senza rendersene conto era la sciagura

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più paventata dai devoti («a subitanea et improvisa morte: libera nos, Domine», si pregava nelle litanie dei santi). La preparazione alla morte ha costituito, fino a un’epoca molto recente, un cardine della predicazione e della devozione privata. Si viveva per morire, e si moriva per la vita eterna. «Morire bene» era un’arte: aveva i suoi maestri (i morenti che avevano fatto del loro trapasso una specie di solenne liturgia e che venivano citati ad esempio dai predicatori), i suoi testi (le «artes moriendi», appunto), i suoi cultori (potenzialmente, tutte le persone timorate di Dio).

Ieri come oggi la morte faceva paura. Ma la ragione dell’angoscia era diversa: in passato il credente aveva paura di ciò che faceva seguito alla morte, del giudizio di Dio e della sorte eterna che gli era destinata; oggi teme di più i tormenti dell’agonia. La paura che abita molti di noi è soprattutto di finire in quella terra di nessuno che si estende tra il mondo dei vivi e quello dei morti, di diventare uno di quei corpi vegetanti che non finiscono mai di morire. Il rischio maggiore di morire in modo disumano è connesso con le malattie degenerative, come il cancro. Per questo il cancro è diventato il tabù principale del nostro tempo.

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Attorno ad esso si è formata una specie di mitologia popolare, fatta di immagini raccapriccianti, di sensi di colpa, di paure irrazionali di contagio 1. Simbolo della malattia mortale per eccellenza, nessuno osa nominarlo. Eppure in Italia muoiono di cancro 110.000 persone ogni anno. Quante probabilità hanno di sapere che cosa sta loro capitando, di programmare la propria vita residua, di essere fino alla fine responsabili delle decisioni che li riguardano? Pochissime. Attorno a loro si estende la congiura del silenzio. L’uno o l’altro familiare si vanterà poi di avere saputo celare al morente la natura del suo male fino all’ultimo. Alcuni non sanno, perché non vogliono sapere: anche questo è un loro diritto. Ma quanti malati terminali soffrono nell’anima dolori più atroci di quelli del corpo perché non possono parlare con nessuno delle loro emozioni di fronte alla fine che sentono imminente?

Il compito di dare l’annuncio della morte in passato era riservato al sacerdote. Finché la morte era un atto religioso, ossia il passaggio da questo mondo a Dio, era compito dei ministri della Chiesa assistere il morente nella liturgia della sua morte. I sacramenti offrivano

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il sigillo della presenza divina; i familiari facevano corona, come «ecclesia domestica», al mistero del trapasso dal tempo all’eternità. In epoca di secolarizzazione, allorché si muore non per destino o per chiamata di Dio all’altra vita, ma per il fallimento della scienza medica che non riesce a prolungare la vita oltre un certo limite, la posizione del sacerdote è diventata precaria. «Chiamare il prete» vuol dire, nel linguaggio popolare, che il medico ammette di essere arrivato al termine delle sue possibilità terapeutiche, che bisogna abbandonare ogni speranza di guarigione e «pensare all’anima». Equivale praticamente a una sentenza di morte. Per non spaventare il morente, che si è continuato a illudere con «pie» menzogne, si rimanda il più possibile. Quando il ministro giunge al capezzale, si trova per lo più di fronte a un essere senza coscienza. Tutto quello che ci si aspetta da lui è che amministri i sacramenti. Come possono i sacramenti, in tali condizioni, essere dei «segni della fede»? La fede del morente può essere solo supposta; né è pensabile che tali gesti gli diano, ex opere operato, quel «conforto» che pretendono gli annunci mortuari. La vaga religiosità residua nell’ambiente familiare, che domanda, per proprio sgravio di coscienza,

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che il sacerdote «faccia tutto quello che deve fare» sul morente, è per lo più lontanissima dalla partecipazione che domanderebbe la celebrazione di un sacramento. Non ci stupisce allora il disagio dei sacerdoti quando si vedono ridotti, da annunciatori del Vangelo, a stregoni che praticano riti incomprensibili intorno agli agonizzanti. La disaffezione dei sacerdoti dai riti tradizionali e l’impossibilità pratica di parlare al morente della sua fine, quando tutti attorno a lui hanno scelto il partito del silenzio, aumentano la solitudine totale di chi è arrivato al termine dei suoi giorni.

Perché abbiamo emarginato la morte?

Non possiamo accontentarci di costatare come muore l’uomo d’oggi nella società che abbiamo costruito. Vogliamo anche capire perché si è arrivati a prescrivere un tale comportamento al morente. L’ordine sociale, che non può sussistere senza una certa uniformità, è garantito mediante una sottile, spesso informale, regolazione dei comportamenti. Tra quelli devianti, alcuni vengono tollerati, altri puniti. Anche se non c’è un’autorità ufficiale che sancisca a quali regole ci si debba attenere,

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tutti sappiamo che ci sono alcune cose che «non si fanno» ed altre che «si fanno».

Anche il modo di morire è determinato dalla cultura in cui viviamo: c’è un morire ammesso, corretto, decente, e uno che cade sotto il biasimo sociale. Inconsciamente ci sforziamo di morire come ci si attende da noi, anche se questa morte in sordina è sempre più angosciosa, sempre meno degna dell’uomo. In altre culture si muore — e naturalmente si vive — diversamente. Non è facile convincersene, perché abbiamo la tendenza ad assolutizzare la nostra esperienza. È necessaria un’opera di educazione che ci indirizzi lo sguardo oltre i confini geografici e quelli del tempo. La prima è opera dell’antropologo, la seconda dello storico.

Una folta pubblicistica ci ha fornito in questi ultimi anni una quantità di informazioni sulla morte e i costumi sociali legati ad essa. Un esempio del lavoro antropologico è fornito dall’opera di L.V. Thomas 2. Il procedimento scelto dall’antropologo è quello comparativo; confrontando tra loro le diverse risposte culturali al problema della morte, si mette in evidenza tanto la differenza quanto l’unità della

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natura umana. Thomas ha istituito un confronto tra una società arcaica attuale, cioè il mondo tradizionale negro-africano, e la società industriale, meccanizzata, produttivistica, che è la nostra. Nel mondo africano il gruppo si fa carico dell’individuo dalla nascita alla morte: lo integra ai differenti ambienti sociali, moltiplica i riti di passaggio, lo assiste e rassicura in caso di malattia, insegna come morire, organizza funerali e lutto. Nel nostro ambiente culturale, al contrario, l’individuo si trova isolato di fronte ai suoi problemi (insicurezza, angoscia, traumi): muore solo, non è più circondato da simboli e riti che tranquillizzano, niente è previsto per aiutarlo a fare il lutto per la perdita della vita propria e altrui.

La conclusione che l’antropologo tira dal confronto è tagliente: «C’è una società che rispetta l’uomo e accetta la morte: l’africana; ce n’è un’altra, mortifera, tanatocratica, ossessionata e terrificata dalla morte: quella occidentale». La posizione che la morte occupa nel nostro pensiero è ambigua. Le si accorda troppo, dal momento che le si attribuisce il potere di annullare completamente l’essere; non le si dà abbastanza, perché la si riduce a un avvenimento puntuale, privo di spessore simbolico, senza radici nell’immaginario. Il riferimento al

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caso africano ha un valore illustrativo, più che normativo. Altri studi antropologici — con riferimento, per esempio, a culture dell’area geografica del Brasile 3 — portano alla stessa conclusione: esistono società che hanno fatto circa la morte scelte più sagge delle nostre. In esse i problemi legati alla morte sono risolti in modo da salvaguardare gli interessi sia dell’individuo che del gruppo.

Un altro modo per sottrarci all’azione ipnotica che esercita su di noi l’esperienza culturale che viviamo è quello di confrontarla con il passato. Per correggere la nostra miopia storica possiamo ricorrere al lavoro di ricerca di Philippe Ariès. Con numerosi saggi e opere sistematiche 4, ha ricostruito gli sviluppi del sentimento della morte in Occidente nell’ultimo millennio. La sua ipotesi è che esista una correlazione tra l’atteggiamento davanti alla morte e le variazioni della coscienza di sé e dell’altro, il senso del destino individuale e del grande destino collettivo. Una forte incidenza esercita anche la credenza nella sopravvivenza individuale e nell’esistenza del male. Cambiando questi

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elementi, nel periodo che va dal Medioevo all’epoca contemporanea si trasforma anche lo atteggiamento verso la morte. Lo storico delle mentalità riesce a coglierlo nei mille dettagli della vita quotidiana; fonti letterarie e iconografiche, liturgie ufficiali e devozioni private dei fedeli, sepolture e cimiteri, testamenti e atti notarili. Affondando lo sguardo nel passato dello Occidente, ci rendiamo conto che non esiste un unico atteggiamento verso la morte — il nostro! —, come ingenuamente siamo portati a credere. Abbiamo piuttosto diversi modelli, irriducibili l’uno all’altro. Seguendo la sistemazione di Ariès, si sono avuti successivamente: la «morte addomesticata» (Patteggiamento patriarcale in cui la morte è insieme prossima, familiare e insensibile, accettata come cosa ovvia — «tutti moriamo» —, elemento dello scenario familiare); la «morte di sé» (quando il senso del destino si è spostato dalla comunità all’individuo, e la morte è stata vista come la distruzione della propria identità, staccata ormai dal destino collettivo); la «morte romantica» (che Ariès chiama anche «morte di te», per evidenziare che l’affettività, prima diffusa, si è ormai concentrata su alcuni rari esseri, dai quali non si sopporta più di separarsi): è l’epoca delle «belle morti», impregnate

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di patetico, e del culto dei morti; la «morte rovesciata», infine, il modello del nostro tempo. Rispetto alle idee e ai sentimenti tradizionali è avvenuto un rivoluzionamento totale: la morte si cancella fino a sparire, è nascosta allo stesso morente. La morte diventa qualcosa di sporco, da sottrarre anche agli sguardi dei congiunti. La medicalizzazione della morte, iniziata con i primi successi terapeutici della medicina scientifica, celebrerà i suoi trionfi nell’ospedale concepito come istituzione totalitaria. La morte scompare così definitivamente dall’universo domestico. A rendere totale l’esclusione della morte basterà un ultimo tratto: la soppressione del lutto. I sopravvissuti che mostrino in pubblico il dolore per la perdita del congiunto sentono il gelo attorno, la rarefazione dei rapporti sociali. Il lutto è diventato uno dei comportamenti sociali devianti che la nostra società, basata sulla salute-giovinezza-felicità, non tollera più.

Lo storico si limita a registrare la rivoluzione nei sentimenti e nei costumi relativi alla morte; i critici della cultura si domandano il perché. Come mai siamo arrivati a tacere sistematicamente della morte, a negarne in maniera organizzata l’evento, a rimuovere dal campo della nostra coscienza tutto ciò che si

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riferisce ad essa? Il fenomeno della diffusione del tabù della morte in Occidente può essere interpretato in modi diversi. Qualcuno pensa che l’evacuazione della morte sia da attribuire al predominio dello spirito capitalistico che cementa il nostro ordine sociale. In casa del capitale è proibito parlare di morte! Quando i rapporti esistenti sono solo quelli utilitaristici, secondo la logica della mercificazione, l’individuo che cessa di produrre e di consumare è escluso dal patto sociale. Altri individuano la radice più profonda del processo nell’ascesa della classe borghese, che ha scalzato dalle radici la concezione fino allora prevalentemente clericale della vita, nella quale il pensiero della morte aveva un ruolo importante ed era fortemente accentuata la relatività della vita su questa terra 5. Nel corso del processo di emancipazione la borghesia non è riuscita a trovare nella nuova concezione della vita una soluzione al problema della morte. Di fronte alla morte non si sapeva fare altro che tacere o negarla: «Il borghese è un figlio di questa terra. La sua vita gli basta. Così egli combatte il primato della morte».

Altri critici della cultura attribuiscono al

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pensiero scientifico la responsabilità della progressiva scomparsa della morte dal quadro di vita quotidiano della nostra civiltà. Le scienze naturali hanno oscurato la visione dell’aldilà; il pensiero scientifico ha introdotto anche la morte in una prospettiva di secolarizzazione. Così la morte, dopo essere stata per secoli una realtà religiosa inviolabile, è potuta diventare oggetto di ricerca scientifica 6. Anzi, ha preso un posto di primo piano nel sapere scientifico moderno relativo alle scienze umane: è la tesi dell’epistemologo M. Foucault. Nell’opera Nascita della clinica moderna ha applicato allo sguardo medico il suo metodo «archeologico», che intende ricostruire ciò che in profondità rende conto di una cultura. Ha analizzato lo sviluppo della medicina tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo: appena mezzo secolo, ma decisivo per l’instaurarsi di un nuovo rapporto tra la percezione del corpo e il linguaggio sul corpo 7.

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Nasce in questo periodo quel modo singolare di considerazione del corpo e della malattia che sarà chiamato «occhio clinico». La disciplina che lo costituisce è l’anatomia patologica, cioè quel processo di verifica delle «cause» del decesso a cui si procede dopo la morte; il docente è il cadavere: il cadavere aperto ed esteriorizzato è l’intima verità della malattia. La morte, fissata nei suoi meccanismi, non più confusa con la malattia, diventa la grande analista. La malattia, vista dal cadavere, perde il suo aspetto enigmatico; con l’autopsia lo invisibile diventa visibile. La vita rimane oscura finché non è vista a partire dal cadavere: allora la vita stessa diventa limpida come il cadavere. L’anatomia patologica ha dissipato in medicina la paura della morte. Per tendenza immemorabile gli occhi del medico si volgevano verso l’eliminazione della malattia, verso la salute da ripristinare; la morte restava alle sue spalle come la minaccia del suo sapere e del suo potere. Ora lo sguardo medico chiede

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conto alla morte della malattia e della vita stessa. La medicina ha integrato la morte «in un insieme tecnico e concettuale in cui essa assume i suoi caratteri specifici e il suo valore fondamentale di esperienza».

Morire umanamente: un diritto

Non è solo per curiosità intellettuale che ci interroghiamo su che cosa determina i nostri comportamenti nei confronti della morte. Vogliamo capire, perché vogliamo cambiare; e vogliamo cambiare, perché ci rendiamo conto che oggi si muore in un modo che non è degno dell’uomo. La denuncia del carattere sempre più disumano che assume il morire nella nostra cultura è venuta dai cultori delle scienze dell’uomo, sociologi e psicologi in primo luogo 8. Mettendosi ad esaminare come muore l’uomo oggi, hanno infranto il tabù e avviato una tacita ribellione all’evacuazione della morte dalla nostra civilizzazione. Studi dettagliati hanno preso in considerazione, per esempio, la coscienza del morire. Analizzando

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il modo in cui l'équipe medica comunica col malato senza speranza, ci si è resi conto che tale coscienza è completamente sbilanciata da una sola parte, quella del medico, che detiene tutto il sapere e il potere. La dissimulazione è la regola generale di comportamento; la conoscenza completa e condivisa della propria sorte da parte del malato grave è un caso eccezionale. I segni della morte sfuggono al malato; i medici e le infermiere, che sono in grado di interpretarli, preferiscono nasconderglieli.

Anche il «tempo di morire» è stato sottoposto a indagine. Ne è risultato che Patteggiamento davanti alla morte è cambiato non solo per l’alienazione del morente, ma anche per la variabilità della durata della morte. I progressi della medicina continuano ad allungare il processo del morire. Al limite, esso tende a dipendere dalla volontà del medico, che deve decidere se mettere in atto, tenere in funzione o arrestare le complesse apparecchiature della rianimazione artificiale. Il morente non è più che un povero oggetto privo di volontà, e spesso di coscienza. Se il personale ospedaliero può prevedere l’ora della morte, non la comunica. Medici e infermieri ne parlano tra loro a mezze parole, per allusione. Il morente

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non ha più uno status sociale. L’assistenza tecnica prolunga l’esistenza dei malati, ma non li aiuta a morire.

Un posto di particolare rilievo in questa produzione spetta all’opera della dott.ssa E. Kübler-Ross. Il volume con cui ha divulgato il suo lavoro 9 è apparso in America nel 1969: da allora è diventato un punto di riferimento obbligato per tutti coloro che si occupano dell’assistenza ai morenti. Attualmente è tradotto e conosciuto anche in Europa. Vedremo più avanti quanta parte occupi nel documento dell’episcopato tedesco. Nello studio del morire la Kübler-Ross ha introdotto un’innovazione che ha l’audace semplicità delle cose che, non appena proposte, appaiono le più ovvie. Invece di osservare i morenti come oggetti, la Kübler-Ross li ha trattati come persone umane, capaci in quanto tali di relazione. Ha instaurato con i pazienti allo stato terminale dei colloqui semi-strutturati, vertenti sulla loro condizione, i loro bisogni emotivi, la comunicazione con l’ambiente. Di tali colloqui ha fatto poi materiale di studio per tutti coloro che avevano il compito di assisterli: medici, personale infermieristico, cappellani. Per capire

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che cosa vive un paziente inguaribile, ha creato una situazione in cui questi potesse esprimersi; e ha cercato di convincere il personale ospedaliero che è necessario anzitutto mettersi alla scuola del malato, ascoltarlo per comprendere in modo psicodinamico quanto vuole comunicare (con le parole, i silenzi, i gesti, con tutto il comportamento).

Uno dei risultati più divulgati dell’opera della Kübler-Ross è la nozione di «fasi del morire». Dal momento in cui viene annunciata la probabilità di una morte prossima, si possono identificare nel malato cinque fasi, ognuna con i suoi comportamenti tipici: il rifiuto, accompagnato dall’isolamento e dall’incredulità; la rivolta, che proietta i sentimenti rabbiosi in tutte le direzioni, da Dio alla famiglia, al personale curante; il patteggiamento, che è una specie di compromesso in cui il malato che si sa condannato cerca di strappare una dilazione; la depressione, creata da problemi esistenziali che il malato si sente incapace di risolvere o da uno stato d’animo orientato al distacco; l'accettazione, in cui, in un vuoto di sentimenti, si abbandona la lotta e ci si lascia scivolare nel riposo finale prima del lungo viaggio. La Kübler-Ross non pretende che tutti i morenti attraversino i cinque

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stadi, e nell’ordine da lei stabilito. È piuttosto probabile che il morente si arresti all’uno o all’altro stadio, specialmente a quello del rifiuto della propria morte, se tutti attorno a lui congiurano per mantenerlo nell’ignoranza o nell’illusione. La conoscenza dei diversi stadi assume un’importanza determinante per chi assiste il morente, sia egli un familiare, un’infermiera o il cappellano. Il suo compito comincia col rendersi conto che cosa sta vivendo il morente: perché i suoi bisogni sono diversi a seconda del momento che attraversa. Se colui che assiste il morente non sa distinguere, per esempio, il momento del trapasso dalla resistenza all’accettazione, può fargli più male che bene: sarà frustrato nei suoi sforzi e renderà la morte un’ultima dolorosa esperienza.

Gli studiosi di psicologia sociale, gli psicoterapeuti e gli esperti della comunicazione interpersonale che si sono dedicati ai morenti hanno dovuto sperimentare personalmente le odiosità che si riversano su chi osa infrangere un tabù. Contro le loro ricerche si sono levate resistenze fortissime, specialmente nell’ambiente ospedaliero. Si è stentato ad ammettere che voler conoscere gli atteggiamenti umani all’avvicinarsi della morte non è malsano

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sadismo, ma il presupposto indispensabile per umanizzare la morte.

Si continua a ripetere che nessuno vuole guardare in faccia la propria morte, e che quindi mentire al morente è un gesto di compassione, perché lo protegge dall’ansia. Ma coloro che si sono avvicinati al morente con lo stato d’animo giusto — senza brutalità, certo, ma allo stesso tempo aperti alla comunicazione — si sono resi conto che la paura di parlare della morte è un atteggiamento socialmente imposto. Una volta avviata la conversazione, i morenti ne ricavano un vero beneficio. La loro ansia, invece di aumentare, si scarica.

Mentre le scienze dell’uomo mantengono vivo il dibattito sulla necessità di riconoscere un ruolo sociale al morente, e quindi di assisterlo secondo i suoi bisogni, un’altra istanza a umanizzare la morte viene dall’etica. Più precisamente dalla «bioetica», cioè da quella riflessione critica che verte sulle accresciute capacità dell’uomo di influire sulla vita e sulla morte.

I medici sono tradizionalmente portati a porsi interrogativi etici sulla liceità o meno di certi loro interventi. Rispondendo a simili quesiti Pio XII ha svolto un magistero autorevolissimo. Le norme di comportamento che

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ha indicato ai medici, per esempio in materia di rianimazione e di terapia antalgiche, sono considerate con rispetto anche da chi non condivide la fede cristiana. Con la bioetica si fa strada, invece, un atteggiamento nuovo: non sono tanto i medici che si interrogano sulle norme deontologiche o etiche a cui attenersi nella professione, ma piuttosto persone preoccupate del destino dell’umanità che pongono interrogativi alla scienza. Quella medico-biologica fa sorgere problemi di una gravità particolare. Le possibilità attuali di manipolare la materia e di intervenire nei processi vitali sono tanto grandi che è necessario porvi un limite. Il diritto dell’uomo alla salute può entrare in conflitto con altri diritti umani, a cominciare da quello della libertà. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sentito il bisogno di pubblicare una dichiarazione su «La salute e i diritti dell’uomo. Con particolare riferimento ai progressi in biologia e in medicina», per proteggere la persona umana e la sua integrità fisica e intellettuale dalle violenze che può subire in nome del progresso scientifico. Nel documento è fatto esplicito riferimento al «diritto di morire» 10. Ciò che si

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domanda ai medici, in nome del diritto di ogni uomo ad avere una morte umana, è che rinuncino all’«accanimento terapeutico»: non tutte le risorse per prolungare la vita di cui la medicina dispone si risolvono a vantaggio del morente. Spesso producono solo uno sterile prolungamento di sofferenza, e allontanano definitivamente dal morente la possibilità di vivere la propria morte da protagonista. Il «diritto di morire» di cui si parla in questo contesto fa parte della «riappropriazione della salute» proposta da I. Illich 11.

D’altra parte, è pur necessario ribadire il principio deontologico che chiede al medico di prestare la sua opera fino all’agonia. Troppo spesso la morte rimane esclusa dal programma. Quando si dissolvono le possibilità di guarire, il medico tende a passare la mano: dirada le visite, o addirittura si defila. Anche quando «non c’è più nulla da fare», c’è ancora molto

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da fare. C’è anzitutto da alleviare il più possibile il dolore; ma c’è anche un’opera di assistenza, sostegno, conforto. È un diritto del malato di avere l’aiuto del medico nel morire. Per dovere professionale il medico si impegna implicitamente a rendere il tempo finale del paziente il più confortevole possibile. Essere di aiuto al morente per rendergli possibile un trapasso umano è un compito che, oltre che il medico, investe chi opera nel campo dell’assistenza. In maniera particolare coinvolge la comunità cristiana. È la logica stessa del Vangelo che porta i discepoli di Gesù a mettere al centro coloro che nella società la logica del potere spinge ai margini. Coloro che stanno perdendo la vita sono i più poveri tra i poveri. Ad essi la Chiesa è debitrice di un servizio di speranza. Gesti e parole tradizionali — liturgie, rituali, iniziative pastorali —, che la cultura cristiana ha sviluppato nei secoli, sono diventati inadeguati di fronte alla forma che ha assunto oggi il morire. I problemi nuovi domandano risposte creatrici. Ma non è il deserto: qualcosa si sta muovendo in questo settore.

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Due episcopati si interrogano sulla morte

Due importanti conferenze episcopali europee, quella francese e quella tedesca, hanno reso pubblico, in rapida successione di tempo, due documenti relativi alla morte e ai problemi etico-pastorali che essa pone. Se non è un «segno dei tempi», è certamente un segno della presenza della Chiesa ai problemi del tempo. Una comunità ecclesiale sensibile non può sottrarsi all’interpellazione che le deriva dalle sofferenze connesse con la gestione solo tecnica della vita che finisce.

I due documenti sono diversi per stile e contenuto. L’intervento dei vescovi della Germania federale è più recente. Porta la data del 20 novembre 1978. Nella primavera dello stesso anno nell’autorevole settimanale tedesco Der Spiegel era apparsa un’inchiesta sulla situazione sanitaria nella Repubblica federale. Si trattava di una dura requisitoria contro le carenze e le distorsioni, in un paese che pure è all’avanguardia in Europa per la politica sanitaria. In Germania infatti gli stanziamenti statali in favore della sanità pubblica sono massicci; si investe nel settore una quota notevole del reddito nazionale, si costruiscono nuovi,

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giganteschi ospedali. «Cari e moderni, ma senz’anima», commentava l’inchiesta. Il dito accusatore si appuntava proprio sul lato umano dell’assistenza medica. La propaganda presenta gli ospedali «confortevoli come un hôtel a tre stelle», l’equipaggiamento tecnologico è impressionante: monitorscomputers, bombe al cobalto, impiego di ultrasuoni e di quanto di più moderno produca la tecnica. L’ospedale si erge maestoso nel cuore della metropoli, prendendo dal punto di vista architettonico il posto centrale che prima spettava alla cattedrale. Ma per l’uomo malato non è l’arca della salvezza, ma piuttosto la torre di Babele in cui si sente perduto. Invece del benessere, vi aumenta la paura. Il paziente, come essere umano di carne e sangue, e anche di emozioni e sentimenti, è stato ingoiato dal mostro tecnologico. La struttura ospedaliera è un’officina di riparazione meccanica; il «soggetto» è un elemento che disturba l’efficienza. I parenti sono tagliati fuori, proprio nel momento in cui aumenta il bisogno di attenzione, di vicinanza e di calore. Se è disumano il modo in cui si vive la malattia da cui si guarisce, la disumanità cresce all’ennesima potenza quando ci si avvicina all’area della morte. Secondo l’inchiesta, due su tre di quanti muoiono in ospedale

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incontrano la morte nel reparto di terapia intensiva, in completo isolamento, o addirittura in una specie di ripostiglio adibito a «moritoio».

Il documento dei vescovi sembra essere una risposta a questa invocazione di un supplemento di umanità nel trattamento dei malati e dei morenti. Uno stesso tema viene ripreso tanto nell’inchiesta dello Spiegel come nel documento ecclesiastico: la nostalgia dell’ospedale come «Hôtel-Dieu», cioè come luogo di un’assistenza animata da alti motivi ideali e dalla pietà verso il mistero della sofferenza umana. Secondo la dichiarazione dei vescovi tedeschi questo recupero di umanità è particolarmente urgente nei confronti della morte, di ciò che la precede e la circonda. Il processo del morire è preso in considerazione da tutti i punti di vista. La prima e seconda parte del documento lo esaminano dal punto di vista rispettivamente antropologico e sociologico. La medicina è solo uno dei fattori che hanno portato a modificare il morire; nel documento sono esaminati anche quei fattori di trasformazione che sono il nostro modo di pensare la vita e di organizzarla socialmente. La terza parte ha un taglio psicologico. Sono citati esplicitamente e tenuti in massima considerazione i lavori

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della Kübler-Ross. Anche chi si dispone ad assistere un morente animato dalla carità cristiana non può trascurare quanto le scienze umane insegnano sul vissuto psicologico della fase terminale. Secondo i diversi bisogni propri di ogni stadio, vengono impartiti opportuni suggerimenti a chi svolge quest’opera assistenziale. La quarta parte ha un carattere teologico- pastorale. Le novità non vanno cercate sul versante di una prassi sacramentale rivoluzionaria (non si va oltre l’assimilazione della lezione conciliare circa l’unzione degli infermi come sacramento dei malati, e non dei morenti: quindi da amministrare prima che subentri lo stato terminale vero e proprio). Profondamente innovata è invece la spiritualità della malattia che sottende la pastorale. Partendo dal binomio biblico «guarigione e salvezza», e puntando sul mistero pasquale, si valorizza tanto l’aspetto della fede che porta ad aggrapparsi a Dio per fare opposizione al male partecipando alla potenza divina, quanto il movimento con cui ci si abbandona a lui in un atteggiamento che non è rassegnazione, bensì comunione nello Spirito.

Esulano completamente dal documento tedesco i problemi etici che sorgono al capezzale del morente. Solo una nota rimanda ad interventi precedenti degli episcopati tedesco e austriaco

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in merito all’eutanasia. Il documento dell’episcopato francese è invece centrato sui problemi etici: è esplicito già nel titolo. Affronta direttamente gli interrogativi inquietanti che il morire suscita ora sia presso i medici sensibili ai problemi morali che presso i pastori. Il documento assume i due punti di vista: deontologico e pastorale. Un’opportuna chiarificazione terminologica riordina il dibattito che si svolge nell’ambito della deontologia medica. Talvolta tale dibattito è confuso per il fatto che si usa il termine «eutanasia» per designare situazioni e comportamenti diversi. Il documento la limita invece all’intervento inteso direttamente a porre fine a una vita, distinguendola dagli altri problemi che pone oggi l’assistenza medica che ricorre alla tecnologia avanzata. Sulla base di tale chiarificazione dei termini e dei problemi vengono esaminate dettagliatamente le varie situazioni umane che rientrano nell’ambito degli interessi della deontologia medica. La prospettiva tradizionale — centrata sui problemi dell’eutanasia e della «verità al malato» — è rinnovata dai nuovi problemi della bioetica, preoccupata di difendere la qualità della vita umana contro l’appiattimento minacciato dai progressi della scienza.

Un’osservazione ancora va fatta circa il «genere

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letterario» del documento francese. Pur essendo pubblicato in nome dell’episcopato, che vi investe quindi la propria autorità dottrinale e morale, il testo conserva il carattere personale di chi lo ha redatto. La presentazione fa esplicitamente il nome dei pp. Verspieren e Roy, rispettivamente direttore del Centre Laennec e consigliere ecclesiastico del Centro Cattolico dei Medici Francesi. Viene così indicata la matrice culturale in cui è maturata la riflessione etica e pastorale di cui il documento si fa veicolo. Da anni in Francia teologi e pastori si sono lasciati interrogare dalla sfida che la situazione attuale pone all’annuncio cristiano per il tempo di malattia e per la morte. La riflessione si è espressa in pubblicazioni di notevole qualità, come le riviste Présences (che ha purtroppo cessato la pubblicazione), Médecine de l’homme e i fascicoli monografici dei Cahiers Laennec 12. Molto di quanto è maturato in un decennio di dibattiti è confluito nel documento fatto proprio e autorevolmente

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presentato dai vescovi francesi.

Nell’insieme, i due documenti, così differenti, si completano reciprocamente. Per questo l’edizione italiana li sottopone al lettore l’uno dopo l’altro. Se il documento francese troverà più risonanza presso chi si interroga sull’agonia e la morte a partire dal diritto di ognuno ad avere una morte umana, la dichiarazione dei vescovi tedeschi attira l’attenzione soprattutto dei responsabili della pastorale sanitaria. Oggi sentiamo tutta l’urgenza di essere presenti come Chiesa presso chi soffre gli estremi dolori in un contesto che lo umilia come persona umana e come figlio di Dio. I vescovi tedeschi ci danno l’esempio di una riflessione che non si limita alle dichiarazioni di principio, ma cerca di rispondere alle nuove situazioni in modo creativo e concreto. Il documento è preciso e dettagliato in merito agli aspetti sociali e organizzativi dell’assistenza ai morenti. Nel documento francese troviamo invece un breve accenno a una iniziativa tipica dei paesi anglosassoni: gli hospices per la cura dei malati terminali. Quando si tratta di cancerosi, la maggiore attenzione va al sollievo del dolore. L'hospice offre un tipo di assistenza continua che non può essere fornito dall’ospedale. Si tratta di piccole residenze ospedaliere

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aperte dove i pazienti, congiunti e amici possono soggiornare insieme, sotto la guida di personale medico e paramedico specializzato. Un ambiente tranquillo, con gente che non ha fretta, disposta a prendersi cura del gruppo che si trova a fare fronte alla morte. L’unità elementare di assistenza per gli hospices non è infatti il malato terminale singolo, ma il paziente con la sua famiglia; e l’assistenza si estende oltre il momento della morte, finché i familiari non avranno trovato il modo di fare fronte al trauma. Non tutto quanto è attuato all’estero può essere trasportato di sana pianta in Italia. La riforma sanitaria, del resto, ci permetterà di dare delle risposte più in sintonia con il nostro tessuto sociale e con la nostra tradizione assistenziale 13. Ma come non sentirci coinvolti dal richiamo alla necessità di pensare alla formazione di chi si occupa di compiti così delicati? Nella riforma sanitaria è previsto uno spazio per il volontariato. È più che opportuno, anche per bilanciare la spinta verso la burocratizzazione dell’assistenza sanitaria.

Alcuni compiti inoltre, come appunto l’assistenza ai morenti, domandano una sensibilità

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e una partecipazione profonda a cui non tutti possono riconoscersi disponibili. Al volontariato possono essere affidate mansioni di elevata densità umana. Ma proprio la delicatezza del compito richiede una formazione più accurata. La buona volontà è all’origine del volontariato, ma da sola non basta a fare un volontario, quando essa non sia unita alla competenza. Anche in Italia qualcosa si muove in tal senso. Va segnalata, per esempio, la iniziativa dell’OARI di istituire un corso di formazione per «animatori socio-sanitari». Uno dei confronti di questa nuova figura, resasi necessaria per il radicalizzarsi dei problemi dell’assistenza sanitaria, potrebbe essere precisamente quello dell’umanizzazione della fase terminale della vita.

La prima risposta che possono dare i cristiani ai problemi di chi si trova a morire nel contesto della nostra civilizzazione è di ordine pratico: una calda presenza comunicante a chi sta morendo. Senza tuttavia dispensarsi dal cercare un altro modo di parlare della realtà umana della morte. Il primo mattone del discorso nuovo sulla morte è già là, ed è costituito dall’amore umano, che è sacramento dell’amore di Dio.

Sandro Spinsanti

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Bibliografia

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Ph. Ariès, Storia della morte in Occidente, Mondadori.

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L. Boros, Mysterium mortis. L’uomo nell’ultima decisione, Queriniana.

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M. Bordoni, Dimensioni antropologiche della morte, Herder.

L. Boff, La nostra risurrezione nella morte, Cittadella.

Aa.Vv., Morire sì, ma quando?, Edizioni Paoline.

J. Choron, La morte nel pensiero occidentale, De Donato.

P. Ricca, Il cristiano davanti alla morte, Claudiana.

S. Spinsanti, Morire da cristiani, Queriniana.

S. Spinsanti, La malattia e la morte nel popolo delle beatitudini, Salcom.

Aa.Vv., Il sacramento dei malati, L.D.C.

V. Melchiorre, Sul senso della morte, Morcelliana.

Schwartzenberg-Viansson-Ponté, Cambiamo la morte, Mondadori.

G. Pelliccia, L’eutanasia ha una storia?, Edizioni Paoline.

S. Spinsanti, s. v. «Malattia» e «Morte», in Aa.Vv., Dizionario Enciclopedico di Teologia Morale, Ed. Paoline.

L. Rossi, s. v. «Eutanasia», in Aa.Vv., Dizionario Enciclopedico di Teologia Morale, suppl. IV ed., Ed. Paoline.

G. Davanzo, s. v. «Sofferente/malato», in Aa.Vv., Nuovo Dizionario di Spiritualità, Edizioni Paoline

A. Giudici, s. v. «Morte», in Aa.Vv., Nuovo Dizionario di Teologia, Edizioni Paoline.

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PROBLEMI ETICI POSTI OGGI DALLA MORTE E DAL MORIRE *

Documento del Segretariato della Conferenza episcopale francese

«La morte si vende bene oggi», nelle librerie come attraverso le onde radio o alla televisione. L’articolo presente è il centesimo o duecentesimo degli articoli consacrati al tema della morte in meno di due anni! Cosa significa questo fenomeno? Una moda passeggera, il ritorno di qualcosa che era stato rimosso, un segno del carattere morboso della nostra civiltà che avrebbe perduto il gusto di vivere, un’interrogazione profonda sul senso della vita, una presa di coscienza dei limiti del potere della scienza e della tecnica? Forse tutto questo insieme. Ringraziamo vivamente il p. Patrick Verspieren, s. j., direttore del Centro Laennec, che ha voluto, in collaborazione con il p. Michel Roy, s. j., consigliere ecclesiastico

Problèmes éthiques posés aujourd’hui par la mort et le mourir, in: Bulletin du Secrétariat de la Conférence épiscopale française, n. 6, marzo 1976.

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del Centro Cattolico dei Medici Francesi, proporci le riflessioni seguenti nel settore dell’etica.

I cristiani non hanno motivo di tenersi in disparte dai dibattiti che si moltiplicano oggi sulla morte. Gli interrogativi che si pongono loro si situano, a mio avviso, su due livelli differenti: che senso ha per essi la morte? Che significa la loro fede nella risurrezione? Quali posizioni assumono sui problemi posti oggi dalla morte e da quella fase della vita in cui la morte diventa realtà prossima, prospettiva concreta? 14. In questa sede vorremmo affrontare questi problemi di etica.

Dibattiti profondamente ambigui

Un gran numero di dibattiti attuali si cristallizzano attorno a una parola: «eutanasia». Questa parola riunisce le caratteristiche necessarie per catturare l’attenzione del gran pubblico: evoca l’assassinio (per pietà), facendo

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intervenire così lo spavento di fronte alla morte, l’emozione di fronte alla trasgressione dell’interdizione: «Non uccidere!», la compassione sentimentale davanti a colui che soffre, l’ammirazione per l’eroe sventurato che rischia le folgori della Giustizia per amore o per pietà... E allo stesso tempo — ecco dove i dibattiti sono profondamente ambigui — la parola «eutanasia» ha un senso molto semplice di addolcimento degli ultimi momenti della vita: chi sarebbe dunque tanto disumano da rifiutare a un morente ciò che costituisce il suo diritto più elementare? Pensiamo che sia capitale prendere coscienza dell’ambiguità della parola e distinguere accuratamente i problemi che di solito sono inestricabilmente mescolati:

1. Il primo è quello dell'addolcimento degli ultimi momenti della vita di un malato: questo addolcimento comporta una dimensione di cure (ri-idratare il malato, massaggiarlo, inumidirgli le labbra...) e una dimensione di relazione personale: si parlerà allora di accompagnare, di assistere il morente.

2. Legato a questo primo problema è quello della moralità della lotta contro la sofferenza:

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si possono usare gli antalgici, gli anestetici centrali come la morfina? Fino a che punto si può arrivare? Fino alla perdita della coscienza del malato?

3. Si è tenuti a prolungare a ogni costo la vita del malato, o non è più umano «lasciarlo morire in pace»? Il problema che si pone è quello dell’astensione terapeutica. Pio XII l’aveva abbordato distinguendo i mezzi ordinari da quelli straordinari. Alcuni ne parlano oggi — purtroppo, a nostro avviso — in termini di «eutanasia passiva».

4. Si può mettere fine deliberatamente alla vita di un uomo che soffre troppo o che è condannato a una decadenza progressiva? È l’atto designato come «eutanasia attiva».

5. A questi quattro problemi, già sufficiente- mente numerosi, e per rendere il dibattito ancora più confuso, se ne aggiunge spesso un quinto: quello dell’eugenismo praticato nell’epoca hitleriana nei riguardi di quelli che erano considerati «anormali» o «tarati»...

6. Ma si dimentica spesso un sesto problema: quello di sapere costatare la morte, quando restano solo le apparenze della vita.

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Cerchiamo di riprendere ognuno di questi problemi per se stesso, senza lasciarci influenzare dalla parola «eutanasia», che introdurrebbe tra questi diversi problemi un’unità fittizia e nociva alla serietà della riflessione 15.

Costatare la morte

La frontiera tra la morte e la vita non è sempre molto netta al giorno d’oggi. L’arresto del cuore e delle funzioni respiratorie, per esempio, non è più sinonimo di morte, perché si può riavviare il cuore grazie a massaggi cardiaci e assicurare artificialmente la ventilazione polmonare.

Si è molto parlato, alcuni anni fa, dei casi di coma dépassé. In realtà questa espressione è infelice: lo ritengono anche coloro che l’hanno coniata. Designa uno stato di distruzione totale e irreversibile di tutto il sistema nervoso centrale e in particolare del cervello; in una tale situazione non c’è dunque più un organismo umano, né vige l’autoregolazione del corpo stesso; ma le tecniche moderne di rianimazione

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permettono di mantenere artificialmente la respirazione e la circolazione sanguigna e di impedire così la decomposizione delle viscere. Un tale stato può essere mantenuto per alcuni giorni. È chiaramente al di là di ciò che si chiama in termini propri «coma». Attualmente esistono criteri scientifici seri che permettono di discernere questi stati di «coma dépassé». L’esistenza di tali criteri ha permesso di giungere a un consenso internazionale: è riconosciuto legittimo, in caso di «coma dépassé», firmare l’atto di decesso e anche di prolungare le tecniche di rianimazione in modo da poter prelevare, in buone condizioni, organi che potranno essere trapiantati su malati che ne avessero bisogno.

Ma altri casi pongono problemi molto più complessi e difficili: quelli dei coma prolungati. Per «coma» si intende uno stato di perdita di coscienza e di possibilità di relazioni con altre persone. Alcuni coma sono leggeri, si potrebbe quasi dire che non sono che apparenti, perché i malati svegliandosi conservano il ricordo di ciò che è successo durante il loro «sonno». Altri coma sono molto più profondi. Le tecniche moderne, e specialmente quelle di rianimazione, permettono di «recuperare» dei malati che escono da diverse settimane di

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coma. Ma alcuni coma durano sei mesi, un anno, diciotto mesi e anche diversi anni, talvolta anche senza che ci sia bisogno di impiegare tecniche straordinarie: basta nutrire il corpo artificialmente e assicurare cure infermieristiche minuziose. Nei servizi di rianimazione si mantengono così un certo numero di corpi, designati dal crudo linguaggio degli ospedali sotto il termine di «piante verdi». È possibile che tale fosse la situazione di Karen Ann, la giovane americana di cui si sono occupate largamente le cronache alla fine del 1975. Si immaginano facilmente i drammi familiari che possono creare tali situazioni, soprattutto se la famiglia viene giorno dopo giorno a spiare il minimo segno di progresso per degli anni. Tragedia che si svolge il più delle volte attorno a un cadavere, come mostreremo più avanti.

Ma che fare? Secondo i criteri attualmente ritenuti dal corpo medico, la morte non si è ancora prodotta: i medici, infatti, ritengono come criteri della morte solo l’arresto definitivo di tutti gli organi o la distruzione totale e irreversibile di tutto il sistema nervoso centrale (coma dépassé). Oggi, dunque, non si firma l’atto di decesso che quando si è costatata la fine della vita vegetativa.

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Ora, la vita umana è più della vita vegetativa. È legittimo, a nostro parere, affermare che il soggetto umano è caratterizzato dalla coscienza e dalla capacità di entrare in relazione con altri e che non c’è più vita umana quando ogni possibilità di coscienza e di relazione è definitivamente scomparsa: allora non c’è più un essere umano, un soggetto umano. Una tale affermazione rimette in discussione i criteri della morte attualmente riconosciuti, perché porta a dichiarare morto l’uomo in stato di coma irreversibile; ma essa deve essere sostenuta con energia, sotto pena di cadere in una concezione puramente biologica della vita umana.

Bisogna riconoscere il carattere teorico di questa affermazione, perché è molto difficile per i medici distinguere i coma irreversibili da quelli che non lo sono; le ricerche scientifiche non sono ancora sufficientemente progredite in questo campo. Ma le prese di posizione teoriche hanno tuttavia la loro importanza. Nel caso specifico, quella che noi sosteniamo inviterebbe i medici a riconsiderare il problema dei criteri della morte, a intraprendere le ricerche necessarie sulle differenti forme di coma; decolpevolizzerebbe coloro che interrompono le cure, nel caso in cui fossero pervenuti

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a una certezza almeno morale circa l’irreversibilità del coma.

Nelle situazioni che abbiamo appena evocate, il termine «eutanasia» è totalmente improprio: non si tratta qui d’addolcire una morte, né di mettere fine a una vita, ma di costatare la morte.

Saper non prolungare abusivamente la vita

Dopo questi problemi concernenti la morte, affrontiamo quelli che concernono i morenti, cioè gli esseri che vivono l’ultima fase della loro vita. Le condizioni nelle quali avviene questo «morire» sono state profondamente trasformate dalla medicina moderna, in particolare dalle tecniche di rianimazione e di cure intensive che permettono di supplire al venire meno della maggior parte di funzioni e di organi. Di fatto oggi la maggioranza di coloro che muoiono a casa loro o in un banale letto d’ospedale avrebbero potuto vedere la loro vita prolungata di diversi giorni, evidentemente al prezzo di molteplici interventi, di sofferenze che li accompagnano, dello sforzo di numerosi medici e infermiere, e delle spese che ne

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conseguono. L’agonia interminabile del generale Franco ne offre un triste esempio.

In questo contesto, l’espressione «rispetto della vita» deve essere usata con molte precauzioni. Fino a poco tempo fa una parte notevole del corpo medico considerava un «dovere sacro» prolungare la vita dei loro pazienti quanto più a lungo lo permettevano le loro tecniche, in nome precisamente di questo «rispetto della vita». Questo atteggiamento non rappresenterebbe, in realtà, una forma di «idolatria della vita», presa sotto il suo aspetto più biologico?

Queste cure intensive, infatti, il più delle volte non fanno che prolungare l’agonia in condizioni particolarmente penose: il rumore, la luce troppo viva, la mancanza di sonno, i prelievi incessanti, la dipendenza straordinaria di colui che è ventilato, nutrito, espirato artificialmente, braccia e gambe spesso immobilizzate, l’agitazione del personale, la sensazione crescente di sfinimento... e soprattutto la solitudine in cui questo universo tecnico rinchiude il malato. Questo è il prezzo che deve pagare il malato: e per quale beneficio? Qualche giorno in più d’una vita passata in tali condizioni, o forse anche peggiori, una sopravvivenza più lunga su cui pesano gravi handicap.

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Dopo Pio XII 16, è importante ripetere che nessuno è tenuto a ricevere tali cure, nessuno ha il dovere di imporgliele: il rispetto della vita umana comporta il rispetto della morte,, quando è giunta la sua ora.

Di solito non si pensa abbastanza neppure al peso che si impone al personale infermieristico quando gli si domanda di prolungare nel tempo una lotta intensiva che appare come derisoria. Il lavoro infermieristico può essere certamente esaltante, malgrado le sue difficoltà, quando esiste la speranza di restituire qualcuno a una vita umana; ma è altrettanto demoralizzante lottare quando è scomparsa ogni speranza ragionevole, o quando gli sforzi appaiono smisurati in rapporto ai risultati che si possono ottenere. Prolungando abusivamente la vita di certi morenti si rischia di distruggere il morale di un’équipe infermieristica e di renderla incapace di prendere in carico altri malati per i quali queste cure intensive avrebbero ben più senso. Senza parlare delle spese per cure derisorie, mentre altre azioni

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prioritarie sono trascurate per mancanza di finanziamenti.

Diverse proteste si sono elevate, fortunatamente, da qualche tempo contro questo «accanimento terapeutico». Esse cominciano anzi a produrre il loro effetto, e i professionisti del mondo della sanità ammettono sempre di più che è legittimo in certi casi astenersi da alcuni procedimenti terapeutici... Ciò pone loro molteplici problemi, difficili e pesanti da portare: infatti, come discernere le situazioni in cui quella certa terapia, gravosa e sfibrante per il malato, è giustificata, da quelle in cui non sarebbe ragionevole intraprenderla? «La medicina non è una scienza esatta», ripetono giustamente molti medici; «noi non possiamo sempre prevedere i risultati delle nostre decisioni terapeutiche». Certamente, la decisione di intraprendere o di prolungare una terapia non dovrebbe essere presa dal solo medico; il desiderio del malato, il punto di vista della famiglia e delle infermiere sono importanti quanto il parere del tecnico che è il medico; ma uno degli elementi che giustificheranno le decisioni finali è la valutazione della situazione: bisogna riconoscere la difficoltà di questa valutazione.

È anche importantissimo far notare che il

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problema che si pone è sapere astenersi da tale o tal altra terapia, e non di cessare le cure. L’opinione pubblica si commuove troppo facilmente alla vista dei tubi che escono dal corpo dei malati; molto spesso questi strumenti non hanno per scopo che quello di addolcire gli ultimi momenti e di evitare al malato terminale le sensazioni atroci di asfissia o di sete intensa dovuta alla disidratazione: non si tratta allora né di sperimentazione sugli esseri umani, né di accanimento terapeutico, come molto spesso crede un’opinione pubblica male informata.

Alleviare la sofferenza

L’ostinazione a prolungare la vita dei malati si è unita negli ambienti ospedalieri, almeno in questi ultimi anni, a una relativa mancanza d’attenzione per la sofferenza. «Il dolore in se stesso e la sua analisi precisa non sono, per noi, problemi nobili»; «in certi casi lasciamo soffrire il malato e ci abituiamo al suo soffrire», riconoscono con lucidità alcuni medici.

Questo atteggiamento non è sorprendente. Il problema dell’attenuazione delle sofferenze del malato, in realtà, è molto complesso e non

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basta, per risolverlo, una larga somministrazione di analgesici. La sofferenza umana non è, infatti, un puro fenomeno fisiologico: essa è nutrita dall’apprensione di vedere crescere il dolore e dall’angoscia di colui che si sente gravemente minacciato nel suo corpo. È per questo che per alleviare la sofferenza è richiesto di saper maneggiare i trattamenti (medicazioni che vanno dall’aspirina alla morfina, interventi chirurgici, irradiazioni...), ma anche di calmare l’ansietà o l’angoscia del malato. Ciò implica una relazione personale con lui. Ora, la relazione col malato grave è angosciante per il personale curante, tanto più se la morte è prossima o la sofferenza ribelle ai trattamenti.

Esistono in Francia e all’estero dei centri di trattamento del dolore, in cui sono prese in considerazione tutte le dimensioni della sofferenza 17. Ma i loro lavori non sono ancora abbastanza conosciuti e gli ambienti medici restano ancora molto sprovveduti davanti al fatto della sofferenza di certi malati. Per molte ragioni: mancanza di formazione di medici e infermiere ai metodi di trattamento del dolore, angoscia davanti al malato che soffre e

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di cui non si riesce ad alleviare la sofferenza, e anche senza dubbio blocchi più o meno inconsci, le cui radici sono forse parzialmente religiose. Non è escluso, infatti, che ci sia stata nei paesi cattolici una certa valorizzazione della sofferenza. A questo proposito, sarebbe auspicabile che i teologi moralisti mostrassero che la sofferenza non ha valore in se stessa, anche se è talvolta il crogiolo nel quale l’uomo giunge a una maggiore maturità. Alcune espressioni correnti ci sembrano molto conte- stabili. Per esempio questa: «Il Cristo ci ha salvato mediante le sue sofferenze»; sarebbe già più giusto dire: «attraverso le sue sofferenze», ma aggiungendo subito: «perché, attraverso di esse, e anche malgrado esse, conservò un atteggiamento di Figlio». Parlando così, non ci dichiariamo a favore dell’instaurazione di una società del benessere anestetizzata, che avrebbe soppresso ogni sofferenza; ci riferiamo piuttosto alle ultime parole del card. Veuillot: «La gente di chiesa parla troppo facilmente della sofferenza».

Un’altra difficoltà psicologica del personale curante ad affrontare il problema della sofferenza deriva dal fatto che la lotta per la vita e il trattamento del dolore appaiono troppo spesso come antagonisti. Anche medicalmente

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parlando, questa opposizione è talvolta contestabile: certe medicazioni presentano certamente il pericolo di abbreviare i giorni del malato, ma si dimentica che di per se stessa «la sofferenza uccide» e che colui che soffre troppo arriva ad augurarsi la morte e a «lasciarsi andare».

In ogni caso, non è questo il problema più importante. Se uno dei doveri del personale curante è di lottare per la vita del malato, un altro dei suoi doveri, riconosciuto da sempre, è di alleviare la sofferenza del malato. Questo dovere può anche diventare prioritario. La posizione di Pio XII su questo punto è stata troppo dimenticata: «Voi ci domandate: la soppressione del dolore e della coscienza mediante narcotici (allorché è richiesta da un’indicazione medica) è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente (anche all’approssimarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita)? Bisognerà rispondere: Se non esistono altri mezzi e se, nelle circostanze concrete, ciò non impedisce il compimento di altri doveri religiosi e morali: sì» 18. Su questo punto della priorità in certi casi del trattamento della sofferenza

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sulla lotta per la vita, il personale curante ha bisogno attualmente di essere decolpevolizzato. Il prossimo Codice di Deontologia Medica vi contribuirà; il progetto attuale della nuova redazione del codice, infatti, enuncia: «La professione medica è al servizio dell’uomo, per la protezione della salute, per il trattamento delle malattie e delle ferite, per il sollievo della sofferenza, nel rispetto della vita umana e della persona umana». La redazione precedente era centrata troppo unilateralmente sul «rispetto della vita».

Resta tuttavia un punto molto delicato: quello della legittimità delle pratiche di «deconnessione», cioè dell’uso di droghe che precipitano totalmente, in modo però reversibile, il malato nell'incoscienza. Tali pratiche sono, in realtà, la confessione di un fallimento: significano che il personale curante non è riuscito ad alleviare il malato da sofferenze e angosce intollerabili per lui. Parlare di tali pratiche richiede molta prudenza: da una parte, perché la questione è delicata; dall’altra per non aumentare senza valida ragione il malessere

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e il senso di colpevolezza dei sanitari che le usano: è molto angosciante per essi rinnovare giorno dopo giorno fino alla morte le perfusioni che mantengono il malato nell’incoscienza.

A parer nostro, oggi queste pratiche non dovrebbero essere né legittimate, né condannate. Non legittimate, perché le ricerche intraprese in alcuni centri mostrano che dovrebbe essere possibile alleviare la sofferenza del malato senza giungere a tali decisioni. E neppure condannate, perché oggi, considerata la mancanza di formazione del personale curante e l’organizzazione attuale dei centri ospedalieri, la deconnessione resta senza dubbio in certi casi la soluzione meno disumana. D’altro canto, sarebbe molto importante che si sviluppassero nel nostro paese le ricerche e le esperienze sulle terapie della sofferenza.

La nostra posizione è così più sfumata di quelle dell’epoca di Pio XII. Questi, nel passo che abbiamo citato sopra, rispondeva «sì» alla questione della liceità della soppressione della coscienza nel malato, in caso di dolori insopportabili (per esempio nel caso di cancri inoperabili), a condizione che il malato lo domandi o vi acconsenta e che non vi si opponga alcun dovere morale o religioso di altro ordine.

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Dopo il 1957 l’analgesia ha fatto dei progressi, e oggi sarebbe perciò inopportuno invitare il corpo medico ad essere soddisfatto di pratiche che sembrano oggi tanto più insoddisfacenti in quanto sembrano possibili altri mezzi per alleviare la sofferenza del malato.

L’assistenza ai morenti

Tutto ciò che precede concerne, in pratica, dei problemi medici. Considerata l’«aura» che circonda la medicina moderna, è su di essi che si concentra la maggior parte dei dibattiti. Non è questa però una ragione per passare sotto silenzio altre questioni, almeno altrettanto importanti.

Ci si dimentica troppo spesso di domandarsi quali sono i bisogni più profondi e le aspirazioni di colui per il quale la morte diventa una realtà concreta e ineluttabile: ci si accontenta allora di decidere per lui delle tecniche da usare! Ci si dimentica che il morente è un essere che vive, che ha i suoi desideri e le sue attese. Quali? Sono diverse da un essere umano all’altro e bisogna avere un atteggiamento di ascolto per percepirle, come ha ben mostrato E. Kübler-Ross. Si può dire tuttavia in generale che il malato terminale aspira di solito

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a non morire in solitudine. Morirà solo, sarà «solo a morire», ma questa solitudine essenziale dell’uomo invoca una presenza: la presenza di qualcuno che stia accanto, vicino, capace di ascoltare, di capire, di significare attraverso il suo silenzio, le sue parole o i suoi gesti, per quanto elementari (rialzare un cuscino, asciugare la fronte, bagnare le labbra, passare una padella, tenere la mano...), che colui che se ne va non è abbandonato.

La nostra società ha senza dubbio bisogno, per buona parte, di reimparare questa semplicità. In questi ultimi anni essa ha accordato una fiducia troppo grande, o piuttosto cieca, alle tecniche, e ha troppo scaricato le proprie responsabilità sui tecnici; e costoro hanno contribuito a separare il morente dai suoi familiari, considerando talvolta questi ultimi come disturbatori e intrusi. Non si può fare a meno di uno scossone: la morte avviene sempre più all’ospedale, ma non è una ragione perché la società scarichi la sua responsabilità di assistere i morenti sui soli tecnici degli ospedali. Reimparare la semplicità disarmata di colui che resta presente a colui o colei per cui le tecniche non possono più fare molto: non è certo materia per un dibattito appassionato in cui si scontrano le idee; e purtuttavia è questo

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senza dubbio il problema più importante che dobbiamo affrontare in queste pagine.

Per illustrarlo, non faremo che citare il brano di una lettera di una giovane allieva-infermiera alle infermiere incaricate di curarla: «Ho ancora da vivere da uno a sei mesi, forse un anno, ma a nessuno piace toccare questo argomento. Mi trovo dunque di fronte a un muro solido e deserto, che è tutto quello che mi resta. Sono il simbolo della vostra paura, qualunque essa sia, della vostra paura di ciò che purtuttavia noi sappiamo che dovremo affrontare tutti un giorno. Voi scivolate nella mia camera per portarmi le medicine o per misurarmi la pressione, e scomparite appena svolto il vostro compito. È perché sono un’allieva-infermiera o semplicemente in quanto essere umano che ho coscienza della vostra paura e so che la vostra paura accresce la mia? Di che cosa avete dunque paura? Sono io che muoio. Non nascondetevi. Abbiate pazienza. Tutto ciò che ho bisogno di sapere, è che ci sarà qualcuno per tenermi la mano quando ne avrò bisogno. Ho paura. Voi forse avete fatto l’abitudine alla morte; per me è nuovo. Non mi è ancora mai capitato di morire» 19.

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Non c’è bisogno di essere credente per vivere così la fraternità umana con il povero per eccellenza che è colui che sta per perdere tutto quello che aveva. Ma il credente potrà leggere il senso e la profondità di ciò che è chiamato a vivere in una simile circostanza: essere pienamente presente a colui che muore, di una presenza umana che sia il simbolo della presenza silenziosa di Colui che non abbandona l’uomo, anche nella prova. I riti religiosi, anche sacramentali, non sono i soli a essere portatori di un significato spirituale; lo è anche la relazione con l’altro, specialmente all’avvicinarsi della morte, nel morente in cui cadono molte maschere, se l’uomo ridotto alla più grande povertà fa l’esperienza dell’incontro con un altro povero quanto lui; scopre allora, e forse per la prima volta, che vivere è questo: la comunicazione che spesso fa a meno delle parole, l'incontro di un altro, speranza e segno dell’Altro, che è colui che chiamiamo Dio.

In una prospettiva di fede, il «non nascondetevi» della giovane allieva-infermiera prende allora tutto il suo senso. Colui che muore

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solitario, come potrebbe non gridare: «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?».

Ci sarebbe ancora molto da dire sull’incontro con i morenti: ci vorrebbero molto tatto, molto pudore e molta prudenza anche, perché se questo incontro è spesso pacificante per colui che se ne va, può essere forse molto pesante per colui che resta...

La verità al morente

In questo contesto del rapporto con il morente è importante riflettere sul problema della «verità al malato». Forse non c’è che una cosa da dire, malgrado l’inflazione delle discussioni e degli articoli a questo riguardo: l’essenziale è di rispettare il malato e di rispondere alla sua volontà profonda. Ci sono molti modi di non rispettare il malato: chiuderlo in un universo tecnico in cui non abbia più il diritto alla parola, o in un rituale religioso che sia più protezione dei sani che espressione della propria fede; imporgli un verdetto medico che avrebbe voluto non ascoltare, o al contrario impedirgli di comunicare con gli altri circa la propria morte quando lo desidera; impedirgli in un modo o nell’altro di esprimere

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la sua paura, la sua angoscia, i suoi desideri, le sue attese, la sua speranza...

Perché il morente è un uomo che vive! Rischiamo sempre di non vedere più il suo volto, obnubilato dalla maschera della morte che intravediamo. Il malato ha dei desideri e una volontà. Per tenerne conto, bisogna che qualcuno possa ascoltarlo. Se lo slogan: «Bisogna soprattutto impedire che il malato si renda conto della situazione» deve essere assolutamente respinto, è perché spesso impedirà questo ascolto del malato e il rapporto con lui. Perché, spesso, il malato terminale prende coscienza del suo stato; se medici, infermiere e familiari tutti insieme vogliono «nascondere la verità al loro malato», ciò li porta a mettere in piedi un teatro che, il più delle volte, suonerà il falso e farà sentire al malato che nessuno accetta di ascoltarlo: come esprimersi, infatti, quando la sola questione che ossessiona il malato e ciascuno dei suoi interlocutori non può essere affrontata con nessuno?

Ma questo non vuol dire che bisogna «dire la verità» a ogni costo, sotto forma d’un verdetto fatto piombare sul malato terminale: certi problemi, in particolare quello della morte, non possono essere abbordati che con molto tatto e prudenza... Alcuni malati, per di

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più, vogliono nascondersi la verità; in nome di che cosa dirgli allora a chiare lettere ciò che uno rifiuta di riconoscere? Quel che bisogna evitare è una falsificazione sistematica della realtà che bloccherebbe una possibile evoluzione e potrebbe portare il malato alla disperazione il giorno in cui scoprisse di essere immerso in un universo di menzogne.

Tutto ciò pone concretamente difficili problemi a coloro che si accostano al morente: famiglia, medici, infermiere, sacerdote. Come comportarsi in ogni situazione? Anche un ascolto attento può lasciare nell'indecisione... Siamo tutti molto sprovveduti davanti a uno dei nostri simili che muore. È il motivo per cui bisogna rifiutare le prese di posizione sistematiche in questo ambito: esse non farebbero che nasconderci la nostra povertà.

Il tabù della morte

Tutto e specialmente la nostra angoscia diffusa e spesso inconscia davanti alla nostra stessa morte cospira per impedirci di giungere all’atteggiamento di povertà e di semplicità che abbiamo tentato di evocare. Per nascondere a se stesso questa angoscia il medico intraprenderà

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talvolta delle terapie insensate che gli danno l’illusione di vincere la morte o almeno di non parteciparvi; il sacerdote si proteggerà talvolta dietro il suo rituale; la fami- glia spenderà molti soldi per poter dire: «Abbiamo fatto tutto quello che abbiamo potuto».

Tutti questi riti, tecnici e di natura religiosa o sociale, proteggono i vivi dalla loro angoscia. Finché ci saranno degli uomini al mondo, senza dubbio si inventeranno sempre nuovi riti. La questione che si pone è di sapere se, attraverso questi riti, gli uomini restano veri e non rigettano totalmente, in anticipo, colui che sta per lasciarli. Per giungere a questa verità è senza dubbio essenziale «vivere con la morte», e questo già fin dall’infanzia, non nascondere troppo la morte ai bambini, saper rendere visita ai malati, ai malati terminali, e saper parlare della propria morte. Succede ancora così nelle nostre Chiese, ora che non abbiamo più la possibilità di recitare dal pulpito il trattato dei «novissimi» che abbiamo imparato in seminario? E che cosa significa l’attenzione spesso esclusiva ai «gruppi di adulti», a detrimento della tradizionale «visita ai malati»?

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L'eutanasia

Al termine di questo periplo, possiamo senza dubbio riprendere con meno ambiguità il problema di cui oggi si parla tanto: «Si può accettare l’eutanasia?». Se con la parola «eutanasia» si intende uno dei problemi affrontati sopra, è meglio riflettere direttamente sul problema stesso e rifiutare la parola «eutanasia»: non solamente non porterebbe alcuna luce, ma renderebbe più confuso il dibattito. Rimane tuttavia un problema che non abbiamo ancora abbordato: si può dare la morte, magari per pietà? A questo problema riserviamo il termine «eutanasia», perché è sempre uno dei sensi presenti, in un modo o nell’altro, nel pensiero di coloro che usano questa parola.

Ecco come si esprime a questo proposito un medico inglese, la dott.ssa Cecily Saunders: «Se un malato domanda l’eutanasia, è perché qualcuno gli è venuto a mancare e, in molti casi, questo qualcuno è il medico. Molto spesso si può tradurre la domanda: “fatemi morire” con “alleviate il mio dolore e ascoltatemi”. Se soddisfate questi due bisogni, la domanda in genere non sarà ripetuta. Ma non si tratta sempre di dolore fisico. Il malato può

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domandare la morte perché si sente diventato inutile. Siete convinti voi che la sua vita ha ancora un’importanza, un senso? In questo caso, potreste spesso comunicargli la vostra convinzione e aiutarlo a trovare il suo posto nella vita. Resta però che, qualsiasi cosa facciate, alcuni malati — poco numerosi — continueranno a domandare la morte. La morte non possiamo dargliela, ma cerchiamo di rendere loro la vita più sopportabile e di non imporre loro dei trattamenti inappropriati alla loro situazione; ci asteniamo dal fare gesti inappropriati che tentino di trattenere questa vita che domanda di estinguersi» 20.

Noi facciamo totalmente nostra questa risposta. Essa mostra il pericolo di legittimare l’eutanasia mediante un testo di legge o dichiarazioni etiche provenienti da alte personalità. L’«alleviate il mio dolore e ascoltatemi» del malato è una domanda difficile da soddisfare, lo abbiamo già mostrato. È più facile lasciare il malato alla sua solitudine e lasciarlo soffrire finché le sue sofferenze diventino intollerabili, intollerabili a lui e a quelli che lo circondano, e allora mettere fine alla sua vita: una società che legittimasse l’eutanasia sarebbe senza

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dubbio una società che cerca di sfuggire a uno dei suoi doveri più elementari: quello della fraternità umana, con i più poveri tra i suoi membri. Per dei credenti l’accettazione della eutanasia significherebbe senza dubbio la paura di vivere questo mistero della presenza umana al morente, simbolo della Presenza stessa di Dio.

Una tale posizione non sarà accettata da tutti. Alcuni diranno: «È una risposta ipocrita. Accettate la “eutanasia passiva”, non condannate radicalmente la deconnessione e rifiutate la “eutanasia attiva”. Ora, che differenza c’è tra “lasciar morire” e “mettere fine a una vita”, se non che quest’ultimo atteggiamento evita a colui che sta morendo alcuni giorni di sopravvivenza sprovvisti di senso? Siamo chiari: o si propugna il rispetto della vita ad ogni costo, e dunque l’accanimento terapeutico, oppure si accetta di abbreviare i giorni del malato».

A questa obiezione, che non è sprovvista di fondamento e che non si può eliminare con una scrollatina di spalle, i moralisti rispondono nei termini della morale classica: «C’è una differenza essenziale: in un caso, si dà volontariamente e direttamente la morte; nell’altro si effettuano dei gesti che hanno senso in se

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stessi, ci si astiene da altri gesti che non avrebbero senso; la morte avverrà, ma non è voluta per se stessa».

Un tale modo di parlare ha pacificato molte coscienze fino ad ora. Ed è forse legittimo. Ma noi temiamo che non parli più a certi nostri contemporanei; attribuisce troppo spazio all'intenzione; oggi molti dicono: «Sono gli atti che contano»; e non hanno interamente torto.

Mettiamoci dunque a livello degli atti, e in modo concreto. Come si pone in realtà il problema? Di solito la domanda di «mettere fine a una vita» si rivolge al medico. Risponderà il medico a questa domanda? Siamo convinti che è estremamente auspicabile che il corpo medico faccia conoscere chiaramente il suo rifiuto in nome dell’impatto sociale che avrebbe la decisione contraria, soprattutto su quelli che sono direttamente parte in causa: le persone molto anziane, i malati terminali. Come dicono molti medici: «È estremamente importante che il pubblico sappia che il medico non può in alcun caso interrompere la vita, perché altrimenti, impulsivi e apprensivi come sono i malati terminali, giungerebbero a domandarsi se la tale iniezione che viene loro fatta e la tale pasticca che viene loro data non

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siano destinate a finirli. È vero soprattutto per quelli che si credono rifiutati, diminuiti, diventati inutili. Bisogna che sappiano che mai saranno abbandonati, che si tenterà di alleviare la loro sofferenza, ma che mai saranno liquidati. La nostra immagine sociale di medici deve essere senza ambiguità da questo punto di vista. Condizioni giuridiche che delimitino con precisione il diritto di praticare l’eutanasia sono insufficienti: in questo campo l’elemento affettivo gioca un ruolo maggiore di quello razionale».

Come quei medici, ci mettiamo dal punto di vista della difesa dei malati terminali e delle persone in vecchiaia avanzata. I grandi dibattiti attuali sull’eutanasia nella maggior parte dei casi sono condotti dal punto di vista dei sani. Noi non facciamo appello al principio del rispetto della vita, perché abbiamo visto più sopra la sua ambiguità e il modo in cui esso ha giustificato comportamenti privi di senso. Riconosciamo che, in concreto, le frontiere tra gli atteggiamenti che consideriamo come legittimi e quelli che ci sembra debbano essere rigettati sono talvolta tenui; queste frontiere ci sembrano tuttavia indispensabili, per la protezione stessa dei malati e per conservare la loro

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fiducia nelle istituzioni mediche e ospedaliere 21.

Se si respinge così il diritto del medico di mettere fine a una vita, il problema dell’eutanasia si sposta: praticata, per esempio, da un membro della famiglia, appare più chiaramente come un «suicidio assistito», sprovvisto della cauzione sociale che porterebbe la partecipazione del rappresentante della società che è di fatto il medico. Quale atteggiamento avrà la società verso coloro che avranno offerto la loro assistenza a tali suicidi? 22. Rispettare tali drammi senza ricorrere alla giustizia sarebbe molto difficile. Ma bisognerà allora conservare la legislazione attuale, rendendo passibile di un processo, con le sue conseguenze, chi avrà partecipato a un tale suicidio? Il problema rimane; ci si deve augurare che sia affrontato con prudenza e serenità.

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MORTE DEGNA DELL’UOMO E MORTE CRISTIANA *

Dichiarazione della Conferenza episcopale tedesca

1. Il morire e la morte nella nostra vita

Cambia l’atteggiamento verso il morire e la morte

«Avere una morte degna dell’uomo»: è un problema che, in questi ultimi dieci anni, si è nuovamente imposto alla riflessione di molte persone, in particolare di coloro che operano nelle professioni sociali. La via è stata aperta da alcune pubblicazioni significative; hanno fatto seguito una quantità di libri, di riviste, di films e di dischi su questo tema. In molte scuole, in iniziative di formazione per gli adulti, nei congressi e nelle Accademie delle Chiese, il modo con cui la nostra società

Menschenwürdig sterben und christlich sterbenHirtenschreiben der Deutschen Bischöfe, n. 17, pubblicato dal Sekretariat der Deutschen Bischofskonferenz (Kaiserstrasse 163, 5300 Bonn, Repubblica Federale Tedesca). (N.d.E.)

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moderna può permettere una morte degna dell’uomo è stato l’oggetto di un vivace dibattito.

Dibattiti sulla morte

In molti luoghi il tabù della morte è stato infranto tra il grande pubblico; ma si parla di più della morte che di quello che la morte ci dice. Conosciamo gli ultimi istanti della vita e la morte e ne discutiamo, ma raramente li affrontiamo in maniera cosciente. Non sono tollerati né esteriormente né interiormente, ed è per questo che il morire e la morte non sono accettati né mantenuti insieme. Quando deve essere combattuta ed evitata la morte, anche ad un prezzo elevato? Quando è nostro compito di familiarizzarci con essa, di confrontarci con essa e di accettarla? Quali conseguenze ha tale discussione per una morte degna dell’uomo e per l’assistenza ai morenti? Tali domande si modificano alla luce della fede cristiana? Che senso conserva ai nostri giorni «l’arte di morire» della tradizione cristiana, quella che chiamavamo l'ars moriendi?

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Insufficienze nella formazione delle professioni sanitarie

Nella formazione del personale sanitario, in particolare dei medici, tali realtà (l’assistenza a chi muore, la verità da dire al malato, l’eutanasia) non fanno ancora parte di un insegnamento sistematico. Benché nei 3600 ospedali della Repubblica federale tedesca i medici abbiano la responsabilità principale di prolungare la vita di molti malati o di alleviare i loro ultimi istanti, in linea generale sono ancora meno formati ed educati a questo problema che le infermiere e il personale ausiliario. Per molto tempo, durante gli studi di medicina, tali questioni antropologiche sono state loro insegnate in modo indiretto, nello spazio di qualche ora. Oggi, in molti luoghi, esse hanno assunto un’importanza sempre crescente, spesso su iniziativa degli studenti stessi, in collaborazione con le allieve infermiere, i cappellani d’ospedale e gli psicologi. Rimane il fatto che, in relazione a tali questioni, si devono costatare evidenti lacune nel programma di formazione delle professioni sanitarie.

Il fatto che, nella Repubblica federale tedesca, i due terzi circa di tutti coloro che muoiono passino i loro ultimi giorni e ore in ospedale,

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pone di per sé molti interrogativi, in primo luogo sulla finalità stessa dei nostri ospedali. Ma nello stesso tempo le nostre comunità familiari e cristiane hanno da parte loro il dovere di porsi l’interrogativo: non tocca a loro, piuttosto che agli ospedali già così oberati, di occuparsi dei morenti? In ogni caso, i membri delle professioni sanitarie — tanto negli ospedali, come negli ambulatori e nei dispensari parrocchiali — devono ricevere una migliore formazione per assistere i morenti, proprio in forza delle possibilità che ha la medicina di prolungare la vita umana.

Una preparazione ed una formazione s’impongono non solo per il gran numero di pazienti che muoiono nei nostri ospedali e per il numero sempre crescente degli ammalati cronici e delle persone colpite da una lunga malattia, ma anche nell’interesse dei membri delle stesse professioni sanitarie. Anch’essi sono gravemente colpiti dalla morte dei loro pazienti e devono imparare a fare i conti con le proprie paure, sia che accettino di entrare nella psicologia dei loro malati, di soffrire con loro, d’identificarsi con loro, di aiutarli e di consolarli, sia che cerchino, al contrario, di sfuggire al confronto con la sofferenza degli altri attenendosi all’oggettività, alla rigidità

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dei ruoli o, quando ciò è possibile, rifiutando- di vedere la dura realtà.

Gli effetti del morire sull’ambiente

La morte di un malato pone tutti coloro che si occupano di lui di fronte alla paura della propria agonia e della propria morte. Questa morte prende diversi aspetti; non solo quello della paura di fronte alle ultime tappe della vita, di fronte alla propria fragilità, di fronte alla sofferenza e alla morte, ma anche l’aspetto dell’incapacità nel portare un aiuto, della paura e dell’impotenza davanti ai sentimenti di rivolta, di amarezza, di collera, di invidia, di aggressività, di ammutolimento di fronte a questioni angosciose, di paura di fronte alla disperazione.

Inoltre la morte di un malato pone a confronto tutti coloro che nel loro ruolo di assistenza godono di una certa sicurezza: il medico con i limiti della sua arte, l’infermiera con l’inutilità di una cura che miri unicamente alla guarigione, il sacerdote con i problemi così ardui del perché della sofferenza e della morte, in apparenza priva di senso, di tanti uomini. A ciò si aggiunge che ciò che prova la persona che muore ci rinvia a esperienze vitali

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che non riguardano solamente gli ultimi istanti della vita. Non è solo il morente a dover prendere congedo, rinunciare a delle possibilità di vita, cessare di svolgere i ruoli che gli erano diventati cari, vivere entro limiti che si restringono sempre di più. Separazione, perdita, rottura, sofferenza, paura della morte, sono esperienze che ci accompagnano nel pieno della vita. Chi le ha subite, ha già fatto una prima esperienza della morte. Si può fin d’ora comprendere che, anche da questo punto di vista, l’assistenza di una persona che muore possa diventare un confronto con la propria morte nelle crisi della vita che si sono superate come in quelle nelle quali si è conosciuto l’insuccesso.

La vita nelle ultime fasi

Vivere e morire vanno dunque di pari passo fino alla nostra morte. Ciò comporta delle gravi conseguenze per quanto concerne una vita degna dell’uomo nella sua ultima tappa. L’arte di morire suppone che il morente possa organizzare le possibilità di vita che gli rimangono in funzione della propria scala di valori, nella misura del possibile in maniera autonoma o con l’aiuto di altre persone. Imparerà

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così a riconoscere ciò che è già perduto, ad affrontare questa perdita, a rimpiangerla, per accettarla infine nella libertà interiore. In questo modo, aiutare a morire è aiutare a vivere. Tutto questo trova la sua concretezza più chiara nell’assistenza del morente allorché un familiare, un pastore, un medico, una infermiera o altra persona restano accanto al morente e gli permettono di organizzare, in modo personale nella misura del possibile, gli ultimi istanti della sua esistenza e di morire la sua propria morte.

Proporsi di accordare un’assistenza personale al morente, anche e soprattutto negli ultimi momenti della vita in ospedale, è una delle sfide più impellenti che la medicina moderna lancia all’attuale società.

2. La medicina moderna e lo sviluppo della società hanno cambiato il volto della morte

Successi e possibilità della medicina moderna

Cent’anni fa la speranza di vita era in media di 35 anni; oggi è di quasi 70. Malattie che fino a qualche decina d’anni fa minacciavano

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la vita e conducevano quasi fatalmente alla morte, oggi non fanno più paura. Mali considerati come incurabili fino ai nostri giorni, possono essere guariti grazie alla medicina moderna. Persone che, a causa di una deficienza corporale o psichica, erano incapaci d’inserirsi nella società, vedono aprirsi vie nuove, grazie alla possibilità di una riabilitazione. Infine, malati incurabili, che ancora 20 anni fa non avevano alcuna possibilità di vedersi prolungata la vita, godono il beneficio di un prolungamento di parecchi anni, anche di decine di anni (così, per nominare solo alcuni gruppi di pazienti, i nefropatici e cardiaci cronici, e le persone paralizzate). Tali esempi bastano per dimostrare quali importanti successi abbia riportato la medicina moderna.

Pericoli per una vita degna dell’uomo nelle ultime fasi

Questo è un aspetto importante, ma ce n’è un altro. Le vittorie riportate per mezzo delle apparecchiature, delle medicine e della tecnica provocano facilmente entusiasmo per ciò che l’uomo è ormai in grado di fare. Sorge allora il rischio di credere unicamente nelle possibilità della tecnica. La terapia in tal modo è

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considerata solo come una riparazione, il ristabilimento delle funzioni organiche o della capacità di lavoro d’un uomo, senza interrogarci sul senso che rivestono, per una persona concreta, la guarigione, la riabilitazione ed il prolungamento della vita. Se non si pone la domanda del «perché», la morte dev’essere vista come il nemico numero uno da evitare con ogni mezzo, anche a prezzo di un prolungamento di sofferenze indegne dell’uomo. Inoltre i successi della medicina obbligano a spingere sempre più lontano la ricerca. Così facendo, entra anch’essa in concorrenza con la terapia, perché l’una e l’altra sono chiamate a interessarsi dello stesso malato. Molte malattie derivano dal modo di vivere nella nostra società altamente industrializzata e tecnicizzata. Ci si può allora chiedere se tutte queste malattie possano essere combattute attraverso i mezzi stessi che le hanno provocate. Più la nostra vita diventa differenziata e complicata, più essa corre il rischio di allontanarsi dalla sua origine e dalla sua conclusione naturali.

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Postulati per una morte degna dell’uomo

Partendo da questi presupposti, spesso si tira la conclusione erronea di contrapporre tecnica e sentimento d’umanità. Che tale posizione sia non realista e scorretta lo si vede già nel fatto che nessun malato dei nostri giorni accetterebbe di rinunciare ai vantaggi della medicina moderna. La medicina tecnica deve essere approvata, ma essa esige di essere completata dall’assistenza umana nelle crisi e nei conflitti, nell'agonia e nella morte. D’altronde la stessa medicina moderna non può scongiurare la morte in tutti i casi. Per rispetto verso una vita che va verso la sua fine, essa deve mettersi nella disposizione di rinunciare alle sue proprie possibilità. In concreto ciò significa: tutti i membri del servizio sanitario hanno i loro limiti ed hanno bisogno di un complemento. Devono così ricorrere ad altre persone. Ciò esige contatto e comunicazione con il paziente e contatto e comunicazione dei membri del personale ospedaliero tra di loro: i chirurgi che operano, gli interni del servizio ed il personale curante, fino ai fisioterapisti e cappellani.

Solamente quando si sarà parlato al paziente, questi potrà vivere l’ultima tappa della sua

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vita, nella misura almeno in cui sarà in grado di farlo, e potrà prendere congedo e accettare la morte. È importante a questo fine che la specializzazione e l’atomizzazione del servizio sanitario medico non abbiano per conseguenza di rinviare da un incaricato all’altro la partecipazione alla sorte di un malato, alle sue sofferenze, alle sue domande, ai suoi lamenti. Altrimenti si assiste allo sbriciolarsi di una visione globale che deve caratterizzare l’assistenza piena di sensibilità umana che si porta al malato. Questa visione globale deve presiedere, invece, a tutti i servizi terapeutici: al colloquio col medico durante le visite, alle cure fornite dalle infermiere, agli esami tecnici ed anche alla ricerca e all’insegnamento della medicina, nella misura in cui questa si interessa alla sorte concreta di un individuo.

L’ospedale come «Hotel du bon Dieu»

La storia del nostro Occidente ci insegna che l’ospedale era considerato un tempo come «Hotel du bon Dieu», ossia come «Albergo del buon Dio». Era considerato come un luogo di rifugio per tutti coloro che erano colpiti dal punto di vista sociale, fisico e psichico, e rappresentava una tappa importante sulla via

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della vita e della guarigione. In confronto con le possibilità attuali della medicina, allora si poteva fare ben poco per gli ammalati; la dimensione globale dell’uomo costituiva il fondamento stesso delle cure che si prestavano agli ammalati ed ai morenti.

I progressi della medicina hanno sempre più fatto dimenticare questa dimensione umana globale. È impossibile far tornare indietro la ruota della storia. E così pure è irresponsabile opporre tecnica e sentimento umano. Nella cura degli ammalati e dei morenti, si tratta piuttosto di far sì che le possibilità della terapia non conducano a rifugiarsi in un trattamento tecnico perfetto, a spese dell’incontro con l’ammalato e le sue sofferenze. Solamente quando l’uomo è preso sul serio come un tutto, con le sue sofferenze, i suoi desideri e i suoi bisogni, si ricongiungono la guarigione -del corpo e la salute dell’anima, e i diversi servizi possono aiutare il malato ad avere una vita ed una morte degna dell’essere umano. Alcuni medici e membri del personale curante si sforzano di impegnarsi in questa via in maniera esemplare, e qua e là anche interi reparti d’ospedale seguono il loro esempio. C’è da augurarsi che questi sforzi, che comportano un impegno molto esigente per le persone

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implicate, siano più studiati, valutati in modo critico e ampliati.

Il desiderio di morire a casa propria

Poter morire a casa propria: questo augurio quasi dimenticato riprende oggi vigore per molti motivi. Da una parte, la speranza di vita non cessa di aumentare nella nostra società; d’altra parte, il rischio della malattia in età avanzata è diventato più elevato. Le possibilità di cure fuori dell’ospedale (dialisi a domicilio, stimolatore cardiaco) sono in progresso. Molto spesso il malato è ricoverato in ospedale per un periodo piuttosto breve ed è dimesso in condizioni organiche precarie. È questa la ragione per cui la realizzazione dei servizi medici ambulanti si è imposta come una esigenza urgente. Le Chiese in Germania, specialmente in questi ultimi anni, hanno preso in considerazione tale richiesta, creando dei dispensari. Ormai la cura dei malati è largamente assicurata a domicilio. L’augurio che molte persone colpite da lunga malattia si fanno di passare i loro ultimi giorni in casa propria può essere soddisfatto.

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Assistenza sanitaria ambulante

I membri del personale sanitario ambulante (infermiere, aiuto-infermiere, assistenti per gli anziani) lavorano già in molti luoghi in équipes e assicurano, grazie ad un programma ben tracciato, cure specializzate ad ammalati e a persone anziane, in collaborazione con il medico curante. In questa nuova formula di cure il personale sanitario è portato ad entrare in contatto con tutti gli organismi sociali e a collaborare con i gruppi caritativi delle parrocchie e con i parenti degli ammalati. Così molti pazienti possono fare l’esperienza personale che la comunità ecclesiale è una comunione vivente che li sostiene anche nella malattia e nella vecchiaia.

È da tener presente a questo punto che le persone che condividono per anni la vita del malato grave e conoscono così meglio di qualsiasi altro i suoi bisogni hanno un’importanza tutta particolare. Ci sono numerosi pazienti vittime di una lunga malattia, per esempio in seguito a una paralisi cerebrale, che rappresentano per la famiglia un peso sia fisico che morale, che può diventare insopportabile quando si lavora a tempo pieno e non si può contare su un aiuto. Può capitare allora che i

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familiari non possano più rispondere ai bisogni, né del malato, né di se stessi, né della loro famiglia. In questo caso è più sensato ospedalizzare il malato, piuttosto che lasciarlo a casa in un’atmosfera carica di conflitti.

Vantaggi delle cure a domicilio

Per gli ammalati e i morenti i vantaggi di un trattamento a domicilio sono evidenti: il paziente è curato nell’ambiente dove abita, nelle stanze che gli sono familiari. Spesso le ha arredate lui stesso, secondo i suoi gusti. I vicini lo conoscono, come conoscono lo svolgersi della sua vita, le sue delusioni, le sue gioie e i suoi successi. Proprio nella misura in cui si tiene conto del restringersi dei limiti nei quali la malattia racchiude tale malato si possono utilizzare in pieno le differenti possibilità di una organizzazione personale di vita a casa. Per l’ammalato colpito da una malattia mortale lo spazio vitale si riduce alle dimensioni del suo letto. Questo si nota spesso anche sul piano psicologico. È proprio per questo che bisogna fare attenzione alla sua autonomia ridotta. Tutti gli oggetti di cui ha bisogno devono essere disposti in funzione delle

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sue forze, in modo tale che li possa raggiungere. Tra le quattro pareti della sua stanza, grazie a una disposizione personalizzata dello ambiente, il malato può vedere il suo spazio vitale ampliarsi. È così che un crocifisso o una foto di famiglia possono essere appesi o disposti in modo tale che il malato possa vederli. Alcune abitudini divenute familiari (leggere il giornale, fumare, ascoltare la radio, guardare la televisione) a poco a poco devono essere abbandonate. È importante che questi segnali siano colti dalle persone che assistono il malato. Talvolta il solo fatto di rimanere seduti in silenzio accanto ad un malato grave, e in primo luogo al capezzale di un morente, rappresenta la forma più importante dell’assistenza.

Per essere in grado di portare un aiuto è importante essere qualificati. Per questo degli specialisti dipendenti dai dispensari parrocchiali assicurano corsi per la cura degli ammalati a domicilio nelle parrocchie. Gli assistenti (membri della famiglia, vicini) imparano così a prendersi cura dei malati in modo corretto. Tali corsi hanno un’importanza ancor più considerevole in campagna che nelle grandi città. La popolazione ha riconosciuto la necessità di questa iniziazione pratica alle cure che si possono effettuare nella vita di ogni giorno.

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Un programma speciale è consacrato al modo di occuparsi dei malati gravi e dei morenti.

Postulati per le nostre comunità

Per svilupparsi e maturare, la vita umana è legata in modo decisivo al senso comunitario, o piuttosto a una comunità che sa sostenere i suoi membri. Questo è ancor più vero per la morte d’una persona. Ciò pone un interrogativo di fondo sulla vitalità delle comunità cristiane (Rm 12,3-8). Una comunità cristiana si deve lasciare interrogare sul valore che attribuisce a coloro che soffrono. Se una comunità vuole essere credibile, deve interessarsi particolarmente dei suoi membri deboli e malati.

Tra le molte possibilità che hanno le comunità per assistere gli ammalati, ne nomineremo qui soltanto alcune. La solidarietà spirituale può esprimersi nella preghiera o nella celebrazione eucaristica, specialmente quando questa si svolge nell’abitazione di un malato grave. La comunità riunita per le funzioni domenicali o nel corso della settimana fa memoria dei suoi malati nella preghiera dei fedeli. In molte parrocchie si celebra una o più volte nell’anno la giornata degli ammalati, nel corso

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della quale parrocchiani costretti a rimanere a letto e che non possono mai lasciare la loro abitazione sono trasportati in chiesa. Si richiede la collaborazione di molte persone per permettere all’ammalato di partecipare a questo giorno di festa. Spesso durante l’eucaristia si amministra l’unzione degli infermi agli ammalati e alle persone anziane che godono poca salute e sperimentano il peso degli anni e la diminuzione delle forze come un richiamo alla fede e perciò desiderano ricevere il sacramento. In molte parrocchie, infermiere o coadiutori laici hanno l’autorizzazione a portare la comunione agli ammalati quando il parroco non ne ha la possibilità. Il ministero della visita agli ammalati è organizzato da comitati parrocchiali che si dedicano a questo compito specifico e nominano, dopo un’appropriata formazione, uomini e donne qualificati. Ci sono malati che si riuniscono in piccoli gruppi per formare comunità di preghiera e di sacrificio, darsi reciprocamente una testimonianza di fede, incoraggiarsi e aiutarsi l’uno con l’altro. Allo stesso modo si creano catene telefoniche tra malati e persone sole che si telefonano ogni giorno a un’ora convenuta.

Le nuove forme di cura nei dispensari parrocchiali non esimono le comunità dal preoccuparsi

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degli ammalati. Al contrario, esse devono intensificare e incrementare questo ministero. La formazione continua dei laici in campo sociale e sanitario, diretta da specialisti se la comunità lo desidera, offre una possibilità a tal fine.

3. L’assistenza e la presenza al momento della morte

Nessuno di noi può vivere da solo la propria vita, nessuno può affrontare da solo la propria morte: da solo, cioè senza l’aiuto essenziale che gli viene da un altro. Per molti la morte è preceduta da una rottura decisiva, talvolta brutale, con l’ambiente e accompagnata da una crescente solitudine. Ciò è vero soprattutto per coloro che muoiono in ospedale. Per questo tutti gli uomini nell’ultima tappa della loro vita hanno bisogno di un’intensa assistenza per avere una morte degna di un essere umano.

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Che cosa si intende per assistenza ai morenti?

Assistere un morente significa essergli vicino in maniera tale da permettergli di organizzare, nella misura del possibile e in modo personale, le possibilità di vita che gli rimangono e di morire la sua propria morte. L’assistenza del morente congloba un insieme di servizi assicurati dai medici e dal personale sanitario, sia per gli ultimi istanti che nel corso di una malattia mortale, così come l’assistenza spirituale e psicologica data dalla persona che accompagna il morente. Un’attenzione particolare deve essere rivolta al modo in cui il morente vive e subisce i sintomi della sua malattia, per poter adeguatamente alleviare i suoi ultimi istanti. Ciò esige che tutte le persone in questione, in primo luogo il personale sanitario, imparino a comprendere il linguaggio del morente: le sue recriminazioni e le sue lamentele, la maniera di esprimerle secondo l’età, il sesso, l’ora del giorno, il linguaggio, ed anche secondo il suo rapporto con l’interlocutore e il ruolo di quest’ultimo. Il fatto stesso che il morente dipenda da una persona lo può mettere a disagio nell’aprir- si a lei e darle parte dei suoi bisogni. Tutti coloro che sono chiamati ad assistere un morente dovrebbero di conseguenza prendere coscienza

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in maniera appropriata dei suoi bisogni, in particolare quando si lamenta della stanchezza, dei dolori, dell’oppressione, delle nausee e di altri sintomi.

L’assistenza sanitaria comprende infine tutte quelle azioni che permettono al morente di affrontare i suoi ultimi istanti e la sua morte e. nella misura del possibile, di accettarne la realtà. In altre parole, essere recettivi nel cogliere ciò che impressiona il morente, capire i suoi segnali (tramite il suo atteggiamento di rifiuto o di accettazione, le recriminazioni e la rivolta, la sua ricerca di compagnia o di solitudine); e poi: saper trovare il tempo necessario per ascoltare e comprendere, accettare i sentimenti, sia quelli negativi che quelli positivi. Tutti questi passi sono di capitale importanza. Accettare insieme il silenzio e l’impotenza nella quale ci si trova fa ugualmente parte del ruolo di colui che assiste un morente. Infine non ci si può dimenticare di parlare con la persona che muore della situazione reale in cui essa si trova. Solo così diventa capace di affrontarla, e può anche accadere che abbia meno paura, per il fatto che sa che cosa sta per accaderle. La dimensione religiosa può essere presente in tutti questi passi; essa si esprime nell’aiuto che dona la fede, nello sforzo per trovare insieme il senso della morte,

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nella comune preghiera e nell’amministrazione dei sacramenti dei malati e degli infermi. Un problema particolarmente spinoso è quello del dire la verità all’ammalato, un problema che deve essere trattato a parte.

Le fasi del morire

Aiutare qualcuno a morire vuol dire dunque aiutarlo intensamente a vivere le ultime tappe della sua vita. L’assistenza al morente, nelle differenti fasi che attraversa 23, deve presentarsi come un accompagnare, il più possibile sensibile e comprensivo, senza mascherare la realtà.

Nella prima fase l’ammalato è in preda all’ignoranza del suo stato e all’insicurezza. Il morire e la morte sono rimosse o addirittura negate. Il malato si trova così in una situazione in cui non è ancora in grado di raffigurarsi il pericolo di morte che sta correndo. Ci vuole allora una buona dose di pazienza e di sensibilità, affinché il malato non sia rafforzato nel suo rifiuto dell’evidenza e possa abbandonare la sua resistenza contro la realtà.

In seguito, il morente che deve vivere con

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una grave malattia per un lungo periodo arriva a ribellarsi contro la propria sorte. Questa ribellione si rivela con delle violente manifestazioni di aggressività, di invidia, di collera, di rivolta e di lamenti. Queste manifestazioni non si riferiscono obbligatoriamente alla propria malattia o alla propria morte. Circostanze apparentemente insignificanti possono provocare l’esplosione di questi sentimenti. È importante che le persone che circondano il morente si rendano conto che tali manifestazioni non sono dirette a loro, che le espressioni negative di sensibilità nel corso di questa fase non sono il segno d’un cattivo carattere, condannabile dal punto di vista morale. Al contrario, è necessario che i morenti attraversino questa fase negativa per poter arrivare in seguito ad un confronto e all’accettazione della morte. Più l’assistente ha la capacità di comprendere e accettare la violenza di queste espressioni, più aiuta la persona che muore a liberarsi dal rifiuto di dover morire; e tanto più il morente diventa capace di rinunciare ai sentimenti e alle esperienze che durante questa fase nascono da lui senza che egli se ne renda conto. Può anche rendersi necessario che l’assistente aiuti il morente a fare questa esperienza, affinché questi cessi di resistere

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alla fatalità della morte e possa giungere ad un atteggiamento di accettazione.

La terza è quella del patteggiamento con il destino. Il morente comincia ad affrontare la realtà della morte e ad inserirla nelle possibilità di vita che gli rimangono, anche quando, come spesso capita, ha difficoltà a fame una valutazione adeguata.

Segue la fase della depressione, in cui il morente, in una solitudine sempre crescente, nella tristezza e numerosi accessi d’irritazione, comincia a riconoscere che deve morire. Inizia infine la fase dell’accettazione, durante la quale il morente si ritira, a modo suo, dal mondo dei vivi e spesso fa persino pace con la morte.

La conoscenza di queste differenti fasi può essere molto utile per comprendere il morente. Ma può anche indurre a voler comprendere e analizzare al di là di quello che il morente esprime in quel dato momento. Per questo è della massima importanza affrontare le espressioni concrete del morente, anche quando non corrispondono allo schema citato o addirittura lo contraddicono.

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Necessità di confrontarsi personalmente con la morte

La prima qualità per chiunque assista un morente è la pazienza. La dura prova che il morente sostiene richiede un interlocutore pieno di sensibilità, in modo che l’immaginazione, l’illusione e la realtà si armonizzino in modo tollerabile nell’esperienza del malato. In effetti colui che assiste si trova ad affrontare tre difficoltà, che spesso lo conducono al limite delle sue possibilità: il dire la verità, la ricerca del senso di un’agonia e di una morte concrete, e infine la richiesta di eutanasia. Ma la maggiore difficoltà dell’assistenza ai morenti consiste nel fatto che la morte di un essere umano esige che colui che assiste si confronti con la propria morte. Solo colui che accetta tale confronto — il cristiano lo metterà in relazione con le sofferenze, la morte e la risurrezione di Gesù Cristo — potrà offrire al morente un aiuto che abbia un senso. Ciò esige che impari a guardare in faccia la sua propria angoscia, in modo da capire e sopportare quello che agita il morente nel più profondo di se stesso. Per capire empatica- mente una situazione spesso è necessario riconoscere la propria impotenza. Proprio per questa

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via, colui che assiste diventa il compagno del morente. Al contrario, il rifiuto di tale confronto può dare luogo a conseguenze negative. Si indietreggia con spavento davanti alle domande del morente e ci si rifugia nella menzogna e nell’illusione, quando si tratta della morte che incombe. Il morente si accorge che chi lo circonda perde ogni speranza (si entra nella camera in punta di piedi, gli si rivolge meno sovente la parola, si sussurra in sua presenza) ed egli soffre così una morte sociale, perché non può fare parte a nessuno di ciò che l’opprime veramente.

Il problema della verità al morente: si può parlare chiaramente a un malato grave?

Il problema fondamentale, quando la malattia prende fatalmente la via della morte, sta nella verità da dire al morente. Al riguardo, dire la verità non vuol dire fare delle dichiarazioni senza tatto ed intempestive sullo stato del malato. Non consiste neppure nella diagnosi o nella prognosi circa il momento preciso della morte. Si tratta qui della capacità di colui che assiste di stabilire col paziente una relazione tale che questi sia in grado di chiedere informazioni sulle sue condizioni e di

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trame le opportune conseguenze. Anche quando, dal punto di vista terapeutico, la situazione non presenta via di scampo, non ne consegue obbligatoriamente che il malato abbia perso ogni speranza di fronte alla morte. Numerose ricerche empiriche hanno dimostrato che i morenti non perdono mai del tutto la speranza, in modo particolare quando chi li assiste non scappa di fronte alla propria impotenza. Quando si incomincia ad essere recettivi ai segnali emessi da un malato colpito da malattia mortale, si scopre più facilmente il momento appropriato in cui il malato è capace di ricevere le informazioni più precise sul corso della sua malattia.

Colui che assiste non deve temere di mostrare fino a qual punto sia colpito dalla sorte del malato, allorché questi lo assale con domande delicate che riguardano la diagnosi e la prognosi della sua malattia. Allora ciò che è decisivo non è solo l’esattezza di ciò che si dice, ma la solidarietà nella situazione difficile, che va di pari passo con il prognostico inquietante di una malattia. Il punto più importante, in questo caso, è che il malato durante il corso dell’ultima tappa della sua vita non si senta lasciato solo da coloro che lo curano, nel momento stesso in cui comincia ad affrontare

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l’angoscia della morte. Molte testimonianze recenti dimostrano a quale punto la verità che si dice al malato possa avere una influenza liberatrice sulle relazioni tra il morente e coloro che lo assistono. Questo fatto ci autorizza a sperare che cresca la disponibilità ad affrontare la verità della morte. Questa è una condizione necessaria perché il morente possa vivere in maniera umana le ultime tappe della sua vita.

A chi spetta il compito di assistere un morente?

Nessuno può avere la pretesa di essere il solo competente nell’assistere chi muore. Questo compito può toccare a tutti. Ogni gruppo professionale ha, in questo campo, i suoi vantaggi e i suoi inconvenienti. Tutti devono ricorrere alla collaborazione altrui, quando si tratta di assistere un morente: all’informazione dei medici sullo stato e il decorso della malattia; alle osservazioni delle infermiere e del personale curante, che conoscono intimamente il malato; alle indicazioni e alle precedenti esperienze dei parenti; alle informazioni raccolte durante le conversazioni dai cappellani, gli psicologi e gli altri assistenti. Per quanto

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riguarda i cappellani, spetta a castoro un compito specifico al capezzale dei morenti. Oltre al colloquio, li aiutano con la loro preghiera sacerdotale, con l’incoraggiamento alla fede e l’amministrazione dei sacramenti. Lo scopo del loro ministero è l’annuncio della morte e della risurrezione di Gesù Cristo, in modo da rafforzare il morente nella sua speranza di cristiano. È il paziente che dovrebbe poter designare la persona incaricata di assisterlo nei suoi ultimi momenti. È lui che conosce meglio quale sia la persona le cui disposizioni corrispondono alle sue, che possa condividere più intimamente i suoi sentimenti, le sue paure, le sue speranze. In pratica, questo problema non è preso in considerazione tra coloro che assistono il morente. Spesso ognuno attribuisce silenziosamente all’altro questo compito, che richiede tanta pazienza. Quasi tutti hanno ragioni urgenti per evitarlo: mancanza di tempo, di formazione, di competenza. Sono rari coloro che osano confessare apertamente che, nonostante sentano la necessità di assumersi questo compito per il tal paziente, in realtà hanno paura, perché si sentono messi di fronte alla propria impotenza. Se le persone interessate (personale curante, parenti, cappellani) lo ammettessero apertamente gli uni

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agli altri, sarebbe certamente più facile accettare questo compito. Si potrebbe allora fare affidamento sulla comprensione, la collaborazione e l’aiuto degli altri. Non si avrebbe bisogno allora di temere di commettere errori, di esprimere le proprie paure, non si esiterebbe a chiedere consiglio agli altri per risolvere le proprie difficoltà. In verità questo è il solo modo per ognuno di venire a capo di questo difficile compito, che spinge fino agli estremi limiti — là dove si ha bisogno della comprensione altrui — non solo le allieve infermiere, ma anche i terapeuti meglio formati.

L’assistenza al capezzale del morente

Tra i medici e il personale curante, sia negli ospedali che nei dispensari, si dovrebbe fare attenzione affinché almeno una persona sia particolarmente incaricata di un morente. Questa persona, anche se viene da fuori, per esempio come parente o amico del paziente, dovrebbe essere integrata nel lavoro dell'équipe dell’ospedale o del dispensario parrocchiale. In collaborazione con questo assistente personale del morente, possono essere prese misure terapeutiche appropriate, in modo da permettere al malato di organizzare lui stesso,

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nella misura del possibile, l’ultima tappa della sua vita, al riparo del dolore, per tutto il tempo in cui egli crede di dover subire delle dure difficoltà o prendere delle decisioni. In questo modo, anche nelle fasi penose della malattia nessuno è costretto a rimanere solo. Per quanto riguarda il problema dell’eutanasia, ci permettiamo di rinviare alla dichiarazione dell’episcopato tedesco: «Il diritto umano alla vita e l’eutanasia», del 1° giugno 1975 24.

Limiti alla dignità del morire imposti dall’ospedale. Opportunità che vi sono a morire in casa propria

A questo punto torna ad essere evidente che la medicina moderna, con le grandi possibilità di cui dispone per prolungare la vita, ci pone tutti davanti a un interrogativo: come possiamo organizzare umanamente l’ultima tappa della vita ad imo dei nostri simili? Sempre più i nostri moderni ospedali si vedono nell’incapacità, a causa delle molteplici incombenze, di garantire un’assistenza personale ai

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morenti, quale viene qui presentata. Ciò accresce ancor più la responsabilità che incombe all’individuo — come parente, vicino, collaboratore benevolo della comunità — di occuparsi dell’assistenza personale del morente, a casa o in ospedale. Nella misura in cui i dispensari parrocchiali possono avere cura del morente, noi non siamo più obbligati a morire secondo le strutture funzionali di un o- spedale moderno, e abbiamo invece la possibilità di passare l’ultima fase della vita in una atmosfera familiare, dove è più facile organizzare la propria vita personale. La responsabilità delle nostre comunità è tanto più coinvolta in quanto l’individuo, in forza dei sacramenti, e in primo luogo per il battesimo, non è solo membro di una comunità, bensì muore anche in quanto membro di essa. Si pone così la questione: quali sono tra noi coloro che, nella propria famiglia, nel vicinato, nelle associazioni incaricate dalla parrocchia di assicurare il ministero degli ammalati, si curano dell’assistenza dei morenti, soprattutto di coloro le cui famiglie sono nell’incapacità di farlo da sole? Qui ancora il compito della comunità è chiaramente tracciato: essa deve fare in modo che i suoi morenti abbiano sempre qualcuno che li assista, che i parenti che sono

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al capezzale del morente siano sostenuti materialmente e spiritualmente, e soprattutto che i dispensari parrocchiali si tengano in stretto contatto con questi assistenti. I dispensari non devono prendere il posto degli ospedali; al contrario, è da augurarsi che i membri del personale curante suscitino, con la parola e lo esempio, nei parenti e nei vicini il desiderio d’accompagnare i morenti in uno spirito di comprensione e di partecipazione interiore.

Postulati per gli ospedali

Per quanto riguarda l’assistenza personale del morente, la comunità ha un ruolo decisivo da svolgere. L’impegno personale dei singoli non dispensa gli ospedali dalla loro responsabilità nel creare delle condizioni necessarie per una morte degna dell’uomo nell’ospedale stesso. Queste condizioni devono essere previste nella pianificazione ed organizzazione degli ospedali, nella loro costruzione e nel trattamento dei malati. Così, per esempio, le camere dei pazienti devono permettere una morte degna dell’uomo, favorendo in particolare il contatto con la famiglia. Il metodo che porta a relegare il morente in una stanza speciale dell’ospedale, come avviene in diversi luoghi,

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non deve diventare una regola generale. È essenziale che nella organizzazione generale della terapia si includa l’assistenza del morente. In concreto ciò significa che i parenti o altre persone debbano essere integrati nel programma di assistenza, o almeno che siano informati, e che chiunque muore abbia la possibilità di avere qualcuno per assisterlo nei suoi ultimi momenti. In questo settore, la pastorale dei malati ha un ruolo sempre più decisivo da svolgere. In questi ultimi anni, grazie a un’informazione appropriata, i cappellani d’ospedale, cattolici e protestanti, sono stati particolarmente formati per assistere i pazienti nella loro malattia ed agonia, in modo da integrarsi come membri a pieno diritto nel- l'équipe terapeutica che opera nell’ospedale. Senza una collaborazione tra la pastorale dei malati e i servizi sanitari, questo difficile compito non potrebbe essere condotto a termine.

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4. La testimonianza cristiana e i sacramenti come segni della vicinanza di Dio

Cosa significa credere nell’ultima fase della vita?

Nell’ultima fase della sua vita, l’uomo non può che sentire sempre più chiaramente che le sue forze vitali declinano e s’avviano verso una fine decisiva. Questo avvenimento sottopone la fede del morente a una dura prova. Spesso scoppia allora la crisi più grave e più significativa, perché la capacità dell’uomo di dare fiducia subisce la sfida più radicale. Il morente deve aprirsi, nella fiducia, alla sua propria situazione, alle persone da cui dipende, e infine alla morte, che è la porta che dà sul futuro. Si pone la domanda: come fare questo atto di fiducia e credere fermamente in Dio, che questi cioè concede un avvenire e una vita, quando le apparenze sono contrarie?

Credere significa: aggrapparsi a Dio

I cristiani hanno imparato, precisamente nelle ore di lotta, ad aggrapparsi a Dio in virtù della promessa della sua fedeltà. È in questo

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atteggiamento di fede che ricevono forza e coraggio, serenità e sicurezza, nel riposo come nel cammino (dovunque la via possa condurli!). Fanno l’esperienza della misericordia e della bontà di Dio in ciò che egli manda loro. Molti possono testimoniare di avere ricevuto un aiuto inaspettato, grazie a questa fede ben ancorata.

Ma succede spesso che i morenti uniscano questo aggrapparsi a Dio alla speranza di una via di uscita positiva molto precisa, per esempio il buon esito di un’operazione, l’effetto di una medicina, la guarigione, il ritorno a casa e la sopravvivenza. Più la loro fede, la loro preghiera e la loro speranza rimangono orientate verso tale scopo, più il loro atteggiamento di fede riveste il carattere d’un «attaccamento», di una volontà di ottenere di uscirne a qualunque costo, di un patteggiamento con Dio. In fondo, ciò che così si esprime è una protesta contro l’ordine della creazione voluto da Dio. L’uomo pone un’esigenza a Dio. In altre parole, vuole che Dio ancora una volta rifaccia la creazione, ma questa volta nel senso di un intervento per soddisfare una domanda che viene dall’uomo. A questa tentazione di mettere la potenza di Dio a nostro servizio possiamo sfuggire solo nella misura

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in cui non dimentichiamo il secondo momento della fede, importante quanto il primo.

Credere significa: distaccarsi

Come nella respirazione espirare e inspirare sono strettamente uniti, così nella fede distaccarsi è altrettanto necessario che aggrapparsi a Dio. In questo atteggiamento di fede, spesso trascurato, si tratta di essere disposti a capire la privazione e la sofferenza, l’agonia e la morte come una partecipazione alle sofferenze e all’agonia di Gesù Cristo. È proprio quando si assiste il morente nelle diverse fasi del morire che questo atteggiamento di fede acquista il proprio significato. Distaccarsi significa rifiutare di rimanere aggrappati, lasciare accesso alla realtà, fatta di tenebre e di luce, di ciò che ha senso e di ciò che non ne ha, rispondere a una chiamata, accettare di percorrere una nuova vita, e infine essere pronti ad abbandonare le proprie sicurezze per scoprire Dio nell’ignoto. E cosa c’è di più ignoto della propria morte? Quale via è più difficile da percorrere che la realtà della morte, del morire, in questo senso globale? Allorché la nostra preghiera, la nostra fede e la nostra speranza si basano su questi due atteggiamenti fondamentali

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di attaccamento e di distacco, allora anche la fede può assumere tutto il suo vero significato nelle ultime fasi della vita. Essa può aiutare l’uomo ad affrontare l’agonia e la morte, può dare una risposta alle domande che si pongono sul senso di questo avvenimento.

Si comprende allora, per esempio, che la fase di rifiuto nel morente richiede che colui che l’assiste abbia comprensione per le angosce e le resistenze del malato, senza per questo chiudere gli occhi sulla realtà, cosicché il morente possa a poco a poco accettare interiormente di entrare nella morte. Allora la fase di rifiuto, con la sua ribellione, la sua collera, la sua invidia, la sua acrimonia non ci spaventa più. Al contrario, impariamo ad accettare queste espressioni emotive come forme attive di addio e di rimpianto. Sentiamo che è proprio in queste reazioni brutali che si nascondono il distacco e l’esplorazione della dura realtà della morte, che devono precedere la tristezza più dolce di quella fase del morire che è caratterizzata dalla depressione e dall’accettazione.

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Come ci incontra nella morte il Dio che ci accompagna?

La Bibbia non ci presenta Dio unicamente come la causa prima e il creatore di tutte le cose, sebbene nella coscienza di molti cristiani una tale concezione della fede sia predominante. È precisamente durante la malattia e in fin di vita che molti si rivolgono a Dio onnipotente per chiedergli di allontanare il dolore e la malattia. Si rivolgono a Dio come ad una potenza, capace di cambiare la loro situazione concreta, perché egli può fare nuove tutte le cose (cf. Ap 21,5). Fanno fatica a rivolgersi a Dio come a colui che ci accompagna, che è ogni giorno vicino a noi, fino alla fine dei tempi (cf. Mt 28,20; 25,40).

Il Dio che ci accompagna nell’Antico Testamento

L’Antico Testamento testimonia il Dio del- l’Alleanza, che non abbandona il suo popolo, che è segretamente presente ed ascolta i sospiri e l’affanno dell’uomo. Lo presenta come colui che comprende e fa misericordia, che spesso non cambia niente alla situazione di coloro che soffrono, ma, percorrendo lo stesso

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cammino, lancia loro un richiamo a superare i propri limiti per un nuovo inizio. Dio permette la sofferenza, ma ascolta anche i gemiti e perfino le accuse dell’uomo (cf. Giobbe). Non toglie dal mondo la sofferenza, il dolore, la morte, ma neppure abbandona da soli nell’angoscia coloro che lo invocano. Grazie a questa presenza, essi ricevono una forza che egli ha ancorata nel fondo di loro stessi, per aiutarli a sopportare la loro sorte, in modo che siano capaci di oltrepassare i loro limiti o accettare quelli estremi nella pace. L’uno e l’altro aspetto si ritrovano nella storia della salvezza di Dio con il suo popolo: il superamento dei limiti, la vittoria, l’inizio nuovo (così con Abramo che scopre la nuova terra; con Davide che trionfa su Golia; con Giobbe che riceve in dono una vita nuova) e l’accettazione dei limiti (così con Mosè che muore prima d’entrare nella Terra promessa).

Il Dio che ci accompagna nel Nuovo Testamento

L’agonia, la morte e la risurrezione di Gesù costituiscono il punto culminante della promessa biblica per la nostra propria agonia e la nostra morte. Nell’affermazione che avverrà

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in noi quello che si è verificato nella risurrezione di Gesù, noi troviamo la speranza più audace per la nostra agonia e la nostra morte. Questa speranza non sopprime la paura degli ultimi istanti e della morte, né ci risparmia il passaggio attraverso le ultime fasi della vita. Ma essa è per noi un incoraggiamento ad accettare l’agonia con tutte le sue tappe, perché è proprio così che noi siamo certi di entrare con Gesù nella sua risurrezione (cf. Rm 6,4ss).

L’esperienza della presenza di Dio nell’assistenza a chi muore

La promessa che Dio ci accompagna deve essere rimessa in valore nella nostra predicazione, in particolare presso i malati ed i morenti. Questa promessa il malato la deve poter toccare, la deve sperimentare nella maniera in cui noi l’assistiamo. La presenza del Signore può diventare evidente quando noi semplicemente restiamo accanto al malato, lo visitiamo (cf. Mt 25,36); quando non lo lasciamo nella solitudine e l’accompagnamo con un atteggiamento comprensivo. Sforzandoci di essere presenti all'ammalato e di prendere parte alla sua sorte, troveremo allo stesso tempo

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le risposte che ci permetteranno di comprenderlo veramente. Anche quando il morente apparentemente non ha più conoscenza, noi possiamo ancora fare dei piccoli gesti, come tenergli la mano, asciugargli la fronte, aggiustargli il cuscino o bagnargli le labbra; questi gesti gli testimoniano il nostro contatto umano, di cui ha grande bisogno. Grazie a tale assistenza, il morente può presentire o addirittura sperimentare la misteriosa presenza di Dio al suo fianco, ed affidarsi nella fede al mistero della morte.

La preghiera personale con il morente

Tutti coloro che assistono un morente fanno con lui l’esperienza dell’impotenza davanti al mistero della morte. Molti fanno fatica a sopportare questa impotenza. La preghiera può contribuire a superarla, nella misura in cui colui che assiste accompagna il morente con la preghiera, anche nella sua ribellione, nel suo dubbio e nella sua disperazione. I salmi ci offrono numerosi esempi del modo in cui un credente esprime i suoi sentimenti e i suoi desideri, le sue delusioni e la sua tristezza davanti a Dio. È essenziale che colui che assiste percepisca ciò che opprime il malato e lo formuli

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in una preghiera a Dio. Altrimenti il morente rischia di sentirsi incompreso e non può partecipare alla preghiera, e così attraversa le ultime fasi della vita senza il soccorso della fede.

Il credente che assicura presso il morente una presenza amante pregherà con lui, pieno d’attenzione e di sensibilità. Secondo lo stato del malato, si possono recitare lentamente, con dei momenti di silenzio, le preghiere familiari (Padre nostro, Ave Maria, il Rosario), le preghiere tradizionali di ringraziamento (Te Deum, Magnificat), certe giaculatorie, la preghiera della Chiesa per i morenti, oppure delle preghiere spontanee. Spesso un piccolo segno di croce tracciato sulla fronte o un crocifisso che gli mettiamo in mano possono comunicargli un po’ di quella serenità che la fede gli ha dato durante la vita.

Quelli che hanno esperienza di assistenza ai morenti sanno bene che questi, dopo avere attraversato diverse tappe, sono capaci di accettare la morte nella pace e nella rassegnazione. Quando colui che assiste coglie questa situazione dall’interno, i ruoli sono spesso invertiti; il morente che si affida a Dio presente nella sua situazione senza uscita diventa il testimone della fede per colui che l’assiste e per

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le persone presenti. Questa testimonianza vissuta è più eloquente di qualsiasi discorso.

I sacramenti: un aiuto nella malattia grave

I sacramenti sono un richiamo per comprendere in profondità e per superare tutte le situazioni della vita a partire dalla fede; sono ugualmente un dono di Dio e l’assicurazione che lui non abbandona l’uomo in questa situazione. In questo senso il sacramento della penitenza, l’unzione degli infermi e l’eucaristia rappresentano un aiuto nelle malattie gravi.

La conversione personale

La vita umana è sempre una vita limitata, cioè non raggiunge mai la pienezza e la perfezione. Questo è vero anche per la nostra capacità di vivere all’altezza del nostro ideale e degli ideali della società. Ed è per questo che nessuna vita è priva di colpa e di peccato. Il Vangelo ci assicura che Dio porta con noi il fardello della nostra vita e della storia umana. Il nostro passato non è cancellato, né si può revocare quello che è avvenuto, ma noi siamo accolti nella nostra situazione, tali quali siamo, perché Dio ci offre la riconciliazione. Una

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tale esperienza può incoraggiare l’uomo che riconosce la sua colpa ad accettare se stesso con la sua vita concreta e la sua consapevolezza personale, e così dischiudere nuove possibilità per il suo avvenire. Quando manca questo aspetto nell’assistenza del malato grave o di colui che muore, si trascura un servizio essenziale, che è in primo luogo di competenza della pastorale e che generalmente non può effettuarsi senza la collaborazione degli altri servizi terapeutici. Abbiamo qui un caso in cui medici, infermiere e membri del personale curante sono chiamati a riconoscere il compito del cappellano e ad integrarlo alla loro propria attività.

È di fronte alla morte che molte persone, prendendo coscienza della fatale realtà della loro malattia, si rendono conto di quanto la loro vita precedente fosse contestabile e limitata. Ciò può sfociare nel desiderio di convertirsi interiormente e di unirsi al Dio vivo, per dare alla propria vita, almeno in questo momento supremo, un senso e un contenuto. Ciò presuppone, d’altronde, che il morente sia capace di accettare ravvicinarsi della morte, ciò che normalmente non è possibile se non dopo un processo lento ed intenso.

Nelle diverse forme della penitenza, soprattutto

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nel sacramento della riconciliazione e nelle celebrazioni penitenziali, la Chiesa offre la possibilità di esprimere la propria conversione con gesti simbolici e concreti. La confessione rappresenta al riguardo la forma più alta della penitenza: grazie all’accusa personale e alla parola di perdono, colui che è disposto a convertirsi fa infatti l’esperienza d’essere accettato da Dio, e può partire rinnovato, pieno di speranza per un nuovo avvenire.

Malgrado tutte le difficoltà alle quali si trovano di fronte oggi gli ospedali, a causa della organizzazione complessa e del superlavoro, i medici e il personale curante, per il bene del morente, si impegneranno a chiamare volentieri e senza ritardo un cappellano ogni volta che il malato che si avvicina alla morte cerca liberazione e sollievo in un colloquio con il sacerdote o nella confessione sacramentale.

L’unzione dei malati come segno di consolazione e di forza

Il nuovo rito dell’unzione dei malati ha rimesso in luce il senso originario di questo segno di salvezza. Tutti coloro che, a causa della loro malattia o dell’età avanzata, prendono intensamente coscienza che la loro vita va verso

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la fine e guardano in faccia la loro realtà senza illudersi e senza rifugiarsi nella dissimulazione, sono chiamati a dare una risposta alla situazione tragica in cui si trovano. Ricevere il sacramento degli infermi come segno di salvezza è una risposta della fede a questa sfida. Per molti secoli ha predominato un’idea restrittiva del sacramento degli infermi, in quanto lo si amministrava solo in caso di morte. Ancor oggi, dopo che è stato ristabilito il senso primitivo di questo sacramento e che l’unzione dei malati ha ripreso la sua collocazione nel corso della malattia (cf. Gc 5,14-15), molti cristiani hanno difficoltà a comprendere il carattere di segno del sacramento dei malati. Questo è ancora spesso frainteso come prova che la malattia da cui si è colpiti è incurabile, che la morte s’avvicina, oppure che non c’è più speranza. Questi pregiudizi possono essere superati solo mostrando al paziente, grazie ad un’assistenza piena di comprensione, che si è sensibili alle sue reazioni. Un tale atteggiamento permette al malato di riconoscere la sua situazione, le sue angosce e forse anche la debolezza della sua fede. Poiché non è abbandonato a se stesso, può riaffiorare la sua speranza. In rapporto con l’unzione dei malati la speranza significa sempre speranza di una vita

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nuova, sia nella guarigione, sia nel mistero della morte. Così l’unzione degli infermi diventa il sigillo con il quale il credente mostra che accetta la realtà, qui e ora. Quanto più le parole, i gesti e i segni che accompagnano l’amministrazione del sacramento riflettono chiaramente la situazione del malato, tanto più l’aiuteranno ad accettare il suo destino nella speranza e nella fiducia.

L’amministrazione dell’unzione degli infermi

Nella misura in cui l’unzione dei malati è compresa come un segno che dà sollievo e ridona le forze nella crisi della sofferenza, va da sé che, per quanto è possibile, non dev’essere dilazionata fino agli ultimi istanti della vita. Essa acquista tutto il suo significato nel caso dei malati e delle persone anziane, deboli a causa della vecchiaia, che sentono la loro vita spegnersi e cercano una risposta nella fede, invece di cadere nella rassegnazione o nella disperazione. Quando il sacramento degli infermi è amministrato a più persone contemporaneamente prova ancor più chiaramente che non è un rito di morte, in quanto viene amministrato a persone che sono in misura differente prossime alla loro ultima ora, ma che nonostante

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tutto vogliono dare prova della loro solidarietà riconoscendosi come degli esseri limitati, fragili e destinati alla morte. Quando il sacramento dei malati è amministrato a pazienti senza conoscenza o che hanno perso l’uso delle loro facoltà, viene esplicitato un altro aspetto dell’unzione degli infermi: in essa non si tratta in primo luogo di una decisione del paziente di convertirsi, bensì di un segno della promessa di Dio di essere vicino, proprio in una situazione di fragilità e di impotenza.

Il viatico

Per i credenti il sacramento vero e proprio del ritorno al Padre non è, secondo la tradizione della Chiesa, l’unzione dei malati, bensì il viatico. Nell’ultima ora la santa eucaristia è il cibo che dona al credente la forza per percorrere l’ultima tappa della sua vita. In questo sacramento Gesù è presente nella sua passione, solidale col paziente che, nell’affanno della sua sofferenza e della morte che viene, non solo prende parte alla sofferenza e all’agonia di Gesù, ma anche alla sua risurrezione (cf. Rm 6,3-5; Gv 6,54). Fino a quando la sofferenza del malato è considerata unicamente come un destino individuale, non si potrà mai

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comprendere perché una tale sofferenza si sia riversata su una tale persona. Al contrario, nella partecipazione alla sofferenza del mondo intero, presente al centro della passione di Gesù, il credente può scoprire un senso nuovo alla sua propria sofferenza. Quando un malato è disposto ad accettare la sua morte in questo senso, ciò significa, per la sua vita e per la Chiesa, comunità di credenti, una partecipazione alla passione e alla risurrezione del Signore. D’altra parte, il cappellano non si accontenterà di presumere che questa disponibilità esista nel malato. Lui che è sano rischierebbe, con una simile interpretazione, di esigere troppo da un malato che cerca comprensione ed aiuto. L’interpretazione della crisi più acuta che debba attraversare una persona nella sua vita richiede molto tatto e suppone che tra il paziente e il cappellano si stabiliscano, o esistano già, delle relazioni improntate a fiducia.

Presenza della Chiesa presso il defunto

I defunti non possono ricevere nessun sacramento, neppure il sacramento degli infermi. Ma siccome la medicina non è ancora in grado di indicare in modo inequivocabile il

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momento esatto del decesso, rimane giustificata la prassi che la Chiesa ha osservato fino ai nostri giorni: in caso di dubbio il sacerdote, dopo avere considerato in coscienza tutte le circostanze, può amministrare al morente il sacramento dell’unzione dei malati. Dal momento in cui non si hanno più dubbi sulla morte, dopo l’interruzione dei tentativi di rianimazione clinica o la costatazione medica del decesso, non si può più amministrare il sacramento dei malati. In tutti i casi, però, il sacerdote dovrebbe essere chiamato anche al capezzale del malato che è spirato. Di fronte alla morte, infatti, e al suo impenetrabile mistero, i parenti del morto, ma anche tutti coloro che sono toccati dalla morte in quanto fine della vita, si trovano davanti a una domanda posta alla loro fede. Appunto in questo momento coloro che rimangono hanno bisogno di un aiuto per congedarsi dalla persona scomparsa ed esprimere il loro lutto. Di fronte alla realtà così brutale della morte abbiamo tutti bisogno dell’aiuto della Chiesa, un aiuto che essa ci può dare annunciandoci la risurrezione di Gesù.

La scomparsa di una persona cara ci lascia spesso nel turbamento. Spesso non siamo capaci di fare o di evitare ciò che esige la verità

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dell’ora. Nella propria famiglia, ma più ancora nell’ospedale, molta gente non sa come comportarsi di fronte a se stessi, al defunto, e soprattutto con i parenti del defunto. Spesso la situazione è ancor più penosa quando la vita è stata stroncata da un incidente mortale, si tratti di un incidente stradale oppure di una catastrofe. Spesso ciò che domina è la paura davanti al terribile avvenimento, oppure la curiosità indiscreta. E coloro che sono più colpiti, i più sconvolti, sono incapaci di qualsiasi reazione. In questa situazione si richiede l’aiuto di una persona sensibile, ma che tuttavia non sia rimasta sconvolta dall’accaduto. La sua presenza e la sua preghiera per il morto e con i membri della famiglia, possono diventare un segno decisivo di speranza, umano e religioso al tempo stesso, in mezzo a un mondo che appare senza speranza e disumano.

Tocca qui al pastore un compito spesso difficile, ma essenziale. Egli stesso — o la persona che lo sostituisce — dovrebbe aiutare i parenti ad esprimere il loro dolore, evitando soprattutto che si chiudano in quello stato di choc proprio del rifiuto della morte. È importante che possano esprimere anche le reazioni più vive della sensibilità, provocate dall’amarezza dell’ora e dalla brutalità della morte. Accettare

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tali reazioni, favorirle anzi, è dare un sostegno prezioso ai parenti e agli amici turbati per la perdita di una persona cara.

La liturgia della Chiesa raccomanda, in questi casi, la preghiera d’intercessione per il morente, per colui che è appena spirato e per i parenti. Secondo il caso, possono essere scelte ed aggiunte anche altre preghiere. Tali preghiere devono tenere presenti le condizioni nelle quali avviene il decesso; in altre parole, deve essere evocata ed affidata a Dio la situazione di dolore e d’impotenza delle persone presenti. È su questo punto preciso che s’innesta la nostra speranza nel Dio della vita che non ha abbandonato Gesù nella morte e che è nostra speranza di risurrezione anche in quest’ora della separazione. Si raccomanda di aiutare i membri della famiglia a dare un addio in qualche modo corporale, per esempio incoraggiandoli a tracciare il segno della croce sulla fronte del loro morto e ad accompagnare questo gesto con una preghiera: «Dalle nostre mani lo affidiamo alle mani di Dio: nel segno della croce, in cui nostro Signore Gesù Cristo ci ha preceduti nella morte; nel segno della croce, in cui a costui e a tutti gli uomini è promessa la risurrezione».

Würzburg-Himmelspforten, 20 novembre 1978

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Note

1 Sulla mitologia del cancro, cf. S. Sontag, Malattia come metafora, Torino 1979.

2 L.V. Thomas, Antropologia della morte, Milano 1976.

3 Cf. J. Ziegler, I vivi e la morte, Milano 1978.

4 Segnaliamo le principali, tradotte in italiano: Ph. Ariès, Storia della morte in Occidente, Milano 1978; L’uomo davanti alla morte, Bari 1979.

5 Così B. Groethuysen, Le origini dello spirito borghese in Francia. La Chiesa e la borghesia, Torino 1964.

6 Cf. A. Toynbee, Man’s concern with death, London 1960.

7 «Si tratta di uno di quei periodi che delineano un’incancellabile soglia cronologica: il momento nel quale il male, la contronatura, la morte, in breve tutto il fondo nero della malattia, vengono alla luce; tutto cioè si rischiara e si sopprime a un tempo come la notte, nello spazio profondo, visibile e solido del corpo umano. Quel che era fondamentalmente invisibile s’offre d’improvviso alla chiarezza dello sguardo, in un movimento dall’apparenza così semplice, così immediata che pare la naturale ricompensa d’un’esperienza meglio eseguita. Si ha l’impressione che, per la prima volta dopo millenni, i medici, liberi finalmente da teorie e chimere, abbiano acconsentito ad affrontare l’oggetto della loro esperienza di per se stesso e nella purezza di uno sguardo non prevenuto»: M. Foucault, Nascita della clinica moderna, Torino 1969, p. 221.

8 Per una rassegna delle pubblicazioni più importanti, cf. S. Spinsanti, Psicologi incontro ai morenti, in Medicina e Morale, 26 (1976), n. 1-2, pp. 79-96.

9 E. Kübler-Ross, La morte e il morire, Assisi 1976.

10 «È opinione diffusa che il medico, per quanto non possa deliberatamente disporre in alcun caso della vita di un’altra persona, abbia il dovere di fare il possibile per assicurare al suo paziente una morte dignitosa e senza dolore, anche quando sa che le misure adottate possono lievemente accelerare la fine»: O.M.S., La salute e i diritti dell’uomo..., Roma 1978, p. 52.

11 «L’uomo occidentale ha perso il diritto di presiedere all’atto del morire. La salute, cioè il potere di reagire autonomamente, è stata espropriata fino all’ultimo respiro. La morte tecnica ha prevalso sul morire. La morte meccanica ha vinto e distrutto tutte le altre morti»: I. Illich, Nemesi medica, Milano 1977, p. 223.

12 Segnaliamo, relativamente al problema della fase terminale della malattia e della morte, i fascicoli: Respect de la vie, respect de la mort (Réflexions d'éthique sur la réanimation), 1974; Rencontre avec les mourants, 1974; Thérapeutiques des souffrances terminales, 1975. Buona parte delle argomentazioni che vengono sviluppate nel documento si trovano in queste pubblicazioni.

13 Cf. Aa.Vv., Riforma sanitaria e comunità cristiana, Varese 1979.

14 Questa fase della vita la chiamiamo il «morire». Può durare qualche momento in caso di incidente brutale e inopinato, oppure settimane o mesi nel caso di malattie incurabili, come certi cancri. Il «morire» ha dunque, per noi, un’accezione molto più ampia del termine «agonia».

15 Non parleremo dell'atteggiamento nazista: esso rimane al di fuori del dibattito attuale e le prese di posizione a questo riguardo sono innumerevoli e senza equivoco.

16 Pio XII, Problemi medici e morali della rianimazione, allocuzione del 24 novembre 1957 (orig. in francese, in Osserv. Romano, 25-26 novembre 1957; trad. it., cf. Atti e discorsi di Pio XII, Edizioni Paoline, Roma 1958, vol. XIX (1957)/2, pp. 364-372.

17 Per esempio il St. Christopher’s Hospice, a Londra; è descritto in Laennec, autunno 1975, e Médecine de l’homme, ottobre 1975.

18 Pio XII, Problemi religiosi e morali dell’analgesia, discorso del 24 febbraio 1957 (orig. in francese, in Osserv. Romano, 25-26 febbraio 1957; trad. it., cf. Atti e discorsi di Pio XII, Edizioni Paoline, Roma 1958, vol. XIX (1957)/1, pp. 24-49.

19 Lettera citata da E. Kübler-Ross, in Rencontre avec les mourants, conferenze pubblicate in Gérontologie nn. 9, 10 e 11, Laennec, inverno 1974, e Médecine de l'homme, n. 74 (aprile 1975).

20 Propos entendus à St. Christopher’s, in Laennec, autunno 1975, e Médecine de l’homme, ottobre 1975.

21 Cf. Le droit à sa propre mort, del p. F. Bokle, in Médecine de l’homme, giugno-luglio 1975.

22 Consideriamo qui il caso in cui l’eutanasia sia praticata su richiesta del malato. Praticata contro la sua volontà, non potrebbe sfuggire alla qualifica di omicidio volontario.

23 Cf. E. Kübler-Ross, La morte e il morire, tra. it. Assisi 1976.

24 Dichiarazione dei Vescovi tedeschi. Cf. anche la lettera della Conferenza episcopale austriaca, resa pubblica l’8-10 novembre 1977, sul tema: «Morte degna dell’uomo, assistenza ai morenti ed eutanasia», che si preoccupa particolarmente di chiarire i termini.

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