
- Direttive anticipate
- Morte cerebrale, donazione e prelievo di organi
- Morte
- Accanimento terapeutico
- Umanizzare la malattia e la morte
- Una morte si misura
- Eutanasia?
- Il pensiero e la prassi dell'eutanasia nell'etica cattolica
- L'eutanasia e i problemi etici del morire
- Scelte di fine vita: l'orizzonte etico
- A proposito di eutanasia
- Umanizzare la morte per prevenire l'eutanasia
- Decisioni di fine vita
- Una medicina per chi muore
- Pluralismo di opzioni etiche
- Medicina ed etica di fine vita
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- Atteggiamenti etici di fronte alla morte
- Come parlare ai bambini della morte e del lutto
- Cosa è possibile oggi
- Dopo l'ultimo respiro
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- Vivere l'ultimo istante
- Gli aspetti etici della comunicazione con il paziente terminale
- L'autodeterminazione e la vita spirituale alla fine della vita
- Tante cure per chi nasce...ma quante per chi muore?
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- Stagioni dell'etica e modelli di qualità in medicina
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- Qualità della vita o santità della vita?
- La qualità nei servizi sociali e sanitari
- La qualità nei servizi sociali e sanitari: tra management ed etica
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- Il buon ospedale: modelli di qualità in prospettiva storica
- Spersonalizzazione e ripersonalizzazione
- Riemergenza dei valori nell'ambito della salute
- Per il bene del paziente
- La cultura del limite nell'agire medico: quando meno è meglio
- Is prevention an ethical problem?
- EBM e EBN: interrogativi etici
- Qualità della vita o sanità della vita
Sandro Spinsanti
LA BUONA MORTE: DESTINO, FORTUNA, RESPONSABILITÀ PERSONALE?
in Avevamo un sogno, l'abbiamo ancora: morire con dignità… in futuro
Atti del Convegno scientifico del XX ADVAR
Treviso, 29 novembre 2008
pp. 56-66
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Grazie Anna, grazie a voi, grazie alla signora che, con la sua testimonianza, ci ha portato proprio dentro al tema. Lo affronterò in maniera teorica ― non posso fare altro; l'approccio pratico è proprio degli operatori sanitari e del volontariato ― ma spero non in modo astratto, se è vero che la cosa più pratica è una buona teoria.... Si tratta, in altre parole, di mettere insieme un sostantivo, la morte (o meglio un verbo, morire, perché la morte non la vediamo: vediamo persone che muoiono) e degli aggettivi. Ne possiamo elencare quattro; non sono gli unici, ma sono i più frequenti: 'buona' morte, morte 'degna', morte 'accettabile', morte 'umana'. Potremmo aggiungerne un quinto: 'bella' morte. Ognuno di questi aggettivi apre uno scenario, avvia delle connessioni, suscita problemi. Prima ne abbiano appena accennato alcuni, relativi a mettere insieme dignità e morte. Ognuno di questi abbinamenti ci porta in alto mare. Ma è esattamente questo che dobbiamo fare: considerare il processo del morire abbinandolo con delle condizioni espresse dagli aggettivi qualificativi. Si delineano così le condizioni che ci permettano di dire: questa morte sì e questa no; quello che vogliamo e, come diceva il poeta, soprattutto oggi: "Codesto solo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo ciò che vogliamo". Eugenio Montale
Ci sono due tipi di interrogativi dietro questo abbinamento. Alcuni sono di natura più metafisico-filosofica; per esempio: perché moriamo? Altri, invece, sono di natura più etica: come deve essere la morte? Soprattutto come si fa a morire bene, a morire in maniera degna, in maniera accettabile, in maniera umana, come si può avere una bella morte? Nel nostro tempo tra i due tipi di interrogativi, che si richiamano e si sovrappongono, predominano soprattutto quelli etici. Ma, dietro quelli etici, ci sono pur sempre quelli di natura filosofico-religiosa.
Un esempio molto bello chiaro di questa sovrapposizione si può trovare nel romanzo, Patrimonio, di Philip Roth, in cui il romanziere racconta la morte del padre. È un signore ultraottantenne che muore di cancro ai cervello. Il racconto è pieno di interrogativi etici, a cominciare dal dilemma che si pone per il neurologo se informare quell'anziano signore o parlarne con il figlio, cioè la comunicazione della diagnosi. E poi c'è la questione se fare o non fare l'intervento, che è soggetto a grandi rischi: potrebbe prolungargli la vita, ma potrebbe anche ledere le capacità cognitive del malato e ridurlo a uno stato vegetativo; insomma, in questo
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intervento sono maggiori i rischi o i benefici? Fino al momento in cui il figlio, parlando con il padre, riceve la vera domanda che il padre ha in mente; prima diceva: "Vorrei dieci anni di vita in più. Mi basterebbe un anno di vita in più, in certe condizioni. Vorrei sapere se mi conviene o no rischiare l'intervento chirurgico". Ma alla fine arriva la domanda: "Perché devo morire?". E il figlio non sa rispondere. Non sa, non ha una fede, non ha nemmeno certezze filosofiche; di fronte a questi problemi, si trova muto.
Noi stiamo sviluppando la nostra riflessione sotto il segno dell'etica, ovvero ci domandiamo che cosa sia giusto. Sono domande concrete, non solo soltanto letterarie. Basterebbe pensare alle domande che una morte lascia dietro di sé ai famigliari: "Gli abbiamo comunicato, non gli abbiamo comunicato ciò che sapevamo? Abbiamo fatto bene, abbiamo fatto male? È morto a casa; è morto in ospedale. Dove dovevamo portarlo?". Le nostre scelte, le nostre decisioni ― perché dietro ogni morte ci sono una serie di decisioni, a meno che non sia una morte improvvisa ―, lasciano uno strascico di natura etica, profondamente intrecciato con quelle di natura filosofica, che ruotano attorno agli interrogativi ultimi.
Quando ci domandiamo che cosa dobbiamo fare per morire bene, per avere una bella morte, per avere una morte dignitosa e via dicendo, per lo più le risposte gravitano attorno a due modelli fondamentali. Uno pone la morte sotto il segno del destino, il secondo sotto quello della fortuna. Sono termini presenti anche nel linguaggio comune, quando diciamo che la morte è destino o che qualcuno ha avuto una "bella" morte perché è morto nel sonno; anche in questi modi di dire colloquiali ci appoggiamo a due modelli ideali.
Che cosa intendiamo quando parliamo della morte come destino? Il punto di partenza per le nostre riflessioni può essere offerto da un'opera letteraria. È lo scritto di natura autobiografica di un grande scrittore austriaco, Thomas Bernhard: Il respiro. Il libro ha come sottotitolo "Una scelta". È il racconto della vicenda che ha segnato la gioventù dello scrittore. A 18 anni, Thomas Bernhard ha una gravissima malattia polmonare e viene ricoverato in ospedale, a Vienna. Siamo nel 1949, ieri, cinquant'anni fa. Quello che descrive è una specie di lazzaretto con centinaia di ricoverati che aspettano la morte, perché sanno che con quella malattia polmonare, la tisi, a quel grado di gravità è semplicemente una questione di tempo. Con grande brutalità Thomas Bernhard lo chiama 'il trapassatoio'. Una volta che un malato si trova nel tra passatoio
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c'è soltanto un gradino più basso: quando uno sta per morire, gli inservienti lo prendono e lo portano nel bagno. Ogni mezz'ora passa una suora e alza il braccio della persona e vede se ancora batte il polso o no. Se non batte più il polso, allora arrivano con la cassa di zinco e lo portano via. Il giovane malato sta dunque nel trapassatoio. Descrive la sua situazione con un'immagine: "Tutti i pazienti erano attaccati a delle flebo e, siccome da lontano i tubi di gomma sembravano fili, io ogni volta avevo l'impressione che i pazienti sdraiati nei loro letti fossero marionette appese a dei fili. Tutto questo era teatro, sia pure un teatro spaventoso e miserevole". Destino? Ovvero: chi tira i fili delle marionette? La domanda è autorizzata dall'immagine dei pazienti-marionette, messi in moto o ridotti all'immobilità da fili invisibili.
Abbiamo due risposte tradizionali: le risposte religiose e quelle di tipo naturalistico. La natura matrigna (pensiamo a Leopardi...) oppure oggi, sempre di più, la genetica. È la natura che determina perché e come moriamo. Oppure tradizionalmente abbiamo le risposte di tipo religioso: una istanza superiore, Dio, che tira i fili. In termini religiosi, si muore quando Dio lo decide. Al credente è chiesto di adattarsi alla volontà di Dio. In termini laici, ciò equivale a lasciar fare alla natura.
Questo modello è estremamente attuale, quando oggi si propone il criterio della morte naturale. Non interferire perché "è la natura", è la morte naturale. Non bisogna metterci le mani nel processo del morire: "lasciar fare alla natura". Possiamo tranquillamente affermare che ognuna di queste due risposte, oggi, ci metta in imbarazzo.
Anche la risposta religiosa. Le critiche più antiche rispetto alle pretese della teologia di parlare in nome di Dio si trovano nel libro di Giobbe. Contiene una presa in giro dei teologi che pretendono di sapere come agisce Dio, che sanno perché arrivano le malattie. In quel libro biblico questi teologi vengono derisi, in quanto la loro saggezza religiosa, la loro saggezza teologica è vacua, fatua.
È tutto sbagliato quello che dicono sulla malattia. Né si può attribuire loro credibilità quando pretendono di sapere la differenza tra la morte voluta da Dio e quella che non lo è. Sulla stessa linea possiamo collocare ciò che Teilhard de Chardin diceva sul rapporto tra Dio e la sofferenza: attribuire a Dio la volontà di far soffrire è quello che fa odiare più onestamente il cristianesimo. Perché questa risposta teologica è inconsistente? Perché si basa sulla confusione tra due piani: quello che in teologia si chiama il piano delle cause ultime e quello delle cause penultime.
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Quello che noi conosciamo non è la volontà di Dio. Se qualcuno pretende, come i tre teologi che ragionano con Giobbe, di sapere qual è la volontà di Dio in ciò che tocca la nostra vita, merita di essere come loro sbugiardato. Come si può presumere di dire:"qui è Dio in azione", mentre quello che noi vediamo sono le cause seconde?
Non mi dilungo sull'altra risposta, quando il destino vuol dire lasciar fare alla natura. Tutti sappiamo cosa può fare la natura. Mi limito a citare uno scrittore, che non è un Padre della Chiesa, per cui si esprime in maniera un po' brutale: "Lasciamo stare la natura, 'sta troia!'" È Celine, in Viaggio al termine della notte. Tutti sappiamo cosa può fare la natura. E allora lasciar fare alla natura e, quindi, affidarsi al destino, è, quanto meno, una via che ci può riservare le più sgradevoli sorprese. Che questo destino abbia connotazioni religiose o laiche, poco importa.
Cerchiamo ora di percorrere l'altra strada: quella che pone la morte buona/degna/accettabile sotto il segno della fortuna. Intanto, ritorniamo a Thomas Bernhard. Bernhard che, in questa sua vicenda, ha una forte intuizione. Capisce che lui è lì, nel trapassatoio, muoiono tutti intorno a lui, ma si accorge che ognuno muore in maniera diversa. C'è chi esala un respiro e praticamente nessuno se ne accorge e chi, invece, lotta disperatamente, a lungo. Ciascuno muore a modo suo. Lo scrittore commenta: "Tutto ciò che ci riguarda è un gioco d'azzardo e da ciò deriva la nostra esasperazione". L'azzardo, la fortuna.
Ricorriamo qui alla fortuna nel senso trasmessoci dalla tradizione. Ci aiuta anche la tradizione iconografica. La fortuna di cui si parla non ha il significato contenuto nell'espressione colloquiale: "Ha avuto la fortuna di morire di un colpo e non si è accorto di niente". Che cos'è la fortuna? A Venezia, alla Galleria dell'Accademia, si trova un quadro di Giovanni Bellini: l'"Allegoria della Fortuna".
È rappresentata come una giovane donna con gli occhi bendati; ha un ciuffo davanti, sta sopra delle sfere in movimento, ha delle ali. Sono tutti elementi simbolici carichi di significato. Intanto la Fortuna sta in un equilibrio precario, su una sfera che rotola, e questo rappresenta l'ambivalenza: la Fortuna può portare buona e cattiva sorte. Ha gli occhi bendati, perché è indifferente verso chi sceglie. Può decidere di darti salute o malattia, vita o morte: non ci vede. Ma c'è ancora un altro elemento in questa immagine di Bellini, che ha origini più antiche. Quel ciuffo davanti agli occhi non è per caso. Viene da una iconografia greca, legata alla rappresentazione del dio greco Kairós: vola e ha un
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ciuffo davanti, sulla fronte. Perché il dio Kairós, che vuole dire 'tempo opportuno', è diverso dal dio Krónos, che è il 'tempo cronologico', (quello che ci fa dire, per esempio: 'Se non lo faccio adesso, lo farò dopo. Ho tempo'). Il Kairós è il momento opportuno; per rappresentarlo i greci usavano l'immagine di un giovane con il ciuffo davanti e rasato dietro. Volevano dire che, se non lo prendi per il ciuffo nel momento in cui ti passa davanti, è perso: non lo prendi più. La Fortuna, come ce la rappresenta Giovanni Bellini in quel suo quadro, ha i tratti del Kairós, cioè del dio del momento opportuno, del momento che, se ti passa davanti e non lo afferri, l'hai perso per sempre. È la fusione dell'immagine della dea Fortuna dei latini e del Kairós greco.
Come possiamo reagire di fronte a questa imprevedibilità, a questa "fortuna", a questi eventi che non dipendono dalla natura o da una ipotetica volontà divina, ma sono imprevedibili? Ci sono diverse strategie. La tattica più semplice è non occuparsene, non pensarci. Del tipo: io speriamo che me la cavo... Se la morte è imprevedibile, perché dipende dalla fortuna, una strategia di coping è appunto quella di non dedicarle attenzione: verrà quando verrà, e come vorrà. Un chiaro esempio di questa strategia lo troviamo nel racconto di Tolstoj: "La morte di Ivan ll'ic", quando descrive la visita di cortesia dei colleghi del giudice morto: "Questa morte suscitò in tutti loro, come sempre avviene, un senso di gioia per il fatto che il morto fosse lui e non loro. Ecco, 'lui è morto e io no', pensò o sentì ognuno di loro. Un collega, avendo scorto il nuovo venuto, che saliva le scale, si fermò e gli strizzò l'occhio, come per dire: "L'ha fatta lui la sua stupidata, Ivan Illic, noi due, invece, no".
Distogliere l'attenzione dalla morte è una strategia. Ma non è l'unica. Una opposta la possiamo trovare nel libro di Thomas Bernhard, al quale ci sia già riferiti: Il respiro. Nell'originale il libro ha come sottotitolo: "Una decisione". Perché Thomas Bernhard, raccontando del suo permanere in questo tempo lungo nel 'trapassatoio' (leggendo il libro ai nostri giorni siamo stupiti che sia avvenuto un cambiamento di questo genere: cinquant'anni fa , come scrive Thomas Bernhard, i medici non si curavano dei malati che morivano, le suore avevano solo interesse a impartire l'Estrema unzione; tutto quello che noi abbiamo faticosamente acquisito con la cultura delle cure palliative era completamente estraneo), riporta con lucidità una decisione presa nel profondo, con consapevolezza: "lo ho deciso che volevo vivere. Ho deciso che la psiche è più forte del corpo. Adesso io voglio vivere, lo non voglio morire,
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non adesso. Volevo vivere, tutto il resto non aveva importanza. Mi ero prefisso di uscire dal trapassatoio". Ha la malattia polmonare, ma per tutto il tempo pensa alla musica e mobilita le proprie energie interiori, perché di fronte a questa situazione non vuol darsi per vinto, vuole uscire.
Questa idea di darsi da fare è contenuta dentro la tradizione latina dell'idea di fortuna. Basta ricordare due proverbi molto diffusi: "Audaces fortuna juvat" e "Quisque faber fortunae suae": ognuno è arbitro della sua fortuna' e 'la fortuna aiuta gli audaci'. Nell'idea di fortuna, oltre all'imprevedibilità, c'era anche un appello alla capacità di mobilitare le proprie risorse.
Ancora un esempio letterario. Mentre per Thomas Bernhard le risorse sono di natura psicologica, diversa è la posizione del teologo psicanalista austriaco Eugen Drewermann, autore di un libro dedicato alla fiaba: "Der Gevatter Tod". Gevatter, in tedesco, è il padrino; dunque 'Il padrino morte'. Dobbiamo superare una difficoltà linguistica, perché in tedesco la morte è maschile e per noi è femminile. La fiaba è contenuta nella raccolta dei fratelli Grimm e ha una densità di significati straordinari che Drewermann si applica a esplicitare. In breve, la fiaba racconta di un povero sarto, che ha una marea di figli. Gliene nasce ancora uno; il poveretto non sa più che cosa fare, vorrebbe abbandonarlo. Gli si presenta la Morte e gli dice: "Guarda, io faccio da padrino (in italiano diremmo da madrina, trattandosi della morte) a tuo figlio. Ci penso io a lui". E questo bambino cresce. Sotto la protezione della Morte diventa saggissimo e applica il suo sapere alla medicina.
Diventa, in particolare, un medico molto bravo nelle previsioni: sa quando un malato è destinato a morire e quando no. Essendo figlioccio della Morte, ha la facoltà, di cui tutti sono privi, di vederla: se la Morte sta al capezzale del malato, non c'è niente da fare. Se la Morte, invece, siede ai piedi del malato, il malato si salverà. Il medico utilizza questa sua abilità in senso predittivo: indovina tutte le prognosi. Non solo. Quando si ammala il re, il medico ricorre a un espediente: siccome la Morte siede al capezzale, fa girare il letto, così che il re si salverà. Ma la Morte non apprezza il trucco e lo ammonisce di non ricorrere ancora a questo espediente. Quando però si ammala la figlia del re, anche lei destinata a morire, la tentazione per il giovane medico è troppo forte. Ancora una volta fa girare il letto: la salva e la sposa. La conclusione della fiaba è triste: la Morte questa volta non tollera l'inganno e porta con sé
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il medico, agli Inferi. Sotto le vesti della fiaba possiamo indovinare una quantità di situazioni molto familiari, che conosciamo. Quante persone giocano a rimpiattino con la morte! Non si rassegnano, le provano di tutte: cercano di dare scacco alla morte. Pensiamo all'immagine del cavaliere che gioca la partita a scacchi con la Morte, nel Settimo sigillo di Bergman. Nel libro di Jerome Groopman "Come pensano i dottori" ce un resoconto clinico molto dettagliato di un lungo gioco con la morte di un paziente che dice:"lo non sono ancora pronto a morire".
E sfida il medico, che invece si arrenderebbe, e vuole un'altra terapia. E sopravvive, malgrado le più realistiche previsioni È una rappresentazione clinica di quello che avviene, talvolta, di persone che, di fronte all'imprevedibilità della morte, giocano tutte le carte: con l'astuzia, con la costanza, con la determinazione.
Non tutti, però. È interessante tener presente quanto si differenziano le persone di fronte alle scelte finali. Potremmo citare la scrittrice Susan Sontag. Si attacca alla vita con tutte le forze e ricerca una terapia, anche se questa comporta gravissimi effetti collaterali. Al medico, che le propone le cure palliative, risponde: "No. lo non voglio le cure palliative"; a lei non importa niente della qualità della vita: anche se ce solo una minima speranza, lei punta su quella. Lei gioca fino alla fine la partita a scacchi con la morte.
Una scelta completamente diversa quella fatta da Tiziano Terzani. Ha rifiutato la seconda linea di chemioterapia, perché era arrivato, secondo lui, al momento di chiusura della sua vita; piuttosto che fare ancora una volta un altro giro di giostra medicalizzato, ha preferito seguire nella parte finale della propria vita un percorso diverso.
Un altro esempio ancora: Peter Noli, un giurista svizzero, che ci ha lasciato un altro di quegli esempi concreti, agli antipodi degli schematismi ideologici, di cui abbiamo estremo bisogno. Aveva scritto un libro su Gesù come persona libera, studiando il rapporto tra legge e Vangelo. Quando gli diagnosticano un cancro alla vescica e gli dicono che può farsi operare, dandogli, però, soltanto il 50% di possibilità di guarigione, con il vincolo di una stomia permanente, Peter Noli valuta i prò e i contro e decide che, benché mortalmente malato, non vuole essere un paziente: "Se io entro in questa strada, da adesso in poi sarà la medicina che deciderà la mia vita, lo voglio, come il 'libero' Gesù, poter scegliere e non lasciar che altri scelgano per me, non voglio lasciarmi guidare". Si ispirava a un modello alto per dire no, anche se tutti intorno a lui si
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scandalizzavano per il suo rifiuto di andare in ospedale: quando si è malati si va in ospedale e si fa ciò che dicono i medici! Scandalizzava perché era contro i luoghi comuni e le convenzioni.
Anche queste possibilità sono contenute nel simbolo della Fortuna quale guida del nostro cammino verso la morte: oltre alla possibilità di non pensarci, abbandonandosi fatalisticamente a ciò che avverrà; oltre alla possibilità di attuare strategie più o meno furbesche, come quelle del medico figlioccio della Morte; abbiamo anche la possibilità di entrare dentro i processi decisionali, perché il modo e il tempo della nostra morte dipenderanno dalle scelte che vorremo e sapremo fare: e le scelte possono essere le più diverse. Chi farà queste scelte finali? Per la primavera l'Advar ha organizzato il convegno su "Le direttive anticipate". Ecco, appunto: abbiamo la possibilità, nell'eventualità di non poter far udire la propria voce, di dare delle indicazioni autorevoli a chi dovrà decidere al posto nostro? Diventano così importanti le figure con le quali condividere le proprie scelte: il fiduciario o l'amministratore di sostegno.
Quest'ultima è una figura nuova, che conosciamo poco, nata con una legge del 2004. L'amministratore di sostegno, nominato da un giudice tutelare, è stato utilizzato nella primavera scorsa per la prima volta nel contesto delle direttive anticipate e delle decisioni di fine vita. Il caso è noto: una signora, affetta da una malattia progressiva, la sclerosi amiotrofica laterale, non vuole la tracheotomia e la ventilazione meccanica quando sopraggiungerà la paralisi respiratoria. Lei sa quale sarebbe lo scenario, perché l'ha visto in altri pazienti e non lo vuole per se stessa. Ha una crisi e viene portata al pronto soccorso. Qui viene trattata da un medico rianimatore, il quale dichiara che, sebbene la paziente abbia escluso la tracheotomia, lui deciderà secondo la sua coscienza. In previsione di avere di nuovo questo rianimatore, o chissà chi altro, la paziente attiva il giudice tutelare, il quale nomina amministratore di sostegno il marito della signora.
Questi è autorizzato ufficialmente a prendere le decisioni in nome della signora, nell'eventualità, che poi si è realizzata abbastanza presto, che lei entri in una nuova crisi e non possa far valere la sua voce. Con la nomina dell'amministratore di sostegno ora c'è qualcuno che è la sua' voce; le sue decisioni non hanno solo un valore moralmente obbligante, ma anche una valenza giuridica. Abbiamo così una possibilità in più di far valere le nostre preferenze, quand'anche venisse
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meno la capacità di esprimerle. Con chi condividere le nostre volontà per prendere le decisioni ultime? La figura centrale rimane quella del medico. Già questa mattina il dott. Toscani faceva riferimento al fatto che le cure palliative non sono da correlare ai medici buoni, ma ai buoni medici, o ai buoni sanitari. Cioè non sono funzione di uno stato d'animo generoso, benevolo o filantropico, ma a quel tipo di cure che la cultura moderna richiede oggi alla medicina. Il problema è trovare il medico giusto, ossia che abbia interiorizzato il cambiamento che è in atto oggi nella medicina. Secondo Groopman, non esiste un metodo semplice per trovare il medico giusto. Però è nostro compito come cittadini impegnarci a trovarlo: ottenere le cure migliori dipende anche da noi.
La parte finale del libro, dopo aver analizzato i paradigmi mentali con cui i medici fanno diagnosi e prescrizioni, è tutta centrata sulla relazione e sull'importanza di attivare una buona relazione con il medico. Ce un capitolo in cui vengono suggerite le domande da fare al medico. Non è più soltanto una questione di fortuna quella che ti permette di incontrare il medico giusto: diventa una funzione della nostra responsabilità. Per essere assistiti come noi vogliamo, per essere rispettati nelle nostre scelte finali, non tutti i medici vanno bene. Ci sono dei medici che tendono a far prevalere la propria visione clinica ed etica, imponendola al malato. Un medico così non è adatto, se la decisione finale deve nascere da un dialogo, da un incontro. Le decisioni finali nascono da un percorso molto accidentato tra destino e fortuna. Questo è, appunto, l'ambito della nostra responsabilità.
"Resistenza e resa": è il titolo di un celebre libro di Dietrich Bonhoffer, un grande teologo ucciso dai nazisti nel 1944, per la sua libertà di pensiero e per l'opposizione al nazismo. La tesi centrale è che l'etica, come lui la propone e teorizza, lui teologo evangelico, nasce dall'incontro di due atteggiamenti fondamentali. Uno è la resistenza: non possiamo accettare tutto e, ahimè, se pensiamo per un momento a quanti hanno accettato il nazismo, vediamo quanto la resistenza sia stata debole. Ma non è soltanto la resistenza: ci vuole anche la resa. Quello che sappiamo dalla spiritualità e dall'etica orientale è riassumibile nell'atteggiamento del "surrender", molto presente nella spiritualità buddista. È l'accettazione che nasce in un difficilissimo equilibrio tra il non arrendersi troppo presto e il non arrendersi mai è una accettazione giusta.
E qual è l'accettazione giusta? Permettetemi un'ultima citazione, dal libro di Atul Gawande, un medico americano che svolge anche un'intensa
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attività pubblicistica. Il suo ultimo libro tradotto in italiano si intitola "Con cura", e sì presenta come il "diario di un medico deciso a fare meglio", lo vorrei leggervi soltanto un paio di frasi di un capitolo intitolato "Saper lottare, sapersi arrendere". Il capitolo inizia con questa dichiarazione: "Un tempo pensavo che la cosa più ardua del mestiere del medico sia acquisire le necessarie competenze. Mi sono reso conto con il tempo che la cosa più difficile è capire dove comincia e dove finisce il nostro potere". E prosegue: "Noi oggi disponiamo delle sofisticate risorse della medicina moderna. Imparare a usarle è piuttosto difficile, ma la cosa in assoluto più difficile è comprenderne i limiti. Noi sappiamo che, come medici, quello che si aspettano da noi le persone è che i medici lottino. Non vogliono che i medici si arrendano.
La regola, in apparenza la più semplice e sensata, che un medico deve seguire, è lottare sempre. È il modo migliore di evitare il male peggiore, quello di arrendersi con qualcuno che avremmo potuto aiutare. Ma questa non è una regola assoluta". Riporta anche una scena molto efficace: "Un giorno un'infermiera del reparto di terapia intensiva mi fermò nel corridoio. Era visibilmente arrabbiata: "Ma cosa avete, voi dottori, mi ha detto, non lo capite mai quando è il caso di smettere?". Prosegue descrivendo un caso in cui i medici non si erano arresi. Gawande conclude con questo interrogativo: "È vero che il nostro compito è lottare sempre, ma lottare non significa necessariamente fare di più. Significa fare la cosa giusta per il paziente, anche se non è sempre chiaro che cosa sia giusto".
Possiamo aggiungere due cose. Primo: se non c'è un dialogo con il paziente, se non si ascolta, se non si raccolgono in anticipo le sue volontà, la cosa giusta non la sapremo mai. Tutt'al più proietteremo sul paziente quello che pensiamo che sia giusto. In secondo luogo, mi ha particolarmente rallegrato questo: l'esortazione a riconoscere il limite, che è il tema centrale delle cure palliative, sia proposto da un medico che fa le cure palliative. Atul Gawande è un chirurgo; si è reso conto, come chirurgo che fa una medicina normale, di doversi confrontare con il problema di trovare il giusto equilibrio tra il fare e il non fare, tra il fare cose diverse, tra l'insistere e lottare e arrendersi. Purtroppo le cure palliative sono state presentate in Italia con un termine che provoca a priori un rifiuto. Tuttavia ci sono stati tanti motivi per cui, malgrado fossimo consapevoli che il termine in italiano suonava molto diverso che in inglese o in altre lingue, abbiamo accettato la sfida di proporre
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le cure palliative. Però, con un desiderio, un sogno: la speranza che domani non si parli più di cure palliative; che la proposta della medicina palliativa sia solo provvisoria, perché abbiamo bisogno di attirare l'attenzione sui bisogni particolari dei malati ai quali la medicina non può assicurare né la guarigione, né la stabilizzazione del loro male.
L'aspirazione è che un giorno non ci sia più la medicina curativa e la medicina palliativa, ci sia solo una medicina, che abbia interiorizzato la filosofia delle cure palliative. Ebbene, questo libro di Atul Gawande mi dà speranza: anche un chirurgo ha capito il problema del limite e il dilemma centrale delle cure palliative, l'ha interiorizzato e lo applica a tutta la medicina. Così prende forma la nostra responsabilità personale: saper scrivere la parola morte, in una posizione di equilibrio tra la resistenza e la resa, tra il lottare e il lasciarsi andare. Grazie.