La qualità nei servizi sociali e sanitari

Sandro Spinsanti

LA  QUALITÀ NEI SERVIZI SOCIALI E SANITARI: TRA MANAGEMENT ED ETICA

in E. Arduini, A. Cambieri, C. Catananti, M. Liubich, C. Sile, S. Spinsanti, M. Vairano, Il nuovo ruolo del farmacista ospedaliero. Farmacia clinica, economia, management

Medicom Italia, Milano 1998

pp. 11-52

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1. Il dibattito sulla qualità nell’ambito sanitario

Il richiamo alla qualità nell’insieme dei servizi rivolti alla persona, in particolare nella cura delle malattie e nella promozione della salute, ha diverse connotazioni, a seconda del contesto nel quale lo collochiamo.

Il contenitore più ampio ― ma anche meno differenziato ― è quello costituito dal movimento per l'umanizzazione della medicina. Il suo humus è costituito

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dalla diffusa sensazione che, nella pratica della medicina, sia andato perduto qualcosa di essenziale, che è necessario e urgente reintrodurre, se non si vuol snaturare ciò che tradizionalmente costituisce l’arte della guarigione 1. Rivendicare la qualità dei trattamenti sanitari equivale, in questa accezione, a un richiamo ai valori che hanno tradizionalmente ispirato la pratica della medicina.

L’accusa di disumanizzazione non colpisce solo il ventaglio di comportamenti ― da quelli esplicitamente criminali a quelli semplicemente arroganti o insensibili al vissuto di una persona ammalata ― che emergono periodicamente nella rubrica malasanità. La richiesta di umanizzazione non nasce là dove la sanità è allo sfascio, ma proprio dove dà le migliori prove di efficacia ed efficienza. A suscitarla non è tanto la collera ― giustificatissima ― di pazienti maltrattati in ospedali-lager o malversati da medici incompetenti o truffaldini, ma il deterioramento dei rapporti che dilaga a ridosso di prestazioni mediche di grande efficacia, quali le generazioni precedenti non avrebbero immaginato neppure nei loro sogni più audaci. Fino a un passato non molto lontano, il dottore si limitava a tenere la mano di un bambino che moriva di difterite: non poteva far niente per salvargli la vita. Il medico era impotente, ma tutti erano contenti di lui. Oggi al bambino

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gravemente ammalato vengono somministrati antibiotici potenti ed efficacissimi, tanto che dopo qualche giorno è di nuovo a giocare con gli altri bambini in cortile. Eppure si è scontenti del dottore. Il contrasto tra le due situazioni, che sono paradigmatiche nonostante la loro schematicità, fotografa il degrado del rapporto tra medico e paziente. A questo degrado, nelle sue varie manifestazioni, il movimento della umanizzazione in medicina vuol porre rimedio.

Un secondo ambito nel quale è emerso il discorso della qualità dei servizi di cura della salute è quello della cultura moderna dei diritti. Si è potuto distinguere un susseguirsi storico di diverse concezioni dei diritti applicati alla salute, quasi una sequenza ordinata di generazioni dei diritti 2. I diritti umani di prima generazione, che comprendono il diritto alla vita, alla salute e alla libertà di coscienza, sono stati teorizzati dalle concezioni illuministiche di diritti dell’uomo e introdotti nei costumi dai regimi liberali. Verso la metà del XIX secolo si è delineata una nuova generazione di diritti, centrati sull’idea di uguaglianza e di giustizia, così come i precedenti lo erano sull’idea di libertà. Si è sviluppata così la coscienza del diritto di ogni essere umano all’educazione, all’abitazione, al lavoro, al sussidio di disoccupazione, alla pensione, all’assistenza sanitaria.

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La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, promulgata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, nell'art. 2 definisce in questi termini il diritto all'assistenza sanitaria:

«Ogni persona ha diritto a un livello di vita adeguato che le assicuri, così come alla sua famiglia, la salute e il benessere, e in particolare il cibo, il vestito, l'abitazione, l'assistenza medica e i servizi sociali necessari; ha anche diritto agli aiuti in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o altri casi di perdita dei mezzi di sussistenza, per circostanze indipendenti dalla sua volontà».

In Italia l'introduzione del Servizio sanitario nazionale (legge 833/1978) intese rendere effettiva l'idea portante del welfare state: separare la cura della salute dal benessere economico di chi ha bisogno delle cure, rendendole disponibili a tutti 3. La riforma della riforma, ovvero il riordino in atto nel nostro servizio sanitario pubblico noto come processo di aziendalizzazione, per quanto innovativa, si costruisce sul fondamento dello stato sociale, che continua a rimanere un'acquisizione non rimessa in discussione nel nostri orientamenti di politica sanitaria.

La terza generazione dei diritti riferiti alla salute è quella che registra la possibilità per l'individuo di orientarsi nelle scelte che hanno a che fare con le cure

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sanitarie in modo sintonico con i propri valori, preferenze e concezioni di vita. La qualità in questo contesto equivale alla capacità di rivendicare un diritto già previsto dalla Dichiarazione americana del 1776, quale uno dei diritti inalienabili che tutti hanno fin dalla nascita: il diritto a perseguire la felicità (the pursuit of happines). La vita non è solo un bene sacro, non disponibile né per l'individuo, né per lo Stato: la vita ha anche una qualità che l'individuo con le sue scelte può promuovere o pregiudicare. Introdurre questa prospettiva dell'autodeterminazione nelle scelte relative alla vita e alla salute significa, secondo lo storico della medicina Diego Gracia, fa fare alla medicina la rivoluzione liberale con due secoli di ritardo, dopo che attraverso lo Stato sociale è stata fatta la rivoluzione sociale: «Nel mondo della salute la rivoluzione sociale ha preceduto in molti casi la rivoluzione liberale... Il liberalismo è sempre stato il grande argomento in sospeso della medicina occidentale» 2.

Un'articolazione più recente, infine, nella nuova cultura dei diritti è quella che vuol rendere operativi i diritti della persona nella concreta erogazione del servizio pubblico. La Carta dei servizi pubblici ― direttiva del 27 gennaio 1994, promulgata dal ministro Cassese ― stabilisce sia i principi fondamentali che devono essere rispettati da tutti i dipendenti delle pubbliche amministrazioni,

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sia gli strumenti concreti per promuovere la qualità del servizio (adozioni di standard, informazioni degli utenti, trasparenza nei rapporti e riconoscibilità degli operatori, valutazione della qualità dei servizi). Non è un caso che la prima Carta dei servizi promulgata sia stata quella relativa alla sanità: Carta dei servizi pubblici sanitari (Presidenza del Consiglio dei ministri e Ministero della sanità: 2 maggio 1995).

Un terzo ambito da cui la considerazione della qualità irrompe nello scenario della sanità è la ricerca metodica della qualità dell’assistenza erogata da parte dei professionisti stessi. La valutazione dell’assistenza sanitaria non può limitarsi a misurare la quantità delle risorse utilizzate: deve anche verificare se queste risorse sono state utilizzate in modo corretto da un punto di vista tecnico-scientifico e di interazione umana.

L’obiettivo della valutazione della qualità dell’assistenza è stato così definito dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms): «La valutazione della qualità dell’assistenza tende a far sì che ogni paziente riceva l’insieme di atti diagnostici e terapeutici che portano ai migliori esiti in termini di salute, tenendo conto dello stato attuale delle conoscenze scientifiche, con il minor costo possibile e i minori rischi iatrogeni, ottenendo la sua soddisfazione rispetto agli interventi ricevuti, agli

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esiti ottenuti e alle interazioni umane avute all’interno del sistema sanitario».

L’Oms ha promosso, con l’autorevolezza che compete a questa istituzione internazionale, la valutazione della qualità dell’assistenza. Nel 1984 il Comitato regionale per l’Europa dell’Oms ha approvato 38 obiettivi nell’ambito del progetto Salute per tutti nell’anno 2000. Due obiettivi in particolare, il 31 e il 38, hanno definito l’impegno per gli Stati membri ad attivare sistemi di monitoraggio della qualità delle prestazioni sanitarie e a rendere la valutazione parte integrante del lavoro degli operatori sanitari.

Obiettivo 31: Assicurare la qualità delle prestazioni.

«Entro il 1990 tutti gli Stati membri dovranno aver istituito efficaci meccanismi di controllo della qualità delle cure fornite ai pazienti nel quadro dei vigenti sistemi di assistenza sanitaria. Per raggiungere questo risultato occorrono metodi e procedure di sorveglianza continua e sistematica delle cure prestate ai pazienti e attività permanenti di controllo e valutazione da parte dei professionisti della sanità, mentre tutto il personale sanitario dovrà essere addestrato a garantire la qualità delle prestazioni».

Obiettivo 38: Buon uso delle tecnologie sanitarie.

«Entro il 1990, tutti gli Stati membri dovranno aver istituito

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un meccanismo ufficiale per la valutazione sistematica del corretto impiego delle tecnologie sanitarie e della loro efficacia, efficienza, sicurezza, accettabilità e per stabilire in quale misura esse siano conformi alle politiche nazionali adottate e compatibili con le difficoltà economiche del Paese. Tutto ciò sarà possibile se i governi adotteranno una chiara politica di valutazione sistematica e totale di tutti i nuovi dispositivi tecnici destinati al settore sanitario, e se tale politica sarà adatta alle caratteristiche di ciascun Paese; sarà inoltre necessaria la creazione di un sistema internazionale di scambio delle informazioni relative a tali tecnologie».

La qualità dell’assistenza, intesa come capacità di migliorare lo stato di salute di una popolazione nei limiti concessi dalle tecnologie, dalle risorse disponibili e dalle caratteristiche dell’utenza, nel frattempo ha messo radici anche in Italia. Si è costituita una Società italiana di Verifica e revisione della qualità (Vrq) che pubblica un suo periodico QA e promuove le diverse tecnologie validate a livello internazionale: l’autovalutazione; l'audit (valutazione retrospettiva delle prestazioni attraverso la revisione della documentazione); la verifica e revisione della qualità o QA (quality assurance), definita da uno dei maggiori esperti del settore come «il rapporto tra i miglioramenti ottenuti nelle

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condizioni di salute e i miglioramenti massimi raggiungibili sulla base dello stato attuale delle conoscenze, delle tecnologie disponibili e delle condizioni dei pazienti» 4; il Cqi (continuous quality improvement) che applica al sistema sanitario l’approccio della total quality adottato nell’industria 5.

La Vrq si presenta come un mezzo di concreta valutazione della qualità delle prestazioni per migliorarle nell’interesse dei medici e dei cittadini, lontana da ogni aspetto fiscale, disciplinare o comunque sanzionatorio dell’attività dei medici. Una certa ambiguità è tuttavia sopravvenuta in Italia per il fatto la Vrq è stata recepita nella normativa precedente gli accordi di lavoro del 1990 per il personale del comparto del Servizio sanitario nazionale. Il Dpr 384 del 28 novembre 1990 ha istituito Commissioni per la verifica e la revisione della qualità dei servizi e delle prestazioni sanitarie a livello di Regioni e Usi, affidando loro compiti precisi. Le Commissioni regionali hanno lo scopo sia di proporre progetti di Vrq alle singole Usi, sia di validare i progetti provenienti da queste. Nel 1991, infine, è stato istituito presso il Ministero della sanità un Comitato nazionale per la valutazione della qualità tecnico-scientifica e umana dei servizi e degli interventi sanitari, con il compito di coordinare le attività del Vrq

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previste dal contratto di lavoro vigente.

Un quarto ambito, infine, è quello della promozione della qualità connessa con il riordino del Servizio sanitario nazionale. Dacché ha cominciato a evidenziarsi il bisogno di modificare il SSn introdotto nel 1978, si è andato delineando un consenso sulla centralità che spetta in ogni processo di riordino alla promozione della qualità delle attività sanitarie, attraverso la costante attenzione degli operatori agli effetti delle cure prestate e alle modalità di erogazione delle stesse, non ché alla soddisfazione dell'utente. La sfida della qualità rappresenta la nuova frontiera del Ssn; la qualità può essere la risposta alla crisi in cui si dibatte la nostra sanità pubblica.

Nelle Usl trasformate in aziende ― D.lg. 502/1992 (a) e successivamente D.lg. 517/1993 (b) il controllo di qualità ha un ruolo strategico.

Esso è esplicitamente previsto dall'art. 10: «Allo scopo di garantire la qualità dell'assistenza nei confronti della generalità dei cittadini, è adottato in via

a) D.lg. 30 dicembre, n. 502: Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421.

b) D.lg. 7 dicembre 1993, n. 517: Modificazioni al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, recante riordino della disciplina sanitaria, a norma dell'art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421.

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ordinaria il metodo della verifica e revisione della qualità delle prestazioni, nonché del loro costo, al cui sviluppo devono risultare funzionali i modelli organizzativi e i flussi informativi dei soggetti erogatori e gli istituti normativi regolanti il rapporto di lavoro del personale dipendente, nonché i rapporti tra soggetti erogatori, pubblici e privati, e il Ssn».

L'art. 14, finalizzato a favorire la partecipazione dei cittadini e la tutela dei loro diritti, afferma: «Al fine di garantire il costante adeguamento delle strutture e delle prestazioni sanitarie alle esigenze dei cittadini utenti del Ssn definisce con proprio decreto (...) i contenuti e le modalità di utilizzo degli indicatori di qualità dei servizi e delle prestazioni sanitarie relativamente alla personalizzazione e umanizzazione dell'assistenza, al diritto all'informazione, alle prestazioni alberghiere, nonché dell'andamento delle attività di prevenzione delle malattie.

Le Regioni utilizzano il suddetto sistema di indicatori per la verifica, anche sotto il profili sociologico, dello stato di attuazione dei diritti dei cittadini, per la programmazione regionale, per la definizione degli investimenti di risorse umane, tecniche e finanziarie. Le Regioni promuovono inoltre consultazioni con i cittadini e le loro organizzazioni anche sindacali e in particolare con gli

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organismi di volontariato e di tutela dei diritti, al fine di raccogliere informazioni sull’organizzazione dei servizi».

2. Qualità e soddisfazione

Man mano che, con il procedere della nostra rassegna dedicata a esplorare attraverso quali vie di accesso il dibattito sulla qualità è entrato nell’ambito sanitario, l’esigenza di qualità nei servizi sociali e sanitari andava prendendo concretezza, è diventato più evidente che il centro di gravitazione dell’interesse si sposta dal professionista che fornisce il servizio al cittadino-utente che ne usufruisce. In regime di paternalismo ― anche quello più illuminato ― il criterio di valutazione di ciò che viene offerto al malato o bisognoso è fornito dal professionista stesso. Il medico ha per secoli rivendicato il diritto-dovere di prendere le sue decisioni in scienza e coscienza, come se il suo sapere e la sua morale totalizzassero tutte le forme di tutela che si possono offrire al paziente-utente. Chi ricorre a un professionista di servizi sanitari o sociali è un cliente molto particolare, perché i suoi bisogni non sono definiti da lui stesso, ma dal professionista che è accreditato a inserire la domanda entro la griglia offerta dal suo sapere. La soddisfazione del cliente non è tenuta in alcuna considerazione.

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«Quando le prestazioni non sono adeguate, in una realtà di mercato libero i clienti cambiano fornitore, in una situazione di servizio pubblico, come quello sanitario, non rimane che la protesta» 6.

Gli scenari legati al riordino del Ssn ci dicono che questa situazione sta cambiando. Un paziente-cliente insoddisfatto è già adesso una minaccia per la sanità privata. Con l'introduzione di una concorrenzialità tra pubblico e privato ― e anche tra pubblico e pubblico, per la creazione di una specie di mercato interno all’azienda sanitaria ― l’insoddisfazione del cliente costruirà una minaccia di destabilizzazione anche per il servizio pubblico. Questo non potrà permettersi di ignorare sistematicamente la soddisfazione del paziente-cliente, legata alla percezione della qualità dei servizi ricevuti. Il pubblico dovrà perseguire la soddisfazione del cliente non meno di quanto sia già oggi costretto a fare il privato.

Ma proprio questa prospettiva suscita interrogativi scomodi. Perché avere un paziente soddisfatto non è tutto: bisogna vedere di che cosa e perché è soddisfatto. Se un paziente insoddisfatto è un pericolo per l’azienda, una minaccia ben più grande per la medicina potrebbe essere il diffondersi di pazienti ingiustamente soddisfatti. È meglio lasciare l’evocazione di questo scenario alla letteratura, piuttosto che ad analisi

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sociologiche o psicologiche. L’arte, più adeguatamente di qualsiasi sapere scientifico, può cogliere quel grano di follia che stravolge i comportamenti umani, anche i più nobili e generosi.

L’utopia negativa di masse di pazienti soddisfatti, ma inconsapevoli di essere defraudati della sostanza stessa della salute, ci è offerta dalla pièce di Jules Romains Knock o il trionfo della medicina. Andata in scena per la prima volta nel 1923, la commedia non cessa di inquietarci, a tanti anni di distanza, come un’anticipazione lungimirante di quella “medicalizzazione della vita” denunciata da Ivan Illich e da altri autorevoli critici della medicina contemporanea.

Il personaggio principale è il dottor Knock, che ha assunto come motto una frase attribuita a Claude Bernard: «I sani sono malati che si ignorano». Rileva una condotta di campagna dalle mani di un vecchio medico che si ritira e, nel giro di pochi mesi, converte al suo vangelo tutti gli abitanti di Saint-Maurice. Tutta la vita del paese si è trasformata, potendosi ora suddividere in due tappe o ere ben definite: prima o dopo il dottor Knock. Egli ha ispirato agli abitanti la paura delle malattie e della morte, e tutti si curano. La locanda è trasformata in clinica e tutti i posti sono occupati: anzi, si stanno prevedendo ampliamenti.

Quando il vecchio dottor Parpalaid torna alla sua

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condotta, dopo tre mesi, non riconosce più il paesaggio umano creato dall’intraprendente dottor Knock. In una scena-clou, questi lo invita a gettare uno sguardo dalla finestra su Saint-Maurice medicalizzato: «Guardate un po’ qui dottor Parpalaid. Era un paesaggio rude, appena umano, quello che contemplavate. Oggi ve lo offro tutto impregnato di medicina. In duecentocinquanta di quelle case ci sono duecentocinquanta letti in cui un corpo disteso testimonia che la vita ha un senso, e grazie a me ha senso medico».

Ma ancora più inquietante della soddisfazione del medico è la soddisfazione degli abitanti di Saint-Maurice. La domestica della locanda-sanatorio non riconosce il dottor Parpalaid, che pur ha lasciato il paese solo da pochi mesi. Quando si presenta come medico, la donna risponde asciutta: «Non sapevo che ci fosse stato qui un medico prima del dottor Knock».

Tra la padrona della locanda e il vecchio medico ha luogo il seguente dialogo: Il dottore: «Bisogna credere che ai miei tempi la gente stesse meglio». Madame Rémy: «Non dite questo, signor Parpalaid. La gente non aveva idea di curarsi: è tutta un’altra cosa. C’è chi immagina che nelle campagne siamo ancora dei selvaggi, che non abbiamo alcuna cura della nostra persona, che aspettiamo che la nostra ora sia venuta per crepare come gli animali, che i rimedi, le diete, gli

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apparecchi e tutti i progressi siano per le grandi città. Errore, signor Parpalaid. Noi ci apprezziamo come chiunque altro».

La riconoscenza degli abitanti del paese verso il dottor Knock, la loro piena soddisfazione per avere un medico “capace” ci lasciano un retrogusto amaro. L’ombra lunga del dottor Knock, con la sua straordinaria capacità di organizzare una medicina pienamente soddisfacente, si stende su tutto il secolo che ha visto, come nessun altro in precedenza, la piena medicalizzazione della vita. La qualità della soddisfazione che mostrano pazienti di questo genere ci fa francamente dubitare che questa possa essere assunta come criterio esclusivo per valutare l’atto medico.

La soddisfazione del paziente ci rimanda così, inevitabilmente, alle questioni di fondo della medicina: il suo scopo e i suoi limiti, gli effetti positivi e quelli negativi che un’efficiente organizzazione dei servizi sanitari ha sulla cura della salute. In altre parole, la soddisfazione dei pazienti non può essere una scorciatoia che ci dispensa dall’affrontare i problemi antropologici ed etici legati alla pratica della medicina.

3. Qualità, soddisfazione ed etica

La preoccupazione per la soddisfazione del paziente-cliente

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porta nella sanità un punto di vista che è fondamentalmente estraneo alla tradizione dei criteri di qualità dell’atto medico, così come è stata concettualizzata dall’etica medica. Se i professionisti della sanità stentano a farlo proprio, non si tratta solo della comprensibile resistenza di chi è indotto a muoversi al di fuori di un paradigma comportamentale familiare. Adducono anche delle buone ragioni, riconducibili alla preoccupazione di tutelare il paziente da ciò che potrebbe essergli nocivo e di promuovere il suo bene nel modo ritenuto appropriato dalla scienza medica e dalle conoscenze professionali di coloro che si dedicano all’assistenza.

«Ho il dovere morale ― protesta il medico ― di proporre al paziente la procedura terapeutica che risponde più efficacemente al suo problema di salute, non quella che riscuote di più la sua soddisfazione. Il bene del paziente è, secondo l’etica che ispira da sempre la medicina, l’imperativo che domina su tutti gli altri. L’amministratore dell’ospedale, per esempio, è più soddisfatto se prescrivo un farmaco meno costoso. Ma se io so che quello più costoso è più benefico per il paziente, mi avvarrò della libertà di prescrizione terapeutica, indipendentemente dalla soddisfazione di terze parti».

Un professionista di nursing geriatrico, a sua volta, potrebbe obiettare: «Io so che il mio paziente è più contento

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se gli risparmio il bagno; ma non farei un nursing corretto se non inducessi l’anziano a fare il bagno almeno due volte alla settimana. Il mio anziano, inoltre, non prova lo stimolo della sete e non vuole bere: ma posso responsabilmente fargli correre il rischio della disidratazione, per avere un cliente soddisfatto?».

Se dall’aneddotica passiamo al livello teorico, ci rendiamo conto che la preoccupazione per il beneficio da procurare al paziente è il pilone portante dell’etica medica tradizionale. Il professionista sanitario ispira i suoi interventi in modo esclusivo al bene del paziente 7: questo è il senso e la finalità intrinseca dell’atto medico. Nel giuramento di Ippocrate ― il documento più antico a cui si ispira il tradizionale ethos medico ― i confini etici dell’atto medico sono concisamente descritti dalla clausola terapeutica: «Prescriverò agli infermi la dieta opportuna che loro convenga per quanto mi sarà permesso dalle mie cognizioni e li difenderò da ogni cosa ingiusta e dannosa».

Per cogliere il significato che questa concezione può rivestire anche per gli uomini del nostro tempo possiamo riferirci alla versione modernizzata che è stata redatta in occasione del Processo a Ippocrate organizzato nell’ambito di Milano-medicina del 1988. Un comitato di esperti ha così riformulato la clausola terapeutica: «Eserciterò la mia arte secondo un sapere

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che mi impegno ad accrescere costantemente, e prescriverò farmaci secondo un giudizio che manterrò puro e retto, e che mi guiderà nello scegliere quei rimedi che sicuramente si siano dimostrati giovevoli. Non farò della mia arte ingiusto lucro, né anteporrò alcun interesse a quello del malato, nemmeno se richiesto dal potere di chi amministra e governa la cosa pubblica».

Dal confronto con l’originale ippocratico emerge la sostanziale continuità nell’orientamento al bene del paziente come giustificazione dell’atto medico. Gli elementi costitutivi del rapporto che lega il professionista sanitario al paziente-cliente sono: l'asimmetria dei rapporti (tra di loro non si stabilisce un contratto bilaterale tra uguali, ma piuttosto un'alleanza terapeutica, con forti connotazioni religiose); la subalternità del malato (in merito all’atto terapeutico il malato non ha propriamente niente da dire; è chiamato a strutturare l’atto medico solo fornendo i sintomi, di cui il sanitario interpreterà il significato: non è il malato che parla, ma i sintomi che si presentano alla lettura); il ruolo pilota della scienza (il medico è impegnato ad accrescere sempre di più il proprio sapere); il controllo fornito dalla coscienza e dal senso di responsabilità del medico (di qui la formuletta compendiosa in scienza e coscienza, solitamente utilizzata per tagliar corto nei

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lunghi discorsi sulle dimensioni etiche della pratica della medicina).

Questa concezione così lineare dell'atto terapeutico, che è giunta fino a noi attraverso i secoli sostanzialmente immutata, sta attraversando un processo di trasformazione di grandi conseguenze. La medicina moderna è stata costretta a diventare sensibile ai valori del paziente. Questi non accetta più la posizione di “minorenne non emancipato” che il modello paternalistico di esercizio dell’arte sanitaria gli riservava. La pratica del consenso informato deriva dall’accettazione del principio dell’autonomia dell’individuo, in quanto soggetto capace di determinare i propri fini. Non è buono l’intervento sanitario o sociale che non consideri l’adulto come adulto, con il suo diritto-dovere di partecipare all’atto medico ed eventualmente di circoscriverlo entro i limiti stabiliti nell’esercizio dell’autonomia personale.

Ciò è tanto più vero, forte e dirompente nello stato attuale del progresso medico. Oggi la medicina dispone di un arsenale terapeutico molto vario e aperto su diversi esiti. È proprio là dove esiste una pluralità di scelte che i valori del paziente diventano rilevanti. Ciò che il paziente intende come salute, benessere, vita buona ― tutto ciò che, nel linguaggio conciso della rottura con l’assolutismo politico realizzato dagli indipendentisti

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americani era contenuto nel diritto al pursuit of happiness ― deve entrare strutturalmente nell'atto medico. La soddisfazione del paziente diventa un elemento intrinseco della qualità etica di un intervento sanitario, quando si riferisce al rispetto dei valori che costituiscono l’universo morale entro cui l’individuo costruisce la sua vita, con il progetto morale che gli è proprio.

Legare la qualità etica dell’atto medico ai valori del paziente non rischia di scardinare i criteri tradizionali? Se il professionista sanitario subordina la sua azione alla soddisfazione del paziente, non potrebbe diventare a sua volta subalterno a questi, senza alcuna possibilità di distinguere tra bisogni, desideri e magari anche capricci? Il pericolo paventato è quello che le professioni della salute decadano a livello di agenzie dei servizi per le quali il cliente ha sempre ragione. Un atteggiamento che possono adottare solo perché ciò che è in gioco si situa infinitamente al di sotto di beni quali la salute o la vita stessa.

Di fronte a questi interrogativi e timori costituisce un punto di riferimento rassicurante la strumentazione concettuale che fornisce la riflessione bioetica contemporanea. Questa ci aiuta a distinguere due livelli: del minimo morale e del massimo morale 8. I minima moralia delineano quel livello al di sotto del quale non

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si può scendere, se non vogliamo che la società smarrisca i suoi tratti minimi essenziali di umanità. Il minimo morale non è legato al consenso, né alla soddisfazione. Anche se, per ipotesi, la maggioranza si accordasse su certi comportamenti o politiche che offendono i principi che tutelano il minimo morale, non potrebbe addurre il consenso come prova di legittimità. Questo vale, per esempio, per i comportamenti ritenuti giusti in alcune epoche (come l’approvazione della schiavitù) o da certi regimi (l’eutanasia dei malati mentali e degli handicappati praticata dai medici sotto il nazismo). La maggioranza degli attori sociali ― per esemplificare ancora ― potrebbe ritenere economicamente vantaggioso e umanamente più conforme alla dignità non tenere in vita le persone in coma vegetativo permanente, ma queste scelte cadrebbero sotto il minimo morale (purché sia stabilito in modo incontrovertibile che abbiamo ancora a che fare con persone umane), qualunque sia la soddisfazione di coloro che decidono in tal senso.

I principi a guardia del minimo morale sono quelli di giustizia e di non-maleficità. Il primo richiede che tutti siano trattati con uguale considerazione e rispetto, senza privilegiare qualcuno a danno di altri. Il secondo ― che è un principio basilare nell’etica medica, è stato per lo più formulato fin dall’antichità come

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primum non nocere 9 ― impedisce di procurare danni anche se, paradossalmente, la persona fosse consenziente o addirittura lo richiedesse.

Al secondo livello troviamo i massimi morali, ovvero quei modi di organizzare la vita morale che dipendono dai valori soggettivi e trovano espressione nelle varie comunità morali di appartenenza (è quello che, per esempio, fa un testimone di Geova diverso da un musulmano, un cittadino educato in senso individualista e liberista da un altro che mette al primo posto i valori familiari e le reti di appartenenza). I principi di autonomia (o autodeterminazione) del paziente e di beneficità (orientare il corso dell’azione verso il miglior vantaggio del paziente-cliente) regolano i conflitti in questo livello.

L’orientamento alla beneficità tutela la qualità professionale dell’azione sanitaria. Il professionista ha appreso, con le regole dell’arte, quali sono le risposte efficaci ai bisogni che gli vengono presentati. La formazione che ha ricevuto lo autorizza a ritenersi qualcuno che knows best. Il pericolo è quello di ridefinire i bisogni del paziente-cliente, facendoli rientrare nei propri schemi, che possono anche non essere i più illuminati o adeguati. Il rispetto dei valori soggettivi del paziente-cliente, che ha il diritto di costruirsi la sua “buona vita” secondo il modello di massimo morale a

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cui aderisce, oggi richiede che i professionisti dei servizi sociali e sanitari creino nuovi spazi per la contrattazione. Presupposto fondamentale è quell’ascolto del paziente che gli permetta di partecipare alla scelta sulla base non solo dei suoi bisogni somatici, ma anche delle sue aspettative, preferenze morali, orientamenti di vita. Non stupisce che il paziente che si senta ascoltato in senso pieno, sia anche più soddisfatto. In questi casi, almeno nei servizi sanitari, qualità etica, capacità di gestione e soddisfazione del cliente tendono a coincidere.

4. Stagioni dell’etica e modelli di qualità in medicina

Noi oggi, alla fine del XX secolo, cerchiamo una “buona” medicina per rispondere ai nostri problemi di salute, non meno di quanto abbiano fatto i nostri antenati o i nostri padri, soltanto una generazione fa. Ma la nostra idea di ciò che corrisponde a buona o cattiva medicina è cambiata, così come sono cambiate le nostre attese nei confronti di un ospedale o del servizio sanitario pubblico. Più precisamente, possiamo dire che ci troviamo presi in un processo storico che ha visto il susseguirsi di almeno tre grandi modelli di buona medicina, ognuno dei quali prospetta in modo

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coerente come si devono comportare i diversi protagonisti del sistema delle cure: i medici, i malati, le varie professioni sanitarie, la società del suo insieme. Ogni modello che si sussegue nel tempo ci obbliga a ripensare ogni volta la medicina intera sotto una diversa luce di qualità. In modo sintetico, possiamo dire che i tre modelli rappresentano tre diverse stagioni dell’etica in medicina.

Per illustrare i cambiamenti di tutto ciò che associamo all’idea di “buona” medicina, ci serviremo di uno schema. Come ogni schema, introduce una certa semplificazione nella realtà delle cose, ma ha il vantaggio di concentrare l’attenzione sui punti nevralgici del cambiamento.

Il primo modello presentato nella Tabella 1 può essere chiamato pre-moderno. Ha caratteristiche di grande antichità e di forte tenuta nel tempo. La sua antichità è indiscussa, in quanto in Occidente risale almeno a Ippocrate. Le convinzioni su ciò che è bene o male fare in medicina, sui comportamenti giusti o ingiusti nei confronti del malato sono rimaste relativamente stabili per secoli. Praticamente si tratta di una tradizione ininterrotta che in Occidente è durata per più di 25 secoli, dall’epoca di Ippocrate fino ai nostri giorni: in tutto questo tempo non abbiamo mai sentito il bisogno di modificare il concetto, condiviso dai

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Tabella 1 - STAGIONI DELL'ETICA IN MEDICINA

Epoca pre-moderna

Etica medica

Epoca moderna

Bioetica

Epoca post-moderna

Etica dell'organizzazione

La buona

medicina

«Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente?»

«Quale trattamento rispetta il malato nei suoi valori e nell'autonomia delle sue scelte?»

«Quale trattamento ottimizza l'uso delle risorse e produce un paziente-cliente soddisfatto?»

L'ideale

medico

Paternalismo benevolo

(Scienza e coscienza )

Autorità democraticamente condivisa

Leadership morale, scientifica, organizzativa

Il buon

paziente

Obbediente

(compilarne)

Partecipante

(consenso informato)

Cliente giustamente soddisfatto e consolidato

Il buon

rapporto

Alleanza terapeutica

(il dottore con il suo paziente)

Partnership

(professionista-utente)

Stewardship (fornitore di servizi-cliente)

Contratto di assistenza:

Azienda-popolazione

Il buon

infermiere

"Paramedico"

Esecutore delle decisioni mediche. Supporto emotivo del paziente

Facilitatore della comunicazione, a beneficio di un paziente autonomo

Manager responsabile della qualità dei servizi forniti

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medici e dai pazienti, di quelle pratiche di cura della salute a cui attribuire un valore morale positivo.

La domanda fondamentale a cui risponde la medicina di qualità dell’epoca pre-moderna è: «Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente?». Le risorse che il medico utilizzerà sono ovviamente quelle che la scienza del tempo gli mette a disposizione. I principi fondamentali di questa etica, riconducibili all’imperativo di fare il bene del paziente, presuppongono un modello ideale del medico fondamentalmente paternalista. “Paternalismo” in questo contesto non equivale a un giudizio di valore: vuol essere solo la descrizione di una modalità di rapporto. Vuol dire che tra chi cura e colui che riceve le cure c’è lo stesso rapporto asimmetrico che esiste tra un buon padre e una buona madre e i figli del cui bene sono responsabili. Il medico è colui che sa qual è il bene del paziente e vuole realizzarlo, mettendovi tutto il suo impegno e tutta la dedizione. È la scienza in continuo progresso che lo guida nel percorso della terapia, mentre la coscienza gli impedisce di trarre profitto dalla debolezza del paziente (per esempio, strumentalizzandolo ai fini di ingiusto lucro o di fama). Questa duplice guida costituisce l’orizzonte etico entro il quale si muovono i medici quando rivendicano a se stessi l’obbligo di prendere le decisioni in scienza e coscienza. Nel linguaggio della bioetica americana,

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si parla a questo proposito di una medicina ispirata al principio della beneficence, ovvero di beneficità.

Il malato contribuisce alla buona medicina impegnandosi a essere docile e osservante delle prescrizioni, in un rapporto di affidamento fiduciale. Egli non ha, di per sé, nulla da dire in merito all’atto terapeutico, che rimane affidato a quanto il medico stabilisce per il suo bene. Tutto quello che il malato ha da fare, è di diventare “paziente”, in tutti i significati del termine. Il buon paziente è il paziente “osservante”. A lui si richiede di entrare nel trattamento mediante la compliance. Come affermava l’illustre spagnolo Gregorio Marañon, che ha rappresentato nella prima metà del secolo il permanere dell’ideale ippocratico: «Il malato che non sa essere paziente diminuisce le sue possibilità di guarire. Obbedire al medico è incominciare a guarire».

In questo modello il buon rapporto è l'alleanza terapeutica tra colui che si dedica all’opera della guarigione e chi riceve questo servizio. Il termine “alleanza” fa parte della tradizione religiosa. Il rapporto medico-paziente ha, di fatto, una connotazione fortemente religiosa in senso ampio, in quanto, allo stesso modo dell’alleanza che è il pilastro centrale della religione ebraico-cristiana, mette in relazione due fondamentali diseguaglianze. La guarigione in medicina, secondo

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questo modello, si ottiene mediante l’unione tra la scienza-coscienza del medico (che include il suo sapere, la filantropia, la volontà di fare il bene del paziente) e la volontà del paziente di mantenersi dentro questo rapporto di alleanza.

Il seguire la prescrizione medica è la condizione essenziale perché l’alleanza possa esplicare i suoi effetti benefici, e quindi procurare la guarigione. Questo modello riconduce la qualità etica di un atto medico a un unico parametro: quello costituito da un vettore che visualizza la maggiore o minore rispondenza di ciò che si fa al paziente a ciò che gli porta un beneficio, in quanto è clinicamente indicato. Graficamente lo possiamo raffigurare in questo modo (Figura 1):

I valori sono rappresentati in maniera scalare per alludere al fatto che il bene procurato al paziente può essere maggiore o minore (e anche, nei casi estremi, nullo o addirittura costituire un fatto nocivo; per questo l’etica medica ippocratica ha messo come guardiano di tutto l’edificio costituito dai doveri del medico

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l’imperativo fondamentale: Primum non nocere).

Questo modello continua ancora a strutturare i nostri comportamenti sociali, sia dei professionisti che lavorano in sanità sia dei pazienti. Soltanto quando diventiamo “moderni” il modello entra in crisi. Nei rapporti sociali che si stringono attorno a chi somministra e a chi riceve le cure sanitarie, l’epoca moderna non è incominciata fino a pochissimo tempo fa. Soltanto da una ventina di anni sono diventati visibili i segni di una frattura che indica che la medicina è entrata nell’epoca moderna. Di conseguenza, cambiano tutti i parametri che costituiscono il modello di “buona medicina” proprio dell’epoca pre-moderna.

Il fine generale della medicina non è più soltanto quello di portare il maggior beneficio al paziente: perché un trattamento medico abbia un carattere di qualità, ci dobbiamo anche domandare se rispetta il malato nei suoi valori e nell’autonomia delle sue scelte. Nell’epoca moderna, infatti, il malato va fondamentalmente considerato come una persona autonoma, capace di autodeterminare le proprie scelte.

Il malato dell’epoca moderna è quello che ha la capacità e il coraggio di non farsi trattare come una persona eterodeterminata, ma assume il peso e la responsabilità delle decisioni che lo riguardano. Ciò mette in crisi il modello secondo cui nella medicina

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tradizionale il malato è per definizione uno che non può autodeterminarsi. Dire che la medicina entra nell’epoca moderna significa prima di tutto rimettere in discussione il paradigma paternalista, che presuppone una fondamentale diseguaglianza tra le persone autonome e quelle che non lo sono (le scelte di queste ultime essendo determinate dalle prime).

Nell’epoca moderna i valori del malato, intesi come un quadro di riferimento che guida l’autonomia delle sue scelte, diventano un momento fondamentale del fare “buona” medicina. Perché si abbia buona medicina non ci si può limitare a rispondere alla domanda: «Questo intervento porta oggettivamente un beneficio al paziente?». Non basta stabilire ― per esempio ― che l’atto medico ha di fatto prolungato la vita del paziente. Se quanto il medico intraprende va contro i suoi valori e le sue decisioni, non possiamo parlare di buona medicina. L’autodeterminazione del paziente, in quanto articolazione fondamentale dei suoi diritti (per capire la differenza del paradigma, basti pensare che nel modello tradizionale si parla solo di doveri del medico e non di diritti del paziente) diventa un criterio di qualità. L’intervento sanitario non può essere più deciso unilateralmente dal medico che si basa sul sapere della sua professione, ma deve essere individuato insieme al paziente, spesso con un

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faticoso processo di contrattazione.

Superato il paternalismo benevolo, l’ideale medico in questo modello diventa un’autorità democraticamente condivisa; il buon paziente è un paziente partecipante alla decisione. Il cardine di questa strutturazione concettuale è il consenso informato. L’idea di qualità dell’atto medico si arricchisce di una nuova componente: è buono l’intervento sanitario che ha anche una correttezza formale, vale a dire il rispetto delle procedure volte a far partecipare il paziente alle scelte diagnostiche e terapeutiche che lo riguardano.

Questa è la nozione di consenso informato che troviamo nell’importante documento dottrinale proposto dal Comitato nazionale per la bioetica: Informazione e consenso all’atto medico (20 giugno 1992): «Il consenso informato, che si traduce in una più ampia partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano, è sempre più richiesto nelle nostre società. Si ritiene tramontata la stagione del paternalismo medico in cui il sanitario si sentiva, in virtù del mandato da esplicare nell’esercizio della professione, legittimato a ignorare le scelte e le inclinazioni del paziente, e a trasgredirle quando fossero in contrasto con l’indicazione clinica in senso stretto». La sottolineatura che specifica la natura del consenso informato quando lo consideriamo dal punto di vista etico ― «una più ampia partecipazione

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del paziente alle decisioni che lo riguardano» ― ci permette di dissociarci dall’uso del consenso informato che si va diffondendo anche in Italia, concepito per lo più in funzione difensiva del medico, non finalizzato a promuovere l’autonomia del paziente.

Nella prospettiva che abbiamo adottato, il paziente non ha più solo diritti ma anche dei doveri. La sua posizione non è esclusivamente di privilegio, ma anche di scomoda responsabilità, in quanto deve partecipare al processo decisionale. Non possiamo escludere che talvolta il paziente potrebbe preferire piuttosto di delegare la decisione, affidandola interamente al medico («Faccia quello che è necessario: il dottore è lei, non io!»). Il paziente partecipante nelle scelte ha il compito di diventare un buon paziente. Per diventarlo non basta che si limiti a non far storie, non porre troppe domande, essere docile e seguire le prescrizioni mediche; il buon paziente ha anche un compito etico: deve realizzare tutto quello che è necessario per essere un buon paziente. Il buon rapporto è una partnership, che si instaura tra professionista e utente.

L’idea di qualità, dunque, include il concetto di partecipazione. Il termine bioetica, usato per designare questo modello di qualità dell’atto medico, è un neologismo, indicato per un modello di qualità in medicina veramente inedito. È la buona medicina appropriata

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per la stagione dell’etica in medicina che abbiamo chiamato “moderna”. Sentiamo il bisogno di cambiare etichetta anche perché non ci troviamo più nell’ambito dell’etica medica, cioè del medico, concentrata sul medico, elaborata dalla professione medica a beneficio anche del malato. La bioetica implica uno spostamento dell’accento, per cui la qualità non è più determinata in maniera unica ed esclusiva dal sapere e dal potere del medico, ma viene stabilita in modo dialogico, insieme al paziente, il quale deve partecipare alle decisioni con i suoi valori, nell’ambito del consenso sociale. Quindi nella bioetica entra la società, l’etica civile, l’accordo ottenuto trasversalmente alle diverse comunità morali di appartenenza, includendo anche gli “stranieri morali”.

Questo modello di qualità, che nella nostra cultura non abbiamo nemmeno ben cominciato ad articolare, si diffonde con estrema difficoltà. Lo contrasta una profonda resistenza, sia da parte del mondo medico, sia da parte dei cittadini. Si avverte che è necessario accrescere le conoscenze e mobilitare tutte le energie concettuali e morali, al fine di entrare in questo modello. Tanto i professionisti della sanità quanto i pazienti sono obbligati a cambiare modelli di riferimento che hanno una lunghissima tradizione. È un passaggio epocale, che sposta l’accento

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della qualità da un modello a un altro, inaugurando un’altra epoca della qualità e dell’etica nella medicina.

Per evitare facili equivoci e smantellare almeno alcune riserve - quelle che nascono dal timore che si intenda abbandonare l’etica medica tradizionale - è necessario sottolineare che i due modelli non sono diacronici, ma sincronici. In altre parole, non si susseguono nel tempo, sostituendo con il modello moderno i valori tradizionali, ma sono chiamati a convivere. Le scelte in medicina si collocano su un piano a due dimensioni (Figura 2), dove la contrattazione tra l’indicazione clinica e le preferenze del paziente crea il punto d’incontro.

PIANO DELLA CONTRATTAZIONE BENEFICIO-PREFERENZE

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Mentre proviamo ancora tanta difficoltà a entrare nella stagione della medicina moderna, forti spinte ci stanno già indirizzando verso l’epoca post-moderna. Ci stiamo muovendo, infatti, verso l’introduzione dello “stile azienda” in sanità. Il modello di qualità comporta anche un rapporto nuovo con il paziente. Sommariamente possiamo dire che non solo il malato deve essere informato e responsabilizzato per partecipare in modo autonomo alle decisioni terapeutiche, ma deve essere considerato come un “cliente”. Oltre ad avere diritti da rivendicare, vuole anche essere soddisfatto.

Questa prospettiva caratterizza quel tipo di organizzazione sanitaria che è stata messa in moto con il riordino del nostro Servizio sanitario nazionale e che si sintetizza nel concetto di azienda sanitaria. Soddisfare i pazienti diventa un’esigenza strategica per la sopravvivenza dell’azienda stessa. Il paziente, infatti, spostandosi da una struttura all’altra, porta dietro la sua capacità di spesa, rappresentata dalla sua quota capitaria. Quindi è importante una gestione oculata dell’azienda: se perde i pazienti, perché questi preferiscono un’altra struttura, l’azienda esce dal mercato. Se i sanitari non trattano bene i pazienti per motivi ideali (carità cristiana o filantropia) oppure per la ragione che è loro diritto, in quanto cittadini, avere una buona

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assistenza, devono farlo almeno per interesse dell’azienda.

Il modello di qualità post-moderno comporta delle variazioni anche in tutte le altre articolazioni fondamentali del sistema di rapporti entro cui si svolge l’azione sanitaria. Innanzi tutto l’interrogativo fondamentale che dovrà porsi chiunque abbia delle responsabilità nelle scelte ruoterà intorno a elementi della qualità di carattere gestionale: quale trattamento ottimizzerà l’uso delle risorse e produrrà un paziente-cliente soddisfatto? La fisionomia stessa dell’interrogativo etico viene modificata.

Nell’etica medica il registro per valutare la qualità è quello della bontà (l’azione è buona in quanto porta il beneficio della guarigione); la bioetica si colloca entro la tradizione etica coltivata nel mondo anglosassone, che valuta se l’azione sia giusta o ingiusta, in rapporto ai diritti e nel rispetto delle procedure; la nuova stagione che si è aperta ci obbliga a interrogarci se l’azione sia appropriata rispetto ai fini da conseguire, che comportano sia una più acuta sensibilità per il bene comune e l’equità sociale, sia l’attenzione agli interessi dell’azienda.

La qualità, ovvero il valore etico di un intervento sanitario, oggi è molto più complessa. I criteri più recenti non devono sostituire quelli precedenti, ma

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integrarsi con essi. La “buona” medicina è quella che deve mirare a guarire in maniera rapida, efficace e duratura. Ma questo non basta: deve anche preoccuparsi di essere “giusta”, rispettando i diritti del malato e promuovendo la sua autonomia. A queste considerazioni si aggiungono poi anche quelle relative a ciò che si dimostra appropriato nell’orizzonte della giustizia in considerazione dell’accesso ai servizi che la concezione dello Stato sociale apre a tutti coloro che hanno bisogno, indipendentemente dalla loro capacità economica, e dell’equa distribuzione delle risorse.

La buona medicina, quella dotata di qualità, è quella che nasce dall’integrazione delle esigenze che nascono dall'etica medica, da quelle della bioetica e delle esigenze, infine, di quella nuova stagione dell’etica in medicina che sentiamo incombere, sotto la spinta delle nuove condizioni sociali e della pressione dell’economia, e che possiamo chiamare etica dell’organizzazione. Per la precisione, da tutte e tre contemporaneamente. Le stagioni dell’etica in medicina, con le rispettive esigenze riguardo a ciò che è giusto e appropriato nell’assistenza sanitaria, non vanno viste come modelli conclusi che si succedono nel tempo, ma come esigenze contemporanee e contestuali. Lo schema seguente (Figura 3), che pone le scelte in uno spazio tridimensionale, può visualizzare la complessità della situazione attuale:

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SPAZIO DELLA CONTRATTAZIONE

BENEFICIO-PREFERENZE-APPROPRIATEZZA

Finché la qualità dell’intervento sanitario sul paziente si misurava esclusivamente con il metro del beneficio del paziente (epoca pre-moderna), maggiore era il beneficio che il malato riceveva da quello che si poteva fare per lui, maggiore era la qualità, anche etica, dell’atto medico. La modernità, con l’introduzione dell’autonomia del paziente, ha introdotto un altro parametro, indicato nello schema come asse delle preferenze. La buona scelta medica dovrà tener conto temporaneamente di due

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fattori: il beneficio da procurare al paziente e il suo consenso a ciò che il malato ha individuato e scelto come suo bene. La scelta si realizza sul piano orizzontale di una contrattazione, che spesso produce un compromesso (non è detto, infatti, che ciò che costituisce dal punto di vista clinico il maggior beneficio per il paziente corrisponda alle sue preferenze, o inversamente: ciò che il paziente informato vuole per sé può non coincidere con quanto la medicina sarebbe in grado di fare per lui).

A queste due dimensioni oggi dobbiamo aggiungerne una terza, così che la decisione clinica ci appare collocata in uno spazio tridimensionale. Dobbiamo considerare, infatti, anche l’appropriatezza sociale degli interventi sanitari, in una prospettiva di uso ottimale di risorse limitate, solidarietà con i più fragili ed equità. Quello che possiamo fare per un malato, anche se valutabile con un punteggio alto sul parametro dell’appropriatezza clinica e su quello delle preferenze personali, potrebbe collocarsi molto in basso rispetto al criterio del buon uso delle risorse.

La buona medicina ci appare così come il frutto di una “contrattazione” molteplice, che deve tener conto di tre diversi parametri: l’indicazione clinica (il bene del paziente), le preferenze e i valori soggettivi del paziente (il consenso informato) e infine l'appropriatezza sociale. L’assistenza sanitaria, dovendo conciliare

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nelle sue scelte esigenze diverse e talvolta contrastanti, senza minimamente rinunciare alle esigenze della scienza, ci appare più che mai un’arte.

L’ideale medico dell’epoca post-moderna è una leadership morale. Il modello paternalista non funziona più là dove si assume lo stile dell’azienda post-moderna: è necessario dotarlo di autorevolezza. Non ci possiamo più basare su una divisione dei compiti di tipo burocratico. Soltanto chi ha quella che la cultura del management chiama la vision, cioè la visione strategica degli obiettivi e dei mezzi, sviluppa una forza morale capace di trascinare gli altri membri dell’équipe.

Il buon paziente è il cliente soddisfatto e consolidato; ma ― come abbiamo visto nel paragrafo dedicato al rapporto tra soddisfazione ed etica ― il nostro obiettivo non è il cliente in qualsiasi modo soddisfatto e consolidato, bensì il cliente giustamente soddisfatto. Il buon rapporto è la stewardship, che implica un atteggiamento non centrato sul professionista, ma sugli standard di qualità del servizio. È il presupposto che sta alla base della Carta dei servizi pubblici sanitari, predisposta nel 1995 dai ministri della Funzione pubblica e della Sanità. La Carta intende assegnare «un ruolo forte sia agli enti erogatori dei servizi, sia ai cittadini nell’orientare l’attività dei servizi pubblici verso la loro “missione”: fornire un servizio di buona qualità ai cittadini-utenti».

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BIBLIOGRAFIA

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9 Gracia D., “Primum non nocere”. El principio de no-maleficencia como fondamento del la ètica médica, Real Academia de medicina, Madrid 1990.