Medicina, etica, economia

Sandro Spinsanti

MEDICINA, ETICA, ECONOMIA

in Rocca

anno 52, n. 9, 1 maggio 1993, pp. 27-37

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La tecnologia medica ha superato e continua a superare le nostre capacità di pagarla: quali scelte e in base a quali criteri scegliere?

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BISOGNI E RISORSE

 Nella problematica etica relativa al tema della giustizia nella distribuzione delle risorse sanitarie per valutare il ruolo che nelle nostre decisioni deve avere il bene morale abbiamo bisogno, oltre all’apporto della filosofia o della teologia, anche degli strumenti concettuali forniti dall’economia e dalla sociologia.

Caso emblematico una vicenda accaduta a Little Rock, una cittadina dell’Oregon. Nel 1987 a casa Howard si consumava una tragedia, di quelle che sconvolgono la vita di una famiglia. Il figlio Jacoby, che gli amici chiamavano Coby, di 11 anni, nel dicembre dell’87, moriva di leucemia.

Si era sperato di poter operare un trapianto di midollo, ma per fare questo trapianto erano necessari 100.000 dollari e la famiglia non li aveva.

Se la malattia di Coby si fosse annunciata qualche mese prima, Coby avrebbe avuto il trapianto a spese dello Stato e forse avrebbe avuto qualche chance di vita in più. Ma nella primavera dell’87 il senato dello stato dell’Oregon aveva preso una grave decisione, relativa alla pianificazione economica, circa la distribuzione delle risorse sanitarie.

Disponeva di una certa somma e con questa somma si sarebbe potuto o estendere le cure primarie a 1500 persone, che non le avevano (è noto che finora negli Stati Uniti non esiste un servizio sanitario nazionale che garantisca l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini), oppure eseguire trapianti su altre 35 persone: la somma era la stessa, equivalente. A quel punto il senato dell'Oregon dovette scegliere; decise di interrompere il programma di finanziamento pubblico del trapianto di organi e di estendere le cure primarie a donne e bambini che non l’avevano.

In quell’occasione il Presidente del senato dell’Oregon esplicito il senso forte di quella decisione, che possiamo dire storica, con queste parole: «La tecnologia medica ha superato e continuerà a superare la nostra capacità di pagarla. Questa è la dura realtà. Dobbiamo limitare il denaro che spendiamo nella cura della salute». Non solo, ma dobbiamo fare delle scelte. Coby in questo senso ha un valore simbolico: è la prima vittima di una pianificazione sanitaria, di una scelta di come investire il denaro e di assumere la ricaduta sociale di questa scelta.

Questo episodio ci rende consapevoli che in sanità esiste una divaricazione crescente e inevitabile tra domanda e offerta, tra bisogni e capacità economiche di qualsiasi stato, anche di una nazione ricca come gli Stati Uniti.

Gli anni rubati alla morte

È questa una caratteristica della medicina attuale, e sarà sempre di più caratteristica della medicina del futuro. Anzitutto perché noi siamo davanti a una società che invecchia, e la maggior parte delle risorse vengono spese negli ultimi anni di vita. Abbiamo prolungato di alcuni anni la vita degli uomini e delle donne del nostro tempo, ma forse non c’è da essere tanto fieri di questi anni rubati alla morte. La cura dei malati e delle persone anziane, l’assistenza delle persone per le quali la vecchiaia diventa essa stessa malattia, è molto costosa. Non solo, ma questo prolungamento della vita ha fatto aumentare in maniera proporzionale a questi anni sottratti alla morte le malattie degenerative, cioè le malattie di cui non si muore subito, come per le infettive, ma che si trascinano.

Non si muore per cancro come per una polmonite: si vive con un cancro diversi anni, ma a costi economici spaventosi per la nostra società (per tacere dei costi di altro genere come il progressivo degrado della qualità della vita).

Abbiamo prolungato la vita, ma aumentato i malati di Alzheimer; e che cosa costa alla società il mantenimento di un malato di questo genere! Se vogliamo arrivare poi al caso proprio estremo, pensiamo che cosa costa alla società quell’altra prodezza tragica della nostra medicina, che salva la vita ad alcuni, ma non riesce a salvar loro il cervello. Intendo riferirmi ai malati che sono salvati, abbastanza in tempo per salvare loro la vita, ma troppo tardi per salvare la funzione cerebrale e che quindi resteranno per sempre in coma vegetativo, cioè in una situazione da cui non si risveglieranno più, ma con speranza di vita pari a quella normale se curati adeguatamente: 20 anni, 30 anni anche. Che cosa costa mantenere una persona in questo stato? Terzo elemento da considerare: oltre il

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profilo demografico (una società più vecchia) e il profilo nosografico (le patologie degenerative e prevalenti), c’è l’aumento dei costi della tecnologia medica. Basti pensare alla differenza che ci può essere tra un piccolo strumento come il fonendoscopio, e la macchina cuore-polmoni o la Tac. La tecnica aumenta progressivamente, diventa sempre più sofisticata: ormai si pensa al robot-chirurgo. Abbiamo una sanità che fa delle prodezze incredibili, ma a costi proibitivi.

Questi elementi disegnano un nuovo quadro d’insieme: non possiamo dare tutto a tutti, e perciò siamo costretti a fare delle scelte. Questa è la prima lezione che possiamo tirare dalla vicenda dell’Oregon, lo stato che per primo ha inaugurato l’epoca delle scelte in termini espliciti.

Micro e macro allocazioni

Altro elemento importante: non sussiste più una distinzione tra micro e macro allocazioni di risorse. Sono questi due termini tecnici noti in etica medica da anni.

La micro allocazione di risorse è riferita alle varie alternative che si pongono nel distribuire una risorsa scarsa, tra più persone che ne hanno bisogno. Questa situazione è classica in medicina, non è nata oggi; per esempio la conoscevano molto bene i medici militari sui campi di battaglia, quando c’erano tanti feriti e pochi medici, poche bende e poca morfina e dovevano scegliere chi curare e chi non curare. Oppure, caso più attuale: ho un cuore da trapiantare e ho due candidati. Tutti e due hanno bisogno di questo cuore per poter vivere: a chi dei due lo attribuisco? Questa è la micro allocazione delle risorse.

Il problema delle macro allocazioni di risorse di per sé non è un problema medico, ma piuttosto economico-politico. Si tratta cioè, in regime di programmazione sanitaria, di come distribuire le risorse disponibili. Per esempio: decidere se in questa Usi, o in questa regione, costruire più asili nido o più reparti di cardiochirurgia pediatrica; più case per i vecchi o più pronto soccorsi. Questi sono problemi di macro allocazione di risorse.

Ma la distinzione tra micro allocazioni, che riguardano i medici che decidono in un contesto clinico, e le macro allocazioni, che riguardano i politici, si sfilaccia, sfuma, perché se, per ipotesi, io medico consumo tutte le risorse in una determinata terapia, io sono responsabile di una impossibilità a intervenire per altre patologie. È così per ogni radiografia, ogni test di laboratorio, ogni farmaco accumulato nell’armadietto di casa.

Abbiamo vissuto per anni nell’idea dell’abbondanza; ora tutto questo si ripercuote in una società che ha a disposizione un contingente limitato di risorse.

Un’etica medica da rivedere

Questa è un’altra lezione importante che possiamo trarre dalla vicenda di Coby. Possiamo intravederne anche una terza. Se le cose stanno così, noi siamo costretti a passare da quel modello di riferimento che era quello dell’etica medica ad un altro tipo di paradigma.

L’etica medica ha sempre affrontato le scelte che doveva fare, comprese quelle relative alle allocazioni delle risorse, nell’ignoranza, pretesa, voluta, esibita, dei problemi economici.

Nel senso che il medico ha personalmente voluto disinteressarsi del denaro: la scelta individuale riguarda il bene di questo malato e se questo malato ha bisogno di un farmaco costosissimo, io glielo prescrivo, perché io non ho a che fare con i soldi (almeno teoricamente; poi le cose magari erano molto meno pure di quanto pretendevano di essere). Era questo un punto di onore della medicina: non mescolarsi con il denaro. Ovvero, in altri termini, la medicina giudicava l’appropriatezza di una terapia, di un intervento, con dei criteri che erano esclusivamente di tipo clinico-sanitario e non volevano avere nessun rapporto con dei criteri di tipo economico.

Purtroppo le cose non stanno più così (se mai lo sono state). La medicina non può più pretendere di ignorare l’economia: questi tre grandi punti di riferimento che sono l’etica, la medicina, l’economia, sono costretti a fare i conti gli uni con gli altri. Medici, economisti e filosofi-eticisti hanno attualmente una coabitazione molto imbarazzante. Gli uni non vorrebbero avere a che fare con gli altri, ma vi sono ormai costretti: la situazione attuale di ristrettezza delle risorse li obbliga ad agire insieme, contestualmente.

Nuovi criteri di scelta

Dobbiamo quindi elaborare dei criteri nuovi per scegliere. Quali criteri sono possibili?

Un criterio potrebbe essere quello di stabilire delle liste, di fare un elenco di priorità, individuali (chi ha più bisogno), o sociali

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(chi è più necessario alla società). Ma è possibile?

Facciamo ancora un esempio. Quando per la prima volta, in una grande clinica universitaria della capitale dello Stato di Washington, Seattle, alla fine degli anni Settanta, ha cominciato ad essere possibile curare dei malati con deficit renale, altrimenti destinati alla morte, mediante il rene artificiale si sono subito resi conto che occorreva stabilire una lista di priorità, perché i candidati alla dialisi erano molto di più delle persone che potevano essere effettivamente sottoposti a dialisi. Si è proceduto a creare un comitato etico per fare la graduatoria.

Quando, dopo qualche tempo, qualcuno ha avuto la curiosità di andare a vedere con quali criteri erano state scelte le persone, è successo un mezzo scandalo. Si è visto che, nello stabilire la priorità delle persone da salvare, venivano presi in considerazione dei fattori come, per esempio, il ruolo del malato nella famiglia o nella società, per cui un malato con dei figli veniva preferito ad un malato scapolo; uno scienziato veniva preferito ad un disoccupato. Tra l’altro erano stati adottati anche criteri che rispecchiavano convinzioni sostanzialmente conformiste di moralità, per cui il dirigente di boy-scout che andava in chiesa, apparteneva aduna congregazione religiosa, veniva preferito a chi era invece magari omosessuale notorio ed aveva comportamenti disapprovati socialmente: un adeguamento, quindi, ai modelli culturali prevalenti diveniva criterio di preferènza. Tutto ciò ha suscitato una forte reazione, in particolare da parte di un teologo protestante di gran nome, Paul Ramsey, il quale ha condannato questi criteri di selezione come una pretesa di scimmiottare Dio: chi ci dà l’autorizzazione a dire che una persona vale più di un’altra? Anzi — diceva Paul Ramsey in maniera molto polemica — se veramente vogliamo imitare Dio, non ci rimane che prendere quel criterio che nel Vangelo è descritto come il criterio dell'«assoluta casualità», in quanto, secondo il Vangelo, Dio fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Allora se vogliamo imitare Dio, tiriamo a sorte! Il modo più etico di scegliere, secondo Ramsey, sarebbe dunque quello di non fare nessuna scelta, di lasciare al caso.

Il criterio di stabilire una lista di priorità, si apre dunque all’arbitrio. Analogamente, si apre all’arbitrio anche il criterio con cui noi pensiamo di poter dire, in una prospettiva di risorse limitate: investiamo il nostro denaro per curare i malati di cancro, oppure curiamo i malati di Alzheimer, o i bambini spastici... anche se questo criterio è forse meno ingiusto della pretesa di fare una lista secondo un criterio di giustizia a livello individuale, o sociale o secondo profili patologici.

Che fare allora?

Occorre almeno passare dall’implicito all’esplicito, almeno discutere pubblicamente questi criteri.

Il senso del limite

Sarebbe una svolta nella società. Il criterio non sarebbe più lasciato alla coscienza individuale del medico, né sarebbe neppure demandato alle scelte tacite, alle pressioni delle varie lobbies, dei vari gruppi organizzati, capaci di attivare le risorse sociali.

Dobbiamo però renderci conto, ancora una volta, che ciò cambia profondamente l’etica medica tradizionale. Perché il medico, nel suo profilo etico-professionale alto, concepisce il suo rapporto con il malato, come una specie di avvocatura rivolta al bene esclusivo e alla salute del paziente, lasciando il ruolo di cattivo ai politici, agli amministratori, che non tirano fuori le risorse. Sorgerebbe certo un grave problema il giorno in cui noi cambiassimo queste regole e dicessimo: no, sei tu, caro medico, che devi mettere dei limiti e li devi mettere esplicitamente.

È quanto si è già fatto in alcune Nazioni, una prospettiva che incombe anche su di noi, cioè la necessità di dare delle linee guida di questo genere: dopo una certa età, certi interventi costosi, anche se sono salvavita, non si fanno più; per esempio, il trapianto renale dopo 65 anni non si fa più. Ora, se il medico viene coinvolto in questo tipo di decisioni finalizzate alla regolazione sociale delle risorse, si presenta una situazione estrema che possiamo immaginare con un colloquio di questo genere: «Caro signor Rossi, un rene nuovo è proprio quello che ci vorrebbe nel caso suo. Purtroppo lei ha 66 anni e noi nella nostra società abbiamo deciso che dopo una certa età queste risorse le dobbiamo riservare a quelli più giovani».

È facile capire che una situazione del genere, se ha il pregio della trasparenza, ha l’handicap tremendo che quanto meno il malato si sente tradito dal suo medico. Questo ci fa capire la resistenza dei medici a essere coinvolti in questo tipo di scelte, benché non possiamo sottrarci alla necessità di fare scelte.

Anticipo già la ovvia obiezione che potremmo

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spendere meno da una parte, per le armi ad esempio, e dirottare i risparmi in spese sanitarie. Ovvio. Rimane sempre il fatto che, anche quando avremo speso di meno in senso antisociale, anti-vita, dovremo pur sempre scegliere fra i tanti bisogni. Perché quello sanitario è solo uno dei bisogni, anche se forse il più importante: dovremo sempre decidere quanti soldi dedichiamo alla sanità, quanti alla giustizia, quanti alla scuola, quanti all’ordine pubblico, quanti alla tutela dell’ambiente. Avremo sempre una quantità di bisogni, per cui la torta delle nostre risorse dovrà essere divisa in fette; e questa fetta della sanità, per quanto grande, sarà sempre limitata e non potrà mai rispondere pienamente ai bisogni di tutti.

Una medicina che non sia sensibile ai problemi dell’economia ed alla limitazione delle risorse è una medicina che crea soltanto situazioni intollerabili per la nostra società.

Noi abbiamo continuato a pensare, specie in questi ultimi decenni, la pratica della medicina in una prospettiva di sviluppo illimitato, di risorse inesauribili.

C’è voluto parecchio tempo, ma è avvenuta una grande svolta, in senso generale, nell’economia e nella politica. Si è cominciato a pensare in un orizzonte di risorse limitate per motivi di inquinamento, di aumento demografico, e per tanti altri ancora. Questa prospettiva adesso, col debito ritardo, diventa evidente anche nella sanità. Non possiamo pensare la sanità come un orizzonte senza confini, con riserve inesauribili, con la mentalità da pioniere americano che, quando si è consumato un pascolo, si sono ammazzati tutti i bufali e si sono tagliati tutti gli alberi, ci si sposta un po’ più in là, perché c’è ancora tanta terra. No! questa idea di frontiera mobile che si estende davanti a noi, senza porre alcun limite alla nostra avanzata, non c’è più. Anche la sanità quindi, come tutte le altre cose, dobbiamo ripensarla dentro un orizzonte di limiti.

Questo ci porta anche a rivedere i pilastri fondamentali dell’etica medica, vale a dire che noi non possiamo promuovere la vita sempre, ovunque, di ognuno, spingerla sempre più avanti, ancora più anni, ancora più interventi tecnologici, ancora più risorse sanitarie... Questo non ci è più possibile.

Una vita più lunga non è garanzia di vita migliore

Ma c’è un’altra considerazione, di natura più antropologica: quella che Daniel Callahan, direttore di un centro di bioetica americano molto noto, lo Hasting Center, ha illustrato in un paio di libri molto interessanti, l’ultimo dei quali intitolato «Setting Limits» (Mettere dei limiti) ha fatto discutere molto in America. Egli sostiene, con considerazioni di ordine economico, analoghe a quelle che qui abbiamo già sviluppato, che è nella natura stessa del progresso medico di attirare a se molte più risorse di quelle che potrebbero essere ragionevolmente spese nella sanità.

Ma alle considerazioni di ordine economico Daniel Callahan ne aggiunge una di ordine antropologico. Afferma che non soltanto noi spendiamo una quantità insostenibile di risorse nel cercare di spostare in avanti la frontiera della vita prolungandola di qualche anno, di qualche mese, ma che questo stesso progresso medico non dà una vita migliore. Cioè abbiamo più anni da vivere, ma non abbiamo migliorato la nostra vita.

Secondo lui, il problema non è soltanto che noi abbiamo pensato alla sanità in un orizzonte di risorse illimitate, ma che abbiamo progettato la cura della salute quasi escludendo la fine della vita, mentre la vita umana è un ciclo naturale che comprende un inizio, uno sviluppo e una fine. Abbiamo presupposto una antropologia secondo cui la fine della vita è soltanto una barriera da far arretrare sempre di più, e non invece un limite che ci serve per capire, per dare senso umano e sempre più etico a quello che facciamo.

Che sia così lo dimostra il fatto che quando una persona muore, la reazione è sempre un senso di fallimento. Si tende a cercare che cosa è mancato. Se non un colpevole, almeno qualche cosa che è mancato, per cui «se avessimo avuto questo reparto di terapia intensiva, si poteva salvare». Cioè c’è sempre un senso di morte come incidente evitabile, non di morte connessa con la vita.

Voglio specificare che queste osservazioni antropologiche di Daniel Callahan probabilmente non hanno creato scalpore per questa premessa, ma per le conseguenze. E le conseguenze sono che, se noi prendiamo la vita come un arco di vita naturale, in cui la fine è intrinseca, allora dobbiamo limitare quello che facciamo per prolungarla quando possiamo ragionevolmente pensare che questo ventaglio di vita sia compiuto.

Ma a partire da quale età possiamo dire che una persona ha compiuto il suo ciclo naturale di vita? A partire da quale momento

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dobbiamo decidere di non darle più certi farmaci? Quando noi possiamo ragionevolmente dire che il ciclo naturale di età è concluso, e quindi la medicina dovrà tutta essere finalizzata non al prolungamento artificiale della vita, ma al sollievo delle sofferenze, diventando cioè una medicina palliativa che fa tutto quello che si può fare per alleviare le sofferenze, ma non assume come un suo obbligo quello di spingere più avanti la frontiera della vita?

Possiamo riassumere in questa affermazione la tesi di Callahan: «la vita umana si vive meglio, ha una migliore qualità, se la pensiamo come intrinsecamente limitata». Invece nel pensarla come una estensione senza limiti cronologici e quindi con l’obbligo correlato, da parte della medicina, di spingere questa frontiera sempre più avanti, noi produciamo una deformazione dell’essere umano. Una vita più lunga non è una garanzia di vita migliore.

Considero queste riflessioni come un patrimonio di saggezza. Se mai possiamo esprimere un rammarico, è che questa riflessione venga da una etica laica e razionalista e che i cristiani siano vistosamente assenti in questo tipo di riflessioni antropologiche.

L’etica cristiana sembra aver dimenticato di introdurre nella nostra etica il concetto antropologico di limite, di saperlo pensare in concreto. Sembra anzi essersi identificata con la volontà di prolungare la vita il più possibile, in contrapposizione a un’etica laica che cerca di mettere dei limiti in nome della qualità di vita. Mi sembra un impoverimento totale, tanto più che l’antropologia cristiana ha sempre pensato all’uomo, invece, con il concetto di limite, in quanto la vita umana è destinata alla vita eterna. Ma è solo teoricamente che sappiamo pensare ad un’altra vita; di fatto questo concetto della limitatezza della vita terrena l’abbiamo dimenticato, anche perché non sappiamo più articolare il discorso sull’altra vita, se non in termini molto generici, ma non in termini etici.

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CHE FARE

Non è possibile dare ricette. È già un grande risultato aver cominciato a focalizzare questi problemi. Infatti nella cultura italiana, in particolare, non si sentono molte riflessioni di questo genere. Purtroppo c’è un ritardo culturale notevole.

È possibile delineare due strategie o due possibili linee di attacco, per affrontare i problemi emersi. Non sono antitetiche: «o, o», ma piuttosto «e, e».

Noi possiamo agire, in questa situazione in cui c’è una sproporzione tra domanda e offerta, secondo uno schema classico dell’economia, cercando un bilanciamento: possiamo o agire sull’offerta, o agire sulla domanda, o agire su tutte e due. Vediamo metodologicamente le diverse strategie.

Cosa vuol dire limitare l’offerta? Nei termini più crudi e semplici possibili, questo significa affermare: certe cose non le offriamo.

Questo può essere fatto o sulla base di una valutazione etica, o sulla base di una valutazione puramente economica. Una valutazione puramente economica è, per esempio, quella di dire: certi interventi terapeutici sono al di sopra delle nostre possibilità.

Ma molto più interessanti, per noi, sono le limitazioni dell’offerta per motivi etici, facendo incontrare i tre grandi sistemi: etica, medicina ed economia. Poter dire: certe cose noi non le offriamo per motivi etici. Ci sono già situazioni di questo genere? Sì. Almeno in Italia. Per esempio, per quanto riguarda la procreazione artificiale, c’è stata proprio una scelta che va in questa direzione.

Nell’85 l’allora Ministro alla Sanità, Degan, ha emesso una circolare che limita l’offerta di fecondazione artificiale, fatta con le finanze dei cittadini e nelle strutture pubbliche, alla fecondazione artificiale omologa, cioè nell’ambito della coppia. Questo vuol dire, in concreto: noi come società sosteniamo il peso di una gravidanza ottenuta con l’aiuto tecnologico soltanto se questo sta dentro determinati parametri valutati eticamente. In altri termini, c’è stato un vero e proprio giudizio etico che riguarda il fatto che la donazione di seme, la donazione di ovulo, al di fuori della coppia vengono considerati come non accettabili dal punto di vista sociale e morale.

Ci possono essere anche altre restrizioni di questo genere? Sì ci sono, per esempio, in Francia, dove si sta andando verso una regolamentazione delle pratiche mediche attinenti alla bioetica con una legislazione, la più avanzata di qualsiasi altro Paese europeo. In Francia ci si sta orientando verso la proibizione, per motivi etici, della vendita degli organi.

In società pluralistiche come le nostre è però molto difficile arrivare a un consenso sulla esclusione di terapie in base à valutazioni etiche. In ogni caso, resterebbero le perplessità di cui abbiamo parlato all’inizio a proposito delle liste di priorità. Più interessanti e valide mi sembrano motivazioni etiche di altro tipo. Ad esempio: come possiamo giustificare una medicina, una sanità che spende tanto, quando accanto a noi ci sono milioni di persone che vivono sotto al livello minimo di sussistenza o muoiono letteralmente di fame? Ha senso in questo scenario una medicina procreatica costosissima?

Ma c’è di più. Non basta tener presente il bene di chi vive oggi accanto a noi; occorre anche pensare alle generazioni che verranno dopo di noi. Deve entrare nell’etica un punto di vista transgenerazionale, cioè l’obbligo non soltanto nei confronti dei contemporanei che sono qui intorno al tavolo, che vogliono mangiare e che ci domandano di dividere la torta, ma di invitare al tavolo anche quelli che non sono ancora nati, le generazioni future.

Questo domanda un salto di prospettiva etica rispetto al quale le nostre società sono ancora molto arretrate. Dico le nostre società, perché invece le società arcaiche o le società tradizionali spesso hanno sviluppato un senso dell’etica come obbligo verso le generazioni future molto più acuto delle nostre. Il saggista americano Jeremy Rifkin in un suo libro dedicato al senso del tempo e delle generazioni riporta una affermazione che dice di aver raccolto da un capo indiano Irochese, il quale spiegava come nella società Irochese venivano prese le decisioni. Diceva questo capo: «Quando noi capi dobbiamo prendere una decisione, noi ci raduniamo, discutiamo e ci domandiamo: la decisione che ora stiamo per prendere andrà a beneficio della

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quarta generazione? Se non riusciamo a rispondere sì, noi quella decisione non la prendiamo».

Questa idea di pensare alla quarta generazione come idealmente presente e vincolante per le generazioni attuali è non soltanto una idea di saggezza, di sopravvivenza, ma è anche una espressione di alto profilo etico, rispetto a cui noi dobbiamo assolutamente vergognarci. Perché noi società economicamente sviluppate abbiamo fatto esattamente il contrario. Noi abbiamo avuto un grande sviluppo, in questo periodo, fondato sulla sinergia di due fattori, che andavano tutti a nostro vantaggio: la grande disponibilità di materie prime, che abbiamo succhiato dai paesi poveri, e la contrazione delle nascite.

Questo vuol dire che noi siamo stati in meno a dividerci più beni. Inoltre abbiamo accumulato dei debiti, che abbiamo riversato sulle spalle dei figli e dei nipoti. Basti pensare al peso delle pensioni che dovranno pagare le generazioni future, al conto che abbiamo lasciato da pagare ai nipoti.

Aiutare la domanda

L'altra strategia, che si può vedere non in antitesi bensì come complementare alla prima, è quella di puntare sulla limitazione della domanda. Ma anche qui sorge un grave problema etico: è compito dell’etica valutare la domanda? Possiamo noi affermare in nome dell’etica che certe domande sono immorali?

C’è un grande pericolo di moralismo da questo punto di vista, per cui molti preferiscono non entrare nel tema, lasciando tutto al gioco della domanda e dell’offerta. Però credo che si possa essere meno agnostici ed arrivare a fare una valutazione che, senza qualificare come immorale la domanda, possa però aiutare a riformulare la domanda stessa. Noi possiamo aiutare, mediante l’educazione sanitaria, a formulare delle domande di salute più pertinenti e anche meno costose, perché molte domande sono false domande, o delle domande sbilanciate verso un eccesso che è anche contro il miglior interesse della persona.

Non è per caso che le forme di medicina più umana sono anche le più economiche. Per esempio, noi curiamo la gente in ospedale; curare in ospedale è una rovina per le casse dello Stato. Se noi educassimo la gente e i medici a domandare le cure domiciliari e ripensassimo il nostro sistema a offrire a domicilio tutto ciò che è possibile (non tutte le cose possono essere offerte a domicilio) invece che in ospedale, noi avremo allo stesso tempo una medicina più umana perché più modulata sui bisogni delle persone e anche estremamente più economica.

Altro capitolo importante: noi spendiamo una quantità di soldi, nella fase terminale della vita delle persone, perché offriamo tanta tecnologia, tanti interventi straordinari. Molti malati di cancro vengono operati, rioperati e poi quando sono alla fine, vengono messi in rianimazione, consumando nel giro di pochissimo tempo patrimoni incredibili. Ma è veramente questo che le persone vorrebbero, se riuscissero a formulare la loro domanda sulla qualità della vita? Forse noi offriamo cure tanto costose, che non solo non risolvono il problema, ma creano un profondo malessere, perché ad una persona che vorrebbe qualche cosa di semplice ed essenziale, cioè una medicina capace di palliare i dolori e una vicinanza umana, noi offriamo invece tante macchine, tanta tecnologia, programmi di chemioterapia fino a un’ora prima della morte.

Soprattutto nella parte terminale della vita diamo delle cose costosissime perché non sappiamo, o non vogliamo, leggere la vera domanda. La vera domanda è di moderare il nostro intervento, rispondere al bisogno di controllare il dolore, di comunicare fino alla fine, di non essere abbandonati. Vicinanza, calore, ascolto, tempo: questo domandano le persone in fase terminale della vita.

Aiutare le persone a formulare la domanda, a non chiedere sempre più intervento tecnologico, quando noi invece abbiamo bisogno di una medicina diversa: ecco l’altra strategia. Certo ciò esige educazione sanitaria, informazione e soprattutto di cambiare il modello di rapporto tra utente e struttura sanitaria, tra medico e paziente. Ritornano pertinenti le cose dette in un altro intervento («Ai confini tra la vita e la morte» — Rocca n. 12/1992): la promozione dell’autonomia del paziente, un rapporto in cui il medico sappia ascoltare i bisogni, dare spazio ai valori soggettivi. In questo senso il cittadino non è soltanto un consumatore capriccioso di un servizio, ma diventa un coproduttore del servizio sanitario. In quanto coproduttore, domanderà meno, ma cose di maggiore qualità. Strano a dirsi, ma queste cose di maggiore qualità, che richiedono presenza umana e solidarietà, sono una merce poco costosa, ma una merce rara; e noi siamo propensi a dare piuttosto le merci costose che le merci rare.

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A CHI LA DECISIONE?

La famiglia idealmente si colloca come intermedia tra due insiemi decisionali: la decisione individuale (io e la mia vita, io e la salute, io e il mio progetto di vita, io e il mio dovere di utilizzare razionalmente in una giusta misura le risorse e le possibilità di un prolungamento della vita), e la decisione sociale in quanto insieme di comunità con un compito comune.

La vita non è solo un progetto individuale, ma anche un compito che si trasmette attraverso una catena di esseri, un passaggio di fiaccola da generazione a generazione, con conseguenti diritti e doveri di giustizia nell’uso delle risorse.

Qual è il ruolo della famiglia nel prendere decisioni in merito all’impiego delle risorse disponibili ? È bene o è male che noi lasciamo queste decisioni alla famiglia?

è giusto affidarle esclusivamente ai medici?

Oppure: deve decidere la famiglia, o deve decidere l’individuo stesso?

Se noi dobbiamo prendere delle decisioni cliniche che riguardano un sostegno alla vita in situazioni che non soltanto sono costose, ma spesso sono anche irrazionali — perché quello che prolunghiamo è una vita, la cui qualità è talmente depauperata, talmente sotto un livello di godibilità, di fruibilità, che diventa evidentemente disumana — chi deve prendere queste decisioni? Vediamo i prò e i contro dei vari protagonisti.

La gerarchia dei valori non è uguale per tutti

Possiamo e dobbiamo lasciare questa scelta soltanto al medico? Questo è stato fino a ieri propriamente il punto di vista dell’etica medica. È un punto direi quasi cardine dell’etica medica: i medici non vogliono che altri vengano a mettere il naso in queste decisioni.

Il grande cambiamento che sta succedendo nella nostra società è che noi invece ci rendiamo conto che queste scelte non possono essere lasciate ai medici, perché i medici non hanno la capacità di scegliere la qualità di vita per l’altro. Il medico non può sapere, secondo la sua scienza, se quello che lui fa per il malato corrisponde a un desiderio soggettivo del paziente stesso, della vita che lui vuole. Perché questo sforzo di prolungare il più possibile la vita può diventare una condanna a vivere, che le persone non desiderano per sé. Questo ci convince della incapacità del sanitario di decidere per un altro.

Qualche mese fa il presidente della Lega italiana per la lotta contro i tumori, il prof. Umberto Veronesi, ha organizzato un convegno a Milano intitolato: La solitudine del medico di fronte al malato di cancro. Sostanzialmente il convegno voleva affermare questo: noi medici oggi non sappiamo più come procedere con sicurezza, in quanto noi possiamo intervenire in maniere diverse che hanno un’incidenza, sulla lunghezza o meno della vita, ma anche sulla qualità della vita. E non possiamo più prendere queste decisioni per il malato, al posto suo.

Un esempio, molto facilmente intuibile: se ho un cancro alla laringe posso trovarmi di fronte a due strategie terapeutiche: mi possono asportare la laringe, magari con una prospettiva di vita più lunga; ma possono non toccare la laringe e lasciarmi avere una speranza di vita che ritengo sufficiente, anche se non quanto quella di un laringetomizzato, se mi curano con la radioterapia.

Ma è molto diverso per me se io per esempio faccio il falegname o faccio il professore o l’oratore. In quest’ultimo caso potrei decidere di volere meno vita ma di poter continuare a parlare. Mentre se facessi il falegname potrei preferire di continuare a fare dei bei mobili fino alla fine: la voce potrebbe non sembrarmi una priorità.

I valori personali sono molto importanti. È diverso se io sono solo o se ho un figlio piccolo. Forse se ho un figlio piccolo posso puntare tutto per avere più possibilità di stare vicino a questo figlio; ma se non lo ho forse posso puntare di più a mantenere la mia integrità, l’indipendenza, la capacità di movimento, pur rischiando di avere meno vita.

I valori non costituiscono una gerarchia uguale per tutti, il prolungamento della vita non è più il fondamentale valore. E questo ci dice l’incapacità del medico di prendere delle decisioni al posto di un altro se non interviene il dialogo, l’ascolto, una

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scelta comune basata sui valori espressi dal paziente, interiorizzati e accolti dal medico.

Qando non si è più in grado di decidere

Un altro scenario è quando io non posso prendere la decisione per me stesso, perché non sono in grado di intendere e di volere, ovvero perché sono in coma. Il ruolo della famiglia in questo caso, spesso è drammatico, perché i familiari devono scegliere per il proprio congiunto. Potremmo stabilire come data di nascita, non dico della bioetica, ma della sensibilità ai problemi nuovi che emergono il caso di Mary Ann Quinlan del 1976. La ragazza, in coma, è tenuta viva da una macchina, e si deve decidere se staccarla o no da questa macchina.

La famiglia è favorevole; i medici entrano in contrasto con la famiglia: affermano che tocca a loro difendere la vita, che la decisione della famiglia di staccare la ragazza dalla macchina è una decisione non etica. Di fatto la macchina è stata staccata per decisione della Corte Suprema del New Jersey (benché Mary Ann abbia continuato a vivere per nove anni in coma vegetativo).

Un caso di questo genere, ancora più drammatico, è successo in questi ultimi anni, sempre negli Stati Uniti. È il caso di una ragazza, Nancy Crusan, che era in coma vegetativo permanente con una speranza di vita pari a una qualsiasi altra ragazza di venti, trenta anni, se fosse stata nutrita artificialmente. La famiglia richiede di interrompere l’alimentazione artificiale: grida di orrore...: la famiglia vuol far morire di fame questa ragazza, questa famiglia è disumana. Processi su processi, fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti, la quale decide di sospendere l’alimentazione artificiale in quanto i genitori riescono a dimostrare che Nancy aveva affermato in precedenza che lei non avrebbe mai voluto vivere in quelle condizioni.

Ruolo della famiglia

Questo fatto diventa molto importante ed istruttivo per noi: sapendo che non possiamo decidere per un altro, diventa fondamentale riuscire ad avere la volontà dell’altro e a interpretarla, se quest’altro non può attualmente esprimere la sua volontà. La famiglia di Nancy è stata uno strumento per poter esprimere la volontà della ragazza, ma non per prendere la decisione al posto suo.

Come risolviamo generalmente in Italia questo nodo importante di chi deve prendere le decisioni, in particolare le decisioni che hanno una portata vitale?

Secondo la nostra cultura decidiamo empiricamente, sostituendo la famiglia all’interessato. Siamo in buona fede convinti che questo va bene, che sia una prassi corretta. In genere la procedura è questa: di fronte a qualcuno che si ammala di un male con prognosi infausta, la famiglia fa quadrato. Prima ancora di far fronte al problema di come prendersi cura di questa vita, si sente coinvolta a decidere per quanto riguarda l’informazione della persona. Succede che il familiare va dal medico e gli dice: «Dottore, soprattutto che non sappia niente lui/lei, dica a me che sono la moglie, il marito, il padre, la madre, il figlio; che gli sia risparmiata la triste notizia. Io, noi, la famiglia ce ne facciamo carico».

Vige insomma un modello di comportamento riguardo a queste decisioni dove alla famiglia viene dato un ruolo decisivo, e si crea una collusione tra medico e famiglia in una strategia comune di nascondere la situazione e nello stesso tempo di sottrarre la decisione al malato decidendo per lui, naturalmente secondo la buona intenzione di fare il suo bene.

Ma c’è un documento del Comitato nazionale per la bioetica italiano, il più recente, dedicato a «Informazione e consenso all’atto medico».

Un documento controcorrente, che sostiene la necessità del consenso informato del paziente sulle decisioni che lo riguardano, che ritiene tramontata la stagione del paternalismo medico in cui il sanitario si sentiva, in virtù del mandato da esplicare nell’esercizio della professione, legittimato a ignorare le scelte e le inclinazioni del paziente e a trasgredirle quando fossero in contrasto con l’indicazione clinica in senso stretto.

L’ultimo codice di deontologia medica, dell’89, si esprime infatti ancora in questi termini: «il medico potrà valutare l’opportunità di tenere nascosta al malato o di attenuare la prognosi grave o infausta, la quale dovrà essere comunque comunicata ai congiunti». Dunque nei documenti ufficiali dell’ordine dei medici, che rispecchiano in pratica il comune comportamento dei medici, c’è questa prassi: il medico può, a suo giudizio, quando lo ritiene opportuno per il bene del malato, non comunicargli la prognosi e la diagnosi, comunicandola

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invece alla famiglia. Il medico decide queste strategie con la famiglia per il bene del malato, sulla base di una interpretazione concertata del bene del paziente.

Il cambiamento che introduce il Comitato nazionale per la bioetica in questo scenario è quello di affermare che il referente del medico è la persona malata, non la famiglia.

Riguardo ai rapporti con i familiari c’è un paragrafo che è molto esplicito in questo senso. Dice: È indiscutibile che un paziente adulto e in condizioni di intendere e volere sia l’interlocutore vero e talvolta l’unico del medico.

Non si può però prescindere dal rapporto con i familiari o i fiduciari del paziente, ma in quanto servono a inquadrare la situazione personale. Bisogna cioè riferirsi alla famiglia; non per scavalcare il malato ma soltanto in quanto la famiglia può darci degli elementi per capire meglio quello che sta vivendo il paziente, per giudicare il momento opportuno per coinvolgerlo, le parole da usare. La famiglia va quindi considerata come aiuto per arrivare al paziente, non una via privilegiata che taglia fuori il paziente.

Occorre prendere una via intermedia per cui la famiglia non soffochi l’individuo; ma anche tale che l’individuo non sia isolato e solo davanti alle scelte tragiche che si trova a dover compiere.

Il testamento biologico

Una soluzione a questo problema delle decisioni da prendere circa le cure da somministrare a una persona non più in grado di decidere è il cosiddetto «testamento biologico».

La persona può indicare precedentemente chi deve essere informato e anche chi non deve essere informato, oppure indicare chi deve prendere le decisioni al posto suo, comprese le decisioni mediche. E il medico si deve ritenere obbligato a rispettare quello che uno lascia scritto.

Questa è una procedura che in America sta diffondendosi, sollecitando le persone ad esprimere in precedenza le loro opzioni, le loro scelte per eventuali momenti tragici della vita in cui non potranno, perché incapaci, prendere decisioni e esprimerle. È chiaro che la famiglia può svolgere questo ruolo; ma spesso la famiglia è in una situazione drammatica, perché la famiglia sente un senso di colpa a mettere dei limiti alle cure, anche di fronte a una volontà esplicita in questo senso.

Il testamento biologico ci permette di poter esprimere, di fronte alla malattia e alla morte, i nostri valori, la nostra visione della vita, le cose in cui crediamo.

In Italia non è vincolante, perché non ha valore legale. In America sì, perché lo è nella legislazione degli stati, ed è vincolante fino al punto che dal dicembre dell’anno scorso è entrata in vigore una legge, nota come «legge dell’autodeterminazione», per cui chi si ricovera in un ospedale sostenuto da una cassa mutua nazionale, per poter avere la copertura assicurativa deve compilare un modulo ed esprimere la sua decisione riguardo al caso in cui non fosse più in grado di intendere e di volere, o designare qualcuno autorizzato a prendere le decisioni per lui. Questo è di routine, quando uno entra in ospedale.

Ripensare i fini riformulare le questioni

Sintetizzando: in questa situazione di transizione in cui cambiano i modelli culturali, si modificano le percezioni che abbiamo dei rapporti tra le generazioni, cambia la struttura e il ruolo della famiglia, si trasformano la pratica della medicina e l’orizzonte delle sue possibilità, acquista un profilo tragico il fatto che la medicina sia tanto potente ma anche tanto distruttiva riguardo alla qualità della vita.

Attorno alla medicina si concentrano alcune delle speranze più forti, che toccano l’umano nella sua struttura più fondamentale, quella che troviamo al di sotto di tutte le credenze e le ideologie; ma allo stesso tempo la medicina rischia di assommare alcune delle delusioni più cocenti, per le speranze che delude e le promesse che non riesce a mantenere. La situazione di transizione può essere, però, anche una opportunità di ripensare i fini che ci proponiamo come società e a riformulare le questioni antropologiche più fondamentali riferite alla vita e alla sua qualità, alla malattia e alla guarigione, alla morte e alle possibili strategie da contrapporre al suo scacco.