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Sandro Spinsanti
SPERSONALIZZAZIONE E RIPERSONALIZZAZIONE NELLA PROSPETTIVA DELLE "MEDICAL HUMANITIES"
in Manuale critico di sanità pubblica
a cura di Francesco Calamo Specchia
Ed. Maggioli, Rimini 2015
pp. 386-393
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1. “Humanitas” e le sue varianti: una famiglia di significati
La traduzione più fuorviante di medical humanities è quella di far equivalere la loro istanza a un progetto di umanizzazione della medicina.
L’umanizzazione è un programma che si evoca solitamente con intenti polemici. Presuppone un’analisi negativa dei comportamenti che si vogliono umanizzare, perché giudicati, appunto, disumani, che riguardino i detenuti nelle carceri o i malati in ospedale. Il programma di umanizzazione della medicina ha suscitato nel tempo molte adesioni: per motivi religiosi-filantropici (perché il professionista sanitario è considerato nell’alone del Buon Samaritano...) o per ragioni laiche, riconducibili al rispetto dei diritti umani e della dignità delle persone, anche in condizione di malattia. Non mancano motivi per rivendicare azioni correttive di comportamenti che si collocano al di sotto di quanto nella nostra società si considera un minimo decente. Sul banco degli imputati non c’è solo l’insensibilità degli operatori o semplicemente la maleducazione; anche la curiosità scientifica o gli interessi conoscitivi possono indurre a comportamenti biasimevoli.
Per saperne di più su ciò che oggi i cittadini considerano non accettabile, basta aprire gli archivi di un qualsiasi centro di ascolto del Tribunale dei diritti del malato o di un URP. O leggere le lettere ai giornali che danno voce al lamento contro la “malasanità”. Questa non è imputata solo di errori e inadempienze, ma spesso semplicemente di disattenzione verso esigenze elementari della nostra vita sociale.
Eliminare dalla pratica della medicina ciò che offende e umilia rimane un programma inderogabile. È tuttavia discutibile che il termine “umanizzazione”, con cui abitualmente lo si designa, sia una scelta felice. I sanitari che si sentono oggetto di un programma di umanizzazione non possono evitare di sentirsi accusati di comportamenti “disumani”. È facile immaginare che la reazione più prevedibile sarà quella di risentita chiusura, o di ricerca di altri capri espiatori (gli amministratori della sanità, le condizioni di lavoro...): in ogni caso, sarà arduo avere come alleati in un programma di umanizzazione i professionisti che si sentano messi sotto accusa.
Anche concordando sulla non opportunità di utilizzare il termine umanizzazione, non si può ignorare che vi hanno fatto ricorso i decreti legislativi nn. 502 e 517 che negli anni ’90 hanno delineato il profilo rinnovato del servizio pubblico. Come indicatori per valutare la qualità delle prestazioni erogate venivano infatti menzionate la “personalizzazione e umanizzazione dell’assistenza”. L’umanizzazione del servizio sanitario è diventata, più di recente, un obiettivo proposto ufficialmente dalla Regione Veneto, che ha anche pubblicato una lista dettagliata di parametri per verificarne la presenza. È opportuno tuttavia sottolineare con forza che le humanities che invochiamo come correttivo della pratica attuale della medicina non sono sovrapponibili all'umanizzazione. Quand’anche si eliminassero i comportamenti che violano i diritti e la dignità, il programma specifico delle medical humanities dovrebbe ancora avere inizio.
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2. Esercitare la medicina nel solco dell’umanesimo
Etimologicamente, le humanities rimandano al latino humanitas, che è stato il potente motore del movimento che ha strutturato l’Occidente moderno: l’umanesimo, appunto. Siamo così condotti a considerare la medicina come un’impresa “umanistica” e il medico (in quanto referente simbolico di un complesso di azioni e di competenze proprie di numerose professioni che si dedicano alla cura) come un “umanista”. Questo uso linguistico richiede molta cautela. Si rischia, infatti, di scivolare verso aspetti caricaturali, così come quando si enfatizzano la missione e la vocazione di quanti esercitano la medicina, quasi praticassero una specie di sacerdozio secolarizzato.
Eppure, la correlazione tra i valori dell’umanesimo e quelli che guidano la pratica della medicina più esigente dei nostri giorni è seducente. In riferimento alla promozione della salute quale processo globale ― sociale, politico, educativo, economico ― finalizzato a mettere le persone in condizione di aumentare il controllo sul proprio stato di salute e di migliorarlo agendo sui determinanti della salute non solo di ordine bio-genetico, ma anche ecologico, sociale, economico e culturale, possiamo riconoscere una “assonanza culturale” tra l'humanitas rinascimentale e il nuovo paradigma della salute che si sta profilando nel mondo culturale e scientifico. In questa prospettiva la medicina di oggi può attingere a piene mani dai valori dell’Umanesimo: riconsiderazione dell’uomo nel cosmo, accentuazione della personalità individuale come fulcro dell’azione umana, importanza della razionalità e della visione laica del mondo rispetto all’approccio centrato sulla fede.
La medicina contemporanea può far proprio il discorso di Giovanni Pico della Mirandola nella Oratio de hominis dignitate (1486): “Non ti ho fatto del tutto celeste né terreno, né mortale né immortale affinché, quasi di te stesso arbitro e sommo artefice, tu possa scolpirti nella forma che avrai preferito. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori proprie dei bruti, potrai rigenerarti secondo la volontà del tuo animo nelle cose che sono divine”.
E soprattutto è legittimo cogliere e rilanciare gli impulsi al pluralismo etico e alla tolleranza che sono contenuti in tale discorso. Questa dimensione profonda dell’“umanesimo” attribuita alla medicina è sicuramente in sintonia con il progetto culturale che anima il movimento delle medical humanities. La medicina può ancora rivendicare di essere ― per adottare la formula a effetto di Edmund Pellegrino ― “la più umana (“umanistica”) delle scienze e la più scientifica delle humanities”, senza per questo qualificare anacronisticamente i medici come “umanisti”.
3. La medicina come attività “umanitaria”
L’aggettivo “umanitario” per qualificare la medicina sembra, a prima vista, ridondante, dal momento che l’erogazione di cure sanitarie è l’azione umanitaria per eccellenza. Eppure la sottolineatura umanitaria non è parsa superflua all’“Associazione internazionale per la medicina umanitaria”.
L'Associazione ha programmi molto concreti. Si impegna a fornire cure mediche, chirurgiche, infermieristiche e di riabilitazione a pazienti provenienti da Paesi in via di sviluppo mancanti di necessari specialisti; a portare soccorso alle vittime di disastri dove l’assistenza sanitaria è deficitaria; a mobilitare ospedali e specialisti nei Paesi industrializzati per ricevere e trattare gratuitamente tali pazienti; a promuovere il concetto di salute come un diritto umano e a sostenere leggi e principi umanitari nella pratica medica.
È legittimo chiedersi se tutto ciò non faccia parte, costitutivamente, dello statuto etico della medicina. Insieme alla proclamazione di alti ideali filantropici, che indirizzano a curare tutti, senza distinzioni, all’interno dell’etica medica tradizionale c’è anche una differenza impalpabile, raramente esplicitata, tra “noi” e “loro”, che stabilisce una separazione fondata sull’affinità e sull’appartenenza al gruppo sociale. La medicina, in base a tale distinzione, è riservata ai “nostri”.
Ne troviamo una traccia nell’aneddoto, riportato da Plutarco nelle sue Vite, che riferisce una risposta di Ippocrate al re di Persia. Richiesto
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da quest’ultimo di andare a curare, dietro lauta ricompensa, i suoi sudditi affetti da una pestilenza, Ippocrate gli fa rispondere che mai avrebbe messo la sua arte a servizio dei barbari, che erano nemici del suo popolo.
La distinzione tra “noi” e “loro” ― intendendo: l’obbligo di prestare cure si rivolge ai nostri, non agli altri ― è molto più attuale di quanto l’episodio citato da Plutarco potrebbe far immaginare. Basti pensare alle perplessità che sorgono quando bussano alla porta dei servizi sanitari persone alle quali non riconosciamo un diritto di cittadinanza ― extracomunitari, clandestini... ancor più, quando si candidano per ricevere risorse scarse, come organi per i trapianti, che non sono disponibili in numero sufficiente per tutti. Le tensioni tra “noi” e “loro” in quest’ultimo caso si possono presentare anche all’interno di una comunità nazionale (vedi la polemica delle Regioni che investono molte energie per procurare organi per i trapianti nei confronti di Regioni che non fanno altrettanto, ma avanzano pretese di poter accedere agli organi disponibili).
L'etica medica cresciuta sul tronco della tradizione ippocratica ha avuto bisogno di vigorosi innesti per bilanciare le sue evidenti parzialità e rispondere pienamente agli obiettivi che si prefigge la medicina umanitaria. Alcuni di questi correttivi hanno già una lunga storia. Basti pensare alle regole che hanno preso corpo intorno alla medicina di guerra, dall’istituzione della Croce Rossa internazionale alla Convenzione di Ginevra. La medicina si è sentita provocata a superare la dicotomia amico/nemico, che regola la vita civile e manda avanti le guerre (la medicina in guerra si regola secondo il principio che, quando sono feriti, i nemici diventano fratelli: la differenza tra i “nostri” e gli altri viene a cadere).
Gli sviluppi più recenti della vita sociale sul pianeta hanno creato le condizioni per un’altra trasformazione epocale, dopo quella che ha caratterizzato il sorgere degli Stati moderni con le loro organizzazioni sanitarie nazionali. Siamo entrati nell’epoca dell’interdipendenza globale: nel male e nel bene. Il trauma del terrorismo internazionale ci ha fatto scoprire quanto sono interconnessi i sistemi sociali, anche quelli geograficamente e culturalmente più lontani tra di loro. La guerra stessa ha cambiato volto: basti dire che ormai il 90% delle vittime sono civili e che le distruzioni più pesanti non riguardano le armi del nemico, ma i suoi sistemi produttivi e le infrastrutture sanitarie.
Non ci sentiamo più autorizzati a presentare la medicina come super partes. La presunta neutralità porta di fatto ad avallare le sopraffazioni vigenti. Essere super partes, oltre che eticamente inaccettabile, è autenticamente impossibile. Gli interventi umanitari, mescolati ad atti di oppressione, costituiscono un messaggio paradossale, come la sinistra metafora di pacchi di aiuti gettati sulla popolazione che si sta bombardando... La medicina deve assumere con coraggio una posizione “di parte”, scegliendo ovviamente la parte degli oppressi. Non può più limitarsi a seguire le orme della guerra per sanare qualcuna delle innumerevoli piaghe che lascia: deve fare opera di prevenzione, aiutando a trasformare i conflitti in modo creativo e non violento.
In questa prospettiva possiamo dare diritto di cittadinanza alla medicina umanitaria, sottolineando la sua intrinseca precarietà. Lo scopo della medicina umanitaria è quello di rendere se stessa superflua: quando la medicina umanitaria avrà ricordato alla medicina tout court che cosa comporta, in senso intensivo ed estensivo, lavorare per la salute, potrà anche scomparire come provincia separata della medicina. Allora non avremo più bisogno dell’aggettivo ― umanitaria ―, perché il suo significato sarà passato integralmente nel sostantivo: medicina. Ma finché questa situazione non sarà diventata realtà, si impone un imperativo etico: aprire il cuore e la mente ― e prestare le mani ― alla medicina umanitaria.
4. Umanità/disumanità: quando la medicina è orientata al risultato
Un altro ambito semantico di umanità/disumanità nella pratica della medicina è quello relativo a situazioni nelle quali, per scarsità di mezzi o per scelta, si privilegia il curare rispetto al prendersi cura.
Una semplificazione concreta è fornita dal
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libro Utopie sanitarie, curato da Rony Brauman, che ha come sottotitolo esplicito: Umanità e disumanità della medicina, e che raccoglie diversi saggi redatti da sanitari che lavorano all'organizzazione “Medici senza frontiere” di cui Brauman è stato presidente dal 1982 al 1994. Sappiamo che questi medici si trovano in prima linea in Paesi nei quali la cura ha il carattere dell’emergenza e le condizioni di bisogno sono estreme.
In questo libro a più voci, dedicato ad analizzare i presupposti, le convinzioni e i metodi della loro azione, non c’è ombra di compiacimento. Al contrario: i medici coinvolti, riflettendo sugli interventi che avvengono in condizioni di penuria, denunciano il carattere di freddo calcolo che talvolta la loro azione è costretta ad assumere. Devono scegliere tra chi curare e chi trascurare (scoprendo anche sorprendenti diversità culturali: in alcuni Paesi, in situazione di carestia, sono i vecchi, in quanto garanti della coesione sociale, a dover ricevere per primi gli aiuti alimentari, e non i bambini, “gruppo debole”, che noi tenderemmo a privilegiare. Per gli organismi umanitari internazionali la priorità va data a evitare i decessi dei bambini, che ci sembrano più ingiusti e intollerabili, mentre in contesti culturali di sopravvivenza la scala delle priorità è un’altra).
Oltre a chi, i medici sono costretti a scegliere anche il come delle cure che erogano. I Medici senza frontiere sono i primi a denunciare che le loro azioni sono spesso costrette a essere “disumane”, perché assumono lo stesso carattere di “ingegneria” che siamo pronti a denunciare nella pratica medica a carattere più tecnologico.
In un suo libro del 2004 Tiziano Terzani, ad esempio, punzecchia i medici dell’ospedale oncologico di New York dai quali è in cura chiamandoli “gli aggiustatori”. Considerano, infatti, solo il problema clinico, al quale cercano di porre rimedio col meglio delle loro possibilità, ma non la persona malata: “I miei medici tenevano conto esclusivamente dei fatti e non di quell'ineffabile «altro» che poteva nascondersi dietro i fatti, cosi come i cosiddetti «fatti» apparivano loro. Io ero un corpo: un corpo ammalato da guarire. E avevo un bel dire: ma io sono anche una mente, forse anche uno spirito e certo sono un cumulo di storie, di esperienze, di sentimenti, di pensieri ed emozioni che con la mia malattia hanno probabilmente avuto un sacco a che fare! Nessuno sembrava volerne o poterne tenere di conto. Neppure nella terapia. Quel che veniva attaccato era il cancro, un cancro ben descritto nei manuali, con le sue statistiche di incidenza e di sopravvivenza, il cancro che può essere di tutti. Ma non il mio!” 1.
Paradossalmente, questa è la stessa accusa che i Medici senza frontiere rivolgono alla propria azione: lavorando in condizioni di estrema penuria, sono costretti a cadere negli stessi difetti criticabili nella medicina più scientifica. Per quanto “umanitaria” nelle motivazioni individuali di coloro che la praticano, anche la loro medicina diventa “disumana”, perché le condizioni in cui si svolge il loro lavoro li costringono a sacrificare quelle dimensioni della cura che qualsiasi malato considera essenziali. Indipendentemente dalla qualità degli affetti e delle relazioni che si instaurano, la medicina può essere oggettivamente disumana, se diventa, per necessità o per scelta, una specie di ingegneria applicata, ^orizzonte in cui si collocano le considerazioni proposte da Medici senza frontiere non è quello delle intenzioni soggettive degli operatori e del loro impegno umano, ma invitano a considerarne il contesto. Si scopre così che la medicina, nei contesti opposti delFestrema indigenza e della massima opulenza, può essere ugualmente disumana.
Mentre l’auspicio dell’“umanizzazione” della medicina fa riferimento agli operatori ― e implica indirettamente l’accusa rivolta loro di mancanza di dedizione e di motivazione ― le analisi che si concentrano sulla disumanità della medicina prescindono dal vissuto degli operatori; non equivalgono a un invito a “moralizzare” medici e infermieri, ma a un progetto rivolto a correggere la concezione stessa della medicina. Le differenze sono di grande peso: nel primo caso la terapia per la disumanità ha carattere
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predicatorio, nel secondo implica invece il correttivo delle medical humanities.
Una certa insofferenza nei confronti delle esortazioni moralistiche a favore del buon rapporto, senza tenere nel debito modo la qualità del servizio offerto, è comprensibile.
La forte enfasi nel curare, a discapito del prendersi cura, ha fatto la fortuna della serie televisiva che ha il dottor House come protagonista. Questo medico impersona la scelta di puntare sui risultati, facendo economia non solo dei buoni sentimenti e dell’attenzione alla persona, ma provocatoriamente anche delle buone maniere. La giustificazione di questo stile si fa forte della presunzione che, tra un medico che ti guarisce trattandoti male e uno che ti faccia morire tenendoti affettuosamente la mano, tutti preferirebbero il primo. Ma quando a un dottor House di un ospedale metropolitano si attribuiscono scelte volontarie, per comportamenti “disumani” che Medici di frontiera sono obbligati ad assumere, si fa un’operazione mistificatoria (a meno che non si tratti di una strategia di puro intrattenimento).
Le medical humanities non hanno come obiettivo di contrapporre il curare e il prendersi cura, la qualità relazionale e l’efficacia dei trattamenti, bensì la loro integrazione. Le humanities in questo contesto sono un sinonimo della “centralità del paziente”, o piuttosto della centralità della relazione nel processo di cura, nonché dell’importanza della comunicazione tra chi eroga le cure e chi le riceve.
5. L’ “umanità” degli operatori sanitari
Completiamo il periplo delle diverse accezioni che può assumere la humanitas riferita alla medicina portando l’attenzione sull’umanità, intesa come sintesi di qualità morali, di coloro che praticano la medicina. Parallelamente emerge una riflessione sulle qualità richieste a coloro che delle cure mediche sono i beneficiari.
Un episodio, tratto da un resoconto dello scrittore inglese Thomas de Quincey, ci introduce a questa ulteriore esplorazione del termine. De Quincey si è basato sulle relazioni di Vasiansky, che aveva assistito il grande filosofo Immanuel Kant in tutta la fase terminale della sua vita. Il racconto presenta anche un episodio singolare. Il vecchio Kant, che aveva anche enormi difficoltà a esprimersi ― Vasiansky interpretava le parole che Kant balbettava ― riceve il suo medico; questi vorrebbe che Kant si sedesse, ma il filosofo rimane in piedi. Racconta de Quincey, con le parole di Vasiansky: “Intanto continuava a tenersi in piedi, ma si vedeva che era sul punto di cadere a terra. Allora avvertii il medico, e ne ero ben convinto, che Kant non si sarebbe seduto, per quanto potesse soffrire rimanendo in piedi, finché non si fossero seduti i suoi ospiti. Il dottore sembrava dubbioso, ma Kant, che aveva udito quel che avevo detto, con uno sforzo prodigioso confermò la mia spiegazione del suo comportamento e pronunciò distintamente queste parole: “Dio non voglia che io cada così in basso da dimenticare i doveri dell’umanità” 2.
Certamente nel termine Humanität usato da Kant c’è il significato arcaico di “cortesia”, “gentilezza”; ma non soltanto questo. C’è un riferimento ai doveri dell’umanità, doveri verso se stessi, ma anche doveri verso gli altri: esistono i doveri della co-umanità.
5. 1. Il buon medico...
Tutta la tradizione di riflessione sui doveri del medico ha incluso questi doveri di co-umanità nelle caratteristiche del buon sanitario. A partire dalla formulazione latina del medico come vir bonus, sanandi peritus (persona buona, esperta nel curare). Ma questa bonitas, che determina la qualità professionale, va intesa in senso attributivo (un buon medico) o in senso predicativo (un medico buono)? I movimenti di umanizzazione della medicina accentuano la posizione predicativa: auspicano un medico buono. Lo immaginiamo disinteressato, attento ai problemi dei pazienti, sensibile, capace di dialogo, empatico. Talvolta queste e altre attese sono riassunte nella richiesta che abbia una “visione distica” del paziente e della sua patologia, intesa come una somma di capacità e di virtù.
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Dal buon medico, invece, ci si aspetta altro. Anzitutto la competenza scientifica e un saldo dominio dell’arte terapeutica. La scienza abbinata alla coscienza, che si è soliti invocare per delineare il profilo del buon medico, oggi ha assunto un profilo molto preciso: la medicina che pratica deve essere basata sull’evidenza (evidence based); le linee guida hanno sostituito la libertà terapeutica, che in passato era talvolta sinonimo di arbitrio o di preferenze immotivate.
Una cattiva medicina clinica non può essere etica; tuttavia la competenza clinica non basta più per fare un buon medico. Il buon medico dei nostri giorni non può essere solo competente sul versante delle scienze biomediche, ma deve esserlo in misura non minore in tutto l’arco dei saperi coltivato dalle medical humanities: oltre alle conoscenze scientifiche deve avere competenze gestionali, in accordo con le esigenze dell’etica dell’organizzazione; ed anche rilevanti competenze comunicative, per praticare la medicina “nel modo giusto”, così come richiede la cultura contemporanea, orientata al rispetto dell’autodeterminazione della persona malata.
Il criterio dell’autonomia della persona che riceve i trattamenti ― vale a dire il rispetto del significato e dei limiti connessi con la propria salute intesa come progetto di vita dotata di qualità ― è stato recepito nella formulazione del Codice di deontologia medica redatto nel 2006. L’articolo dedicato alla qualità professionale ha descritto il comportamento del buon medico commisurandolo con tre parametri: l’appropriatezza scientifica, la considerazione del punto di vista del paziente e la prospettiva della comunità con le sue esigenze di equità: “Il medico agisce secondo il principio di efficacia delle cure nel rispetto dell’autonomia della persona tenendo conto dell’uso delle risorse” (art. 6).
La revisione più recente del Codice (maggio 2014) ha però lasciato cadere il criterio costituito dal “rispetto dell’autonomia” del cittadino: “Il medico fonda l’esercizio delle proprie competenze tecnico-professionali sui principi di efficacia e di appropriatezza, aggiornandoli alle conoscenze scientifiche disponibili e mediante una costante verifica e revisione dei propri atti” (art. 6).
L’auspicio è che l’omissione non sia intenzionale,
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e che il Codice deontologico non miri a riportare il criterio della professionalità alle decisioni prese “in scienza e coscienza” dal medico, in privilegiato isolamento.
5.2. ...e il buon paziente
I doveri di co-umanità riguardano anche, specularmente, quanto deve mettere in atto chi ricorre ai servizi della medicina per essere un “buon paziente”.
La Humanität del vecchio Kant, traducibile essenzialmente in urbanità e rispetto, non basta più. La fine della “minorità non dovuta”, che per il filosofo costituiva l’entrata nell’epoca dell'Illuminismo e della modernità, ha modificato in profondità il modo di esercitare la medicina. Quando il rapporto che vigeva tra sanitari e pazienti era fondamentalmente di stampo paternalista 3, il buon paziente era il malato compliant: docile e remissivo, coltivava una relazione fiduciale. Si affidava al discernimento del medico e interferiva il meno possibile con le decisioni che questi prendeva per il bene del malato.
Non è certo proibito comportarsi ancora secondo questo modello, se ciò corrisponde a una preferenza personale; ma in generale non è quanto ci aspettiamo dal buon paziente dei nostri giorni. Ai nuovi diritti corrispondono anche nuovi doveri, e nuove responsabilità da parte del malato; che deve partecipare al processo decisionale, prima di tutto informandosi, chiedendo.
Il buon paziente non è più quello che non fa domande: al contrario, non smette di far domande finché non si è creato quel quadro della situazione clinica che gli permette di decidere insieme al medico. E deve anche accettare i limiti che il contesto dell’organizzazione sanitaria impone alle sue richieste di servizi: non può essere un buon paziente chi si comporta secondo modelli di bulimia consumistica, a danno delle legittime esigenze di altri cittadini. Tutto questo è incluso oggi nell’empowerment che si richiede per essere un buon paziente, e questo è appunto
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il modello ideale di rapporto che le medical humanities vogliono promuovere.
6. Dalla cultura dei diritti all’empowerment del cittadino
Il rapporto tra chi eroga servizi per la salute e chi li riceve è cambiato con il tempo ed esige oggi altri modi di relazionarsi.
Storicamente questa istanza ha preso voce con i movimenti che, dalla metà degli anni ’70, hanno rivendicato la cura come un diritto del cittadino, piuttosto che come un atto di benevolenza del sanitario. La costituzione dei Tribunali dei diritti del malato è stato un momento politico rilevante di questa revisione del modello di rapporto.
La prima sessione del Tribunale tenutasi a Roma in Campidoglio il 29 giugno 1980 (con il titolo programmatico: “Da malato a cittadino: contro l’emarginazione, per la gestione popolare delle strutture sanitarie”) è culminata con la presentazione dei “33 diritti del cittadino”. Nel lungo elenco di diritti rivendicati un’attenzione relativamente modesta veniva riservata alla partecipazione attiva del paziente alle decisioni cliniche (solo l’art. 28 parla di un diritto ad avere inserita nella cartella clinica “una scheda dove siano illustrate in termini chiari e comprensibili, e con testo obbligatoriamente dattiloscritto, la diagnosi e la terapia in corso, nonché le previsioni circa la durata del ricovero e le eventuali possibilità di guarigione”).
Il confronto con altri movimenti che andavano prendendo consistenza in quegli stessi anni rivela una diffusa percezione che l’informazione fosse centrale per promuovere un diverso rapporto tra sanitari e cittadini malati. Per esempio, l’Associazione dei pazienti della Svizzera italiana presentava la propria attività non sotto l’immagine di un tribunale che tutela chi è costretto a subire maltrattamenti, ma come una struttura che può fornire consigli quando sorgono interrogativi, quali: “Ho diritto di vedere la mia cartella medica? A chi appartengono i risultati delle analisi e le radiografie? Quali informazioni devono esser date al paziente sul suo stato di salute e sulla cura che deve seguire? E ai suoi familiari? C’è libertà di scelta della terapia?”. In pratica, si tratta degli interrogativi diventati correnti negli anni più recenti, e che circoscrivono il passaggio che possiamo chiamare, sinteticamente, dall’etica medica alla bioetica.
Tuttavia, mentre la bioetica è andata sempre più concentrandosi su casi limite e scelte drammatiche, in cui possono confliggere sistemi e riferimenti morali, recedeva sullo sfondo il bisogno di un cambiamento sistemico dei rapporti, che può e deve dar forma anche alle relazioni routinarie. È questo, invece, l’interesse principale delle medical humanities. Con una sola parola, possiamo designare l’intero processo come empowerment del cittadino: la parola inglese contiene la nozione di “potere” (power), e l’aspetto più visibile è proprio quello di uno spostamento di potere tra le persone coinvolte in una relazione sanitaria.
Il potere al quale ci si riferisce non è quello di natura politica o, nei rapporti interpersonali, ciò che autorizza qualcuno a dare ordini, aspettandosi che altri obbediscano; si tratta piuttosto di quel potere che entra inevitabilmente in gioco quando qualcuno si prende cura di persone a lui affidate. Tutte le relazioni di cura e assistenza prevedono un potere, utilizzato in modo benefico a vantaggio di un altro: è quanto avviene nel rapporto tra genitori e figli, insegnanti e allievi, medici e infermieri e malati, appunto. Questo tipo di transazioni ― che rientrano nella categoria delle relazioni complementari ― si basa sulla differenza tra le posizioni coinvolte. Relazioni di questo genere funzionano bene quando ognuno si attiene al suo ruolo e non pretende di fare la parte dell’altro: dal punto di vista grafico, il modello che le rappresenta prevede due posizioni: una sovrastante (one up) e una sottostante (one down).
Diverse sono invece le “relazioni simmetriche”, nelle quali i protagonisti hanno uguale potere e non si comportano secondo ruoli fissi. Ce li possiamo immaginare l’uno di fronte all’altro, faccia a faccia, senza poter dire chi comanda e chi obbedisce. Ora, il senso del processo di empowerment del paziente non è quello di mettere quest’ultimo in posizione one up e il medico in
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posizione one down, invertendo i rapporti di potere che siamo soliti associare con l’esercizio della medicina (dove il medico è considerato tanto più bravo quanto più esercita un’autorità indiscutibile e induce il paziente a essere “osservante” o compliant).
L'empowerment del cittadino è piuttosto un cambiamento di rapporti complesso, che ha luogo su diversi piani. Comprende una dimensione culturale (che renda le persone capaci di aumentare il controllo sulla loro salute e di migliorarla, nonché di assumere un atteggiamento psicologico “adulto” nei confronti dei professionisti sanitari); una dimensione clinica (con la raccolta sistematica delle informazioni sui trattamenti proposti e l’accesso consapevole alle
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prestazioni sanitarie, grazie alla conoscenza di benefici attesi, effetti collaterali, rischi, complicazioni); una dimensione etica (con l’autonomia come principio etico che controbilancia il principio di “bene del paziente” stabilito unilateralmente dal medico). L'empowerment del cittadino è l’atto finale della rivisitazione del rapporto medico-paziente che la situazione attuale della complessità ci costringe a intraprendere. Si tratta, in pratica, di ripensare la pratica della medicina entro i concetti che costituiscono la modernità. Implica una articolazione inedita della humanitas, estranea alla cultura pre-moderna ma essenziale per il cittadino che vuole essere coinvolto nelle decisioni sul proprio corpo e, più in generale, sulla sua salute.
NOTE
1 T. Terzani, Un altro giro di giostra, Longanesi, Milano 2004.
2 T. De Quincey, Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, Adelphi, Milano 1983.
3 Vedi parte IV, sez. 3, cap. 2.