La qualità nei servizi sociali e sanitari: tra management ed etica

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Parte di Sistemi sanitari series:

Sandro Spinsanti

La qualità nei servizi sociali e sanitari: tra management ed etica

in Servizi Sociali

anno XXII, n. 3/1995, pp. 7-17

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LA QUALITÀ NEI SERVIZI SOCIALI E SANITARI:

TRA MANAGEMENT ED ETICA

Il richiamo alla qualità nell'insieme dei servizi rivolti alla persona, in particolare nella cura delle malattie e nella promozione della salute, ha diverse connotazioni. Il contenitore più ampio ― ma anche meno differenziato ― è quello costituito dal movimento per l'«umanizzazione» della medicina. Il suo humus è costituito dalla diffusa sensazione che nella pratica della medicina sia andato perduto qualcosa di essenziale, che è necessario e urgente reintrodurre, se non si vuol snaturare ciò che tradizionalmente costituisce l'arte della guarigione (Voltaggio F., 1992).

L'accusa di disumanizzazione non colpisce solo il ventaglio di comportamenti ― da quelli esplicitamente criminali a quelli semplicemente arroganti o insensibili al vissuto di una persona ammalata ― che possono essere allineati sotto la rubrica «malasanità». La richiesta di umanizzazione non nasce là dove la sanità è allo sfascio, ma dove dà le migliori prove di efficacia ed efficienza. A suscitarla non è tanto la collera ― giustificatissima ― di pazienti maltrattati in ospedali-lager o malversati da medici incompetenti o truffaldini, ma il deterioramento dei rapporti che dilaga a ridosso di prestazioni mediche ideali, quali le generazioni precedenti non avrebbero immaginato neppure nei loro sogni più audaci. Fino a un passato non molto lontano, il dottore si limitava a tenere la mano al bambino che moriva di difterite: non poteva far niente per salvargli la vita. Il medico era impotente ma tutti erano contenti di lui. Oggi al bambino gravemente ammalato vengono somministrati antibiotici potenti ed efficacissimi, tanto che dopo qualche giorno è di nuovo a giocare con gli altri bambini in cortile. Eppure si è scontenti del dottore. Il contrasto tra le due situazioni, che sono paradigmatiche nonostante la loro schematicità, fotografa il degrado del rapporto tra medico e paziente, a cui il movimento della umanizzazione in medicina vuol porre rimedio.

Un secondo ambito nel quale è emerso il discorso della qualità nei servizi di cura della salute è quello della cultura moderna dei diritti. Si è potuto distinguere un susseguirsi storico di diverse concezioni dei diritti applicati alla salute, quasi una sequenza ordinata di «generazioni di diritti» (Gracia D., 1993).

I diritti umani di prima generazione comprendono il diritto alla vita, alla salute e alla libertà di coscienza. Sono stati teorizzati dalle concezioni illuministiche dei diritti dell'uomo e introdotti nei costumi dai regimi liberali. Verso la metà del

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XIX secolo si è delineata una nuova generazione di diritti, centrati sull'idea di uguaglianza e di giustizia, così come i precedenti lo erano sull'idea di libertà. Sorge così la coscienza del diritto di ogni essere umano all'educazione, all'abitazione, al lavoro, al sussidio di disoccupazione, alla pensione, all'assistenza sanitaria. La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, promulgata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, nell'art. 25 definisce in questi termini il diritto all'assistenza sanitaria:

«Ogni persona ha diritto a un livello di vita adeguato che gli assicuri, così come alla sua famiglia, la salute e il benessere, e in particolare il cibo, il vestito, l'abitazione, l'assistenza medica e i servizi sociali necessari: ha anche diritto agli aiuti in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o altri casi di perdita dei mezzi di sussistenza, per circostanze indipendenti dalla sua volontà».

In Italia l'introduzione del Servizio sanitario nazionale (legge 833/1978) intese rendere effettiva l'idea portante del welfare state: separare la cura della salute dal benessere economico di chi ha bisogno delle cure, rendendole disponibili a tutti (Calamo Specchia F., 1994).

La terza generazione dei diritti riferiti alla salute è quella che registra la possibilità per l'individuo di orientarsi nelle scelte che hanno a che fare con le cure sanitarie in modo sintonico con i propri valori, preferenze e concezioni di vita. La qualità in questo contesto equivale alla capacità dì rivendicare un diritto già previsto dalla Dichiarazione americana del 1776, quale uno dei diritti inalienabili che tutti hanno fin dalla nascita: il diritto a perseguire la felicità (the pursuit of happiness). La vita non è solo un bene sacro, non disponibile né per l'individuo, né per lo Stato: la vita ha anche una qualità che l'individuo con le sue scelte può promuovere o pregiudicare.

Un'articolazione, infine, della nuova cultura dei diritti è quella che vuol rendere operativi i diritti della persona nella concreta erogazione del servizio pubblico. La «Carta dei servizi pubblici» ― direttiva del 27 gennaio 1994, promulgata dal ministro Cassese ― stabilisce sia i principi fondamentali che devono essere rispettati da tutti i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, sia gli strumenti concreti per promuovere la qualità del servizio (adozioni di standard, informazioni degli utenti, trasparenza nei rapporti e riconoscibilità degli operatori, valutazione della qualità dei servizi).

Un terzo ambito da cui la considerazione della qualità irrompe nello scenario della sanità è la ricerca metodica della qualità dell'assistenza erogata da parte dei professionisti stessi. La valutazione dell'assistenza sanitaria non può limitarsi a misurare la quantità delle risorse utilizzate: deve anche verificare se queste risorse

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sono state utilizzate in modo corretto da un punto di vista tecnico-scientifico e di interazione umana. L'obiettivo della valutazione della qualità dell'assistenza è stato così definito dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms): «la valutazione della qualità dell'assistenza tende a far sì che ogni paziente riceva l'insieme di atti diagnostici e terapeutici che portano ai migliori esiti in termini di salute, tenendo conto dello stato attuale delle conoscenze scientifiche, con il minor costo possibile e i minori rischi iatrogeni, ottenendo la sua soddisfazione rispetto agli interventi ricevuti, agli esiti ottenuti e alle interazioni umane avute all'interno del sistema sanitario».

L'Oms ha promosso, con l'autorevolezza che compete a questa istituzione internazionale, la valutazione della qualità nell'assistenza. Nel 1984 il Comitato regionale per l'Europa delTOms ha approvato 38 obiettivi nell'ambito del progetto «Salute per tutti nell'anno 2000». Due obiettivi in particolare, il 31 e il 38, hanno definito l'impegno per gli stati membri ad attivare sistemi di monitoraggio della qualità delle prestazioni sanitarie e a rendere la valutazione parte integrante del lavoro degli operatori sanitari.

Obiettivo 31: Assicurare la qualità delle prestazioni. «Entro il 1990 tutti gli stati membri dovranno aver istituito efficaci meccanismi di controllo della qualità delle cure fornite ai pazienti nel quadro dei vigenti sistemi di assistenza sanitaria. Per raggiungere questo risultato occorrono metodi e procedure di sorveglianza continua e sistematica delle cure prestate ai pazienti e attività permanenti di controllo e valutazione da parte dei professionisti della sanità, mentre tutto il personale sanitario dovrà essere addestrato a garantire la qualità delle prestazioni».

Obiettivo 38: Buon uso delle tecnologie sanitarie. «Entro il 1990, tutti gli stati membri dovranno aver istituito un meccanismo ufficiale per la valutazione sistematica del corretto impiego delle tecnologie sanitarie e della loro efficacia, efficienza, sicurezza, accettabilità e per stabilire in quale misura esse siano conformi alle politiche nazionali adottate e compatibili con le difficoltà economiche del paese. Tutto ciò sarà possibile se i governi adotteranno una chiara politica di valutazione sistematica e totale di tutti i nuovi dispositivi tecnici destinati al settore sanitario, e se tale politica sarà adatta alle caratteristiche di ciascun paese; sarà inoltre necessaria la creazione di un sistema internazionale di scambio delle informazioni relative a tali tecnologie».

La qualità dell'assistenza, intesa come capacità di migliorare lo stato di salute di una popolazione nei limiti concessi dalle tecnologie, dalle risorse disponibili e dalle caratteristiche dell'utenza, nel frattempo ha messo radici anche in Italia. Si è costituita una società italiana di Verifica e revisione della qualità (Vrq)

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che pubblica un suo periodico «QA» e promuove le diverse metodologie validate a livello internazionale: l'autovalutazione, l'audit (valutazione retrospettiva delle prestazioni attraverso la revisione della documentazione), la verifica e revisione della qualità o QA (quality assurance, definito da uno dei maggiori esperti del settore come «il rapporto tra i miglioramenti ottenuti nelle condizioni di salute e i miglioramenti massimi raggiungibili sulla base dello stato attuale delle conoscenze, delle tecnologie disponibili e delle condizioni dei pazienti», Donabedian A., 1989), il Cqi (continuous quality improvement) che applica al sistema sanitario l'approccio della Total Quality adottato nell'industria (Galgano A., 1990).

La Vrq si presenta come un mezzo di concreta valutazione della qualità delle prestazioni per migliorarle nell'interesse dei medici e dei cittadini, lontana da ogni aspetto fiscale, disciplinare o comunque sanzionatorio dell'attività dei medici. Una certa ambiguità è tuttavia sopravvenuta in Italia per il fatto che la Vrq è stata recepita nella normativa precedente gli accordi di lavoro del 1990 per il personale del comparto del Servizio sanitario nazionale. Il Dpr 384 del 28 novembre 1990 ha istituito Commissioni per la verifica e la revisione della qualità dei servizi e delle prestazioni sanitarie a livello di Regioni e di Usl, affidando loro compiti precisi. Le Commissioni regionali hanno lo scopo sia di proporre progetti di Vrq alle singole Usl, sia di validare i progetti provenienti da queste.

Nel 1991, infine, è stato istituito presso il Ministero della sanità un «Comitato nazionale per la valutazione nella qualità tecnico-scientifica e umana dei servizi e degli interventi sanitari», con il compito di coordinare le attività di Vrq previste dal contratto di lavoro vigente.

Un quarto ambito, infine, è quello della promozione della qualità connessa con il riordino del Servizio sanitario nazionale. Dacché ha cominciato a evidenziarsi il bisogno di modificare il Ssn nato nel 1978, si è andato delineando un consenso sulla centralità che spetta in ogni processo di riordino alla promozione della qualità delle attività sanitarie, attraverso la costante attenzione degli operatori agli effetti delle cure prestate e alla modalità di erogazione delle stesse, nonché alla soddisfazione dell'utente. La sfida della qualità rappresenta la nuova frontiera del Ssn e la qualità può essere una risposta (Colozzi I., 1994).

Nelle Usl trasformate in aziende (Dlgs 502/1992 1 e successivamente Dlgs 517/1993 2) il controllo di qualità ha un ruolo strategico. Esso è esplicitamente previsto dall'art. 10:

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«Allo scopo di garantire la qualità dell'assistenza nei confronti della generalità dei cittadini, è adottato in via ordinaria il metodo della verifica e revisione della qualità delle prestazioni, nonché del loro costo, al cui sviluppo devono risultare funzionali i modelli organizzativi e i flussi informativi dei soggetti erogatori e gli istituti normativi regolanti il rapporto di lavoro del personale dipendente, nonché i rapporti tra soggetti erogatori, pubblici e privati, e il Ssn».

L'art. 14, finalizzato a favorire la partecipazione dei cittadini e la tutela dei loro diritti, afferma:

«Al fine di garantire il costante adeguamento delle strutture e delle prestazioni sanitarie alle esigenze dei cittadini utenti del Ssn definisce con proprio decreto (...) i contenuti e le modalità di utilizzo degli indicatori di qualità dei servizi e delle prestazioni sanitarie relativamente alla personalizzazione e umanizzazione dell'assistenza, al diritto all'informazione, alle prestazioni alberghiere, nonché dell'andamento delle attività di prevenzione delle malattie.

Le regioni utilizzano il suddetto sistema di indicatori per la verifica, anche sotto il profilo sociologico, dello stato di attuazione dei diritti dei cittadini, per la programmazione regionale, per la definizione degli investimenti di risorse umane, tecniche e finanziarie. Le regioni promuovono inoltre consultazioni con i cittadini e le loro organizzazioni anche sindacali e in particolare con gli organismi di volontariato e di tutela dei diritti, al fine di raccogliere informazioni sull'organizzazione dei servizi».

Qualità e soddisfazione

Man mano che l'esigenza di qualità nei servizi sociali e sanitari andava prendendo concretezza, col procedere della nostra rassegna dedicata alle principali articolazioni del dibattito sulla qualità in sanità, è diventato più evidente che il centro di gravitazione si sposta dal professionista che fornisce il servizio al cittadino/utente che ne usufruisce. In regime di paternalismo ― anche quello più illuminato ― il criterio di valutazione di ciò che viene offerto al malato o bisognoso è fornito dal professionista stesso.

Il medico ha per secoli rivendicato il diritto-dovere di prendere le sue decisioni «in scienza e coscienza», come se il suo sapere e la sua morale totalizzassero tutte le forme di tutela che si possono offrire al paziente/utente. Chi ricorre a un professionista di servizi sanitari o sociali è un cliente molto particolare, perché i suoi bisogni non sono definiti da lui stesso, ma dal professionista che è accreditato ad inserire la domanda entro la griglia offerta dal suo sapere. La

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«soddisfazione del cliente» non è tenuta in alcuna considerazione. «Quando le prestazioni non sono adeguate, in una realtà di mercato libero i clienti cambiano fornitore, in una situazione di servizio pubblico, come quello sanitario, non rimane che la protesta» (Colozzi I., 1994).

Gli scenari legati al riordino del Ssn ci dicono che questa situazione sta cambiando. Un paziente/cliente insoddisfatto è già adesso una minaccia per la sanità privata. Presto, con l'introduzione di una concorrenzialità tra pubblico e privato ― e anche tra pubblico e pubblico, per la creazione di una specie di mercato interno all'azienda sanitaria ― l'insoddisfazione del cliente costituirà una minaccia di destabilizzazione anche per il servizio pubblico. Questo non potrà permettersi di ignorare sistematicamente la soddisfazione del paziente/cliente, legata alla percezione della qualità dei servizi ricevuti. Il pubblico dovrà perseguire la soddisfazione del cliente non meno di quanto sia già oggi costretto a fare il privato.

Ma proprio questa prospettiva suscita interrogativi scomodi. Perché avere un paziente soddisfatto non è tutto: bisogna vedere di che cosa e perché è soddisfatto. Ci potrebbe essere un pericolo ben più grande del paziente giustamente insoddisfatto: quello di un paziente ingiustamente soddisfatto. È meglio lasciare l'evocazione di questo scenario alla letteratura, piuttosto che ad analisi sociologiche o psicologiche. L'arte, più di qualsiasi scienza dell'uomo, può cogliere quel grano di follia che stravolge i comportamenti umani, anche i più nobili e generosi. L'utopia negativa di masse di pazienti soddisfatti, ma inconsapevoli di essere stati defraudati della sostanza stessa della salute, ci è offerta dalle pièce di Jules Romains, Knock o il trionfo della medicina. Andata in scena per la prima volta nel 1923, la commedia non cessa di inquietarci, a tanti anni di distanza, come una anticipazione lungimirante di quella «medicalizzazione della vita» denunciata da Ivan lllich e da altri autorevoli critici della medicina contemporanea.

Il personaggio principale è il dottor Knock, che ha assunto come motto una frase attribuita a Claude Bernard: «I sani sono malati che si ignorano». Rileva una condotta dalle mani di un vecchio medico che si ritira e, nel giro di pochi mesi, converte al suo vangelo tutti gli abitanti di Saint-Maurice. Tutta la vita del paese si è trasformata, potendosi ora suddividere in due tappe o ere ben definite: prima e dopo il dottor Knock. Egli ha ispirato agli abitanti la paura delle malattie e della morte, e tutti si curano. La locanda è trasformata in clinica e tutti i posti sono occupati: anzi, si stanno prevedendo ampliamenti.

Quando il vecchio dottor Parpalaid torna alla sua condotta, dopo tre mesi, non riconosce più il paesaggio umano creato dall'intraprendente dottor Knock. In una scena-clou, questi lo invita a gettare uno sguardo dalla finestra su Saint-Maurice medicalizzato: «Guardate un po' qui, dottor Parpalaid. Era un paesaggio rude, appena umano, quello che contemplavate. Oggi ve lo offro tutto impregnato

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di medicina. In duecentocinquanta di quelle case ci sono duecentocinquanta letti in cui un corpo disteso testimonia che la vita ha un senso, e grazie a me ha senso medico».

Ma ancora più inquietante della soddisfazione del medico è la soddisfazione degli abitanti di Saint-Maurice. La domestica della locanda-sanatorio non riconosce il dottor Parpalaid, che pur ha lasciato il paese solo da pochi mesi. Quando si presenta come medico, la donna risponde asciutta: «Non sapevo che ci fosse stato qui un medico prima del dottor Knock».

Tra la padrona della locanda e il vecchio medico ha luogo il seguente dialogo. Il dottore: «Bisogna credere che ai miei tempi la gente stesse meglio». Madame Rémy: «Non dite questo, signor Parpalaid. La gente non aveva idea di curarsi: è tutta un'altra cosa. C'é chi immagina che nelle campagne siamo ancora dei selvaggi, che non abbiamo alcuna cura della nostra persona, che aspettiamo che la nostra ora sia venuta per crepare come gli animali, che i rimedi, le diete, gli apparecchi e tutti i progressi siano per le grandi città. Errore, signor Parpalaid. Noi ci apprezziamo come chiunque altro».

La riconoscenza degli abitanti del paese verso il dottor Knock, la loro piena soddisfazione per avere un medico «capace» ci lasciano un retrogusto amaro. L'ombra lunga del dottor Knock, con la sua straordinaria capacità di organizzare una medicina pienamente soddisfacente, si stende su tutto il secolo che ha visto, come nessun altro in precedenza, la piena medicalizzazione della vita. La qualità della soddisfazione che mostrano pazienti di questo genere ci fa francamente dubitare che questa possa essere assunta come criterio esclusivo per valutare l'atto medico.

La soddisfazione del paziente ci rimanda così, inevitabilmente, alle questioni di fondo della medicina: il suo scopo e i suoi limiti, gli effetti positivi e quelli negativi che un'efficiente organizzazione dei servizi sanitari ha sulla cura della salute, i problemi antropologici e quelli etici.

Qualità, soddisfazione ed etica

La preoccupazione per la soddisfazione del paziente/cliente porta nella sanità un punto di vista che è fondamentalmente estraneo alla tradizione dei criteri di qualità dell'atto medico, così come è stata concettualizzata dall'etica medica. Se i professionisti della sanità stentano a farlo proprio, non si tratta solo della comprensibile resistenza di chi è indotto a muoversi al di fuori di un paradigma comportamentale familiare. Adducono anche delle buone ragioni, riconducibili alla preoccupazione di tutelare il paziente da ciò che potrebbe essergli nocivo e di promuovere il suo bene nel modo che la scienza medica e le conoscenze professionali di coloro che si dedicano all'assistenza ritengono appropriato.

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«Ho il dovere morale ― protesta il medico ― di proporre al paziente la procedura terapeutica che risponde più efficacemente al suo problema di salute, non quella che riscuote di più la sua soddisfazione. Il bene del paziente è, secondo l'etica che ispira da sempre la medicina, l'imperativo che domina su tutti gli altri. L'amministratore dell'ospedale, per esempio, è più soddisfatto se prescrivo un farmaco meno costoso. Ma se io so che quello più costoso è più benefico per il paziente, mi avvarrò della libertà di prescrizione terapeutica, indipendentemente dalla soddisfazione di terze parti». Un professionista di nursing geriatrico, a sua volta, può obiettare: «lo so che il mio paziente è più contento se gli risparmio il bagno; ma non farei un nursing corretto se non inducessi l'anziano a fare il bagno almeno due volte la settimana. Il mio anziano, inoltre, non prova lo stimolo della sete e non vuole bere: ma posso responsabilmente fargli correre il rischio della disidratazione, per avere un cliente soddisfatto?».

Se dall'anedottica passiamo a livello teorico, ci rendiamo conto che la preoccupazione per il beneficio da procurare al paziente è il pilone portante dell'etica medica tradizionale. Il professionista sanitario ispira i suoi interventi in modo esclusivo al «bene del paziente» (Pellegrino E., Thomasma D., 1992): questo è il senso e la finalità intrinseca dell'atto medico. Nel giuramento di Ippocrate ― il documento più antico a cui si ispira il tradizionale «ethos» medico ― i confini etici dell'atto medico sono concisamente descritti dalla cosiddetta clausola terapeutica: «Prescriverò agli infermi la dieta opportuna che loro convenga per quanto mi sarà permesso dalle mie cognizioni e li difenderò da ogni cosa ingiusta e dannosa».

Per cogliere il significato che questa concezione può rivestire anche per gli uomini del nostro tempo, possiamo riferirci alla versione modernizzata che è stata redatta in occasione del «Processo a Ippocrate» organizzato nell'ambito Milano-medicina del 1988. Un comitato di esperti ha così riformato la clausola terapeutica:

«Eserciterò la mia arte secondo un sapere che mi impegno ad accrescere costantemente, e prescriverò farmaci secondo un giudizio che manterrò puro e retto, e che mi guiderà nello scegliere quei rimedi che sicuramente si siano dimostrati giovevoli. Non farò della mia arte ingiusto lucro, né anteporrò alcun interesse a quello del malato, nemmeno se richiesto dal potere di chi amministra e governa la cosa pubblica».

Dal confronto con l'originale ippocratico emerge la sostanziale continuità nell'orientamento al bene del paziente come giustificazione dell'atto medico. Gli elementi costitutivi del rapporto che lega il professionista sanitario al paziente/cliente sono: l'asimmetria dei rapporti (tra di loro non si stabilisce un contratto bilaterale tra uguali, ma piuttosto un'alleanza terapeutica, con forti connotazioni

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religiose); subalternità del malato (in merito all'atto terapeutico il malato non ha propriamente niente da dire; è chiamato a strutturare l'atto medico solo fornendo i sintomi, di cui il sanitario interpreterà il messaggio: non è il malato che parla, ma i sintomi che si prestano alla lettura); ruolo pilota della scienza (il medico è impegnato ad accrescere sempre di più il proprio sapere); controllo fornito dalla coscienza e dal senso di responsabilità del medico (di qui la formuletta compendiosa «in scienza e coscienza», solitamente utilizzata per tagliar corto nei lunghi discorsi sulle dimensioni etiche della pratica della medicina).

Questa concezione così lineare dell'atto terapeutico, che è giunta fino a noi attraverso i secoli sostanzialmente immutata, sta attraversando un processo di trasformazione di grandi conseguenze. La medicina moderna è stata costretta a diventare sensibile ai valori del paziente. Questi non accetta più la posizione di «minorenne non emancipato» che il modello paternalistico di esercizio dell'arte sanitaria gli riservava. La pratica del consenso informato deriva dall'accettazione del principio dell'autonomia dell'individuo, in quanto soggetto capace di determinare i propri fini. Non è buono l'intervento sanitario o sociale che non consideri l'adulto come adulto, con il suo diritto/dovere di partecipare all'atto medico ed eventualmente di circoscriverlo entro i limiti stabiliti nell'esercizio dell'autonomia personale.

Ciò è tanto più vero, forte e dirompente nello stato attuale del progresso medico. Oggi la medicina dispone di un arsenale terapeutico molto vario e aperto su diversi esiti. È proprio là dove esiste una pluralità di scelte che i valori del paziente diventano rilevanti. Ciò che il paziente intende come salute, benessere, vita buona ― di conseguenza, i suoi obiettivi etici ― deve entrare strutturalmente nell'atto medico. La soddisfazione del paziente diventa un elemento intrinseco della qualità etica di un intervento sanitario, quando si riferisce al rispetto dei valori che costituiscono l'universo morale entro cui egli costruisce la sua vita (ovvero, la sua «ricerca della felicità»).

Legare la qualità etica dell'atto medico ai valori del paziente non rischia di scardinare i criteri tradizionali? Se il professionista sanitario subordina la sua azione alla soddisfazione del paziente, non potrebbe diventare a sua volta subalterno a questi, senza alcuna possibilità di distinguere tra bisogni, desideri e magari anche capricci? Il pericolo paventato è quello che le professioni della salute decadano a livello di agenzie di servizi (per le quali il cliente ha sempre ragione...: un atteggiamento che possono adottare perché ciò che è in gioco si situa infinitamente al di sotto di beni quali la salute o la vita stessa).

Di fronte a questi interrogativi e timori costituisce un punto di riferimento rassicurante la strumentazione concettuale che fornisce la riflessione bioetica contemporanea. Questa ci aiuta a distinguere due livelli: del «minimo morale» e del «massimo morale» (Grada D., 1994). I minima moralia delineano quel livello

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al di sotto del quale non si può scendere, se non vogliamo che la società smarrisca i suoi tratti minimi essenziali di umanità. Il minimo morale non è legato al consenso né alla soddisfazione. Anche se, per ipotesi, la maggioranza si accordasse su certi comportamenti o politiche che offendono i principi che tutelano il minimo morale, non potrebbe addurre il consenso come prova di legittimità. Questo vale, per esempio, per comportamenti ritenuti giusti in alcune epoche (come l'approvazione della schiavitù) o da certi regimi (l'eutanasia praticata dai medici sotto il nazismo). La maggioranza degli attori sociali ― per esemplificare ancora ― potrebbe ritenere economicamente vantaggioso e umanamente più conforme alla dignità non tenere in vita le persone in coma vegetativo permanente; ma queste scelte cadrebbero sotto il minimo morale (purché si sia stabilito in modo incontrovertibile che abbiamo ancora a che fare con persone umane), qualunque sia la soddisfazione di coloro che le prendono.

I principi a guardia del minimo morale sono quelli di giustizia e di non-maleficità. Il primo richiede che tutti siano trattati con uguale considerazione e rispetto, senza privilegiare qualcuno a danno di altri. Il secondo ― che è un principio basilare nell'etica medica; è stato per lo più formulato come «primum non nocere» ― impedisce di procurare danni anche se, paradossalmente, la persona fosse consenziente o addirittura lo richiedesse.

Al secondo livello troviamo i massimi morali, ovvero quei modi di organizzare la vita morale che dipendono dai valori soggettivi e trovano espressione nelle varie comunità morali di appartenenza (è quello che, per esempio, fa un testimone di Geova diverso da un musulmano, un cittadino educato in senso individualista e liberista da un altro che mette al primo posto i valori familiari e le reti di appartenenza). I principi di autonomia (o autodeterminazione) del paziente e di beneficità (orientare il corso dell'azione verso il miglior vantaggio del paziente/cliente) regolano i conflitti in questo livello.

L'orientamento alla beneficità tutela la qualità professionale dell'azione sanitaria. Il professionista ha appreso, con le regole dell'arte, quali sono le risposte efficaci ai bisogni che gli vengono presentati. La formazione che ha ricevuto lo autorizza a ritenersi qualcuno che «knows best». Il pericolo è quello di ridefinire i bisogni del paziente/cliente, facendoli rientrare nei propri schemi, che possono anche non essere i più illuminati o adeguati (che il pericolo incomba anche nel campo degli interventi sociali ce lo ricorda il film di Ken Loach, LadybirdLadybird...).

Il rispetto dei valori soggettivi del paziente/cliente, che ha il diritto di costruirsi la sua «buona vita» secondo il modello di massimo morale a cui aderisce, oggi richiede che i professionisti dei servizi sociali e sanitari creino nuovi spazi per la contrattazione. Presupposto fondamentale è quell'ascolto del paziente che gli permetta di partecipare alle scelte sulla base non solo dei suoi bisogni somatici,

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ma anche delle sue aspettative, preferenze morali, orientamenti di vita. Non stupisce che il paziente che si senta ascoltato, in senso pieno, sia anche più soddisfatto. In questi casi, almeno nei servizi sanitari, qualità etica, capacità di gestione e soddisfazione del cliente tendono a coincidere.

Riferimenti bibliografici

Calamo Specchia F., Sanità pubblica: ritorno al futuro, «L'Arco di Giano», n. 5/1994.

Colozzi I., La qualità come risposta alla crisi del servizio sanitario nazionale: chi valuta, chi la controlla, come si misura, «L'Arco di Giano», n. 5/1994.

Donabedian A., L'abc della Quality assurance e del monitoraggio dell'assistenza sanitaria, «QA», n. 1-2/1989 e n. 3-4/1989.

Galgano A. (1990), La qualità totale, Il Sole 24 Ore Libri, Milano.

Gracia D. (1993), Fondamenti di bioetica, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo.

Gracia D., I diritti in sanità nella prospettiva della bioetica, «L'Arco di Giano», n. 4/1994.

Pellegrino E., Thomasma D. (1992), Per il bene del paziente, trad. it., Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo.

Voltaggio F. (1992), L'arte della guarigione nelle culture umane, Bollati Boringhieri, Torino.

1 Decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 ― Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421.

2 Decreto legislativo 7 dicembre 1993, n. 517 ― Modificazioni al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, recante riordino della disciplina sanitaria, a norma dell'art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421.