Il malato di tumore in Lombardia

Book Cover: Il malato di tumore in Lombardia
Parte di Sistemi sanitari series:

Sandro Spinsanti

INTERVENTO

in Il malato di tumore in Lombardia

Atti Congresso Ospedale Fatebenefratelli e Oftalmico di Milano

Milano, 1 giugno 1990

pp. 17-20

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Non so se quello che dirò sarà più profondo, certamente sarà diverso dal discorso che è stato tenuto sino ad ora.

Abbiamo parlato di pressione per ottenere, abbiamo parlato di un fare concreto. Quello che invece cercherò ora di proporvi è un pensare sul fare, un pensare forse prima di fare e in ogni caso un qualcosa che ha lo svantaggio di non essere così coinvolgente da un punto di vista concreto come le tematiche che finora sono state affrontate.

Vi voglio proporre un qualche cosa che non nasce da un osservatorio neutro, distante, ma da una specie di osservazione partecipata perché pur non facendo il medico ho il privilegio, e lo faccio per scelta, di riflettere insieme a coloro che sono in prima linea nel campo della medicina, nel campo delle cure palliative, nel campo di una ricerca di umanizzazione della medicina.

Le riflessioni che voglio proporvi riguardo la qualità dell’assistenza, da un mio punto di vista, giocano intorno a due modalità che prendo con un significato molto pregnante e spero sufficientemente chiaro: la "modalità del curare" e la "modalità del prendersi cura".

Due mondi, due concezioni del rapporto e anche concretamente due modalità di intervento.

Quando parliamo di curare, abbiamo in mente un obiettivo che è la guarigione, riportare la persona in salute, lottare contro il male che si è reso presente nell’organismo dell’individuo. Questo è il curare.

Per prendersi cura intendo una modalità di intervento che considera anche altri aspetti della persona malata: un essere che ha ima dimensione psichica, delle emozioni, una

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dimensione sociale, una dimensione spirituale che agisce anche sulla base di attese, di paure, di simboli, insomma ha un universo che non si lascia ridurre a quello fisico.

L’uomo come soggetto, che fa delle scelte, che vive o muore in un determinato modo piuttosto che in un altro, che vuol vivere più a lungo o vuol vivere meglio, ma in ogni caso è lui come soggetto che sceglie. V’è soprattutto, a mio avviso, una categoria che riesce a rendere plastica questa dimensione: la categoria famiglia. Proprio questa idea riesce a mobilitare la nostra fantasia quanto nessun’altra mai. Una persona che è malata è una persona inserita in un contesto ampio di relazioni, che chiamiamo simbolicamente famiglia, e quando una persona è malata si ammala anche la famiglia. Si ammalano il coniuge, si ammalano i figli, è la struttura che subisce l’impatto di questo fatto.

Ora queste due modalità, il "curare" e il "prendersi cura", possono essere relazionate l’una verso l’altra e in maniera diversa. Vorrei brevemente evocare tre possibili scenari.

In uno, curare non ha niente a che fare con il prendersi cura e sono due modalità di intervento indipendenti, sequenziale, in ogni caso che riguardano personaggi diversi e anche concezioni diverse.

Si può curare senza prendersi cura. Si può soprattutto se il curare è preso come una concezione eroica, battagliera. Ora in questa prospettiva eroica, guerriera, fattiva, il prendersi cura diventa quasi un di più, un superfluo, un qualche cosa che in ogni caso può essere lasciato ad altri.

Il curare è l’hard della medicina, il prendersi cura qualche cosa soft che può appunto essere lasciato ad altre professioni e di cui anche si può fare a meno. In fondo se il cancro viene guarito, tante modalità accessorie del guarire, ciò che si subisce in ospedale, tanti traumi, tante prove, vengono dimenticate ritrovata la salute. Ci accorgiamo però di quanto questa concezione dicotomica non vada quando il guarire non è più una prospettiva: quando il malato si incammina verso la fine della vita. In questa concezione il medico non ha più niente da fare, non può più far nulla per guarire, allora passa la mano ad altri che si prendano cura. E’ uno scenario anche troppo familiare.

Un altro scenario possibile è il seguente: curare è prendersi cura. Direi sinteticamente che questa è la rivendicazione della medicina umanistica: se non ci si prende cura, neppure si cura.

Questo aspetto, curare è prendersi cura, riporta dentro il curare stesso delle esigenze, delle formalità che, credo, nessuno può giudicare superflue o opzionali. Lo svantaggio

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È di questa concezione idealistica della medicina è di porre delle esigenze totalizzanti: allora si vuole dal curante che sia anche filantropo, cioè che metta non soltanto la testa e le mani, ma anche il cuore e la capacità empatica di capire il paziente; si esige da lui che non sia soltanto bravo in oncologia medica nel misurare i farmaci, ma sia bravo nell’ascoltare, nel comunicare, sappia scegliere il momento giusto, sappia trovare le parole giuste, sappia capire che cosa e come il paziente vuol sapere.

Il pericolo di questa concezione, quando appunto cerchiamo di farla diventare realtà operante, è di monopolizzare da parte del curante medico tutto l’aspetto del curare e di esautorare delle altre professioni che sono pensate per questo e che possono e devono essere mobilitate.

È vero, per dirla in termini più comprensivi, che noi vogliamo che il medico sia anche un po’ psicologo, una persona che sappia entrare in comunicazione. Però questo non deve far si che il medico, nella totalità dei suoi compiti, assommi in sé il curante, lo psicologo che si occupa delle relazioni e il prete che si occupa dello spirito. Questa è una concezione primitiva del curante in cui lo sciamano è tutto. Abbiamo bisogno di capire che il curare, che è anche un prendersi cura, è qualcosa che nessuno può fare tutto da sé.

Allora permettetemi ancora un’altra modalità nel correlare il curare ed il prendersi cura.

Non curare/prendersi cura come due attività differenti e quasi correlate per accidente o sequenzialmente e neppure il curare è prendersi cura, in questa idea totalizzante, globalizzante, ma curare e prendersi cura intese come due modalità diverse, che devono poter coesistere con priorità diverse.

L’immagine che riesco a trovare per esprimere questo concetto, sono le immagini di cambiamento "figura-sfondo" che la psicologia ci ha insegnato a riconoscere. Noi percepiamo tante cose ma c’è una figura che è oggetto di attenzione, le altre cose ci sono ma sono sullo sfondo, quasi non le vediamo. La figura per me in questo momento sono i vostri volti. C’è forse anche un segnale uscita di sicurezza, ma non mi interessa, forse non lo vedo. Ma se suona l’allarme i vostri volti diventano lo sfondo per me e l’uscita di sicurezza diventa la figura, e cerco di salvarmi.

Questa capacità di giocare con figura-sfondo è qualche cosa che noi dobbiamo riportare in medicina. Ci sono sicuramente delle situazioni in cui la figura è il curare e il prendersi cura è sullo sfondo. Se l’operazione chirurgica è l’operativo terapeutico forse è quella la cosa da fare prioritariamente. Ma bisogna anche saper passare dalla figura del curare a quella del prendersi cura. E questo però non soltanto quando c’è

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l’ipotesi di una malattia inguaribile, di uno stadio terminale o avanzatissimo. Probabilmente la paura e il bisogno di informazione che ha una donna prima di un’operazione al seno è qualche cosa da non considerare secondario: qui il "prendersi cura" è la figura.

Questa capacità di essere insieme a volte protagonisti, a volte figura di sfondo, di coinvolgere la persona che nell’ambito della sua professionalità corrisponda al bisogno che ora emerge, bene questo gioco di figura-sfondo, di curare-prendersi cura, io credo che sia un’esigenza primaria se vogliamo fare della buona medicina.