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MANAGEMENT PER LA NUOVA SANITÀ
a cura di Sandro Spinsanti
Istituto Giano per le Medical Humanities e il management in sanità
EdiSES, Napoli 1997
pp. 189-198
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IL “BUON” OSPEDALE:
MODELLI DI QUALITÀ IN PROSPETTIVA STORICA
“Abbiamo un sogno: trasformare gli ospedali italiani in ospedali”. Lo slogan a effetto, apparso come inserzione pubblicitaria su diversi giornali a cura del Tribunale dei diritti del malato, mirava a ottenere un consenso e un sostegno economico da parte dei cittadini per il programma politico della nota associazione. La giustificazione razionale della necessità di modificare la realtà degli ospedali italiani veniva data con poche pennellate a tinte fosche («Gli ospedali non saranno mai un luogo di villeggiatura, ma non possono neanche continuare ad essere, come spesso accade in Italia, un luogo da incubo»). L'efficacia del messaggio consisteva nell'abbinare all'evocazione di scenari disumani l'utopia alata del periodo d'oro del movimento per i diritti civili (niente meno che il “sogno” con cui Martin Luther King ha rivendicato la parità dei diritti per i neri, considerati cittadini di seconda classe!). Lo slogan giocava anche sull'implicita assunzione che esista un consenso generalizzato su ciò che è necessario fare per portare gli ospedali a essere quello che dovrebbero essere, e che non sono: come se il problema non fosse quello di stabilire che cosa costituisce un buon ospedale, il solo decidersi a realizzarlo. La realtà, invece, non è così lineare come lo slogan pretende.
La sicurezza di conoscere la natura dell'ospedale è illusoria. E vero che è agevole identificare l'ospedale. La denotazione è facile: chiunque può indicarlo con un dito, anche perché nella città moderna tende ad assumere l'evidenza architettonica che in quella medievale spettava alle cattedrali. In senso denotativo, l'ospedale di una città è quello di cui possiamo domandare l'indirizzo, che identifichiamo sulla piantina, che chiediamo al tassista di raggiungere. La connotazione, invece, è molto complessa. Nella linguistica la connotazione di una parola riguarda i significati, compresi quelli simbolici, e le emozioni connesse con l'uso della parola. Numerosi significati sono attribuiti all'ospedale come istituzione, sedimentandosi gli uni sugli altri. I più recenti non hanno sostituito
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quelli precedenti. In una stessa realtà convivono l'ospedale del passato e del presente, nonché quello che ― osiamo sperarlo ― sarà l'ospedale del futuro.
1. Un luogo ospitale per le persone fragili
Per dare alla nostra analisi il supporto di uno schema, possiamo immaginare che in ogni struttura ospedaliera siano contemporaneamente presenti almeno quattro ospedali, che si sono succeduti nello sviluppo storico dell'istituzione. All'inizio troviamo l'ospedale “hospitium”, il luogo ospitale pensato per la protezione dei più vulnerabili. L'ospedale, quale primitiva realizzazione storica dell'Occidente, è nato come una casa di accoglienza per tutti i disgraziati, quale spazio per l'uomo fragile. L'obiettivo di questa istituzione era di esercitare la “pietas” verso le persone diseredate.
L'idea basilare dell'“hospitium” come luogo dove si è bene accolti perché si è sofferenti, o perché si è andati a finire sotto le ruote del carro della vita, è stata rinnegata dalla rivoluzione francese. Non solo perché era abbinata all'idea della carità cristiana, ma anche per motivi non ideologici: semplicemente per il fatto che le istituzioni ospedaliere in pratica spesso si allontanavano in modo stridente dall'ideale. L'ospedale premoderno era un luogo indifferenziato in cui si trovava il bambino abbandonato accanto al vecchio, lo storpio accanto al demente, la partoriente accanto al morente. Non solo la realtà dell'ospedale non rispondeva alle più elementari condizioni igieniche, ma spesso era in contrasto con il rispetto dovuto alle persone. La critica della rivoluzione francese a quel modello d'ospedale fu così radicale che il Direttorio cambiò perfino il nome: invece di “hôpital” propose di chiamarlo “hospice”.
Nel corso del secolo XIX è avvenuta, in realtà, un'evoluzione che ha portato a differenziare due tipi di istituzioni: l'“hospice” è diventato il luogo deputato a raccogliere i derelitti ― vecchi, trovatelli, malati inguaribili e affetti da malattie contagiose ― mentre l'“hôpital” ha assunto la funzione di luogo dove si dispensano le cure finalizzate alla guarigione. La stessa evoluzione semantica è avvenuta anche in Italia. L'ospedale è stato sempre più identificato come il luogo della guarigione, mentre l'ospizio era il luogo della cronicità (anche se una venatura di diffidenza nei confronti dell'ospedale è rimasta nella cultura popolare; la risentiamo in un sonetto del Belli: “Ma nun sai ch'a lo spedale ce se more?”, risponde un popolano a chi, vedendo che era malato, gli consigliava di andare in ospedale. Si è a lungo conservata l'idea che andare all'ospedale significava esser avviato su un binario morto).
È molto interessante che alla fine del nostro secolo ricompaia, in
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modo del tutto inatteso, il bisogno di “ospizio”, inteso come luogo di accoglienza per quelli che non possono essere guariti. Mi riferisco al “movimento degli hospice”, nato nei paesi anglosassoni una ventina d'anni fa. Noi abbiamo una difficoltà quasi insormontabile ad adottare questo termine, in quanto connota l'“ospizio” nel suo significato più deteriore di emarginazione e discriminazione (Cunietti, 1997). Nel significato che ha assunto all'interno del movimento delle cure palliative, l'“hospice” è piuttosto il luogo in cui sono assistiti e curati i malati non possono più essere avviati alla guarigione. In particolare, ai malati in fase terminale viene offerto un ambiente dove è possibile esercitare la solidarietà e l'accoglienza, dove la palliazione e la cura dell'intero nucleo familiare hanno la precedenza sugli sforzi terapeutici. L'hospice è un luogo dove si cerca di rendere operativo il programma racchiuso nello slogan elaborato proprio dall'Associazione italiana per le cure palliative: “Curare anche quando non si può guarire”.
Anche le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) per anziani sono una variante moderna del concetto originario di “hospitium”. Dobbiamo reinventarci oggi il luogo dell'accoglienza per i più fragili, proprio quando ci accorgiamo che l'ospedale non è fatto per i lungodegenti. Siamo assediati da una marea crescente di persone anziane che l'allungamento della vita ― felice, ma anche tremendo risultato della medicina moderna ― rende inadatte a vivere nella propria casa mentre l'ospedale si rivela a sua volta inappropriato, per motivi economici e umani, a ospitare un declino che diventa sempre più lungo. Questi anziani e malati cronici, bisognosi di assistenza ma per i quali il ricovero ospedaliero non è appropriato, “impongono” una sfida: dobbiamo trovare varianti moderne dell'ospedale nella sua accezione originaria, quale luogo accogliente per l'uomo fragile, un luogo dove sia di casa la “pietas”.
Parallelamente, le esigenze degli utenti abituali degli ospedali nei confronti del comfort alberghiero sono notevolmente accresciute (Guzzanti, Mastrilli, 1993; Bernabei, 1993; e, in generale, tutto il dossier de L'Arco di Giano n. 3, 1993, dedicato a “La casa per l'uomo fragile”). Il senso comune riconosce facilmente che «gli ospedali non saranno mai un luogo di villeggiatura», come dice lo slogan proposto dal Tribunale per i diritti del malato; tuttavia non ci rassegniamo facilmente a uno standard che si discosti troppo dal livello di vita a cui siamo abituati nelle nostre abitazioni: qualità del cibo e pulizia degli ambienti, accessibilità dei familiari e riservatezza ― camere singole o a due letti al posto delle corsie affollate dei vecchi reparti ― fanno parte ormai della qualità minima che il cittadino si attende dall'ospedale.
Tutte le richieste di qualità che oggi vengono abitualmente avanzate in nome dell'“umanizzazione” dell'ospedale (Marchesi, Spinsanti, Spinelli, 1985) non sono altro che una attualizzazione dell'antico modello dell'ospedale come luogo accogliente per l'uomo fragile. Sempre di
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più, inoltre, chi va in ospedale si aspetta di essere trattato bene non in forza di un atteggiamento compassionevole, ma in nome dei diritti propri di un cittadino in una società democratica. Significativa, a questo proposito, è la richiesta di informazioni, quale logico presupposto di un consenso ai trattamenti diagnostici e terapeutici che si ricevono. La capacità di un ospedale di fornire informazioni ― non in modo episodico od occasionale, ma sistematico ― è sempre più percepita come una condizione di qualità.
2. L'ospedale come cittadella della scienza
Passiamo ora a considerare un secondo modello di ospedale: il luogo di cura come cittadella della scienza medica. Questo passaggio è avvenuto nel corso del XIX secolo. L'opera di Michel Foucault ― La nascita della clinica, 1969 ― l'ha chiarito in modo ineccepibile. Per la prima volta nella sua lunga storia la medicina ha acquisito la capacità di modificare il corso naturale della malattia. L'ospedale diventa così il luogo dove la medicina come scienza dispensa cure efficaci, miranti alla guarigione.
Il modello dell'ospedale come cittadella fortificata della salute, dove si svolge la lotta organizzata ed efficace contro tutte le forme della malattia, continua a essere più che mai attuale. Non potremmo mai considerare “ospitali” gli ospedali che fossero al di sotto dello standard di cure efficaci che la medicina oggi è in grado di fornire (quand'anche fossero eccellenti dal punto di vista alberghiero e del comfort offerto ai degenti). Qualunque sia il livello di gradevolezza dell'ambiente e di attenzione alla persona, se l'infarto, ad esempio, non viene diagnosticato e curato in modo efficace secondo quanto le acquisizioni consolidate della scienza medica internazionale danno per acquisito, non potremmo dare a quell'ospedale la qualifica di “umano”.
In questo modello di ospedale come cittadella della scienza l'umanizzazione equivale sostanzialmente a una richiesta dì cure efficaci, abbinate alla sicurezza. L'attualità di questa problematica può essere collegata al dibattito relativo alla permanenza di piccoli ospedali decentrati. Il piccolo ospedale di pochi letti è magari ideale dal punto di vista dell'ospitalità: i malati possono essere trattati in modo non impersonale e burocratico; i medici e gli infermieri stabiliscono rapporti molto familiari tra di loro e con i malati; il controllo esercitato dalla società induce i sanitari a prevenire quei comportamenti etichettati come “malasanità”. Ma dal punto di vista dell'efficacia il piccolo ospedale può costituire un vero e proprio pericolo per la salute e per la vita stessa.
Che cosa fare dei presìdi ospedalieri di piccole dimensioni è attualmente un argomento di politica sanitaria molto scottante in Italia. I residenti
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in cittadine di provincia in cui, secondo le indicazioni del governo centrale e in accordo con la programmazione regionale, è stata deliberata la chiusura del piccolo ospedale, scendono in piazza, operatori sanitari in testa: “Il nostro piccolo ospedale, così umano, non si tocca!”. La popolazione sostiene queste rivendicazioni. Ma di fronte alla patologia seria, la preferenza va naturalmente all'ospedale che garantisca sicurezza ed efficacia. È un'esigenza imprescindibile di ciò che ci aspettiamo oggi da un buon ospedale: deve avere le conoscenze e le tecnologie per dare una risposta efficace alla patologia. La qualità medica che l'ospedale deve garantire comprende essenzialmente l'efficacia delle cure. Credo che ciascuno di noi, dovendo scegliere tra un ospedale dove siamo trattati bene ma non siamo curati e uno dove invece siamo ben curati, sceglierebbe il secondo, anche se in questo il comfort e l'attenzione alla persona fossero trascurati.
Il modello dell'ospedale come luogo della scienza medica continua ad essere quanto mai attuale. La scienza in ospedale non sarà mai troppa. Semmai il problema oggi è quello di una scienza troppo sbilanciata sul versante delle scienze naturali, che non sa integrare il sapere che deriva dalle scienze dell'uomo. La medicina tratta le patologie come se queste riguardassero solo il corpo, e non l'insieme della persona. Anche se, per ipotesi, la pratica di questa medicina fosse ineccepibile dal punto di vista filantropico, del rispetto dei diritti umani e della correttezza gestionale, sarebbe pur sempre carente, se non tenesse conto di quanto dell'uomo malato ci dicono la psicologia, la sociologia, l'antropologia culturale.
Le patologie più diffuse nella nostra società non riescono a essere curate efficacemente con una medicina che ignora sistematicamente queste dimensioni dell'essere umano. Per fare solo qualche esempio, pensiamo al problema della cura delle tossicodipendenze; oppure al crescente diffondersi di disturbi del comportamento alimentare, come la bulimia e l'anoressia: l'incapacità della medicina di trattare queste patologie, galoppanti nella nostra società, illustra le carenze intrinseche di risultati efficaci di una scienza medica che ignora le componenti psicologiche, relazionali, antropologiche e simboliche dei fatti patologici. Pensiamo anche al dolore cronico: i fallimenti medici nel tenerlo sotto controllo, malgrado il sofisticato arsenale terapeutico a disposizione della medicina contemporanea, dipendono dalla negligenza nel considerare il ruolo che esso gioca nella rete dei rapporti che lega il malato alla famiglia e alla società. È la prospettiva che ha indotto Arthur Kleinman antropologo medico di Harvard, a parlare di malattie “sociosomatiche” (Kleinman, 1993).
La carenza dell'ospedale concepito come cittadella del sapere medico è che questo sapere è un sapere dimidiato: conosce solo una parte dell'uomo. Un ospedale “umano” è quello che sa integrare questo sapere
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completo sull'uomo non solo in modo teorico, ma pratico. Ciò implica il ricorso a professioni che si basano appunto su queste conoscenze umanistiche ― come lo psicologo, l'assistente sociale, il cappellano o assistente spirituale ― non visti come professionisti di secondo livello, che si occupano di aspetti marginali, ma come parte integrante di un unico progetto terapeutico. L'ospedale umano, secondo questo modello, è quello che sa dare risposte efficaci alle patologie. A tutte, comprese quelle tipiche della società moderna, che non possono essere modificate senza un ricorso sistematico alle scienze dell'uomo, oltre che a quelle della natura.
3. Presidio dello stato sociale
Il terzo modello di ospedale è quello del welfare state. Dagli anni '40 in poi, molti paesi dell'area occidentale, a cominciare dall'Inghilterra, hanno socializzato la medicina, come pilone portante del welfare state. Uno dei frutti meno discutibili del XX secolo ― il “secolo breve” che lo storico inglese Hobsbawm ha analizzato nel libro dal titolo omonimo nelle sue poche luci e tante ombre (Hobsbawm, 1995) ― è quello di aver liberato tanta parte dell'umanità dal bisogno e averla avviata al benessere. Il riconoscimento del diritto alla tutela della salute, indipendentemente dalla capacità delle persone di pagarsi i servizi sanitari di cui hanno bisogno, è riconosciuto come un diritto ampio quanto il diritto stesso di cittadinanza.
In questo quadro generale l'ospedale diventa il luogo dove si concentra l'impegno dello stato a fornire a tutti i cittadini l'assistenza sanitaria. Non per motivi di filantropia, ma di giustizia. L'assistenza sanitaria diventa uno dei diritti civili e sociali esigibili da ogni cittadino. Assicurare a tutti l'assistenza sanitaria in caso di malattia, indipendentemente dalla capacità economica di pagarsela, diventa l'impegno prioritario dello stato sociale.
Nell'ospedale tutti i cittadini hanno uguale diritto di accesso, tutti possono pretendere considerazione e rispetto, e soprattutto una cura adeguata alle loro necessità. La cura della salute promossa dallo stato sociale si è tradotta in un effetto che, di per sé, avrebbe dovuto essere evitato: l'ospedale ha preso il posto centrale e quasi unico di tutto il sistema delle cure, scalzando il ruolo che spetta al territorio. In quel progetto generoso, con venature di utopia, in cui lo stato si impegnava a promuovere il benessere di tutti i cittadini occupandosi di loro, dalla “culla alla tomba”, l'ospedale era il luogo deputato a questa assistenza totale.
Attualmente ci troviamo nella necessità di ridisegnare lo stato sociale. Sappiamo che le risorse di cui disponiamo non sono sufficienti ― e mai lo
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saranno, per quanto allochiamo le risorse a favore della sanità ― per dare tutto a tutti. Siamo perciò costretti a stabile una scala di priorità: a chi dare, cosa dare, con quali criteri. In questa fase di transizione l'ospedale è sottoposto a un forte cambiamento, che rimette in discussione l'ospedalocentrismo a cui siamo abituati.
In questo nuovo stato sociale, verso il quale ci stiamo incamminando, la priorità numero uno è l'efficienza. Mentre nell'ospedale come cittadella della scienza l'imperativo dominante era ed è l'efficacia (all'ospedale chiediamo che guarisca le malattie, facendo ricorso a quanto di più aggiornato possa offrire il progresso tecnologico e scientifico), nel nuovo stato sociale l'ospedale deve mirare a distribuire le scarse risorse in modo che con esse si ottenga il più e il meglio. In altre parole, l'ospedale deve essere efficiente, per poter rispondere ai bisogni sanitari non solo di qualcuno, ma di tutti.
L'efficienza è importante come valore economico, ma esprime anche un'esigenza etica. Possiamo illustrare l'assunto con un esempio. Se l'imperatore del Giappone si ammala ― come è successo all'anziano imperatore Hirohito ― per curarlo si può trasferire un ospedale nel suo palazzo, compresa la Tac e tutta la tecnologia più sofisticata. L'efficacia sarà la stessa, ma non si può dire che questa organizzazione delle risorse sia efficiente. Possiamo dare tutto a una persona e ottenere risultati brillanti in termini di efficacia, mandando però deluse le legittime aspettative di tanti altri che avevano diritto di contare su quelle stesse risorse.
Come corollario del nuovo stato sociale, dobbiamo esigere che l'organizzazione delle cure in ospedale tenga in debita considerazione il criterio dell'efficienza. Se manca, l'ospedale non può qualificarsi come un buon ospedale, per quanto elevato sia, dal punto di vista della scienza medica, il livello delle prestazioni che fornisce.
Curare i malati e fare quanto è possibile ― allo stato attuale del sapere medico ― per restituire loro la salute, non può più essere l'unico obiettivo di una buona medicina: mentre cercano di curare e guarire, i sanitari devono anche fare il miglior uso delle risorse. Ciò implica una limitazione nell'uso stesso dell'ospedale. Se viene utilizzato per motivi impropri, facendo in ospedale trattamenti che possono essere fatti altrove o in regime di day hospital, si realizza uno spreco di risorse, e quindi una medicina inefficiente (oltre che, molto spesso, una medicina che delude le attese di chi vorrebbe che l'ospedale fosse anche “ospitale”).
Questa preoccupazione si traduce in progetti molto concreti. Uno di questi può essere la promozione del day hospital o della day surgery. Organizzare gli interventi diagnostici e terapeutici in un giorno solo, evitando il ricovero, porta al risparmio su più fronti: da quello economico a quello del disagio inflitto ai malati. Anche molte operazioni chirurgiche possono essere fatte in ciclo giornaliero, se ben programmate e organizzate. Le stesse cure domiciliari diventano un programma essenziale di un
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ospedale che mira all'efficienza. Naturalmente queste vanno programmate: non sono tali quelle improvvisate, magari perché i sanitari, diventati sensibili ai costi, decidono a un certo punto di mettere il malato con la valigetta degli effetti personali fuori dall'ospedale, quasi che, una volta concluso il compito istituzionale dell'ospedale, la sorte del paziente non riguardi più gli operatori ospedalieri. Anche la continuità delle cure e il legame organico con la medicina del territorio fanno parte integrante di un ospedale concepito come presidio dello stato sociale.
I tre modelli di ospedale che abbiamo analizzato, presenti sotto forma di eredità del passato, devono essere completati da un quarto: l'ospedale del futuro. Il quale non è solo un pio desiderio; in qualche modo è già presente come esigenza e potenzialità che domanda di essere realizzata: è, o sarà, l'ospedale-azienda, così come è sancito dai decreti legislativi che disegnano il profilo della nuova sanità italiana, presentati analiticamente nella prima sezione di questo volume.
Qualcuno paventa in questo modello di ospedale un tradimento della sua natura e vocazione originarie. Bisogna anzitutto chiarire un equivoco: non si tratta solo di trasporre nell'ospedale che cura le malattie la filosofia dell'azienda nata per produrre e commercializzare beni e servizi, obbedendo a una logica di profitto. Così inteso, l'ospedale azienda sarebbe davvero un tradimento. Il riferimento invece è a quella filosofia dell'azienda che è stata sviluppata in questi ultimi anni a partire dal concetto di “qualità totale”. L'hanno inventata i giapponesi, che grazie ad essa hanno acquisito la leadership in molti ambiti del mercato mondiale. Le aziende occidentali, se vogliono sopravvivere e non essere escluse dalla competizione, sono costrette ad abbandonare la vecchia mentalità aziendalistica e ad adottare anch'esse la filosofia della “qualità totale”. In questa prospettiva l'obiettivo prioritario non è quello di aumentare il fatturato, ma di avere “clienti consolidati”, perché soddisfatti. Questa filosofia è risultata vincente nel settore delle automobili; tanto più, quindi, se si tratta di un servizio personalizzato come la cura della salute.
Un cambiamento di questo genere, destinato a orientare le aziende verso il modello della qualità “eccellente”, richiede più di un “lifting” superficiale: implica un ripensamento totale, che si traduce in un atteggiamento diverso di coloro che producono beni o servizi nei confronti del cliente. Applicato all'ospedale, il modello richiede di mettere al proprio centro il paziente-cliente, apprendendo un modo diverso di lavorare. La centralità del paziente, un tema caro a coloro che hanno a cuore l'“umanizzazione” dell'ospedale, cambia di segno: non è più soltanto
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una esortazione morale a comportarsi bene con il malato ― riconducibile, più o meno direttamente, a una concezione deontologica che richiede a chi lavora in sanità un atteggiamento carico di umanità e di valori etici ― ma diventa una strategia di gestione manageriale del nuovo ospedale.
Perché l'ospedale possa essere giudicato un buon ospedale, bisognerà guardare alla qualità dei servizi che fornisce. Un indicatore di buon servizio è la giusta soddisfazione di che ne usufruisce. Il paziente ― cliente dovrà uscire dalla struttura ospedaliera non solo curato ― e curato bene, secondo i più elevati standard della scienza medica ― ma anche soddisfatto. Altrimenti preferirà, nel regime concorrenziale che si va stabilendo, un'altra struttura fornitrice di servizi sanitari. Fornire servizi di qualità, valutati come tali da coloro che ne usufruiscono, equivale a mettere in atto misure strategiche necessarie perché l'ospedale-azienda possa sopravvivere.
È una rivoluzione che non produce soltanto migliori servizi, ma fa sì che gli operatori siano più soddisfatti del loro lavoro. Nella filosofia della “qualità totale” non si può fornire un prodotto eccellente se coloro che lo producono non sono attivamente coinvolti: non come piccole ruote di un ingranaggio, ma come protagonisti attivi che pensano le soluzioni e le propongono, fanno progetti e li realizzano, ottengono piccoli miglioramenti costanti. Il cliente soddisfatto presuppone un fornitore di servizi soddisfatto. Con delle persone frustrate e demotivate non si può fare un'azienda che abbia l' “eccellenza” come obiettivo.
Nell'ospedale azienda il criterio di valutazione non è più solo l'efficacia o l'efficienza, ma diventa l'eccellenza (per il concetto di “azienda eccellente” vedi Peters, Waterman, 1992). La scommessa per il futuro è il passaggio a quell'ospedale azienda che realizzi le potenzialità di umanizzazione che ha in sé, quasi una sintesi delle esigenze implicite nei modelli di ospedale “hospitium”, ospedale-cittadella della scienza e ospedale-presidio del welfare state. Dovrà essere, contemporaneamente, un luogo ospitale dove le malattie vengono curate in modo efficace, con l'efficienza che permette di rispondere con risorse limitate ai bisogni di tutti i cittadini, puntando insieme ― erogatori dei servizi e cittadini ― alla qualità eccellente.
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BIBLIOGRAFIA
Bernabei R.: «Lo spazio ospedaliero per l'anziano», in L'Arco di Giano, n. 3, 1993, pp. 81-85.
Cunietti E.: «Il lento cammino degli 'hospice'» in Italia, in L'Arco di Giano, n. 13, 1997.
Foucault M.: Nascita della clinica, tr. it. Einaudi, Trino, 1969.
Guzzanti E., Mastrilli F.: «L'ospedale: una “casa” possibile?», in L'Arco di Giano, n. 3, 1993, pp. 69-75.
Hobsbawm E.J.: Il secolo breve, tr. it. Rizzoli, Milano, 1995.
Kleinman A.: «Il contesto umano del dolore: un approccio antropologico», in L'Arco di Giano, n. 3, 1993, pp. 19-29.
Marchesi PL., Spinsanti S., Spinelli A.: Per un ospedale più umano, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1985.
Peters Th.J., Waterman R.H.: In search of excellence, Harper & Row, New York, 1992.